Renata Pepicelli
Docente universitaria, esperta di Islam
Gli attentati terroristici di Bruxelles mostrano
che l'Europa è sempre più il secondo fronte di una guerra la cui prima linea è
in Medio Oriente, e le cui retrovie sono nell'Africa settentrionale e
subsahariana. In questa nuova guerra dalle caratteristiche globali, l'Europa
gioca un ruolo centrale per almeno quattro importanti ragioni: il coinvolgimento
militare sui fronti mediorentali e africani; la presenza nei suoi confini di
profughi provenienti da questi territori; la reiterazione sul suo suolo di
attacchi terroristici riconducibili all'IS; la partecipazione di cittadini
europei a movimenti jihadisti internazionali.
Ed è proprio quest'ultimo aspetto una delle caratteristiche più significative
della guerra globale in atto. Non è certo la prima volta che cittadini europei
partecipano a gruppi jihadisti, ma gli scenari e i percorsi sono radicalmente
mutati. Oggi siamo ormai alla terza generazione jihadista - per usare una
definizione di Gilles Kepel -, dopo quella dei combattenti formatasi in
Afghanistan negli anni '90 (e da lì passati in Bosnia, Algeria, Egitto) e quella
qaedista degli anni 2000. Questa generazione rompe con le esperienze del
passato. Come sostiene Farhad Khosrokhavar, si possono notare almeno cinque
cambiamenti significativi nei profili dei jihadisti: le cifre, l'età, la classe
sociale, la presenza di convertiti e il genere.
Le cifre. I servizi di intelligence europea calcolano che sono circa 5000 gli
europei - d'origine straniera, discendenti da famiglie migranti e convertiti -
che si sono trasferiti in Siria e in Iraq dal 2013 ad oggi. E molti altri li
avrebbero raggiunti se i governi dell'Ue e della Turchia non avessero cercato di
fermarne il flusso. Non c'è mai stato un numero così alto di europei che ha
scelto di unirsi a gruppi jihadisti. Fino ad ora le cifre erano nell'ordine
delle centinaia, non delle migliaia, e ciò rende il controllo di tale fenomeno
da parte dei servizi di intelligence particolarmente difficile. Inoltre la
dimensione transnazionale dei cosiddetti "foreign fighters", che si spostano con
estrema facilità dentro e fuori i confini degli stati europei, rende ancora più
complessa l'attività di monitoraggio. L'età. I jihadisti delle precedenti
generazioni avevano in media tra i 30 e i 40 anni. Dopo il 2013 abbiamo un
grande numero di ventenni, e talvolta di adolescenti, che intraprendono da soli
il percorso jihadista. Sebbene non manchino casi di intere famiglie (dai nonni
ai nipoti) che lasciano il paese d'origine alla volta di Siria ed Iraq, nella
maggioranza dei casi i giovani partono da soli, adescati da reclutatori attivi
soprattutto in internet, mentre le famiglie restano all'oscuro della loro
radicalizzazione fino a quando è troppo tardi per intervenire.
La scelta di aderire al jihadismo avviene in maniera individuale ma spesso tale
decisione matura nel gruppo dei pari, degli amici. La solidarietà generazionale
prende quindi il sopravvento su quella intergenerazionale. Sono ricorrenti le
storie di fratelli uniti nella scelta jihadista: Cherif e Said Kouachi sono
stati gli autori degli attentati alla redazione di Charlie Hebdo; Ibrahim e
Salah Abdeslam sono stati tra i responsabili degli attacchi parigini del 13
novembre 2015; Ibrahim e Khalid el Bakraoui, sono stati i protagonisti degli
assalti all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles del 22 marzo.
Molti giovani, indipendentemente dalle loro origini, considerano il jihadismo la
forma migliore attraverso la quale esprimere conflitto e radicalità in un'era
senza utopie e senza maestri, segnata dalla crisi economica e dal sovvertimento
dei tradizionali codici valoriali. In nome di un Islam che conoscono a malapena,
e solo nella versione estremista e fondamentalista veicolata dai video e dalla
propaganda dell'IS, giovani di entrambi i sessi, nati musulmani o ri-nati
musulmani attraverso la conversione, si rivoltano contro padri e madri, e contro
il sistema in cui sono cresciuti. Affascinati da letture estremiste dei testi
sacri dell'Islam, questi giovani si radicalizzano in breve tempo e rincorrono
illusorie promesse di giustizia sociale e dignità.
L'adesione a un gruppo jihadista rappresenta un potente e simbolico rito
d'ingresso nell'età adulta, un passaggio che oggi sembra sempre più difficile,
se non impossibile, da realizzare. Disoccupati, precariamente occupati,
sottoccupati, sempre più giovani non riescono a rendersi indipendenti dalla
famiglia d'origine e il futuro per loro si prospetta nei termini di un
peggioramento sociale ed economico rispetto alle condizioni dei genitori. Lo
Stato Islamico appare improvvisamente ai loro occhi come l'unica via d'uscita
possibile da una situazione che appare bloccata, in quanto offre la promessa di
un riscatto e di una rivincita. Per dirla con Olivier Roy, il jihadismo oggi ha
le caratteristiche di una rivolta generazionale nel segno dell'islamizzazione
della radicalità, piuttosto che nel segno della radicalizzazione dell'islam.
Un altro elemento poi da tenere in considerazione è quello della classe. Tra di
loro non ci sono solo giovani che provengono da classi sociali ed economiche
svantaggiate, che vivono nelle banlieue e nei ghetti urbani, ma ci sono anche
giovani che appartengono alla classe media, ragazzi e ragazze in apparenza
realizzati nei loro contesti sociali, come la sedicenne Khadiza Sultana, una
delle tre adolescenti britanniche partite insieme alla volta della Siria
all'inizio del 2015. Il genere infine è un altro elemento fondamentale per
comprendere le forme del nuovo jihadismo. A partire dal 2013, le donne
rappresentano il 20-30% dei jihadisti e tra di loro molte sono anche
giovanissime e adolescenti. È la prima volta che accade una cosa del genere. Ed
è sorprendente, leggendo le loro biografie, l'elemento di autodeterminazione che
le spinge verso i territori della Siria e dell'Iraq controllati dall'IS. Molte
cedono alla propaganda jihadista ammaliate dall'idea di partecipare in prima
persona ad un'utopia, ai loro occhi, rivoluzionaria, in cui viene esaltato il
loro ruolo di madri dell'umma (comunità) islamica, mentre gli uomini non
appaiono più deboli, insicuri, irresponsabili, come sono molti giovani della
loro età, ma assumono le vesti di "principi azzurri" che le salveranno, insieme
alle comunità a cui appartengono.
La propaganda descrive il giovane jihadista come responsabile, coraggioso,
generoso, pio, insomma come un eroe contemporaneo, ribaltando lo stereotipo che
imputa alle nuove generazioni la perdita di ogni ideale. Le poche e i pochi che
sono tornati indietro pentiti - è il caso ad esempio di Sophie Kasiki, partita
con il suo bimbo di 4 anni - raccontano dell'orrore in cui invece si sono
trovati a vivere, molto distante dal mondo che avevano sognato. E proprio queste
figure di foreign fighters pentiti oggi appaiono decisamente importanti, da un
lato perché ci permettono di sapere cosa realmente sta accadendo nello Stato
Islamico, dall'altro perché la loro testimonianza può essere decisiva per
prevenire e deradicalizzare i giovani attratti dalla propaganda jihadista.
Possono essere loro i principali dissuasori di una generazione "lost in
transition".
23 marzo
Bruxelles, i politici
sciacalli subito in azione mentre si contano ancora i morti
Matteo Salvini che lancia un'iniziativa per
"ripulire le nostre città", Maurizio Gasparri che parla di "ripulire i quartieri
invasi da islamici" e Daniela Santanchè che si lamenta di un centro accoglienza
a Milano. Così il centrodestra cavalca gli attentati
di Mauro Munafò
Bruxelles, i politici sciacalli subito in azione
mentre si contano ancora i morti La drammatica conta delle vittime degli
attentati a Bruxelles non si è ancora chiusa, ma gli esponenti del centrodestra
italiano non hanno perso tempo.
Sparate ad effetto, soluzioni lampo, dichiarazioni contro tutto e contro tutti
buone per raccogliere like sui social network e qualche titolo sui telegiornali.
Un format ben oliato e già sperimentato in diverse occasioni, come l'Espresso ha
già scritto il 14 novembre scorso dopo gli attacchi alla città di Parigi. E, non
a caso, i protagonisti di queste uscite sono sempre gli stessi.
In prima fila nel lanciarsi sulla notizia è stato Matteo Salvini che, trovandosi
a Bruxelles, è riuscito anche a farsi immortalare in diretta dalla trasmissione
di Canale 5 Mattino 5, per cui ha realizzato un lungo collegamento dalla
capitale belga. Passate poche ore dall'ospitata in tv, il leader della Lega Nord
ha lanciato l'iniziativa web, con tanto di cartello: "Ripuliamo le nostre città"
e l'hashtag #iononhopaura. Un'operazione di instant marketing accolta da
migliaia di like e condivisioni dei suoi sostenitori.
E sempre tra le fila della Lega non mancano emuli del "capitano" come il
capogrupo al Senato Gian Marco Centinaio che dichiara: "Nessun islamico che vive
in Italia ha condannato la carneficina compiuta in Belgio (falso, più
associazioni hanno ufficialmente condannato il gesto ndr) confermando così che
l'Islam moderato non esiste. Renzi e la Boldrini condannino apertamente questo
ignobile comportamento e dichiarino fuori legge le associazioni islamiche". O il
deputato Maurizio Fugatti che chiede di "chiudere tutti i centri di aggregazione
islamica, i centri culturali, le moschee".
Sulla stessa linea di pensiero si muove il vicepresidente del Senato Maurizio
Gasparri che sulla sua pagina Facebook mette insieme immigrati, clandestini e
terroristi: "Uccidono in nome dell'Islam. In Europa, in Asia, in Africa. E
intanto Renzi porta in Italia altri clandestini a migliaia. Mentre dovremmo
espellere chi minaccia la nostra libertà. Dobbiamo ripulire i quartieri invasi
da islamici. Prendono i nostri passaporti, lavorano nelle nostre città , come
Salah e i suoi familiari a Bruxelles, e in cambio ci sterminano. Basta con la
retorica dell'integrazione. Perquisizioni, arresti, espulsioni in Europa. Radere
al suolo lo Stato islamico".
Non manca all'appello neppure Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia.
Attraverso il suo profilo twitter e a pochi secondi dalla notizia, lancia la
domanda: "Terrorismo islamico?". Una prudenza forse derivata dalla figuraccia
fatta ai tempi della tragedia dell'aereo Germanwings, causata da un pilota
tedesco di cui la "pitonessa" chiese su twitter "di che origini fosse". Più
tardi Santanchè ha invece attaccato l'amministrazione di Milano per la scelta di
allestire un centro di accoglienza nelle aree Expo, definendola "una caserma
dell'Isis nel centro di Milano".
Sempre pronto su Twitter anche l'esponente della Destra Francesco Storace, che
sul suo profilo prima twitta una vecchia prima pagina di Libero col titolo
"Bastardi Islamici", e poi condivide i messaggi di tanti suoi follower. Tra
questi: "Non esiste un islam moderato. O combattiamo o saremo sconfitti".
22 marzo
15 marzo
"Io viaggio da sola e ieri
mi hanno uccisa". Il post è un caso mondiale
Una studentessa paraguaiana ha raccontato in
prima persona su Facebook il barbaro omicidio di due turiste argentine in
Ecuador. "Per un uomo avrebbero avuto parole di cordoglio, io sono stata
condannata perché non sono rimasta a casa". E parte una campagna virale con l'hashtag
#ViajoSola
di ALESSIA MANFREDI
"Io
viaggio da sola e ieri mi hanno uccisa". Il post è un caso mondiale"Ayer me
mataron", ieri mi hanno uccisa. Poche parole che pesano come pietre, la prima
riga di un post su Facebook scritto tutto in soggettiva, che ha fatto
rapidamente il giro del mondo e dato il via ad una campagna, a colpi di tweet,
per difendere il diritto delle donne a viaggiare da sole. Sì, perché nel post,
scritto da una studentessa paraguaiana, Guadalupe Acosta, è come se a parlare
fossero Maria Coni e Marina Menegazzo, due turiste argentine uccise a fine
febbraio mentre viaggiavano insieme in Ecuador, zaino in spalla. Ammazzate da
due uomini che si erano offerti di ospitarle. L'ennesimo atto di violenza
insensata contro due donne, eppure online c'è stato subito chi ha trovato da
ridire sul fatto che le ragazze viaggiassero "sole" - anche se erano in due - e
che magari, in qualche modo, se l'erano cercate.
Guadalupe Acosta non è rimasta in silenzio e ha risposto su Facebook, dando alle
ragazze, che l'avevano perduta per sempre, la possibilità di difendersi dalle
accuse. E il suo post è stato condiviso oltre 700mila volte, dando il via a un
dibattito e innescando una valanga di tweet con l'hashtag #Viajosola, diventato
rapidamente trending topic.
"Essere una donna non vuol dire automaticamente essere una vittima". Soprattutto
se si è in viaggio da sola, o in compagnia di un'amica. Su Twitter le donne
utilizzano l'hashtag #viajosola ("Viaggio sola") per rivendicare il loro diritto
a esplorare il mondo in sicurezza anche senza un uomo al fianco, e senza
diventare necessariamente il bersaglio di molestie e aggressioni. Da qualche
giorno l'hashtag è legato alla storia di due ragazze argentine, José María Coni
e Marina Menegazzo (22 e 21 anni), uccise in Ecuador durante un viaggio e
ritrovate in due sacchi di plastica. La loro morte, sui social network, non ha
destato solo compassione. In molti hanno commentato la vicenda attraverso
domande indelicate: "Che vestiti avevano?", "Perché erano sole?" e soprattutto
"Erano in una zona pericolosa, cosa potevano aspettarsi?". Una pioggia di
critiche, insomma, che hanno indotto un utente di Facebook, la paraguaiana
Guadalupe Acosta, a scrivere un post che ha stigmatizzato lo scarico di
responsabilità sulle vittime. Un post scritto dal punto di vista delle ragazze
uccise, come se ancora potessero difendersi. Le sue righe, condivise quasi un
milione di volte, hanno innescato nuovamente lo sfogo delle turiste che si
muovono in solitaria, pronte a raccontare su Twitter i (validi) motivi per cui
viaggiano sole.
"Ieri mi hanno uccisa... ma peggio della morte è stata l'umiliazione che è
venuta dopo", si legge nel post, che dà voce a Maria e Marina. "Non mi sono
fatta toccare e mi hanno spaccato il cranio", continua, lapidario. "Mi hanno
accoltellato, lasciandomi morire dissanguata. Mi hanno avvolto in un sacco nero,
sigillato con il nastro adesivo e il mio corpo è stato abbandonato sulla
spiaggia, dove sono stata ritrovata dopo qualche ora".
Ma quello che succede dopo, si legge ancora nel post, è, se possibile, ancora
peggio: domande, insinuazioni: "Come eri vestita? Perché eri da sola? Sei andata
in un posto pericoloso? Perché una donna viaggia sola, senza essere
accompagnata?". Non si risparmiano le accuse ai genitori, "per non avermi
tarpato le ali, per avermi lasciato essere indipendente". In una parola, per
aver permesso alle ragazze di vivere.
Avevano 22 e 21 anni Maria e Marina, ed erano in vacanza a Montanita. Secondo la
polizia, erano rimaste senza soldi e avevano accettato l'offerta di due ragazzi
di un posto dove passare la notte. I loro corpi sono stati ritrovati chiusi in
un sacco. I due uomini hanno confessato l'omicidio. Ma nei giorni successivi, è
nata una discussione sul fatto che le ragazze erano in viaggio da sole.
"Se al nostro posto ci fossero stati dei ragazzi sarebbero state spese solo
parole di cordoglio. Ma essendo una donna sono stata condannata perché non sono
rimasta a casa", continua il post di Guadalupe, che alla fine chiede alle donne
di alzare la voce e lottare "per tutte quelle cui hanno negato vita e
sogni"."Lottiamo insieme, io con voi, con il mio spirito, e vi prometto che un
giorno non ci saranno abbastanza sacchi per metterci tutte a tacere", è l'invito
finale.
Parole che non sono cadute nel vuoto. A migliaia su twitter hanno raccolto
l'invito. "Lo faccio perché mi dà forza ed è un nostro diritto, #ViajoSola",
scrive Chrizzy. "Sono una donna e viaggio da sola perché così scopro di più su
me stessa. Il mondo è anche nostro", continua Kaye de Castro. Le fa eco Jennie:
"Viaggio da sola e con altre donne perché essere donna non significa essere
vittima". Viaggiare da sola non deve far paura, non si deve rischiare di essere
puniti per questo, rileva qualcun'altro. "La prima volta che ho viaggiato sola
avevo 16 anni, l'ho fatto molte volte da allora e non ho intenzione di
smettere". Perché, in una parola, sarebbe come rinunciare a vivere.
Fonte: La Repubblica
Al Sud
la cultura è diventata un bene di lusso
Secondo una ricerca della Svimez, dal 2000 al
2013 le spese destinate alla valorizzazione di musei, biblioteche, cinema e
teatri, ma anche ad attività ricreative e sportive hanno subito un crollo di
oltre il 30% nel Mezzogiorno, contro il -25% del Nord
Sibilla Di Palma
L’Italia è il paese con il più alto numero al
mondo di beni patrimonio dell'umanità. Eppure non brilla per investimenti
destinati alla cultura, soprattutto al Sud. A sottolinearlo è la ricerca “Le
spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia” condotta dalla Svimez sulla base
di dati del ministero dello Sviluppo - dipartimento sviluppo e coesione
economica/conti pubblici territoriali. Dalla quale emerge che dal 2000 al 2013
la spesa totale nel settore della cultura (dagli interventi a tutela e
valorizzazione di musei, biblioteche, cinema, teatri, enti lirici, archivi,
accademie, alle attività ricreative e sportive come piscine, stadi, centri
polisportivi, fino alla gestione di giardini e musei zoologici) ha subito un
crollo di oltre il 30% nel Mezzogiorno, passando da 126 a 88 euro pro capite,
contro il -25% del Nord.
In particolare, nel 2013, fatto pari a 100 il livello medio nazionale, la spesa
pro capite per la cultura è stata del 69% nel Mezzogiorno, a fronte del 105% del
Nord e del 141% del Centro. Inoltre, sempre nello stesso anno, per ogni
cittadino del Nord è stato speso per la cultura il 35% in più rispetto a un
cittadino del Sud. I tagli sono stati più pesanti in piena crisi, ossia negli
anni 2009-2012 quando gli investimenti in conto capitale per la cultura sono
passati al Sud dai 45 euro pro capite del 2009 ai 17,3 del 2011, per poi
risalire a 19,6 nel 2013.
Scendendo più nel dettaglio e andando ad analizzare la situazione nelle
amministrazioni centrali, locali e regionali, emerge che a livello nazionale le
spese in conto capitale nel settore sono crollate, dal 2000 al 2013, del 49% e
al Sud del 48%. In altri termini, i 52 euro pro capite del Duemila sono
diventati nel 2013 26,5 a livello nazionale; nel Sud i 38 euro del 2000 sono
diventati tredici anni dopo 19,6. I tagli più drastici si sono concentrati nelle
amministrazioni centrali: il crollo al Sud è stato del 74,6%: i 13,6 euro pro
capite del 2000 sono quasi spariti tredici anni dopo, arrivando a 3,48 euro.
Dando invece uno sguardo alla situazione a livello regionale, il Veneto ha visto
un calo degli investimenti di oltre il 21%, Emilia-Romagna e Toscana del 38-39%,
mentre va peggio alla Calabria (-43,6%). Fatto inoltre pari a 100 il dato
nazionale, il Veneto nel 2013 ha speso in cultura il 101%, Emilia Romagna e
Toscana si sono fermate rispettivamente all’88 e al 96%, la Campania al 58% e
Puglia e Calabria hanno superato di poco il 54% del dato nazionale.
Il Sud, secondo la Svimez, subisce una duplice penalizzazione, in quanto alla
riduzione della spesa in conto capitale totale si aggiunge quella più marcata
per la cultura, che negli ultimi dieci anni risulta pesantemente sacrificata in
quanto considerata come voluttuaria, un bene di lusso.
Quello che serve, si legge nella nota, è “non soltanto un maggiore impegno
finanziario di tutti, ma altresì una effettiva riconsiderazione e riforma dei
meccanismi finanziari e istituzionali”. Considerato che le spese per la cultura
“attengono ai livelli essenziali delle prestazioni, che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale”.
Fonte: La Repubblica
10 marzo
Sinistra italiana: "I
cappellani militari costano allo Stato sei milioni di euro l'anno. Li paghi la
Chiesa"
di AGNESE ANANASSO
ROMA
- Se i cappellani militari venissero pagati dalla Chiesa invece che dal
ministero della Difesa, lo Stato risparmierebbe 6,3 milioni di euro l'anno. È la
stima che i deputati di Sinistra italiana hanno riportato nell'interrogazione
parlamentare rivolta al ministro delle Finanze e al ministro della Difesa, che
ha come primo firmatario Gianni Melilla, per chiedere a che punto sono arrivati
gli accordi tra la Difesa e l’Ordinariato militare. "Dal 1984, anno nel quale è
stato siglato il nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, manca una revisione
dell’intesa sullo status dei cappellani militari" si legge nell'interrogazione.
La vecchia intesa, che risale ai Patti Lateranensi del 1929, è stata
parzialmente modificata nel 2014, quando è stato raggiunto un accordo tra il
ministro della la Difesa e il nuovo ordinario militare, l’arcivescovo monsignor
Santo Marcianò, per cui è stato accettato il principio che i cappellani militari
rinuncino ai gradi. Infatti nelle forze armate ci sono 173 tra cappellani
generali, colonnelli, e capitani. Graduati "armati" solo di tonaca e crocifisso
perché il loro ruolo è fornire "assistenza spirituale" ai militari.
20 milioni di euro l'anno complessivi. "Ma questo non vuole dire che non
rappresentino un costo per le casse dello Stato, la stima è di una ventina di
milioni di euro all’anno" spiegano i deputati . "Nel 2013, ad esempio, al
ministero della Difesa la cura spirituale dei militari impegnati in missione è
costata quasi 17 milioni di euro, cifra che comprende gli stipendi, le pensioni
e il mantenimento degli uffici. Solo questi pesano 2 milioni di euro l’anno". Il
cardinale Angelo Bagnasco, vescovo di Genova e presidente della Conferenza
episcopale italiana, dal 2003 al 2006 è stato comandante dei cappellani, ed è
stato automaticamente nominato generale di corpo d’armata (oggi tenente
generale), con uno stipendio adeguato al grado. E con una pensione altrettanto
"adeguata", anche se lui sostiene di devolverla in beneficienza.
Stipendi e pensioni. I cappellani in attività sono 134 e i loro stipendi,
equiparati a quelli dei generali, ammontano a 6 milioni e 300 mila euro. Sul
fronte pensionistico nell'interrogazione si fa presente che è possibile fare
solo una stima approssimativa perché anche l'Inps non ha ben chiare le somme
erogate. L’importo annuo lordo del trattamento pensionistico dei cappellani
dovrebbe ammontare a circa 43 mila euro lordi a testa. Considerando che i
cappellani che sono andati in pensione negli ultimi 20 anni sono 156 l’importo
complessivo è di 6 milioni e 700 mila euro.
I baby pensionati. I cappellani però risultano dei privilegiati rispetto ai
dipendenti "normali" e ai militari pari grado perché possono andare in pensione
in anticipo e ritrovarsi con una signora pensione: "Il prelato, che ha la stessa
busta paga di un generale di brigata in congedo, ha diritto a una pensione fino
a 4 mila euro al mese, anche se ha prestato servizio per soli 3 anni, compiuti i
63 anni, età per la quale un generale di brigata si può congedare, avendo
maturato il vitalizio" scrivono i deputati di Si.
Fonte: Repubblica
L'Italia non è un Paese per
donne lavoratrici
La Penisola è sotto la media Ocse in quasi
tutte le voci prese in esame, spicca solo l'aumento delle parlamentari. Troppo
poche, invece, le quote rosa a livelli dirigenziali. Scarse tutele alla
maternità e congedo paternità sconosciuto. L'impegno della ministra Madia: "Il
governo sta cambiando rotta"
di GIULIANO BALESTRERI
L'Italia non è un paese per donne. A meno che non
decidano di fare le casalinghe a tempo pieno. I dati dell'Istat e dell'Inail che
rivelano un aumento della partecipazione al mercato del lavoro (tre milioni in
più rispetto a 35 anni fa) mettono anche in evidenza un dato incontrovertibile:
una su due non lavora. In Sicilia, addirittura, la partecipazione al lavoro
scende al 27%. Le colpe sono diffuse, certo, ma le responsabilità maggiori sono
da rintracciare in un sistema Paese che ha sempre cercato di escludere le quote
rose. Se da un lato si preferisce l'angelo del focolare alla lavoratrice,
dall'altro in Italia le donne raramente vengono messe in condizioni di competere
con gli uomini. I dati dell'Oecd (Osce) rielaborati dall'Economist mostrano come
l'Italia sia uno dei peggiori paesi per essere una donna lavoratrice. Per
arrivare a questo conclusione sono stati considerato diversi parametri,
dall'accesso all'educazione superiore alla partecipazione alla forza lavoro,
dagli stipendi alla maternità: il giudizio complessivo lascia poco spazio
all'interpretazione.
La realtà è che in Italia le donne sono spesso costrette a scegliere tra
famiglia e carriera. E nonostante la promesse del governo, la strada resta in
salita. Di recente ha preso posizione anche il ministro della Pubblica
amministrazione, Marianna Madia, madre di due figli, che ha detto: "Dobbiamo
restituire alle donne la semplicità, anche attraverso meno burocrazia. Dobbiamo
restituire tempo attraverso la semplificazione, significa restituire alle madri
il tempo di stare con i figli. Dobbiamo andare avanti e dare alle donne la
possibilità di fare figli anche se non ci sono i nonni. Su questo il governo ha
l'ossessione di andare avanti".
Il percorso, però, sarà lungo e complesso. Se sul fronte salariale la distanza
tra uomini e donne si sta progressivamente accorciando, il problema vero resta
la partecipazione al mercato del lavoro: gli ostacoli burocratici, il ridotto
accesso all'istruzione superiore e le deboli tutele sul fronte di maternità e
assistenza ai figli collocano l'Italia in fondo alla classifica dell'Ocse. Al
livello di Unione europea anche la Grecia fa meglio, mentre non stupisce che ai
vertici ci siano sempre i paesi nordici.
La situazione migliora quando si analizza la presenza della donne all'interno
dei consigli di amministrazione, anche perché una legge impone che - a partire
dal 2015 - un terzo dei membri sia "rosa". Il problema resta, piuttosto, a
livello manageriale: le donne vengono promosse meno e con più difficoltà degli
uomini. E raramente occupano posizione di rilievo all'interno della struttura
aziendale. D'altra parte il minor accesso alla formazioni superiore e le
maggiori responsabilità sul fronte della cura dei figli (legate soprattutto alla
deresponsabilizzazione degli uomini, a differenza di quanto avviene nei paesi
nordici) si trasformano in un handicap.
Il grafico sulle tutele riservate alla maternità, infatti, mostra come l'Italia
guadagni qualche posizione, ma resti sotto alla media Ocse.
In Italia il congedo obbligatorio di paternità è stato appena raddoppiato (da
uno a due giorni), ma non abbastanza: la Penisola non compare neppure nella
gradutoria dell'Ocse. L'Italia è però in buona compagnia, con tante economie
avanzate. Eppure sono molti gli studi a spiegare come sia utile il ruolo degli
uomini: quando prendono il congedo le donne tendono a tornare più facilmente - e
serenamente - sul mercato del lavoro, l'occupazione femminile quindi sale e il
salary gap si riduce.
L'Italia supera la media Ocse, invece, come numero di parlamentari donne. Un
segnale che mostra una certa inversione di tendenza, ma che rischia di restare
una primula rossa, se sul fronte del lavoro non arriverranno correttivi
fondamentali e non più rinviabili all'alba del terzo millennio.
Il disastro delle ferrovie
minori: tangenti e malagestione affossano le società pubbliche
Dalla Puglia fino alla Basilicata e la
Lombardia un giro vorticoso di strane assunzioni, consulenze allegre, truffe e
spese folli affossano le linee regionali. Perdendo milioni di euro all’anno e
migliaia di pendolari
di Michele Sasso
Piccolo non è bello con le ferrovie locali.
Appalti, tangenti, distrazione di fondi pubblici e malagestione affossano le
società che gestiscono i binari. Mentre vengono dismesse ogni anno stazioni e
linee minori e le autolinee scalzano le carrozze nel trasporto pubblico locale,
gli esempi in mano a Ministero e Regioni non invogliano ad investire milioni e
puntare con decisione sul ferro per decongestionare le strade.
A cavallo tra Potenza e Bari le ferrovie Appulo Lucane sono finite al centro di
uno scandalo di assunzioni e consulenze, sempre in Puglia quelle del Sud Est
nonostante 311 milioni di debiti vengono tenute in vita dal Governo e in
Lombardia l’ex capo delle Nord ha sperperato 430 mila euro in rimborsi, bollette
di cellulari, pay tv e persino scommesse sportive.
Mentre c’è un Italia che viaggia ad alta velocità arrivando a Milano da Roma in
meno di tre ore, quello che resta di vecchie linee arranca tra scartamento
ridotto, tempi di percorrenza del secolo scorso e littorine alimentate a diesel.
Marco Ponti, professore di Economia al Politecnico di Milano ed ex consulente
per i trasporti della Banca Mondiale, non usa mezzi termini: «Queste società
sono un incubo, una follia gestionale: nessuno dice che il problema principale
che ci sono troppi pochi viaggiatori. La domanda è debole perché le ferrovie
hanno bisogno di tantissima gente, ma invece di viaggiare con 80 treni al giorno
si accontentano di 20 per tenerle in vita. Ma è antieconomico. C’è poi il
paradosso lombardo dove i passaggeri ci sono ma la società Trenord, controllata
dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, approfitta del monopolio e ottiene pure
il prolungamento della concessione. Il contrario esatto del libero mercato».
LE FERROVIE LUCANE LOTTIZZATE
Le ferrovie Appulo Lucane (Fal) a cavallo tra la Basilicata e la Puglia
gestiscono 183 chilometri di linee, hanno 562 dipendenti e servono sedici comuni
lungo le tratte che partono da Bari e arrivano a Potenza e Matera, quest’ultima
capitale europea della Cultura per il 2019, con una stazione di Trenitalia che
aspetta da anni di essere aperta.
Le tratte locali sono un’eredità delle Ferrovie Calabro-Lucane che nei primi del
Novecento trasportavano merci e persone snodandosi sul territorio della
Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Oggi è di proprietà del Ministero delle
Infrastrutture con treni ancora a diesel e binari a scartamento ridotto.
La società attuale – Fal srl - secondo i parlamentari del Movimento Cinque
stelle, si è trasformata in un "poltronificio" e un pasticcio di consulenze.
«È un piccolo feudo locale con rapporti di amicizia tra vertici dell'azienda con
il mondo politico, in particolare con l'ex ministro Raffaele Fitto e con altri
parlamentari lucani e pugliesi, soprattutto di area di centrodestra» attacca la
deputata grillina Mirella Liuzzi che aggiunge:«La Puglia e la Basilicata ci
mettono circa 100 milioni di euro all’anno ma invece di modernizzare una linea
ferma al secolo scorso hanno cucito su misura contratti a tempo indeterminato
per ex dipendenti del partito o assistenti di alcuni parlamentari di Forza
Italia».
Tutto nel campo dei berlusconiani, a partire dal presidente delle Fal Matteo
Colamussi che al momento della nomina (nel 2008) era presidente del consiglio
comunale di Rutigliano (Bari) e vicesegretario provinciale degli azzurri. Per la
nomina del nuovo cda il sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, il
lucano Guido Viceconte, inserisce tra i cinque componenti anche il cugino
Felice.
C'è poi l'incarico fiduciario per la ristrutturazione della sede barese affidato
alla moglie del deputato azzurro Nuccio Altieri. Scelta che il patron Colamussi
ha difeso:«Questo tipo di incarichi si chiamano fiduciari non a caso. Bisogna
scegliere gente di cui ci si fida. E io ho grande stima professionale della
moglie del mio amico Nuccio Altieri. Ma questo non significa che io abbia fatto
qualcosa che non dovevo e che fosse contro la legge».
Tutto il dossier Fal è finito in Procura per verificare anche un’altra storia,
quella delle assunzioni di parenti stretti di sindacalisti, scoperta e
raccontata per prima dal Quotidiano Italiano di Bari .
AL CENTRO DELLE INCHIESTE
Sempre in Puglia, sono le ferrovie del Sud Est a fagocitare milioni di euro di
fondi pubblici. Tra un tourbillon di truffe per acquistare vecchie carrozze e
consulenze allegre. Con un bilancio 2014 in rosso per 311 milioni e la metà dei
costi di produzione -146 milioni- sborsata per pagare lo stipendio a 1300
dipendenti. Tra questi anche dirigenti che incassano fino a 220mila euro
all’anno.
I guai maggiori, però, vengono a galla con l’inchiesta di Firenze che svela il
sistema di potere di Ercole Incalza, il potente burocrate arrestato un anno fa
con l’accusa di corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta e altri delitti
contro la pubblica amministrazione.
Dalla Toscana una pista arriva fino in Puglia dove l’ipotesi che le consulenze
delle Ferrovie del Sud Est si trasformassero, almeno in parte, in tangenti
destinate propio al potente factotum del Ministero delle Infrastutture e al suo
collaboratore Sandro Pacella.
Agli arresti sono finiti Salvatore Adorisio e Angelantonio Pica, presidente e
amministratore delegato della Green Field System, uno studio di progettazione
specializzato in trasporti che tra il 2006 e il 2014 ha ottenuto consulenze
dall’azienda pugliese per 2,4 milioni. Sarebbe questo «il canale» secondo i
magistrati fiorentini, «tramite il quale grosse somme di denaro sono transitate
dalle Ferrovie del Sud Est» verso Incalza e Pacella, che avrebbero intascato
circa 700mila euro.
Non è però l’unico scandalo che prende di mira il malaffare made in Puglia. Il 1
dicembre scorso la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per sette
persone e per la società Ferrovie Sud Est nell’ambito dell’inchiesta sulle
presunte truffe. Tra gli altri, rischia il processo anche l’ex amministratore
unico Luigi Fiorillo.
Al centro delle indagini l’acquisto di 27 vagoni nuovi dalla società polacca
Pesa, pagandoli 93 milioni di euro grazie ad un finanziamento regionale. Secondo
la Procura sarebbero stati inclusi nel costo 12 milioni di euro di provvigioni
sulle vendite pagati da Pesa alla società Varsa.
Ma il "capolavoro" di spreco riguarda la seconda vicenda: nel 2006 l’azienda ha
comprato in Germania 25 carrozze usate a 37.500 euro l’una per poi rivenderle a
280mila euro ciascuna alla Varsa. Che le ha ristrutturate e spedite sulle linee
pugliesi per 900mila euro l’una.
Dopo queste spese milionari arriva un’amara constatazione finale: le
caratteristiche tecniche di molte carrozze non sono adeguate alle linee delle
Sud Est, così dal 2009 i mezzi sono rimasti fermi.
Nonostante questa serie di affari sporchi svelati dalla Magistratura c’è stato
un’ultima chance di riportarla a galla. Lo scorso gennaio il ministro delle
Infrastrutture, Graziano Delrio, ha nominato una squadra di commissari per
scrivere un piano industriale per il risanamento e la riduzione dei costi di
funzionamento. Perché con la legge di stabilità di fine anno sono arrivati 70
milioni di euro per «garantire la continuità aziendale e ripristinarne
l'equilibrio economico e finanziario».
LA BELLA VITA DEL RAMPOLLO DELLE NORD
Non è solo una questione meridionale. Carte di credito, alberghi, l’uso di auto
con carburanti e telepass, arredi ed elettronica, bollette di telefoni
cellulari, pay tv e persino scommesse sportive: è l’elenco delle spese allegre
che sono costate la poltrona di presidente della società Ferrovie Nord Milano a
Norberto Achille.
Un utilizzo a fini personali (soprattutto da parte dei due figli) di benefit
aziendali legati alla sua carica al vertice della società per azioni che fattura
300 milioni l’anno con 4.000 dipendenti e che in Lombardia fa viaggiare ogni
giorno 700 mila persone.
Achille, presidente e legale rappresentante della holding partecipata da Regione
Lombardia e Ferrovie dello Stato, è stato prima interdetto per 6 mesi
dall’incarico e poi è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per la
distrazione di circa 430mila euro di fondi pubblici.
Una storia di sperperi e lussi con al centro il figlio di Achille, il 35enne
Marco. Una vita segnata dall’amore per gli orologi di lusso, le gite in
motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti
numerose società, fra cui - come raccontato da l'Espresso - una Ltd registrata a
Londra in cui è coinvolto anche il padre.
Per il rampollo del manager pubblico che passava dalle feste al business
immobiliare nel curriculum c’è anche un incarico pubblico: siede nel collegio
dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale
ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro.
8
marzo
Operai, postini, professori,
camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher
Eliminati i co.co.co., oggi il precariato passa
attraverso i “buoni” a sette euro e mezzo l’ora. Che ormai dilagano, creando una
nuova classe sociale. Le storie di chi sbarca il lunario in questo modo
di Fabrizio Gatti
Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna,
l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore
universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci
assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora,
possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati
alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco
Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro
forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non
fa nessuna differenza.
Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari
valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di
contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione
antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio.
Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia
che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato
a vita ai proletari della conoscenza.
È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro,
degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari
nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i
settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i
nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di
sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a
riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che
stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio.
Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere
un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli
malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la
differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei
regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e
delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano
di esistere.
Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015: 115 milioni di
buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36
milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con
punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in
Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un
milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà
donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne
nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34
anni oggi.
Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare
la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel
2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato
voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato
contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi
ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni
burocratiche.
Un miliardo di stipendi coi
voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti
Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai
convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è
diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori
La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a
tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando
servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati,
esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per
raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il
junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al
junk-job: si accetta quello che passa.
Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e
universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di
costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar,
ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa
categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o
più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al
fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti.
La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la
magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le
persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista
diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei
buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro
dipendenti.
La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte
aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015.
E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori,
educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità
limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati
con i buoni. Il resto in nero.
L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro:
quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto
non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere
illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti
economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più
massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi
rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi.
Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni
che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni
singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di
lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno
avuto successo nel coprire il lavoro nero.
Nel 2015 più di 71 milioni
di voucher-lavoro Cgil: "Anziché combattere il nero, lo creano"
Superato ogni record per i buoni-pagamento da
10 euro l'ora. Inventati per i lavoretti da giardino o le ripetizioni. Sono
diventati uno strumento universale. Dai risvolti anomali. Come scoperto dalla
stessa Inps negli alberghi di Jesolo. E come raccontano molti casi. Le ragioni
del boom
UN ALIBI PER EVITARE GUAI
Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego
di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento
nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e
stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo
romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si
ricorre largamente al lavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in
Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la
parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta:
37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di
millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la
raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al
giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai
caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di
millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo»,
risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di
Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per
evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi:
“Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher
serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla
raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta.
Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni,
donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese
e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira
fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe
verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta
per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai
voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché
non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno
cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano
più».
Io schiavo in Puglia
Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi
tuguri. Massacrati di botte. Diario di sette giorni nell'inferno. Tra i
braccianti stranieri nella provincia di Foggia
Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella
raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima
del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento
in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il
nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del
Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale.
L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il
voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata.
Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei
contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma
impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non
giustificano il costo».
EDUCATORE E FATTORINO
Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la
smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è
quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del
dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di
lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail.
E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice
fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine.
Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario”
a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante
la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche
svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la
settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo
prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A
volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate
finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la
grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene
il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la
crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare
uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese
sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la
Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di
uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro».
Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto.
Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti
part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in
un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere
porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la
più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai
buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a
36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i
voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm,
«per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente
coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco
perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri
full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo
l’azienda si è ingrandita».
Voucher, zona grigia: molti
abusi, niente diritti
Margini sempre più ampli. Lavori "standard" che
diventano "prestazioni occasionali". Così il Jobs Act ha contributo al boom dei
buoni lavoro
SE NON SAI PIÙ CHI SEI
Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di
laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna
anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze
politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I
due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo
fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve
impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a
conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro
hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte
partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i
servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher».
Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra
della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale
di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli
altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo è indifferenziato. In
questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della
smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile.
Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio
tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile,
smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove
porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente
la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello
che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa
lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è
parola che loro mettono in pratica».
Voucher: braccia comprate
dal tabaccaio
Come funzionano i buoni lavoro: chi li può
acquistare, quali sono i limiti, come si acquistano e incassano
L’identità di Andrea P., parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da
quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha
cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in
vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie
lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è
tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese
nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500
euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti.
Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a
San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e
mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da
settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a
mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di
andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri
per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone
bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere
della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa.
Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal
lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato.
L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il
parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno
detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che
anche il buono non era buono».
Un posto solo per 4.800
candidati e il popolo dei concorsi si mette in fila
Il caso. Un'unità sanitaria di Verona affitta
il palazzetto dello sport e sborsa ottomila euro per la gara, ma l'introito
delle iscrizioni copre tre volte il costo dell'iniziativa
dal nostro inviato MASSIMO PISA
Un posto solo per 4.800 candidati e il popolo dei
concorsi si mette in filaUn'immagine del palazzetto dello sport durante il
concorso VERONA - Com'è andata? "Su trenta domande, tredici erano di storia o di
diritto. Roba che, poi, sai quanto ti serve quando sei in corsia?". Appoggiato
allo sportello della sua Panda azzurra, Matteo addenta l'enorme panino che si è
portato epr pranzo: "Per risparmiare". Jennifer, la sua fidanzata viareggina,
annuisce: "Sì, era difficile". E ora, dopo due ore e mezzo di coda e tre quarti
d'ora per compilare il questionario, sono pronti a tornare a Livorno e aspettare
il 7 marzo, giorno dei risultati della preselezione. In palio c'è un posto da
"collaboratore professionale sanitario", un'assunzione a tempo indeterminato da
infermiere all'Ulss 20 di Verona. I seicento che passeranno dovranno affrontare
il muro della prova scritta, della pratica, dell'orale. Se non sei quell'uno su
1.253 che ce la fa, riprovare, altrove.
Al casting della sanità non si canta, non ci si esibisce. Si spera. Dovevano
essere 4.800 i candidati e per questo era stato affittato il PalaOlimpia, dove
si allenano e giocano la Bluvolley e la Scaligera Basket a due passi dal
Bentegodi, ma oltre trecento domande non avevano la documentazione necessaria.
Dei 4.493 che hanno versato i 5 euro per provare il concorso, se ne sono
presentati un quarto. "Forse - sospira la dottoressa Laura Bonato, dirigente
amministrativa dell'Ulss che coordina la prova - perché gli altri nel frattempo
hanno trovato lavoro". C'erano anche Matteo e Jennifer tra i forzati dei
questionari e la loro è una traiettoria non banale. Dieci mesi fa erano emigrati
a Colchester, Inghilterra. Assunti. Tempo indeterminato. "Reparto emergenza e
urgenza - racconta Matteo, 25 anni, uno in più della sua ragazza - come il mio
master, dopo un colloquio via Skype. Ci presentammo in sessanta, anche ragazzi
bulgari e spagnoli, ci presero tutti. Turni da 12 ore, tre giorni a settimana,
1.750 sterline al mese. Ma non è il massimo". E infatti Jennifer, dopo sei mesi,
è tornata. "Perché sono italiana - confessa - sto bene qui e alla mia età ci si
prova ancora a stare a casa". Lavora nel privato, a Pisa, a chiamata, a 700 euro
al mese. Ha fatto concorsi ad Asti, a Brescia, a Trieste. "Ma altri sono già al
ventesimo. Siamo sempre gli stessi".
E si ritrovano al parcheggio, si salutano, ripassano gli ultimi appunti mentre
ai banchetti dentro al palazzo si formano le prime file per il controllo della
carta d'identità, la consegna dello smartphone dentro una busta bianca sigillata
e l'ingresso sulle tribune. Erano al Politecnico di Milano lo scorso aprile,
13mila domande per 25 posti al Niguarda. Sono stati a Trieste e a Parma, a
Torino e a Sondrio, a Modena e a Garbagnate Milanese. A far che? "A provare a
farti un futuro, perché da precaria non ti compri nemmeno la macchina", allarga
le braccia Enza, foggiana, ancora per un mese in clinica privata, poi chissà.
"L'importante è entrare in graduatoria, poi per tornare giù c'è tempo",
pianifica Valeria, 24enne abruzzese con due mesi residui di contratto all'Asl di
Teramo. "Tanto poi le graduatorie scorrono", aggiunge la barlettana Fabiana,
precaria a Modena. "Io, in realtà, avevo pensato alla Germania, dove però gli
infermieri hanno una mansione più bassa", calcola Mara, brindisina part-time in
Friuli. "Si spera, e un po' si perde tempo, perché i laureati aumentano e non
vengono assorbiti", riassume Ivan, livornese finito a San Daniele del Friuli
grazie a un avviso. Intanto girano l'Italia, sempre a proprie spese. "Una volta
- ricorda Luigi, siciliano di Ravanusa ma laureato a Novara - misero una prova
al venerdì di Pasqua. Il biglietto aereo costava 450 euro. Ma che fai, non vai?
Muoviamo un'economia".
I conti, a Verona, sorridono all'Ulss. "L'affitto del palazzo - elenca la
dottoressa Bonato - veniva 1.800 euro: alla Fiera ne chiedevano 20mila". Altri
400 tra vigili del fuoco, la quota per l'impresa di pulizie, la spesa maggiore
non supera i 5mila euro per la società che fornisce i test e il totale sta sotto
gli 8mila. Il monte delle iscrizioni lo copre per tre volte.
Disposti in fila con un seggiolino di distanza l'uno dall'altro, i 1.253
candidati aprono le buste al via delle commissione, ore 12.08 e scatta il
cronometro. Fuori dai finestroni, a guardare per i 45 minuti della prova,
restano i parenti. Stefano ha cinque mesi, mamma Angela l'ha portato su da
Perugia con papà Claudio che lo regge in braccio mentre il pupo gioca con le
chiavi di plastica: "Lui è al suo primo concorso, noi al quinto". Il signor
Massimo, 49 anni, ha accompagnato su da Lodi la sua Ilaria. Infermiere lui, la
moglie, e ora la figlia, per ora a partita iva: "Ci si alza alle 5 e si parte".
Francesco, 65enne bidello di Latina, trascina un trolley sulle scale del
PalaOlimpia e si siede: "Non li contiamo più i concorsi col mio Alessandro.
Stavolta avevo anch'io un giorno libero e abbiamo preso l'albergo. Qualcosa, per
questi ragazzi, bisogna pur trovare". Il suo ragazzo un concorso l'aveva vinto,
a Castelfranco Veneto, ma dopo due anni e a 27 di età Alessandro si è ritrovato
per strada.
"Sta a casa. E dove deve andare?". È l'una, operazioni di consegna completate,
nonno Gaetano aspetta la sua Agnese. Ha 75 anni, arriva da Bondeno, nel
ferrarese. "Un'ora e mezza di macchina e siamo a casa. Facevo il camionista, sa,
queste strade le conosco bene".