24 marzo

 

Le 5 novità della terza generazione jihadista

Renata Pepicelli
Docente universitaria, esperta di Islam

Gli attentati terroristici di Bruxelles mostrano che l'Europa è sempre più il secondo fronte di una guerra la cui prima linea è in Medio Oriente, e le cui retrovie sono nell'Africa settentrionale e subsahariana. In questa nuova guerra dalle caratteristiche globali, l'Europa gioca un ruolo centrale per almeno quattro importanti ragioni: il coinvolgimento militare sui fronti mediorentali e africani; la presenza nei suoi confini di profughi provenienti da questi territori; la reiterazione sul suo suolo di attacchi terroristici riconducibili all'IS; la partecipazione di cittadini europei a movimenti jihadisti internazionali.

Ed è proprio quest'ultimo aspetto una delle caratteristiche più significative della guerra globale in atto. Non è certo la prima volta che cittadini europei partecipano a gruppi jihadisti, ma gli scenari e i percorsi sono radicalmente mutati. Oggi siamo ormai alla terza generazione jihadista - per usare una definizione di Gilles Kepel -, dopo quella dei combattenti formatasi in Afghanistan negli anni '90 (e da lì passati in Bosnia, Algeria, Egitto) e quella qaedista degli anni 2000. Questa generazione rompe con le esperienze del passato. Come sostiene Farhad Khosrokhavar, si possono notare almeno cinque cambiamenti significativi nei profili dei jihadisti: le cifre, l'età, la classe sociale, la presenza di convertiti e il genere.

Le cifre. I servizi di intelligence europea calcolano che sono circa 5000 gli europei - d'origine straniera, discendenti da famiglie migranti e convertiti - che si sono trasferiti in Siria e in Iraq dal 2013 ad oggi. E molti altri li avrebbero raggiunti se i governi dell'Ue e della Turchia non avessero cercato di fermarne il flusso. Non c'è mai stato un numero così alto di europei che ha scelto di unirsi a gruppi jihadisti. Fino ad ora le cifre erano nell'ordine delle centinaia, non delle migliaia, e ciò rende il controllo di tale fenomeno da parte dei servizi di intelligence particolarmente difficile. Inoltre la dimensione transnazionale dei cosiddetti "foreign fighters", che si spostano con estrema facilità dentro e fuori i confini degli stati europei, rende ancora più complessa l'attività di monitoraggio. L'età. I jihadisti delle precedenti generazioni avevano in media tra i 30 e i 40 anni. Dopo il 2013 abbiamo un grande numero di ventenni, e talvolta di adolescenti, che intraprendono da soli il percorso jihadista. Sebbene non manchino casi di intere famiglie (dai nonni ai nipoti) che lasciano il paese d'origine alla volta di Siria ed Iraq, nella maggioranza dei casi i giovani partono da soli, adescati da reclutatori attivi soprattutto in internet, mentre le famiglie restano all'oscuro della loro radicalizzazione fino a quando è troppo tardi per intervenire.

La scelta di aderire al jihadismo avviene in maniera individuale ma spesso tale decisione matura nel gruppo dei pari, degli amici. La solidarietà generazionale prende quindi il sopravvento su quella intergenerazionale. Sono ricorrenti le storie di fratelli uniti nella scelta jihadista: Cherif e Said Kouachi sono stati gli autori degli attentati alla redazione di Charlie Hebdo; Ibrahim e Salah Abdeslam sono stati tra i responsabili degli attacchi parigini del 13 novembre 2015; Ibrahim e Khalid el Bakraoui, sono stati i protagonisti degli assalti all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles del 22 marzo.

Molti giovani, indipendentemente dalle loro origini, considerano il jihadismo la forma migliore attraverso la quale esprimere conflitto e radicalità in un'era senza utopie e senza maestri, segnata dalla crisi economica e dal sovvertimento dei tradizionali codici valoriali. In nome di un Islam che conoscono a malapena, e solo nella versione estremista e fondamentalista veicolata dai video e dalla propaganda dell'IS, giovani di entrambi i sessi, nati musulmani o ri-nati musulmani attraverso la conversione, si rivoltano contro padri e madri, e contro il sistema in cui sono cresciuti. Affascinati da letture estremiste dei testi sacri dell'Islam, questi giovani si radicalizzano in breve tempo e rincorrono illusorie promesse di giustizia sociale e dignità.

L'adesione a un gruppo jihadista rappresenta un potente e simbolico rito d'ingresso nell'età adulta, un passaggio che oggi sembra sempre più difficile, se non impossibile, da realizzare. Disoccupati, precariamente occupati, sottoccupati, sempre più giovani non riescono a rendersi indipendenti dalla famiglia d'origine e il futuro per loro si prospetta nei termini di un peggioramento sociale ed economico rispetto alle condizioni dei genitori. Lo Stato Islamico appare improvvisamente ai loro occhi come l'unica via d'uscita possibile da una situazione che appare bloccata, in quanto offre la promessa di un riscatto e di una rivincita. Per dirla con Olivier Roy, il jihadismo oggi ha le caratteristiche di una rivolta generazionale nel segno dell'islamizzazione della radicalità, piuttosto che nel segno della radicalizzazione dell'islam.

Un altro elemento poi da tenere in considerazione è quello della classe. Tra di loro non ci sono solo giovani che provengono da classi sociali ed economiche svantaggiate, che vivono nelle banlieue e nei ghetti urbani, ma ci sono anche giovani che appartengono alla classe media, ragazzi e ragazze in apparenza realizzati nei loro contesti sociali, come la sedicenne Khadiza Sultana, una delle tre adolescenti britanniche partite insieme alla volta della Siria all'inizio del 2015. Il genere infine è un altro elemento fondamentale per comprendere le forme del nuovo jihadismo. A partire dal 2013, le donne rappresentano il 20-30% dei jihadisti e tra di loro molte sono anche giovanissime e adolescenti. È la prima volta che accade una cosa del genere. Ed è sorprendente, leggendo le loro biografie, l'elemento di autodeterminazione che le spinge verso i territori della Siria e dell'Iraq controllati dall'IS. Molte cedono alla propaganda jihadista ammaliate dall'idea di partecipare in prima persona ad un'utopia, ai loro occhi, rivoluzionaria, in cui viene esaltato il loro ruolo di madri dell'umma (comunità) islamica, mentre gli uomini non appaiono più deboli, insicuri, irresponsabili, come sono molti giovani della loro età, ma assumono le vesti di "principi azzurri" che le salveranno, insieme alle comunità a cui appartengono.

La propaganda descrive il giovane jihadista come responsabile, coraggioso, generoso, pio, insomma come un eroe contemporaneo, ribaltando lo stereotipo che imputa alle nuove generazioni la perdita di ogni ideale. Le poche e i pochi che sono tornati indietro pentiti - è il caso ad esempio di Sophie Kasiki, partita con il suo bimbo di 4 anni - raccontano dell'orrore in cui invece si sono trovati a vivere, molto distante dal mondo che avevano sognato. E proprio queste figure di foreign fighters pentiti oggi appaiono decisamente importanti, da un lato perché ci permettono di sapere cosa realmente sta accadendo nello Stato Islamico, dall'altro perché la loro testimonianza può essere decisiva per prevenire e deradicalizzare i giovani attratti dalla propaganda jihadista. Possono essere loro i principali dissuasori di una generazione "lost in transition".

 

23 marzo

 

Bruxelles, i politici sciacalli subito in azione mentre si contano ancora i morti

Matteo Salvini che lancia un'iniziativa per "ripulire le nostre città", Maurizio Gasparri che parla di "ripulire i quartieri invasi da islamici" e Daniela Santanchè che si lamenta di un centro accoglienza a Milano. Così il centrodestra cavalca gli attentati

di Mauro Munafò

Bruxelles, i politici sciacalli subito in azione mentre si contano ancora i morti La drammatica conta delle vittime degli attentati a Bruxelles non si è ancora chiusa, ma gli esponenti del centrodestra italiano non hanno perso tempo.

Sparate ad effetto, soluzioni lampo, dichiarazioni contro tutto e contro tutti buone per raccogliere like sui social network e qualche titolo sui telegiornali. Un format ben oliato e già sperimentato in diverse occasioni, come l'Espresso ha già scritto il 14 novembre scorso dopo gli attacchi alla città di Parigi. E, non a caso, i protagonisti di queste uscite sono sempre gli stessi.

In prima fila nel lanciarsi sulla notizia è stato Matteo Salvini che, trovandosi a Bruxelles, è riuscito anche a farsi immortalare in diretta dalla trasmissione di Canale 5 Mattino 5, per cui ha realizzato un lungo collegamento dalla capitale belga. Passate poche ore dall'ospitata in tv, il leader della Lega Nord ha lanciato l'iniziativa web, con tanto di cartello: "Ripuliamo le nostre città" e l'hashtag #iononhopaura. Un'operazione di instant marketing accolta da migliaia di like e condivisioni dei suoi sostenitori.

E sempre tra le fila della Lega non mancano emuli del "capitano" come il capogrupo al Senato Gian Marco Centinaio che dichiara: "Nessun islamico che vive in Italia ha condannato la carneficina compiuta in Belgio (falso, più associazioni hanno ufficialmente condannato il gesto ndr) confermando così che l'Islam moderato non esiste. Renzi e la Boldrini condannino apertamente questo ignobile comportamento e dichiarino fuori legge le associazioni islamiche". O il deputato Maurizio Fugatti che chiede di "chiudere tutti i centri di aggregazione islamica, i centri culturali, le moschee".

Sulla stessa linea di pensiero si muove il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri che sulla sua pagina Facebook mette insieme immigrati, clandestini e terroristi: "Uccidono in nome dell'Islam. In Europa, in Asia, in Africa. E intanto Renzi porta in Italia altri clandestini a migliaia. Mentre dovremmo espellere chi minaccia la nostra libertà. Dobbiamo ripulire i quartieri invasi da islamici. Prendono i nostri passaporti, lavorano nelle nostre città , come Salah e i suoi familiari a Bruxelles, e in cambio ci sterminano. Basta con la retorica dell'integrazione. Perquisizioni, arresti, espulsioni in Europa. Radere al suolo lo Stato islamico".

Non manca all'appello neppure Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia. Attraverso il suo profilo twitter e a pochi secondi dalla notizia, lancia la domanda: "Terrorismo islamico?". Una prudenza forse derivata dalla figuraccia fatta ai tempi della tragedia dell'aereo Germanwings, causata da un pilota tedesco di cui la "pitonessa" chiese su twitter "di che origini fosse". Più tardi Santanchè ha invece attaccato l'amministrazione di Milano per la scelta di allestire un centro di accoglienza nelle aree Expo, definendola "una caserma dell'Isis nel centro di Milano".

Sempre pronto su Twitter anche l'esponente della Destra Francesco Storace, che sul suo profilo prima twitta una vecchia prima pagina di Libero col titolo "Bastardi Islamici", e poi condivide i messaggi di tanti suoi follower. Tra questi: "Non esiste un islam moderato. O combattiamo o saremo sconfitti".

 

22 marzo

 

 

15 marzo

 

"Io viaggio da sola e ieri mi hanno uccisa". Il post è un caso mondiale

Una studentessa paraguaiana ha raccontato in prima persona su Facebook il barbaro omicidio di due turiste argentine in Ecuador. "Per un uomo avrebbero avuto parole di cordoglio, io sono stata condannata perché non sono rimasta a casa". E parte una campagna virale con l'hashtag #ViajoSola

di ALESSIA MANFREDI

"Io viaggio da sola e ieri mi hanno uccisa". Il post è un caso mondiale"Ayer me mataron", ieri mi hanno uccisa. Poche parole che pesano come pietre, la prima riga di un post su Facebook scritto tutto in soggettiva, che ha fatto rapidamente il giro del mondo e dato il via ad una campagna, a colpi di tweet, per difendere il diritto delle donne a viaggiare da sole. Sì, perché nel post, scritto da una studentessa paraguaiana, Guadalupe Acosta, è come se a parlare fossero Maria Coni e Marina Menegazzo, due turiste argentine uccise a fine febbraio mentre viaggiavano insieme in Ecuador, zaino in spalla. Ammazzate da due uomini che si erano offerti di ospitarle. L'ennesimo atto di violenza insensata contro due donne, eppure online c'è stato subito chi ha trovato da ridire sul fatto che le ragazze viaggiassero "sole" - anche se erano in due - e che magari, in qualche modo, se l'erano cercate.

Guadalupe Acosta non è rimasta in silenzio e ha risposto su Facebook, dando alle ragazze, che l'avevano perduta per sempre, la possibilità di difendersi dalle accuse. E il suo post è stato condiviso oltre 700mila volte, dando il via a un dibattito e innescando una valanga di tweet con l'hashtag #Viajosola, diventato rapidamente trending topic.

"Essere una donna non vuol dire automaticamente essere una vittima". Soprattutto se si è in viaggio da sola, o in compagnia di un'amica. Su Twitter le donne utilizzano l'hashtag #viajosola ("Viaggio sola") per rivendicare il loro diritto a esplorare il mondo in sicurezza anche senza un uomo al fianco, e senza diventare necessariamente il bersaglio di molestie e aggressioni. Da qualche giorno l'hashtag è legato alla storia di due ragazze argentine, José María Coni e Marina Menegazzo (22 e 21 anni), uccise in Ecuador durante un viaggio e ritrovate in due sacchi di plastica. La loro morte, sui social network, non ha destato solo compassione. In molti hanno commentato la vicenda attraverso domande indelicate: "Che vestiti avevano?", "Perché erano sole?" e soprattutto "Erano in una zona pericolosa, cosa potevano aspettarsi?". Una pioggia di critiche, insomma, che hanno indotto un utente di Facebook, la paraguaiana Guadalupe Acosta, a scrivere un post che ha stigmatizzato lo scarico di responsabilità sulle vittime. Un post scritto dal punto di vista delle ragazze uccise, come se ancora potessero difendersi. Le sue righe, condivise quasi un milione di volte, hanno innescato nuovamente lo sfogo delle turiste che si muovono in solitaria, pronte a raccontare su Twitter i (validi) motivi per cui viaggiano sole.

"Ieri mi hanno uccisa... ma peggio della morte è stata l'umiliazione che è venuta dopo", si legge nel post, che dà voce a Maria e Marina. "Non mi sono fatta toccare e mi hanno spaccato il cranio", continua, lapidario. "Mi hanno accoltellato, lasciandomi morire dissanguata. Mi hanno avvolto in un sacco nero, sigillato con il nastro adesivo e il mio corpo è stato abbandonato sulla spiaggia, dove sono stata ritrovata dopo qualche ora".

Ma quello che succede dopo, si legge ancora nel post, è, se possibile, ancora peggio: domande, insinuazioni: "Come eri vestita? Perché eri da sola? Sei andata in un posto pericoloso? Perché una donna viaggia sola, senza essere accompagnata?". Non si risparmiano le accuse ai genitori, "per non avermi tarpato le ali, per avermi lasciato essere indipendente". In una parola, per aver permesso alle ragazze di vivere.

Avevano 22 e 21 anni Maria e Marina, ed erano in vacanza a Montanita. Secondo la polizia, erano rimaste senza soldi e avevano accettato l'offerta di due ragazzi di un posto dove passare la notte. I loro corpi sono stati ritrovati chiusi in un sacco. I due uomini hanno confessato l'omicidio. Ma nei giorni successivi, è nata una discussione sul fatto che le ragazze erano in viaggio da sole.

"Se al nostro posto ci fossero stati dei ragazzi sarebbero state spese solo parole di cordoglio. Ma essendo una donna sono stata condannata perché non sono rimasta a casa", continua il post di Guadalupe, che alla fine chiede alle donne di alzare la voce e lottare "per tutte quelle cui hanno negato vita e sogni"."Lottiamo insieme, io con voi, con il mio spirito, e vi prometto che un giorno non ci saranno abbastanza sacchi per metterci tutte a tacere", è l'invito finale.

Parole che non sono cadute nel vuoto. A migliaia su twitter hanno raccolto l'invito. "Lo faccio perché mi dà forza ed è un nostro diritto, #ViajoSola", scrive Chrizzy. "Sono una donna e viaggio da sola perché così scopro di più su me stessa. Il mondo è anche nostro", continua Kaye de Castro. Le fa eco Jennie: "Viaggio da sola e con altre donne perché essere donna non significa essere vittima". Viaggiare da sola non deve far paura, non si deve rischiare di essere puniti per questo, rileva qualcun'altro. "La prima volta che ho viaggiato sola avevo 16 anni, l'ho fatto molte volte da allora e non ho intenzione di smettere". Perché, in una parola, sarebbe come rinunciare a vivere.

Fonte: La Repubblica

 

Al Sud la cultura è diventata un bene di lusso

Secondo una ricerca della Svimez, dal 2000 al 2013 le spese destinate alla valorizzazione di musei, biblioteche, cinema e teatri, ma anche ad attività ricreative e sportive hanno subito un crollo di oltre il 30% nel Mezzogiorno, contro il -25% del Nord

Sibilla Di Palma

L’Italia è il paese con il più alto numero al mondo di beni patrimonio dell'umanità. Eppure non brilla per investimenti destinati alla cultura, soprattutto al Sud. A sottolinearlo è la ricerca “Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia” condotta dalla Svimez sulla base di dati del ministero dello Sviluppo - dipartimento sviluppo e coesione economica/conti pubblici territoriali. Dalla quale emerge che dal 2000 al 2013 la spesa totale nel settore della cultura (dagli interventi a tutela e valorizzazione di musei, biblioteche, cinema, teatri, enti lirici, archivi, accademie, alle attività ricreative e sportive come piscine, stadi, centri polisportivi, fino alla gestione di giardini e musei zoologici) ha subito un crollo di oltre il 30% nel Mezzogiorno, passando da 126 a 88 euro pro capite, contro il -25% del Nord.

In particolare, nel 2013, fatto pari a 100 il livello medio nazionale, la spesa pro capite per la cultura è stata del 69% nel Mezzogiorno, a fronte del 105% del Nord e del 141% del Centro. Inoltre, sempre nello stesso anno, per ogni cittadino del Nord è stato speso per la cultura il 35% in più rispetto a un cittadino del Sud. I tagli sono stati più pesanti in piena crisi, ossia negli anni 2009-2012 quando gli investimenti in conto capitale per la cultura sono passati al Sud dai 45 euro pro capite del 2009 ai 17,3 del 2011, per poi risalire a 19,6 nel 2013.

Scendendo più nel dettaglio e andando ad analizzare la situazione nelle amministrazioni centrali, locali e regionali, emerge che a livello nazionale le spese in conto capitale nel settore sono crollate, dal 2000 al 2013, del 49% e al Sud del 48%. In altri termini, i 52 euro pro capite del Duemila sono diventati nel 2013 26,5 a livello nazionale; nel Sud i 38 euro del 2000 sono diventati tredici anni dopo 19,6. I tagli più drastici si sono concentrati nelle amministrazioni centrali: il crollo al Sud è stato del 74,6%: i 13,6 euro pro capite del 2000 sono quasi spariti tredici anni dopo, arrivando a 3,48 euro. Dando invece uno sguardo alla situazione a livello regionale, il Veneto ha visto un calo degli investimenti di oltre il 21%, Emilia-Romagna e Toscana del 38-39%, mentre va peggio alla Calabria (-43,6%). Fatto inoltre pari a 100 il dato nazionale, il Veneto nel 2013 ha speso in cultura il 101%, Emilia Romagna e Toscana si sono fermate rispettivamente all’88 e al 96%, la Campania al 58% e Puglia e Calabria hanno superato di poco il 54% del dato nazionale.

Il Sud, secondo la Svimez, subisce una duplice penalizzazione, in quanto alla riduzione della spesa in conto capitale totale si aggiunge quella più marcata per la cultura, che negli ultimi dieci anni risulta pesantemente sacrificata in quanto considerata come voluttuaria, un bene di lusso.
Quello che serve, si legge nella nota, è “non soltanto un maggiore impegno finanziario di tutti, ma altresì una effettiva riconsiderazione e riforma dei meccanismi finanziari e istituzionali”. Considerato che le spese per la cultura “attengono ai livelli essenziali delle prestazioni, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Fonte: La Repubblica

 

10 marzo

 

Sinistra italiana: "I cappellani militari costano allo Stato sei milioni di euro l'anno. Li paghi la Chiesa"

di AGNESE ANANASSO

ROMA - Se i cappellani militari venissero pagati dalla Chiesa invece che dal ministero della Difesa, lo Stato risparmierebbe 6,3 milioni di euro l'anno. È la stima che i deputati di Sinistra italiana hanno riportato nell'interrogazione parlamentare rivolta al ministro delle Finanze e al ministro della Difesa, che ha come primo firmatario Gianni Melilla, per chiedere a che punto sono arrivati gli accordi tra la Difesa e l’Ordinariato militare. "Dal 1984, anno nel quale è stato siglato il nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, manca una revisione dell’intesa sullo status dei cappellani militari" si legge nell'interrogazione. La vecchia intesa, che risale ai Patti Lateranensi del 1929, è stata parzialmente modificata nel 2014, quando è stato raggiunto un accordo tra il ministro della la Difesa e il nuovo ordinario militare, l’arcivescovo monsignor Santo Marcianò, per cui è stato accettato il principio che i cappellani militari rinuncino ai gradi. Infatti nelle forze armate ci sono 173 tra cappellani generali, colonnelli, e capitani. Graduati "armati" solo di tonaca e crocifisso perché il loro ruolo è fornire "assistenza spirituale" ai militari.

20 milioni di euro l'anno complessivi. "Ma questo non vuole dire che non rappresentino un costo per le casse dello Stato, la stima è di una ventina di milioni di euro all’anno" spiegano i deputati . "Nel 2013, ad esempio, al ministero della Difesa la cura spirituale dei militari impegnati in missione è costata quasi 17 milioni di euro, cifra che comprende gli stipendi, le pensioni e il mantenimento degli uffici. Solo questi pesano 2 milioni di euro l’anno". Il cardinale Angelo Bagnasco, vescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, dal 2003 al 2006 è stato comandante dei cappellani, ed è stato automaticamente nominato generale di corpo d’armata (oggi tenente generale), con uno stipendio adeguato al grado. E con una pensione altrettanto "adeguata", anche se lui sostiene di devolverla in beneficienza.

Stipendi e pensioni. I cappellani in attività sono 134 e i loro stipendi, equiparati a quelli dei generali, ammontano a 6 milioni e 300 mila euro. Sul fronte pensionistico nell'interrogazione si fa presente che è possibile fare solo una stima approssimativa perché anche l'Inps non ha ben chiare le somme erogate. L’importo annuo lordo del trattamento pensionistico dei cappellani dovrebbe ammontare a circa 43 mila euro lordi a testa. Considerando che i cappellani che sono andati in pensione negli ultimi 20 anni sono 156 l’importo complessivo è di 6 milioni e 700 mila euro.

I baby pensionati. I cappellani però risultano dei privilegiati rispetto ai dipendenti "normali" e ai militari pari grado perché possono andare in pensione in anticipo e ritrovarsi con una signora pensione: "Il prelato, che ha la stessa busta paga di un generale di brigata in congedo, ha diritto a una pensione fino a 4 mila euro al mese, anche se ha prestato servizio per soli 3 anni, compiuti i 63 anni, età per la quale un generale di brigata si può congedare, avendo maturato il vitalizio" scrivono i deputati di Si.

Fonte: Repubblica

 

L'Italia non è un Paese per donne lavoratrici

La Penisola è sotto la media Ocse in quasi tutte le voci prese in esame, spicca solo l'aumento delle parlamentari. Troppo poche, invece, le quote rosa a livelli dirigenziali. Scarse tutele alla maternità e congedo paternità sconosciuto. L'impegno della ministra Madia: "Il governo sta cambiando rotta"

di GIULIANO BALESTRERI

L'Italia non è un paese per donne. A meno che non decidano di fare le casalinghe a tempo pieno. I dati dell'Istat e dell'Inail che rivelano un aumento della partecipazione al mercato del lavoro (tre milioni in più rispetto a 35 anni fa) mettono anche in evidenza un dato incontrovertibile: una su due non lavora. In Sicilia, addirittura, la partecipazione al lavoro scende al 27%. Le colpe sono diffuse, certo, ma le responsabilità maggiori sono da rintracciare in un sistema Paese che ha sempre cercato di escludere le quote rose. Se da un lato si preferisce l'angelo del focolare alla lavoratrice, dall'altro in Italia le donne raramente vengono messe in condizioni di competere con gli uomini. I dati dell'Oecd (Osce) rielaborati dall'Economist mostrano come l'Italia sia uno dei peggiori paesi per essere una donna lavoratrice. Per arrivare a questo conclusione sono stati considerato diversi parametri, dall'accesso all'educazione superiore alla partecipazione alla forza lavoro, dagli stipendi alla maternità: il giudizio complessivo lascia poco spazio all'interpretazione.

La realtà è che in Italia le donne sono spesso costrette a scegliere tra famiglia e carriera. E nonostante la promesse del governo, la strada resta in salita. Di recente ha preso posizione anche il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, madre di due figli, che ha detto: "Dobbiamo restituire alle donne la semplicità, anche attraverso meno burocrazia. Dobbiamo restituire tempo attraverso la semplificazione, significa restituire alle madri il tempo di stare con i figli. Dobbiamo andare avanti e dare alle donne la possibilità di fare figli anche se non ci sono i nonni. Su questo il governo ha l'ossessione di andare avanti".

Il percorso, però, sarà lungo e complesso. Se sul fronte salariale la distanza tra uomini e donne si sta progressivamente accorciando, il problema vero resta la partecipazione al mercato del lavoro: gli ostacoli burocratici, il ridotto accesso all'istruzione superiore e le deboli tutele sul fronte di maternità e assistenza ai figli collocano l'Italia in fondo alla classifica dell'Ocse. Al livello di Unione europea anche la Grecia fa meglio, mentre non stupisce che ai vertici ci siano sempre i paesi nordici.

La situazione migliora quando si analizza la presenza della donne all'interno dei consigli di amministrazione, anche perché una legge impone che - a partire dal 2015 - un terzo dei membri sia "rosa". Il problema resta, piuttosto, a livello manageriale: le donne vengono promosse meno e con più difficoltà degli uomini. E raramente occupano posizione di rilievo all'interno della struttura aziendale. D'altra parte il minor accesso alla formazioni superiore e le maggiori responsabilità sul fronte della cura dei figli (legate soprattutto alla deresponsabilizzazione degli uomini, a differenza di quanto avviene nei paesi nordici) si trasformano in un handicap.

Il grafico sulle tutele riservate alla maternità, infatti, mostra come l'Italia guadagni qualche posizione, ma resti sotto alla media Ocse.

In Italia il congedo obbligatorio di paternità è stato appena raddoppiato (da uno a due giorni), ma non abbastanza: la Penisola non compare neppure nella gradutoria dell'Ocse. L'Italia è però in buona compagnia, con tante economie avanzate. Eppure sono molti gli studi a spiegare come sia utile il ruolo degli uomini: quando prendono il congedo le donne tendono a tornare più facilmente - e serenamente - sul mercato del lavoro, l'occupazione femminile quindi sale e il salary gap si riduce.

L'Italia supera la media Ocse, invece, come numero di parlamentari donne. Un segnale che mostra una certa inversione di tendenza, ma che rischia di restare una primula rossa, se sul fronte del lavoro non arriverranno correttivi fondamentali e non più rinviabili all'alba del terzo millennio.

 

Il disastro delle ferrovie minori: tangenti e malagestione affossano le società pubbliche

Dalla Puglia fino alla Basilicata e la Lombardia un giro vorticoso di strane assunzioni, consulenze allegre, truffe e spese folli affossano le linee regionali. Perdendo milioni di euro all’anno e migliaia di pendolari

di Michele Sasso

Piccolo non è bello con le ferrovie locali.
Appalti, tangenti, distrazione di fondi pubblici e malagestione affossano le società che gestiscono i binari. Mentre vengono dismesse ogni anno stazioni e linee minori e le autolinee scalzano le carrozze nel trasporto pubblico locale, gli esempi in mano a Ministero e Regioni non invogliano ad investire milioni e puntare con decisione sul ferro per decongestionare le strade.

A cavallo tra Potenza e Bari le ferrovie Appulo Lucane sono finite al centro di uno scandalo di assunzioni e consulenze, sempre in Puglia quelle del Sud Est nonostante 311 milioni di debiti vengono tenute in vita dal Governo e in Lombardia l’ex capo delle Nord ha sperperato 430 mila euro in rimborsi, bollette di cellulari, pay tv e persino scommesse sportive.

Mentre c’è un Italia che viaggia ad alta velocità arrivando a Milano da Roma in meno di tre ore, quello che resta di vecchie linee arranca tra scartamento ridotto, tempi di percorrenza del secolo scorso e littorine alimentate a diesel.

Marco Ponti, professore di Economia al Politecnico di Milano ed ex consulente per i trasporti della Banca Mondiale, non usa mezzi termini: «Queste società sono un incubo, una follia gestionale: nessuno dice che il problema principale che ci sono troppi pochi viaggiatori. La domanda è debole perché le ferrovie hanno bisogno di tantissima gente, ma invece di viaggiare con 80 treni al giorno si accontentano di 20 per tenerle in vita. Ma è antieconomico. C’è poi il paradosso lombardo dove i passaggeri ci sono ma la società Trenord, controllata dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, approfitta del monopolio e ottiene pure il prolungamento della concessione. Il contrario esatto del libero mercato».

LE FERROVIE LUCANE LOTTIZZATE
Le ferrovie Appulo Lucane (Fal) a cavallo tra la Basilicata e la Puglia gestiscono 183 chilometri di linee, hanno 562 dipendenti e servono sedici comuni lungo le tratte che partono da Bari e arrivano a Potenza e Matera, quest’ultima capitale europea della Cultura per il 2019, con una stazione di Trenitalia che aspetta da anni di essere aperta.

Le tratte locali sono un’eredità delle Ferrovie Calabro-Lucane che nei primi del Novecento trasportavano merci e persone snodandosi sul territorio della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Oggi è di proprietà del Ministero delle Infrastrutture con treni ancora a diesel e binari a scartamento ridotto.

La società attuale – Fal srl - secondo i parlamentari del Movimento Cinque stelle, si è trasformata in un "poltronificio" e un pasticcio di consulenze.

«È un piccolo feudo locale con rapporti di amicizia tra vertici dell'azienda con il mondo politico, in particolare con l'ex ministro Raffaele Fitto e con altri parlamentari lucani e pugliesi, soprattutto di area di centrodestra» attacca la deputata grillina Mirella Liuzzi che aggiunge:«La Puglia e la Basilicata ci mettono circa 100 milioni di euro all’anno ma invece di modernizzare una linea ferma al secolo scorso hanno cucito su misura contratti a tempo indeterminato per ex dipendenti del partito o assistenti di alcuni parlamentari di Forza Italia».

Tutto nel campo dei berlusconiani, a partire dal presidente delle Fal Matteo Colamussi che al momento della nomina (nel 2008) era presidente del consiglio comunale di Rutigliano (Bari) e vicesegretario provinciale degli azzurri. Per la nomina del nuovo cda il sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, il lucano Guido Viceconte, inserisce tra i cinque componenti anche il cugino Felice.

C'è poi l'incarico fiduciario per la ristrutturazione della sede barese affidato alla moglie del deputato azzurro Nuccio Altieri. Scelta che il patron Colamussi ha difeso:«Questo tipo di incarichi si chiamano fiduciari non a caso. Bisogna scegliere gente di cui ci si fida. E io ho grande stima professionale della moglie del mio amico Nuccio Altieri. Ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa che non dovevo e che fosse contro la legge».

Tutto il dossier Fal è finito in Procura per verificare anche un’altra storia, quella delle assunzioni di parenti stretti di sindacalisti, scoperta e raccontata per prima dal Quotidiano Italiano di Bari .

AL CENTRO DELLE INCHIESTE
Sempre in Puglia, sono le ferrovie del Sud Est a fagocitare milioni di euro di fondi pubblici. Tra un tourbillon di truffe per acquistare vecchie carrozze e consulenze allegre. Con un bilancio 2014 in rosso per 311 milioni e la metà dei costi di produzione -146 milioni- sborsata per pagare lo stipendio a 1300 dipendenti. Tra questi anche dirigenti che incassano fino a 220mila euro all’anno.

I guai maggiori, però, vengono a galla con l’inchiesta di Firenze che svela il sistema di potere di Ercole Incalza, il potente burocrate arrestato un anno fa con l’accusa di corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione.

Dalla Toscana una pista arriva fino in Puglia dove l’ipotesi che le consulenze delle Ferrovie del Sud Est si trasformassero, almeno in parte, in tangenti destinate propio al potente factotum del Ministero delle Infrastutture e al suo collaboratore Sandro Pacella.

Agli arresti sono finiti Salvatore Adorisio e Angelantonio Pica, presidente e amministratore delegato della Green Field System, uno studio di progettazione specializzato in trasporti che tra il 2006 e il 2014 ha ottenuto consulenze dall’azienda pugliese per 2,4 milioni. Sarebbe questo «il canale» secondo i magistrati fiorentini, «tramite il quale grosse somme di denaro sono transitate dalle Ferrovie del Sud Est» verso Incalza e Pacella, che avrebbero intascato circa 700mila euro.

Non è però l’unico scandalo che prende di mira il malaffare made in Puglia. Il 1 dicembre scorso la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone e per la società Ferrovie Sud Est nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte truffe. Tra gli altri, rischia il processo anche l’ex amministratore unico Luigi Fiorillo.

Al centro delle indagini l’acquisto di 27 vagoni nuovi dalla società polacca Pesa, pagandoli 93 milioni di euro grazie ad un finanziamento regionale. Secondo la Procura sarebbero stati inclusi nel costo 12 milioni di euro di provvigioni sulle vendite pagati da Pesa alla società Varsa.

Ma il "capolavoro" di spreco riguarda la seconda vicenda: nel 2006 l’azienda ha comprato in Germania 25 carrozze usate a 37.500 euro l’una per poi rivenderle a 280mila euro ciascuna alla Varsa. Che le ha ristrutturate e spedite sulle linee pugliesi per 900mila euro l’una.

Dopo queste spese milionari arriva un’amara constatazione finale: le caratteristiche tecniche di molte carrozze non sono adeguate alle linee delle Sud Est, così dal 2009 i mezzi sono rimasti fermi.

Nonostante questa serie di affari sporchi svelati dalla Magistratura c’è stato un’ultima chance di riportarla a galla. Lo scorso gennaio il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha nominato una squadra di commissari per scrivere un piano industriale per il risanamento e la riduzione dei costi di funzionamento. Perché con la legge di stabilità di fine anno sono arrivati 70 milioni di euro per «garantire la continuità aziendale e ripristinarne l'equilibrio economico e finanziario».

LA BELLA VITA DEL RAMPOLLO DELLE NORD
Non è solo una questione meridionale. Carte di credito, alberghi, l’uso di auto con carburanti e telepass, arredi ed elettronica, bollette di telefoni cellulari, pay tv e persino scommesse sportive: è l’elenco delle spese allegre che sono costate la poltrona di presidente della società Ferrovie Nord Milano a Norberto Achille.

Un utilizzo a fini personali (soprattutto da parte dei due figli) di benefit aziendali legati alla sua carica al vertice della società per azioni che fattura 300 milioni l’anno con 4.000 dipendenti e che in Lombardia fa viaggiare ogni giorno 700 mila persone.

Achille, presidente e legale rappresentante della holding partecipata da Regione Lombardia e Ferrovie dello Stato, è stato prima interdetto per 6 mesi dall’incarico e poi è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per la distrazione di circa 430mila euro di fondi pubblici.

Una storia di sperperi e lussi con al centro il figlio di Achille, il 35enne Marco. Una vita segnata dall’amore per gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui - come raccontato da l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre.

Per il rampollo del manager pubblico che passava dalle feste al business immobiliare nel curriculum c’è anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro.

 

8 marzo

 

Operai, postini, professori, camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher

Eliminati i co.co.co., oggi il precariato passa attraverso i “buoni” a sette euro e mezzo l’ora. Che ormai dilagano, creando una nuova classe sociale. Le storie di chi sbarca il lunario in questo modo

di Fabrizio Gatti

Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza.

Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza.

È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio.

Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere.

Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015: 115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi.

Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche.

 

Un miliardo di stipendi coi voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti

Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori

La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati, esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa.

Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti.

La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti.

La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero.
L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi.

Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero.

 

Nel 2015 più di 71 milioni di voucher-lavoro Cgil: "Anziché combattere il nero, lo creano"

Superato ogni record per i buoni-pagamento da 10 euro l'ora. Inventati per i lavoretti da giardino o le ripetizioni. Sono diventati uno strumento universale. Dai risvolti anomali. Come scoperto dalla stessa Inps negli alberghi di Jesolo. E come raccontano molti casi. Le ragioni del boom

UN ALIBI PER EVITARE GUAI
Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente al lavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.

Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta.

Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più».

 

Io schiavo in Puglia

Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di botte. Diario di sette giorni nell'inferno. Tra i braccianti stranieri nella provincia di Foggia

Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo».

EDUCATORE E FATTORINO

Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail. E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine.
Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro».

Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita».

 

Voucher, zona grigia: molti abusi, niente diritti

Margini sempre più ampli. Lavori "standard" che diventano "prestazioni occasionali". Così il Jobs Act ha contributo al boom dei buoni lavoro

SE NON SAI PIÙ CHI SEI

Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher».
Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo è indifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile.

Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica».

 

Voucher: braccia comprate dal tabaccaio

Come funzionano i buoni lavoro: chi li può acquistare, quali sono i limiti, come si acquistano e incassano

L’identità di Andrea P., parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti.

Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono».

 

Un posto solo per 4.800 candidati e il popolo dei concorsi si mette in fila

Il caso. Un'unità sanitaria di Verona affitta il palazzetto dello sport e sborsa ottomila euro per la gara, ma l'introito delle iscrizioni copre tre volte il costo dell'iniziativa

dal nostro inviato MASSIMO PISA

Un posto solo per 4.800 candidati e il popolo dei concorsi si mette in filaUn'immagine del palazzetto dello sport durante il concorso VERONA - Com'è andata? "Su trenta domande, tredici erano di storia o di diritto. Roba che, poi, sai quanto ti serve quando sei in corsia?". Appoggiato allo sportello della sua Panda azzurra, Matteo addenta l'enorme panino che si è portato epr pranzo: "Per risparmiare". Jennifer, la sua fidanzata viareggina, annuisce: "Sì, era difficile". E ora, dopo due ore e mezzo di coda e tre quarti d'ora per compilare il questionario, sono pronti a tornare a Livorno e aspettare il 7 marzo, giorno dei risultati della preselezione. In palio c'è un posto da "collaboratore professionale sanitario", un'assunzione a tempo indeterminato da infermiere all'Ulss 20 di Verona. I seicento che passeranno dovranno affrontare il muro della prova scritta, della pratica, dell'orale. Se non sei quell'uno su 1.253 che ce la fa, riprovare, altrove.

Al casting della sanità non si canta, non ci si esibisce. Si spera. Dovevano essere 4.800 i candidati e per questo era stato affittato il PalaOlimpia, dove si allenano e giocano la Bluvolley e la Scaligera Basket a due passi dal Bentegodi, ma oltre trecento domande non avevano la documentazione necessaria. Dei 4.493 che hanno versato i 5 euro per provare il concorso, se ne sono presentati un quarto. "Forse - sospira la dottoressa Laura Bonato, dirigente amministrativa dell'Ulss che coordina la prova - perché gli altri nel frattempo hanno trovato lavoro". C'erano anche Matteo e Jennifer tra i forzati dei questionari e la loro è una traiettoria non banale. Dieci mesi fa erano emigrati a Colchester, Inghilterra. Assunti. Tempo indeterminato. "Reparto emergenza e urgenza - racconta Matteo, 25 anni, uno in più della sua ragazza - come il mio master, dopo un colloquio via Skype. Ci presentammo in sessanta, anche ragazzi bulgari e spagnoli, ci presero tutti. Turni da 12 ore, tre giorni a settimana, 1.750 sterline al mese. Ma non è il massimo". E infatti Jennifer, dopo sei mesi, è tornata. "Perché sono italiana - confessa - sto bene qui e alla mia età ci si prova ancora a stare a casa". Lavora nel privato, a Pisa, a chiamata, a 700 euro al mese. Ha fatto concorsi ad Asti, a Brescia, a Trieste. "Ma altri sono già al ventesimo. Siamo sempre gli stessi".

E si ritrovano al parcheggio, si salutano, ripassano gli ultimi appunti mentre ai banchetti dentro al palazzo si formano le prime file per il controllo della carta d'identità, la consegna dello smartphone dentro una busta bianca sigillata e l'ingresso sulle tribune. Erano al Politecnico di Milano lo scorso aprile, 13mila domande per 25 posti al Niguarda. Sono stati a Trieste e a Parma, a Torino e a Sondrio, a Modena e a Garbagnate Milanese. A far che? "A provare a farti un futuro, perché da precaria non ti compri nemmeno la macchina", allarga le braccia Enza, foggiana, ancora per un mese in clinica privata, poi chissà. "L'importante è entrare in graduatoria, poi per tornare giù c'è tempo", pianifica Valeria, 24enne abruzzese con due mesi residui di contratto all'Asl di Teramo. "Tanto poi le graduatorie scorrono", aggiunge la barlettana Fabiana, precaria a Modena. "Io, in realtà, avevo pensato alla Germania, dove però gli infermieri hanno una mansione più bassa", calcola Mara, brindisina part-time in Friuli. "Si spera, e un po' si perde tempo, perché i laureati aumentano e non vengono assorbiti", riassume Ivan, livornese finito a San Daniele del Friuli grazie a un avviso. Intanto girano l'Italia, sempre a proprie spese. "Una volta - ricorda Luigi, siciliano di Ravanusa ma laureato a Novara - misero una prova al venerdì di Pasqua. Il biglietto aereo costava 450 euro. Ma che fai, non vai? Muoviamo un'economia".

I conti, a Verona, sorridono all'Ulss. "L'affitto del palazzo - elenca la dottoressa Bonato - veniva 1.800 euro: alla Fiera ne chiedevano 20mila". Altri 400 tra vigili del fuoco, la quota per l'impresa di pulizie, la spesa maggiore non supera i 5mila euro per la società che fornisce i test e il totale sta sotto gli 8mila. Il monte delle iscrizioni lo copre per tre volte.

Disposti in fila con un seggiolino di distanza l'uno dall'altro, i 1.253 candidati aprono le buste al via delle commissione, ore 12.08 e scatta il cronometro. Fuori dai finestroni, a guardare per i 45 minuti della prova, restano i parenti. Stefano ha cinque mesi, mamma Angela l'ha portato su da Perugia con papà Claudio che lo regge in braccio mentre il pupo gioca con le chiavi di plastica: "Lui è al suo primo concorso, noi al quinto". Il signor Massimo, 49 anni, ha accompagnato su da Lodi la sua Ilaria. Infermiere lui, la moglie, e ora la figlia, per ora a partita iva: "Ci si alza alle 5 e si parte". Francesco, 65enne bidello di Latina, trascina un trolley sulle scale del PalaOlimpia e si siede: "Non li contiamo più i concorsi col mio Alessandro. Stavolta avevo anch'io un giorno libero e abbiamo preso l'albergo. Qualcosa, per questi ragazzi, bisogna pur trovare". Il suo ragazzo un concorso l'aveva vinto, a Castelfranco Veneto, ma dopo due anni e a 27 di età Alessandro si è ritrovato per strada.
"Sta a casa. E dove deve andare?". È l'una, operazioni di consegna completate, nonno Gaetano aspetta la sua Agnese. Ha 75 anni, arriva da Bondeno, nel ferrarese. "Un'ora e mezza di macchina e siamo a casa. Facevo il camionista, sa, queste strade le conosco bene".

Fonte: La Repubblica

 

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