
31 gennaio
Disoccupazione stabile al 12%
dicembre, risale quella giovanile: oltre il 40%
Nel corso del 2016 gli occupati sono aumentati
di 242mila unità, grazie a dipendenti e tempi determinati. Anziani favoriti, ma
pesa l'effetto demografico. Più persone cercano: anche i disoccupati sono
saliti, di 144mila unità
MILANO - Il tasso di disoccupazione a dicembre è
rimasto stabile in Italia attestandosi al 12 per cento (in crescita però
dall'11,6 del dicembe 2015). Suona ancora, invece, l'allarme per quanto accade
ai più giovani: il tasso di senza lavoro tra i 15 e i 24 anni è risalito a
dicembre superando la soglia del 40%. Si è portato per la precisione al 40,1%,
in aumento di 0,2 punti su novembre e al livello più alto da giugno 2015.
Occupati in crescita. I dati pubblicati oggi consentono di tracciare un
primo bilancio sull'andamento del mercato del lavoro nel corso del 2016. A
dicembre ci sono 242mila occupati in più del dicembre 2015 (+1,1%), mentre sono
rimasti di fatto invariati su novembre (+1.000). Su questo numero positivo
influiscono da una parte i 266mila lavoratori dipendenti in più censiti
dall'Istat, mentre gli autonomi sono scesi di 24mila unità. Si conferma il
rallentamento degli effetti benefici degli sgravi contributivi: a tirare la
crescita dei dipendenti è infatti il tempo determinato con 155mila occupati in
più contro i 111.000 a tempo indeterminato.
"Anziani" favoriti. A conferma degli ultimi trend censiti, emerge che
l'aumento dell'occupazione riguarda soprattutto gli over 50. Nelle classi tra i
15 e i 49 anni, infatti, complessivamente il numero degli occupati si è ridotto
di 168mila unità nel 2016 (-149mila solo nella classe tra 39 e 49 anni) mentre
tra gli ultracinquantenni gli occupati sono aumentati di 410mila unità.
Nell'arco dell'anno passato, comunque, il tasso di occupazione cresce in tutte
le classi di età con variazioni comprese tra +0,1 punti percentuali per i
giovani di 15-24 anni e +1,8 punti per gli ultracinquantenni. Cresce anche
quello di disoccupazione, ad eccezione che per gli ultracinquantenni.
L'Istat aggiunge in questa rilevazione un ulteriore dettaglio sulla
scomposizione dei dati per classi d'età, anticipato nei giorni scorsi da
Repubblica. Gli statistici spiegano che "sul calo degli occupati di 15-49 anni
(-168 mila unità) influisce in modo decisivo la diminuzione della popolazione in
questa classe di età". Di fatto, è colpa anche dell'invecchiamento della
popolazione: "Al netto della dinamica demografica la performance occupazionale
risulta positiva (+76 mila unità), con un aumento del tasso di occupazione. Tra
i 50-64enni, al contrario, la crescita demografica contribuisce ad accentuare la
crescita dell’occupazione determinata dalla sempre più ampia partecipazione al
lavoro.
Rebus giovani. Dopo l'ultimo segnale di crescita, registrato a novembre,
l'Istat lancia ancora numeri preoccupanti per gli under 25. A dicembre il tasso
di disoccupazione giovanile, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di
quelli attivi, è cresciuto come detto di 0,2 punti al 40,1%. Se si considera che
la maggior parte dei ragazzi di quell'età sta studiando, l'incidenza dei giovani
disoccupati sul totale di quella popolazione è del 10,9%: significa che più di
un ragazzo su dieci è a casa. Se si guarda al dettaglio delle altre fasce d'età,
aggiunge l'Istat, la disoccupazione cala tra i 25-34enni (-0,9 punti), mentre
aumenta nelle classi 35-49 anni (+0,1 punti) e 50-64 anni (+0,4 punti).
Salgono anche persone in cerca e disoccupati. Sempre nel raffronto sul
dicembre del 2015, si registra una crescita della ricerca di lavoro: calano gli
inattivi (-3,4%, pari a -478 mila), ma visto che le aziende non riescono ad
assorbire per intero l'offerta di lavoro aumentano anche i disoccupati (+4,9%,
pari a +144 mila).
Il raffronto pre-sgravi e Jobs Act. E' interessante confrontare i dati
pubblicati oggi dall'Istituto di statistica con quelli relativi alla prestazione
del mercato del lavoro italiano nel 2014, prima cioè che il governo Renzi
avviasse gli sgravi contributivi per le assunzioni stabili (partite da inizio
2015) e la riforma del Jobs Act con le relative tutele crescenti e - tra le
altre cose - il depotenziamento dell'articolo 18 (7 marzo 2015).
La zona euro migliora. Mentre l'Italia incassa dati in chiaroscuro, ed è il solo
grande Paese in peggioramento annuo, a dicembre il tasso di disoccupazione nella
zona euro è risultato in calo a
9,6% da 9,7% a novembre e rispetto a 10,5% di dicembre 2015. E' il tasso più
basso da maggio 2009. Nella Ue il tasso di disoccupazione era a 8,2%, stabile
rispetto a novembre e in calo rispetto al 9% un anno prima. Per la Ue si tratta
della percentuale più bassa da febbraio 2009.
Fonte: La Repubblica
12 gennaio
Amartya Sen: "Divisione tra Nord e
Sud conseguenza dell'imperialismo"
Il premio Nobel ragiona sul nostro Mezzogiorno.
Perché cambiare è possibile. E tra cento anni tutto può essere diverso

Il
Sud visto con gli occhi del premio Nobel Amartya Sen, che da sempre studia e
combatte le diseguaglianze. La visione di Sen è scritta in una lunga intervista
raccolta nel libro "Con il Sud, visioni e storie di un'Italia che può
cambiare"(edito da Mondadori), curato dalla Fondazione con il Sud presieduta da
Carlo Borgomeo.
I diritti d’autore sulle vendite saranno interamente devoluti dalla Fondazione a
Liberos, che ha dato vita in Sardegna a un progetto innovativo fondato sulla
promozione della lettura come fonte di coesione sociale, portandola in centinaia
di piccole comunità isolate.
Insieme al Nobel molti altre sono le interviste presenti nel libro. Edgar Morin,
Raffaele Cantone, Franco Roberti, Rosy Bindi, Luigi CIotti, Mimmo Calopresti,
Chiara Saraceno e molti altri. L'Espresso pubblica pubblica un estratto del
dialogo con Amartya Sen.
Negli ultimi anni la pretesa di rappresentare il mondo come diviso in un Nord e
un Sud – dove con Nord si intendeva in genere progresso socio-economico, con Sud
l’arretratezza e la lotta al suo superamento – è apparsa via via inadeguata a
rappresentare la complessità del presente. Come è cambiato questo paradigma?
Sarebbe un errore pensare che questa distinzione risalga a un passato remoto. A
ben guardare la Storia, anzi, spesso è stato proprio il Sud ad avere forme di
sviluppo superiori rispetto a quelle del Nord. Dopotutto la civiltà minoica
proveniva dalla Grecia, dal Sud. La cultura greca ebbe importanti influenze
sulla storia italiana e poi su quella europea, proprio attraverso il Sud. Al
contrario, quelle rivolte così temute dai romani e che finirono per minarne
l’impero, provenivano dal Nord. Dunque l’idea di un Sud arretrato da
contrapporre a un Nord più avanzato è molto recente e, fino a un paio di secoli
fa, non aveva alcun senso. Questo concetto è semmai un risultato
dell’imperialismo, che si mosse dall’Europa al mondo intero.
Nel caso della Francia si diresse a sud, ma nel caso del Regno Unito, invece, fu
rivolto a est. Proprio per questo motivo, nel contesto dell’impero britannico,
la contrapposizione è tra Occidente evoluto e oriente antiquato, mentre in
Francia le distinzioni tra progresso e arretratezza vengono più spesso applicate
a una dicotomia Nord-Sud. In realtà delle concezioni così superficiali non
potevano reggere a lungo, soprattutto di fronte ai fenomeni di sviluppo di cui
sono protagoniste l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Insomma questo presunto
grande gap, mi sembra ormai davvero un’idea difficile da sostenere. Eppure in
Italia ancora oggi si discute – talvolta molto animatamente – di Nord e di Sud,
con implicazioni che spaziano dai riflessi sull’attualità di grandi passaggi
storici alle misure economiche da adottare fino a presunte distinzioni di
carattere antropologico e culturale. Certo, nel corso della storia italiana c’è
stata e c’è questa divisione tra Nord e Sud: ancora una volta non la definirei
tradizionale, se pensiamo – solo per fare un esempio – alla storia intellettuale
di Napoli. Si tratta di una divisione che persiste.
Nel libro pubblicato dalla Fondazione con il Sud, Rosy Bindi punta il dito
contro le amministrazioni locali: «Spesso finiscono per essere gli strumenti
privilegiati dell’infiltrazione criminale. E in questo anche il Nord si ritrova
a dover fare i conti con fenomeni quali l’omertà»
Era forte quando ero giovane, è forte oggi che sono anziano. Ho iniziato a
interessarmi a questi argomenti verso la fine degli anni cinquanta, grazie al
lavoro condotto con il mio primo studente di ricerca, che fu Luigi Spaventa.
Dalla nostra collaborazione appresi una serie di questioni che continuano a
essere attuali, sullo sviluppo del capitalismo in Italia e
sull’industrializzazione del Paese. Penso che ci sia stato un tempo in cui il
Nord poteva apparire più sviluppato, e mi rendo conto che si tratta di un
problema ancora oggi aperto in Italia, ma in futuro le cose potrebbero cambiare.
So che la vostra fondazione si chiama CON IL SUD, ma è possibile che tra un
secolo tutto anche in Italia sarà molto diverso e magari la fondazione dovrà
cambiare nome e diventare una fondazione CON IL NORD.
Interrogandoci sul futuro del Sud dell’Italia – la sua bellezza, i suoi problemi
storicamente sedimentati – ci troviamo necessariamente a ridefinire il concetto
di benessere e di qualità della vita. Vuole aiutarci a declinare questi termini
in modo che tengano conto di questa complessità?
Se l’obiettivo che vogliamo porci è di vivere bene, allora bisogna rifarsi a
quello che uno studioso “meridionale”, Aristotele, affermò nella sua Etica
nicomachea: ciò che stiamo cercando, nella vita, non è la ricchezza materiale, o
meglio la cerchiamo solamente come strumento per ottenere le cose davvero
importanti, quelle che possano consentirci una buona qualità della nostra
esistenza. Ecco, si tratta di un pensiero che proviene dal Sud, ma voglio
sottolineare che ragionamenti di questo tipo si sono riproposti molte volte
nella Storia. Nessuno tra gli antichi filosofi pensava che il senso della vita
possa ridursi alla ricchezza, che si possa essere appagati senza essere felici,
produttivi, creativi, culturalmente stimolati e messi in condizione di dedicarci
ad attività che valutiamo come utili o importanti.
Quindi ritengo che questa idea per cui la ricchezza e il profitto sono la misura
del successo nella vita sia profondamente sbagliata. Certo, come ci insegna
Aristotele, la ricchezza è uno strumento per ottenere molte cose – non tutte,
per la verità, ma molte cose. Per questo è molto importante che le persone
abbiano la concreta possibilità di ottenere un reddito: questo significa
opportunità occupazionali, significa salari adeguati, ma significa anche poter
contare su un’assistenza sanitaria degna, su un valido sistema scolastico a cui
magari possa provvedere lo Stato.
Di questo abbiamo bisogno. Così come ci serve la protezione dell’ambiente e non
fiumi inquinati. Per vivere bene abbiamo bisogno anche di un contesto sociale in
cui il crimine non sia dilagante e in cui le persone si possano sentire al
sicuro, in cui possano fidarsi le une delle altre e comunicare tra di loro senza
la paura che possa accadere qualcosa di terribile. Dunque abbiamo bisogno di
molte cose nella vita, non di una cosa sola. Spesso la chiamiamo libertà, ma
anche la libertà è un concetto che si articola in una vasta serie di aspetti
diversi. Per raggiungere alcuni di questi, essere o non essere ricchi può fare
la differenza, e per questo aumentare la ricchezza a Sud sarebbe molto
importante. Ma non è l’unico parametro. Molto dipende anche da come è
organizzata la società, da come lo Stato funziona e da come la stessa cultura
può rendere la vita umana più soddisfacente.
Cosa ne pensa della proposta di abbassare i livelli salariali nelle cosiddette
“aree depresse”, sul presupposto che il costo della vita è inferiore e con
l’obiettivo di favorire lo sviluppo di nuove imprese?
Ci sono alcuni casi in cui la richiesta di salari troppo alti può scoraggiare
l’occupazione, ma questa conseguenza è spesso troppo enfatizzata. All’opposto,
ad esempio, c’è anche il pericolo che, riducendo i salari, la produttività della
manodopera si abbassi. Non è molto chiaro, poi, quanta diminuzione dei livelli
occupazionali si determini a fronte di salari più alti.
Quindi non credo di poterfornire una regola generale su questo. In alcuni
contesti può avere un qualche senso, certo, ma in quelle situazioni in cui gli
operai sono sfruttati e non hanno il potere contrattuale su cui possono contare
impiegati, industriali e capitalisti, bene, in questi casi si potrebbe invece
provare a reintegrare i salari, allo scopo di incrementare il potere d’acquisto.
Penso all’esperienza di Bangladesh, Vietnam, Cambogia o anche alla Cina. Fino a
poco tempo fa questi Paesi sono riusciti a raggiungere alti livelli di
produzione nel tessile e in altri settori, tenendo bassi i salari, ma – ad
esempio in Cina – anche in ragione di questi successi hanno dovuto aumentarli e
questo non ha certo determinato l’impossibilità dello sviluppo.
Fonte: L'Espresso
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