Archivio dicembre 2006

29 dicembre
 

Somalia - 29.12.2006

Mogadiscio, la roulette somala

Tante ancora le incognite all’indomani della presa della città
“La situazione a Mogadiscio è leggermente migliorata, ma la città è ancora preda delle violenze – riferisce telefonicamente a PeaceReporter il giornalista somalo Abukar Albadri -. I miliziani che hanno preso il controllo delle strade continuano a saccheggiare impunemente negozi e abitazioni. E il governo dovrà trattare con questi soggetti”. Le parole di Albadri dipingono alla perfezione le sfide che le istituzioni somale dovranno affrontare nelle prossime settimane. Tra queste, l’assistenza umanitaria alle migliaia di civili sfollati dagli scontri dell’ultima settimana.
 
Truppe etiopi entrano a MogadiscioIncognite. “Tutto dipende dal governo – prosegue il nostro interlocutore - Se le istituzioni riusciranno a mettere in sicurezza la capitale otterranno anche il supporto della popolazione. Ma se falliranno, le milizie che ora spadroneggiano in città avranno la possibilità di reclutare nuovi contingenti e di tornare più forti di prima”. Il governo al momento sta trattando con i capiclan e progetta di imporre entro sabato la legge marziale. Le truppe somalo-etiopi hanno occupato l’ex-ambasciata americana, ma per ora mantengono un basso profilo: “si limitano a controllare porti, aeroporti e le strade di accesso alla capitale – conferma Albadri – ma per il resto sono le milizie a comandare”. Anche per questo il governo ha disperatamente bisogno dell’aiuto dei contingenti etiopi, che con il decisivo apporto dell’aviazione hanno spazzato via la blanda resistenza delle Corti islamiche. E sono in molti a chiedersi cosa succederà una volta che gli etiopi dovessero lasciare la Somalia. “Proprio per questo, qui a Mogadiscio, nessuno crede alle parole del premier etiope Zenawi, che ha promesso di ritirare i soldati entro poche settimane. Sono qui per rimanerci a lungo” rivela Albadri.
 
Assistenza. Le Corti rimangono asserragliate nella città meridionale di Kismayo, a circa 500 km da Mogadiscio, favorite dalle recenti alluvioni, che rendono difficile un’offensiva contro le tre regioni dove le formazioni islamiche sono ancora presenti. Per questo motivo una delegazione delle Corti ha raggiunto Nairobi per incontrare i mediatori internazionali e vedere se ci sono prospettive per una ripresa delle trattative di pace. Trattative da cui dipenderà anche l’assistenza alla popolazione civile, duramente provata da otto giorni di scontri che hanno provocato centinaia di vittime, almeno 800 feriti e migliaia di sfollati. Oggi intanto le Nazioni Unite hanno ripreso i voli umanitari, dopo che il governo ha riaperto lo spazio aereo nazionale.
 
Soldati governativi presso BaidoaDiplomazia. A livello diplomatico, le cose non vanno molto meglio: l’Unione Africana ha adottato una posizione ferma nei confronti di Addis Abeba, chiedendo l’immediato ritiro dei contingenti armati. Ma da questo orecchio l’Etiopia non ci sente: per il premier Meles Zenawi stabilizzare il governo amico somalo è troppo importante, soprattutto dopo che il Paese si è messo in gioco partecipando attivamente alla guerra contro le Corti. Tutto tace invece nel Palazzo di Vetro dell’Onu, il cui Consiglio di Sicurezza mercoledì non è riuscito, per la seconda volta, a raggiungere un accordo su una risoluzione concernente la Somalia. Colpa delle divisioni tra il Qatar, che ha proposto una bozza che chiedeva esplicitamente il ritiro degli etiopi, e gli altri Paesi, che preferiscono un testo meno “diretto”. “L’ennesima dimostrazione che per la comunità internazionale contiamo zero – commenta amaramente a PeaceReporter lo scrittore Mohammed Abdinoor - L’Occidente si mobilita per finte emergenze come l’influenza aviaria, ma non fa nulla per risolvere una crisi che dura da 15 anni e che ha ucciso più di mezzo milione di persone”. 

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.52 - 2006 dal 21/12 al 27/12

Combattenti somaliSomalia.
Il 26 dicembre, il governo etiope ha dichiarato di aver ucciso almeno 1.000 guerriglieri delle Corti islamiche negli scontri in corso da una settimana nel Paese. Il bilancio non è stato confermato da alcuna fonte indipendente.
 
Rep. De. Congo.
Il 27 dicembre scontri avvenuti a nord della città di Goma, nella regione del Kivu, tra l'esercito congolese e i ribelli guidati dal generale Laurent Nkunda, hanno provocato 18 morti, tutti tra i ribelli. Lo riferiscono fonti delle Nazioni Unite nel Paese.
 
Sudan.
Il 24 dicembre scontri avvenuti tra l'esercito sudanese e i guerriglieri darfurini nella città di Kutum, nel nord della regione del Darfur, hanno provocato 7 morti. I ribelli hanno fatto inoltre sapere di aver abbattuto due elicotteri dell’esercito, uccidendo 4 militari, ma l'esecutivo di Karthoum non ha confermato la notizia.
 
Cecenia e Nord Caucaso.
Il 21 dicembre nel distretto ceceno di Achkoi-Martan 2 civili sono stati uccisi dal fuoco di un elicottero militare russo.
Il 22 in Inguscezia un civile è stato travolto e ucciso da un blindato russo.
Il 23 in Caracievo-Circassia un ufficiale di polizia è stato ucciso in un agguato.
Il 25 la reazione russa: le forze speciali russe hanno circondato un casa a Cherkessk uccidendo 2 ribelli.
 
Pakistan.
Il 22 dicembre un ufficiale di polizia è stato ucciso in un agguato nei pressi di Miranshah, in Nord Waziristam. E’ il primo attacco del genere dopo il cessate il fuoco di inizio settembre.
Il 26 un’autobomba è esplosa all’aeroporto di Peshawar, uccidendo un civile.
 
Soldati indiani in KashmirKashmir.
Il 23 almeno 2 ribelli e 3 soldati indiani sono morti in uno scontro a fuoco a nord di Srinagar.
Il 24 nel distretto di Sopore 2 guerriglieri sono stati uccisi dall’esercito indiano.
Due bambini sono morti saltando su una mina nel distretto di Poonch.
Il 26 nella zona di Pulwama un soldato indiano e un civile ostaggio dei militari sono stati uccisi in un agguato dei guerriglieri.
Il 27 nella zona di Doda 2 ribelli sono morti in uno scontro a fuoco con i militari indiani.
In un villaggio della stessa zona l’uccisione di un civile che era stato arrestato dai militari indiani ha scatenato una dura protesta popolare: i militari indiani hanno aperto il fuoco sul corteo uccidendo un manifestante.
Nel distretto di Baramulla i guerriglieri hanno ucciso un loro ex-compagno.
 
Sri Lanka.
Il 25 nel nord dell’isola almeno 5 ribelli tamil e 4 soldati sono morti nel corso di violenti scontri.
Il 26 un poliziotto è morto per l’esplosione di una bomba bel distretto di Vavuniya.
Il 27 nella zona di Jaffna 2 ribelli delle Tigri tamil sono stati uccisi in combattimento dall’esercito. Nella stessa area un poliziotto è stato ucciso da una bomba.
Nella zona di Batticaloa un soldato è stato ucciso in un agguato e un ribelle nello scontro a fuoco che ne è seguito.
 
Soldati dell'esercito filippinoFilippine.
Il 21 dicembre un giornalista radiofonico è stato pugnalato a morte nella provincia di Ilocos Norte, nel nord delle Filippine.
Il 22, 2 agenti dei servizi di intelligence militare filippini sono stati uccisi in pieno centro a Manila.
Il 24 un civile è morto e un altro è rimasto ferito in un attacco dei ribelli comunisti del Nuovo Esercito del Popolo nella provincia di Batangas, nel sud dell’isola di Luzon.
 
Thailandia.
Il 22 dicembre un’insegnante è stata uccisa da un sospetto militante islamico nella provincia meridionale di Pattani
Il 24, 2 persone sono morte (un militare e un civile) in due diversi attacchi dei militanti islamici nella provincia di Pattani, nel sud della Thailandia a maggioranza musulmana.
Il 27, 3 civili (2 musulmani e un buddista) sono morti in diversi attentati di sospetti militanti islamici nella provincia di Pattani, nei quali è stata data alle fiamme una scuola elementare.
 
Nepal.
Il 26 dicembre un uomo è stato ucciso e alcune decine sono rimasti feriti in scontri tra gruppi rivali a Nepalgunj, 320 km a ovest di Kathmandu.
 
Colombia.
Il 23 dicembre nella provincia di Meta 15 soldati dell’esercito governativo sono morti in un’imboscata dei guerriglieri delle Farc nei pressi di La Julia, poco a sud della capitale Bogotà.


18 dicembre

 

La legge del colpo di spugna

Al via il processo contro i paramilitari che hanno scelto di deporre le armi

I paramilitari dell’Autodifesa unita della Colombia – formazione illegale di estrema destra che da decenni mette a ferro e fuoco il paese nella sua guerra contro Farc ed Eln - che hanno deciso di deporre le armi e aderire all’appello del governo, lanciato con la legge Giustizia e Pace di un anno e mezzo fa, hanno cominciato a sfilare davanti alla giustizia per confessare i propri crimini e iniziare a pagare una riparazione ai parenti delle vittime.
Si tratta di un processo senza precedenti, nonostante la reticenza di molti, l'assenza di alcuni dei leader e le critiche di  molti analisti, che da sempre vedono con sospetto l’intera manovra promossa dal presidente Alvaro Uribe. Il dubbio è che la smobilitazione altro non sia che un pretesto per lasciare impuniti i colpevoli di crimini di guerra e lesa umanità, ripulire loro la fedina penale e farli rientrare dalla porta principale con un colpo di spugna.
 
Vittime disperatePer molti ma non per tutti. Per 2700 paramilitari, sui trentamila circa che compongono le Auc, si è comunque aperto un procedimento che farà luce sulla vera natura della politica del presidente. E' il momento della verità: il modo nel quale si svolgeranno le udienze e le relative sentenze faranno chiarezza sulla tanto criticata smobilitazione. Intanto, lascia pensare il fatto che pochi giorni fa un decreto governativo abbia stabilito l’indulto per tutti coloro che non saranno dichiarati colpevoli di crimini contro l’umanità e che hanno deposto le armi prima che la Corte Costituzionale dichiarasse incostituzionale l’articolo della Legge Giustizia e Pace che sminuisce a delitto politico il paramilitarismo.
 
Paramilitari che consegnano le armiIl primo di tanti. Il primo paramilitare a presentarsi davanti ai giudici è stato Willson Salazar Carrascal, alias 'El Loro', 32 anni, accusato di essere a capo dei 50 paras che il 29 dicembre 2000 entrarono in due quartieri popolari di El Carmen de Bolivar, uccisero quattro persone e ne fecero sparire una quinta. Ad accusarlo due testimoni oculari, che si salvarono dalla mattanza nascondendosi in due cisterne piene d’acqua.
‘El Loro’ si è presentato con sei ore di ritardo e ha raccontato la sua versione in una stanza differente dall’aula dove sedevano le vittime, separate da undici piani e da decine di soldati armati fino ai denti. A collegarli, telecamere a circuito chiuso. Una precauzione che non vede d’accordo molti difensori delle vittime, che vorrebbero dare la possibilità ai loro assistiti di guardare in faccia il carnefice mentre esercitano il diritto loro concesso di porgli tutte le domande che vogliono.
 
Paramilitare delle AucMinacce e intrighi. Tanti i dubbi, dunque, primo fra tutti la solidità delle prove in mano alle procure. I paramilitari accusati sono obbligati a confessare tutta la verità: se la procura ha le prove di fatti poi non dichiarati dall’imputato, questi perde ogni beneficio garantito dalla speciale legge. E si tratta di benefici realmente tali, come pene scontatissime: otto anni per delitti che ne prevedrebbero 40. La paura, però, è che i paras siano preventivamente a conoscenza delle prove in mano ai giudici e che quindi si regolino di conseguenza, a discapito della verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. E dato che la riparazione sarà solo in proporzione alla colpa provata, la gente che ha subito vessazioni di ogni genere da queste bande armate non spera certo di ottenere granché.
Il tutto è reso ancor più torbido dalle minacce, le sparizioni e gli omicidi di testimoni chiave. La Commissione per la riparazione, la cui missione è proteggere le vedove, gli orfani e gli sfollati per mano delle Auc, ha denunciato già molti casi, improntati a chiudere la bocca a chi ha deciso di deporre.
 
Situazione complessa, dunque, che peggiora non appena si tenta di contestualizzarla: il paese è sconvolto da uno dei peggiori scandali degli ultimi anni. Sono stati ventilati a più riprese vincoli molto stretti fra politici e paramilitari, infiltrati in molte istituzioni statali. È di questa settimana la comparizione davanti alla Corte Suprema e alla Procura di deputati ed ex funzionari del governo di Alvaro Uribe, accusati di collisione con le Auc. Per il momento, sono stati arrestati in tre.
 
La guerra continua. E intanto lo Stato Maggiore del Fronte 53 delle Farc-Ep fa sapere che alcuni suoi commandos hanno abbattuto i tre tralicci elettrici nei villaggi Algodones de Gachalá e San Antonio de Medina, nel dipartimento di Cundinamarca, generando un black out estesosi in vari dipartimenti e in una buona parte della capitale. Un segno, l’ennesimo assieme ai morti che si contano ogni settimana, di un conflitto interno ben lontano dall’essersi attenuato.

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.50- 2006 dal 7/12 al 13/12

Nigeria.
Il 7, uomini armati hanno attaccato una stazione di pompaggio dell'Agip nello stato di Bayelsa, nel delta del Niger, sequestrando tre lavoratori italiani e due stranieri e uccidendo 2 persone.
Il 9, almeno 7 persone sono morte in una serie di scontri tra sostenitori di candidati rivali alle prossime elezioni avvenuti nella città di Aliade, nello stato nigeriano di Benue.
 
Sudan.
Il 20, almeno 20 civili sono stati uccisi in un attacco delle milizie Janjaweed presso il villaggio di Nirba in Darfur. Almeno 200 mila persone sono morte in Darfur negli ultimi 3 anni.
 
Somalia.
Il 9, violenti scontri sono scoppiati tra truppe governative appoggiate da militari etiopi e le milizie delle Corti islamiche nei pressi del villaggio di Maddoy, a sud di Baidoa. I morti sono stati almeno 30. La Somalia sta faticosamente tentando di uscire da una guerra civile che in 15 anni ha provocato mezzo milione di morti.
 
Cecenia e Caucaso.
Il 7, un soldato russo è morto e altri sette sono rimasti feriti nell'esplosione di un ordigno al passaggio del loro convoglio nella periferia della capitale cecena Grozny.
L'8, un militare è stato ucciso da un ordigno radiocomandato nel distretto meridionale ceceno di Vedenò. In Daghestan è stato ritrovato il cadavere di un giudice, ucciso a colpi di arma da fuoco, nella capitale provinciale Makhachkala.
L'11, in Inguscezia, una guardia di frontiera ha disertato e ucciso un tassista mentre cercava di lasciare il Paese.
Il 12 un militare si è suicidato nella capitale cecena Grozny.
 
Israele e Palestina.
L’11, nel rione Rimal di Gaza City, uncommando ha assassinato i tre figli e l’autista di un responsabile dei servizi di sicurezza del Fatah.
Il 13, a Khan Younis, nella Striscia di Gaza, un commando ha ucciso un giudice civile palestinese affiliato ad Hamas.
 
Algeria.
Il 10, in un attentato rivendicato dal Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, è stato ucciso l’autista di un pulmino che trasportava impiegati di una azienda petrolifera, nel quartiere di Bouchaoui ad Algeri.
 
Sri Lanka.
Il 5, 16 guerriglieri e 3 militari singalesi sono morti in una battaglia avvenuta nella regione di Vaharai, nel distretto di Batticaloa.
Il 9, 19 sfollati che stavano fuggendo da un bombardamento a Palchebau e Vammivedduvan, nella regione di Vahrai, sono stati uccisi, mentre 25 di loro sono rimasti feriti.
Il 10, 64 guerriglieri delle Tigri Tamil sono stati uccisi dai militari singalesi nelle regioni orientali del Paese. Secondo il movimento indipendentista, invece, avrebbero perso la vita 30 soldati, 15 civili e 7 miliziani.
 
Kashmir indiano.
Il 6 l'esercito indiano ha ucciso una persona che cercava di attraversare la linea di controllo che separa tra India e Pakistan, nel distretto di Rajouri.
Il 9 due soldati e un civile sono morti dopo uno scontro a fuoco in un remoto villaggio nel distretto di Poonch, a sud di Srinagar, capitale estiva del Kashmir indiano.
L'11 due guerriglieri mujaheddin sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nel distretto meridionale di Pulwama. Nello stesso giorno un soldato indiano si è suicidato impiccandosi in un'accampamento poco fuori la capitale invernale del Kashmir indiano, Jammu.

Thailandia.
Il 13, sospetti ribelli hanno ucciso due cittadini di Yala, nell'omonima provincia meridionale della Thailandia. Entrambi sono stati freddati da uomini armati in motocicletta.

 

Lunghe operazioni sul Monte Antelao

Discarica amianto sulle Dolomiti

dolomitiLa Gdf di Cortina d'Ampezzo ha scoperto e rimosso quasi due tonnellate di rifiuti smaltiti illegalmente. I pannelli della fibra killer provengono dalle villette di un villaggio turistico
 

La Guardia di Finanza di Cortina d'Ampezzo e di Bolzano ha in corso indagini per risalire ai responsabili dell'accumulo di una ingente quantità di materiale di rifiuti scoperto nel corso di normali accertamenti aerei in un'area meridionale del gruppo del Monte Antelao. Nella discarica abusiva sono state ritrovate migliaia di chilogrammi di rifiuti di varia natura, tra cui 1.740 kg di composti di amianto, oltre ad apparecchiature e strumenti elettrici in disuso e materiale proveniente da cantieri edili. Lo smaltimento di tali rifiuti, non essendo stato possibile individuare presunti responsabili, è stato affidato alla società proprietaria dell'area sequestrata, di superficie pari a circa 14 ettari. Particolare attenzione, è stato spiegato oggi, viene rivolta alla rimozione dell'amianto, le cui fibre, se inalate, rappresentano un serio pericolo per la salute umana. Per questa ragione il materiale, prima del trasferimento, è stato opportunamente coibentato. Sul fatto indaga la Procura della Repubblica di Belluno.

Le operazioni di rimozione del materiale accatastato sulle pendici del monte Antelao si sarebbero protratte, dopo la scoperta, per alcune settimane sotto il controllo costante dei tecnici dell'Arpav. Ora, assicurano comunque fonti della Guardia di Finanza, dal sito sarebbe già stato rimosso qualsiasi materiale tale da indurre possibili rischi ambientali e per la salute dei residenti. Oltre all'amianto, per il cui asporto si è reso necessario l'utilizzo di uno speciale materiale fissante finalizzato ad impedire la dispersione di microparticelle durante il trasferimento, gli operatori avrebbero prestato la massima attenzione all'olio contenuto in vari trasformatori elettrici, in particolare per la sua componente di policlorobifenili (Pcb).

L'amianto, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato il materiale con il quale sono state realizzate delle speciali piastrelle isolanti utilizzate all'interno delle villette di un villaggio costruito in zona negli anni '60. In molte abitazioni non ancora ristrutturate sarebbero infatti ancora al loro posto pannelli simili a quelli sequestrati. A staccarli dalle pareti ed a trasportarli nella vicina area di una ex colonia, dove poi sono stati scoperti, a poche centinaia di metri dal centro abitato di Borca di Cadore (Belluno), sarebbero state una o più aziende incaricate della ristrutturazione delle villette acquistate da privati. Il villaggio apparterrebbe ancora in larga misura ad una società immobiliare di Cagliari, la quale si è accollata l'onere per la rimozione dei rifiuti abusivi trovati nella sua proprietà.

 

15 dicembre

 

Vieques, popolazione in pericolo

Puerto Rico, dopo anni di manovre militari statunitensi la popolazione di Vieques è in grave pericolo

Quattro esplosioni, quattro piccole scosse del terreno e una nube di fumo tanto grande da farsi notare a molte miglia distanza (e così inquinante da mettere paura). Questa era l’isola di Vieques venerdì scorso quando sono state fatte brillare quattro bombe rimaste inesplose durante le manovre militari statunitensi degli ultimi 50 anni.
 
Le proteste dei portorican che non volevano i soldati Usa a ViequesI fatti. Il Comitè Pro Rescate y Desarrollo de Vieques e la Secreteria de Salud, dopo mesi di petizioni da parte della popolazione si sono riuniti per cercare di trovare soluzioni utili al problema dell’inquinamento ambientale che minaccia la popolazione dell’isola e per alleviare la profonda crisi sanitaria che si vive a Vieques. Il problema che affligge quest’isola a poche miglia dalle coste di Puerto Rico, è conosciuto da diverso tempo: le esercitazioni militari delle forze armate statunitensi hanno prodotto nell’area una contaminazione senza precedenti. E non sono solo le specie animali a subirne gli effetti peggiori.
 
Una barca usata dai soldati Usa durante le manovreI colloqui. La riunione fa parte di una campagna del Comitè Pro Rescate y Desarrollo de Vieques per far prendere coscienza al popolo di Puerto Rico sulla continua lotta per la pace a Vieques. Non solo. La campagna del Comitè è anche, secondo quanto affermato dai suoi rappresentanti, l’occasione per denunciare il governo dell’isola e la Marina Militare per aver violato il diritto del popolo portoricano a vivere in pace e in un ambiente pulito e con un trattamento di salute adeguato”
La popolazione civile che vive a Vieques, secondo una statistica pubblicata la scorsa settimana è soggetta a maggiori rischi, rispetto al resto dei portoricani, di contrarre malattie cardiache, il diabete, l’ipertensione e, purtroppo, diverse forme di tumore.
I dati analizzati dal Comitè Pro Rescate y Desarrollo de Vieques  hanno di fatto dimostrato che esiste correlazione fra l’impennata dei casi clinici gravi e la contaminazione ambientale derivata dalla manovre militari.
 
Scene di scherno nei confronti dei soldati UsaA Vieques. “Le nostre famiglie hanno dovuto convivere con questa situazione e hanno sofferto per l’alto tasso di mortalità che investe Vieques” racconta Myrna Pagan, della commissione salute del  Comitè Pro Rescate y Desarrollo de Vieques. “I nostri governi non sono stati sufficientemente attivi nel trovare rimedi efficaci all’inquinamento ambientale prodotto dai soldati e, anche oggi all’interno delle istituzioni della sanità pubblica alcune persone fanno notare il loro disinteresse per la situazione.
“Vieques vive in una situazione di grave crisi sanitaria” racconta Robert Rabin, presidente del Comitè Pro Rescate y Desarrollo de Vieques. “La Marina militare degli Stati Uniti durante le sue esercitazioni sul nostro territorio ha prodotto tanti rifiuti tossici che nel corso del tempo sono stati la maggiore causa delle malattie, come il cancro, presenti a Vieques” ha aggiunto Rabin. Ma il presidente del Comitè non si ferma a questa analisi e continua il suo racconto: “Oltre a quello che vi ho appena elencato c’è un altro grande problema: l’abbandono totale dei viequensi da parte dello stato, in particolar modo del dipartimento della Sanità. E’ inutile e quasi impossibile nascondere che queste malattie non possono essere curate adeguatamente se a Vieques non ci sono ospedali moderni e ben attrezzati in grado di fare analisi approfondite. Ad esempio – continua Rabin – abbiamo la necessità di avere un piccolo centro diagnostico, che qui non esiste. Non esiste la possibilità di fare raggi x e nemmeno il servizio di farmacia. Chi deve curarsi lo deve fare spostandosi nell’isola maggiore”. Rabin conclude: “Il governo non ha adottato misure utili alla correzione della crisi”.
 

Giornalista picchiato a sangue perché testimone contro gli aguzzini della dittatura

Il giornalista argentino Carlos Lozada, che ha testominato nel procedimento che investiga sull'esistenza di un centro clandestino di detenzione, attivo durante la dittatura, ha denunciato di essere stato picchiato da due uomini, nei pressi di una zona militare di Buenos Aires. Lozada ha dichiarato di essere stato avvicinato sabato mattina da due persone, che lo hanno picchiato senza pietà, con pugni e calci. Gli sconosciuti non hanno rubato niente, perciò il giornalista pensa di essere stato vittima di una rappresaglia per essersi presentato quale testimone contro gli ex repressori della "Polaca". Si tratta di un centro di detenzione eretto a Paso de los libres, una località argentina a 715 chilometri da Buenos Aires, sulla frontiera con Uruguay e Brasile.

 

Multa per chi indossa abiti provocanti: così il governo di Kelantan tenta di salvaguardare la moralità

Vuoi essere sexy? Allora paga

Nello stato di Kelantan minigonne, magliette e pantaloni attillati non saranno più alla portata d’ogni donna. Sfoggiarli in pubblico costerà ben 150 euro. Il consiglio comunale di Kota Bahru, la capitale del Kelantan, ha infatti deciso di sanzionare con una multa di cinquemila ringgit, pari a 150 euro, le commesse e le cameriere che decideranno di indossare mise provocanti. Il provvedimento impone alle donne musulmane vestiti alle ginocchia e il tudung, il tradizionale velo islamico, su capelli e fronte; alle non islamiche, l’ombelico coperto e il divieto di scollature o di abiti che esaltino la forma delle natiche.

Il ministro Nik Abdul Aziz Nik MatRe virtù. “La moralità femminile, come il denaro, è una cosa preziosa, e va salvaguardata”: con quest’affermazione il ministro Nik Abdul Aziz Nik Mat ha motivato la delibera del consiglio comunale di Kota Bahru. Nik Aziz è la guida spirituale del partito d’opposizione malese Pas (Islamic Party of Malaysia) e il ministro del Kelantan. La sua figura è conosciuta, apprezzata e insieme criticata proprio per il suo sostegno ad un Islam politicamente militante. Del resto, ha continuato il ministro, “è proprio della natura umana, e dunque inevitabile, che un uomo si ecciti di fronte a vestiti discinti”. Con la stessa motivazione Nik Aziz assolse, nel marzo del 2005, un uomo colpevole di stupro ai danni di una diciottenne: ad adescarlo, per Nik Aziz, sarebbero stati una maglietta e degli shorts troppo “rivelatori”. Concorda con Nik Aziz il responsabile delle relazioni pubbliche, Mohammed Azman Daham, per il quale gli abbigliamenti provocatori non fanno che macchiare la reputazione di Kota Bahru, e inficiarne lo status di città islamica. “Ci scusiamo coi non musulmani, ma noi siamo tenuti a rispettare in pubblico la nostra cultura e la nostra religione”: così ha chiosato il presidente della commissione governativa locale, Takiyuddin Hassan.

La Malesia e l'IslamRoccaforte islamica. In Malesia l’Islam è ad oggi la religione ufficiale, con un’adesione pari al 60 percento della popolazione. Pur essendo la principale confessione, non è l’unica: accanto alla fede musulmana convivono, fra gli altri, il credo buddista, col 19 percento, quello cristiano, col 9 percento, e infine quello induista, col 6 percento. Benché la libertà di culto sia garantita in Malesia a livello costituzionale, il Paese continua a oscillare fra la definizione di stato religioso e quella di stato secolare. Ne è un esempio la contestuale presenza di un sistema giudiziario laico, governato dall’applicazione di norme statali e federali, e di una rete di corti religiose, impegnate nel dare attuazione alla sharia. Lo stato di Kelantan è la roccaforte del Pas (Parti Islam SeMalaysia), il partito islamico della Malesia. Il Pas aspira ad un sistema legale ancorato alle principali fonti del diritto musulmano, vale a dire il Corano e la Sunna. All’opposto, per uno stato laico si pronuncia il Barisan nasionale (Bn), una coalizione politica che governa ininterrottamente la Malesia sin dal 1957, anno dell’indipendenza. Per il Pas, a motivare le posizioni del Bn è esclusivamente la scarsa conoscenza della religione islamica. Il Pas può contare su una solida base elettorale nelle zone settentrionali rurali e conservatrici del paese. Una di queste è proprio il Kelantan, sotto il governo del Pas sin dal 1990.
Essere o non essere sexy, è questo il problema per le giovani malesi: "Conosco molte ragazze non musulmane che indossano il tudung, ma non è una cosa che puoi imporre, devi sentirlo", dichiara Hanisa Ismail, commessa. Per il governo del Kelantan è una questione di fede, per le donne una questione di cuore.

13 dicembre

 

File e risse per il kit alle Poste

Permessi di soggiorno Al via il nuovo sistema a pagamento. Caos dall'alba negli uffici di tutta Italia

Ci. Gu.

Roma

Caos, file interminabili, persino risse, e la convinzione generale che sia in corso una sanatoria. Il debutto degli uffici postali - a cui il governo ha affidato la distribuzione e il ritiro (a pagamento) delle pratiche per i permessi di soggiorno degli immigrati - è stato un disastro. Complice, la quasi contemporanea pubblicazione in Gazzetta ufficiale del «decreto flussi bis», che ha incaricato le Prefetture di esaminare anche le domande di regolarizzazione presentate entro il 21 luglio 2006, cioè 350 mila richieste di «ingresso legale». Ma a peggiorare le cose, come raccontano testimoni in tutta Italia, ci si è messa anche una certa impreparazione degli impiegati dell'Ente poste. Che invece di spiegare agli stranieri in fila davanti agli sportelli dalle prime ore di ieri mattina che non è in corso alcuna sanatoria, hanno spesso dato risposte ambigue, imprecise e fuorvianti. Lo stesso è capitato a chi, semplicemente, voleva capire come funziona la nuova procedura, una vera rivoluzione: gli immigrati sono abituati ad andare in questura per le questioni relative ai permessi di soggiorno. Da ieri, tutto è cambiato. Scendono in campo le Poste. Ma la novità non è stata annunciata da nessuna campagna informativa, neanche uno straccio di conferenza stampa.
A Milano, l'ufficio postale di via Cordusio è stato preso d'assalto da 600 immigrati. In un ufficio postale di Napoli si è verificata anche una rissa: «Le Poste pur guadagnando 30 euro a persona, non hanno utilizzato nemmeno un mediatore culturale, neanche agli sportelli più frequentati. Molti immigrati hanno capito anche che si trattava della tanto attesa sanatoria, incoraggiati per altro da alcuni impiegati che sostenevano (sbagliando clamorosamente) che uno dei moduli era per "gli immigrati senza permesso di soggiorno"», scrive in un comunicato il comitato Noborder di Napoli, che ieri ha presidiato l'ufficio di piazza Matteotti distribuendo volantini contro il protocollo con le Poste.
Il «costo» del servizio è di circa 70 euro dove viene rilasciato il permesso elettronico, 30 negli altri Comuni. Il kit può essere ritirato in tutti gli uffici postali, mentre può essere riconsegnato solo nei 5.332 uffici abilitati. Per informazioni si può utilizzare il sito www.portaleimmigrazione.it o il numero verde 800 309 309. Per le Poste, comunque è andato tutto abbastanza bene: «Da un primo controllo con diversi uffici, la situazione è risultata tranquilla».

 

Tehran

La scintilla dell'università

Diritti per tutti Gli studenti: una lotta per la libertà e l'uguaglianza

Dana Shahsavari*

Il campus dell'Università di Tehran l'altro ieri era zeppo di poliziotti, agenti in borghese e uomini della milizia Basiji. Le forze di sicurezza hanno circondato l'Università e osservano ogni movimento, sia dentro che fuori il campus. Fermano i passanti e gli chiedono il motivo della loro presenza. Se non hanno una risposta soddisfacente, questi vengono immediatamente fermati e portati via. Domenica, 10 dicembre: gli studenti stanno celebrando la giornata a loro dedicata. Per impedire alle persone in strada di vedere ciò che sta accadendo dentro il campus, la polizia ha allineato undici autobus, a formare un muro davanti all'ingresso principale. Gli studenti tengono i cartelloni in alto per far conoscere alla gente in strada le ragioni della loro protesta.
La giornata degli studenti si tiene ogni anno, sin dagli anni '50. Questa volta il raduno, indetto dall'organizzazione studentesca Daftare Tahkim Vahdat (Ufficio per il consolidamento dell'unità) e altri gruppi studenteschi, si intitola «L'Università è viva», e si prefigge di commemorare gli studenti uccisi, protestando allo stesso tempo per la gestione cui l'Università è stata soggetta negli ultimi due anni. Gli studenti sono circa 2.000, e la manifestazione ha inizio a mezzogiorno. Il Daftare Tahkim è un'organizzazione che rappresenta a livello nazionale le 60 università presenti nel paese. «Chiedo al sig. Khamenei: in base a quale legge potete lasciare morire uno studente in prigione?» domanda Ali Nikoonesbati, un membro del direttivo. Ali Azizi, un leader dell'Associazione islamica del Politecnico, prende la parola per contestare le nomine ufficiali alle cariche amministrative dell'Università, che definisce «offensive e autoritarie».
Niloofar Golkar legge un rapporto del Comitato delle donne del Daftare Tahkim Vahdat, che condanna espressamente una nuova ondata di repressioni. «Condanniamo le nuove pressioni ai danni delle studentesse sugli orari in cui è loro permesso di entrare e uscire dai dormitori, sull'abbigliamento, sull'uso di strutture sportive» recita la dichiarazione. Condanniamo le limitazioni imposte loro nello svago, nello studio e in attività di altro tipo; tutto per via delle attuali politiche segregazioniste nei loro confronti». Un altro oratore è Saeed Habibi, ex capo del Daftare Tahkim Vahdat. Habibi sottolinea: «Dobbiamo guardare alla sfera politica, ai cambiamenti di fondo nella società. Questo non è il momento per tranquille conversazioni. Oggi dobbiamo levare la nostra voce in tutto il paese».
Viene letta la lettera di Nasser Zarafshan, che è stato l'avvocato difensore di molti studenti incarcerati, ora anche lui dietro le sbarre. «Noi commemoriamo questa giornata in un momento in cui sta montando la pressione, ma è proprio in questo momento, è proprio in queste condizioni, che dobbiamo tenere desto il richiamo all'amore per la libertà degli studenti più combattivi e le loro battaglie ideali». All'inizio della manifestazione gli studenti erano suddivisi in tre gruppi: quelli di sinistra, i curdi e quelli che sostengono il Daftare Tahkim Vahdat. Ognuno di essi ha avanzato le proprie rivendicazione e lanciato i propri slogan. Alcuni hanno proposto di partecipare alle elezioni del 15 dicembre per il Consiglio degli esperti (Majlis-e Khobregan), altri hanno proposto di boicottarle. Ma alla fine la divisione è venuta meno e gli slogan trovano tutti concordi.

* dal sito Roozonline. (Traduzione Marina Impallomeni)

 

La fine di un incubo

Idelfonso Dzul, Gonzalo García e Wilberto López ritornano in libertà. La lotta dei contadini messicani procede
Scritto per noi da Sara Elter
 
Il giudice federale Pablo Monroy è stato di parola. Idelfonso Dzul, Gonzalo García e Wilberto López hanno riconquistato il cielo dietro pagamento di 14 mila pesos, circa mille euro: le loro accuse sono state “alleggerite”, si fa per dire. Non è stato uno scherzo, per un pugno di contadini messicani, riuscire a collezionare tutto quel denaro.
 
IldefonsoI fatti. Seduto nel suo studio, circondato da una collezione di don Chisciotte in tutte le forme e dimensioni, il magistrato ha ascoltato con attenzione la figlia di Idelfonso che non ha smesso un attimo di guardarlo dritto negli occhi: "Mio padre è in galera e io mi sento male. Noi vogliamo parlare con qualcuno, ma nessuno ci ascolta perché siamo contadini. Siamo nati su quella terra, lì ci hanno insegnato a lavorare. Io voglio insegnare ai miei figli la stessa cosa. La verità è che siamo soli. Non abbiamo denaro, solo le nostre mani. E tutto ciò che possiamo fare è protestare, perché non possediamo altro".
Nello studio elegante invaso da una decina di piccoli maya testardi, il giudice ha abbassato la testa, colpito. La giovane ragazza non si è lasciata zittire: "A casa mia non ci sono né tavoli né sedie. Quelli che  hanno venduto la nostra terra si sono comprati una camionetta nuova. Dove hanno preso così tanto denaro?".
 
I cartelli della protestaI controlli di polizia. Sono più di sessanta giorni che la polizia governativa dello Yucatan presidia Oxcum, perché i lavori per il nuovo aeroporto non vengano più bloccati. É più di un mese che i contadini di Oxcum, con fiera determinazione, continuano la loro protesta. La legge risponde ancora una volta con metodi che di legale hanno poco e niente.
Roberto Canché è il marito della  figlia testarda di Idelfonso. É stato nominato dall’assemblea di Oxcum per esporre i fatti al Consiglio Nazionale Indigeno riunito a Mezcala. Due giorni fa è stato investito, mentre in moto tornava da lavorare, dalla camionetta nuova fiammante di Anselmo Canul, uno di coloro che hanno venduto le terre comunitarie senza esserne stati autorizzati. La gente del paese ha assistito: Anselmo ha preso la strada contromano per investire Roberto. Non potendo scappare con l’auto, poiché la motocicletta si era incastrata si è rifugiato di corsa in casa. La polizia antisommossa, presente in forze e chiamata dalla gente perché intervenisse, non intendeva però procedere all’arresto di Anselmo: "Non è di nostra competenza, siamo qui solo per presidiare il cantiere dell’aeroporto".
 
Le protesteLa conclusione. Quando infine è arrivata la polizia municipale di Uman, comune confinante, gli abitanti della strada, la popolazione di Oxcum, armata di pietre, li ha obbligati a portarlo in carcere immediatamente. Roberto ha picchiato la testa. É in ospedale in stato di coma. Un poliziotto armato è di guardia davanti alla sua porta. Gli avvocati del Movimento per la Difesa della Terra ne hanno già richiesto la rimozione, in quanto Roberto non è l’aggressore, ma l’aggredito.
Anselmo Canul è ora nel carcere statale, trasferito dal posto di polizia del comune di Uman, dove peraltro lavora. É lì che la polizia intendeva detenerlo, cosa che faceva largo al sospetto che, prima o poi, sarebbe stato lasciato libero di tornare a casa. Gli avvocati hanno fatto pressione e sono già intervenuti con le denunce, decine di testimonianze contro il suo possibile rilascio sono state ascoltate dal giudice. Si spera non esca, grazie alle sue amicizie altolocate. Movimenti, avvocati ed Ong vigilano che non accada. La protesta continua.

 

12 dicembre

 

Stoppani, dichiarato lo stato di emergenza

Stoppani di Cogoleto

Stabilito da un decreto lo stato di emergenza per l'impianto di Congoleto (Ge). L'area, contaminata da cromo esavalente, rientra nel Programma nazionale di bonifica. A Bruxelles, intanto, proposto un regolamento per vietare le esportazioni di mercurio

Un decreto del presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato, fino al 31 dicembre 2007, lo stato di emergenza per lo stabilimento Stoppani di Cogoleto, in provincia di Genova. L'area dell'impianto, che lavora da un secolo alla produzione di cromo, si trova infatti in uno stato di inquinamento gravissimo. Lo stabilimento è uno degli oltre 50 siti contaminati inseriti nel 1998 dal ministero dell'Ambiente nel Programma nazionale di bonifica.

Il piano include grandi poli industriali, come i petrolchimici di Porto Marghera o le acciaierie di Taranto, e piccoli distretti, come quello calzaturiero della bassa valle del Chienti, siti produttivi chiusi in seguito alle battaglie ambientaliste, come quello di Manfredonia, e impianti ancora in attività, come quelli di Augusta-Priolo-Melilli. Non mancano, infine, le aree inquinate dallo smaltimento illegale di rifiuti, come il litorale domitio-flegreo e l'agro aversano o la collina spezzina di Pitelli.

Le aree da ripristinare coprono un totale di 154mila ettari, contaminati dagli inquinanti più pericolosi per la salute umana, come l'amianto a Casal Monferrato, il Ddt sui fondali del Lago Maggiore o il mercurio nella laguna di Grado e Marano. Alla gestione del mercurio metallico, in particolare, si rivolge anche una proposta di regolamento europeo che vorrebbe vietarne l'esportazione e a introdurre l'obbligo di stoccarlo in condizioni di sicurezza per la salute umana e per l'ambiente. La proposta ha l'obiettivo di impedire la reimmissione sul mercato del mercurio metallico e a limitarne l'immissione nell'ambiente.

Attualmente, lo stoccaggio di mercurio metallico per lo più allo stato liquido in qualsiasi tipo di discarica è vietato dalla direttiva 1999/31/Ce. Se approvato, il regolamento introdurrebbe una deroga alla direttiva, permettendo di stoccare il metallo in miniere di sale adattate all'uso o in impianti appositamente predisposti, destinazioni considerate prive di rischi per la salute umana e per l'ambiente. Si tratta di una delle azioni previste dalla strategia comunitaria che impone di adottare misure per realizzare lo stoccaggio del mercurio dell'industria dei cloro-alcali, secondo un calendario che prevede l'eliminazione graduale delle esportazioni di mercurio entro il 2011.

 

Smog record in Italia

 

smog e traffico a RomaPm10 oltre la soglia 206 giorni a Palermo e 183 a Verona. La legge ne consente 35 all'anno.

Sono 206 i giorni di superamento a Palermo, 183 a Verona, 162 a Torino, 159 a Padova e 156 a Venezia. E poi 152 giorni a Milano e 125 a Roma. È un quadro nero quello rilevato dalla centraline di rilevamento delle polveri sottili nelle maggiori città italiane ed elaborato da Legambiente. I dati sul Pm10 (aggiornati al 4 dicembre scorso) riportano

Traffico
un numero impressionante di superamenti giornalieri della soglia consentita dalla legge (che fissa, dal 2005, il valore limite medio giornaliero per le polveri sottili a 50 μg/mc, che può essere superato al massimo per 35 giorni all’anno). Nessun segnale di miglioramento e polveri sottili alle stelle: è questo, in chiusura del 2006, il bilancio dell’associazione ambientalista, che anche quest’anno lancia in tutta Italia per i mesi invernali Mal’Aria, la storica campagna delle lenzuola antismog.

«Il principale imputato dell’inquinamento atmosferico nel nostro Paese continua a essere il trasporto stradale – dichiara Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente – Secondo il rapporto della Commissione Nazionale Inquinamento atmosferico del Ministero dell’ambiente, a Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo il traffico contribuisce per ben il 70% delle emissioni di Pm10, l’inquinante più diffuso e pericoloso per la salute umana. Mentre la seconda fonte è il riscaldamento, che varia da un contributo del 26% al nord all’8% al sud. Negli ultimi dieci anni, inoltre, le emissioni da CO2 da trasporto stradale sono aumentate del 18%, contribuendo nel 2004 a più del 22% del totale nazionale di emissione del principale gas serra. E’ quindi evidente – conclude Della Seta - come nelle nostre città sia urgente invertire la rotta, con interventi strutturali sulla mobilità cittadina».

 

COMUNICATO STAMPA

10° ANNIVERSARIO TRAGEDIA PORTO PALO/85 PARLAMENTARI SCRIVONO A PRODI: DARE RISPOSTA ALLE FAMIGLIE DEI 283 IMMIGRATI SCOMPARSI ED ALL'OPINIONE PUBBLICA

Sono già 83 i parlamentari italiani appartenenti a diverse forze politiche che hanno sottoscritto la lettera-appello indirizzata al Presidente Romano Prodi promossa dal Sen. Iovene (DS-L'Ulivo) e dall'On. de Zulueta (Verdi) per il recupero dei corpi degli immigrati morti annegati nelle acque davanti a Porto Palo di Capo Passero, in Sicilia, nella notte di Natale del 1996.

Di seguito si riporta il testo integrale della lettera e l'elenco dei firmatari

"Gentile Presidente Prodi,
fra pochi giorni ricorrerà il decimo anniversario della tragedia di Porto Palo, tragedia nella quale perirono, la notte di Natale del 1996, duecentottantatre emigranti, soprattutto cittadini del Pakistan, dell’India e dello Sri-Lanka morti annegati nelle acque davanti a Porto Palo di Capo Passero in Sicilia. Il più grave disastro marittimo del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale.
Nonostante dai giorni seguenti il naufragio circolassero insistentemente voci tra i pescatori di Porto Palo circa una nave di clandestini affondata e si parlasse di cadaveri pescati dalle paranze e rigettati in mare, solo il 7 giugno del 2001, grazie ad un’inchiesta giornalistica de «La Repubblica» curata da Giovanni Maria Bellu, vennero ritrovati e fotografati i resti dei naufraghi, adagiati intorno al relitto. Il naufragio fantasma finisce di essere tale: Nord: 36 gradi, 25 primi, 31 secondi; Est: 14 gradi, 54 primi, 34 secondi, acque internazionali a diciannove miglia da Porto Palo di Capo Passero, a 108 metri di profondità. Un Rov (Remotely operated vehicle) filma l’orrore, il relitto squarciato e oggetti e resti umani sparsi ovunque dentro e all’intorno.
Pochi giorni dopo, quattro premi Nobel italiani, Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia sottoscrivono un appello: «La tragedia dei duecentottantatre clandestini morti in un naufragio al largo della Sicilia e dimenticati da tutti per oltre quattro anni non può cadere nel silenzio. Chiediamo alla Repubblica italiana di adoperarsi per recuperare e dare sepoltura a quei corpi: lasciarli in fondo al mare sarebbe l’ultimo oltraggio alla loro memoria in un’Europa civile».
Nella scorsa legislatura, raccogliendo l'appello dei premi Nobel, con numerosi colleghi parlamentari inviammo all'allora Presidente del Consiglio dei Ministri On. Silvio Berlusconi una lettera aperta con la quale chiedevamo al Governo italiano di adoperarsi per il recupero delle salme dei naufraghi del Natale 1996 al fine di consentire ai familiari delle vittime di rendere loro degnamente l’ultimo omaggio. La lettera rimase purtroppo senza risposta.
Negli ultimi anni quella tragedia emblematica è stata ricordata in tutta Italia tramite libri, spettacoli teatrali ed altre occasioni nelle quali i cittadini hanno continuato ad impegnarsi per l'affermazione della verità.
Oggi, a dieci anni di distanza da quella tragica notte, i corpi giacciono ancora in fondo al mare e noi ci rivolgiamo a Lei, Signor Presidente, per chiederLe una iniziativa in grado di dare finalmente una risposta alle famiglie delle vittime ed all'opinione pubblica del nostro Paese."

Sen. Nuccio Iovene, On. Tana de Zulueta, On. Antonello Falomi, Sen. Fiorenza Bassoli, On. Nicola Tranfaglia, Sen. Pietro Fuda, On. Ermete Realacci, Sen. Ignazio Marino, On. Wladimiro Guadagno, detto Luxuria, Sen. Nino Randazzo, On. Giuseppe Reina, Sen. Maria Celeste Nardini, On. Fabio Evangelisti, Sen. Emanuele Sanna, On. Pietro Marcenaro, Sen. Colomba Mongiello, On. Fulvia Bandoli, Sen. Giovanni Battaglia, On. Iacopo Venier, Sen. Natale Ripamonti, On. Bruno Mellano, Sen. Albertina Soliani, On. Gloria Buffo, Sen. Fosco Giannini, On. Ali Khalil, Sen. Giovanni Russo Spena, On. Paola Goisis, Sen. Raffaele Tecce, On. Paolo Cacciari, Sen. Armando Cossutta, On. Arnold Cassola, Sen. Benedetto Adragna, On. Salvatore Iacomino, Sen. Francesco Ferrante, On.Titti Di Salvo, Sen. Martino Albonetti, On. Aleandro Longhi, On. Silvana Mura, On. Alberto Burgio, On. Franco Grillini, On. Antonio Rotondo, On. Salvatore Margiotta, On. Giuseppe Trepiccione, On. Massimo Fundarò, On. Mimmo Lucà, On. Daniele Farina, On. Luana Zanella, On. Leoluca Orlando, On. Franca Bimbi, On. Mauro Betta, On.Giuseppe Giulietti, On. Andrea Rigoni, On. Katia Zanotti, On. Antonio Satta, On. Raffaello De Brasi, On. Anna Maria Cardano, On. Rosella Ottone, On. Giovanni Crema, On. Gianfranco Schietroma, On. Marilena Intrieri, On. Marisa Nicchi, On. Alessandro Forlani, On. Camillo Piazza, On. Giuseppe Lumia, On. Pasquale Giuditta, On. Emanuele Fiano, On. Marilena Samperi, On. Pietro Folena, On. Carmelo Lo Monte, On. Grazia Francescano, On. Marcedes Frias, On. Graziella Mascia, On. Tommaso Pellegrino, On. Angelo Bonelli, On. Carmen Motta, On. Vincenzo Oliva, On. Marina Sereni, On. Pierluigi Castagnetti, On. Rino Piscitello, Sen. Silvana Pisa, Sen. Guido Galardi, Sen. Giovanni Bellini, Sen. Marco Filippi, Sen Rosa Villecco Calipari, Sen. Franca Rame.

In due città britanniche nasce il primo sindacato composto unicamente da lavoratori polacchi

Per la prima volta, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, la Gran Bretagna avrà un sindacato esclusivamente costituito da lavoratori stranieri.

Duecentomila polacchi. La creazione di sezioni sindacali polacche delle notorie Trade Unions inglesi a Glasgow e Southampton rappresenta un fondamentale passo per contribuire all'abbattimento delle barriere tra lavoratori immigrati e lavoratori inglesi. Di pari passo all'aumento del flusso migratorio, in special modo dall'Est Europa, in Gran Bretagna si è anche verificato un incremento dei datori di lavoro che sfruttano l'ignoranza dei nuovi arrivati circa le leggi sull'impiego, sottoponendoli a condizioni di lavoro discriminatorie e sottopagadoli. Sono 200 mila i lavoratori polacchi ufficialmente registrati nel Regno Unito, ma il loro numero è sicuramente molto più alto. Adesso le Trade Unions, in particolar modo quelle relative ai settori del catering, della sicurezza e dell'edilizia, hanno registrato un improvviso picco nelle iscrizioni. "Non basta più - ha detto il segretario generale delle Trade Unions, Brendan Barber - pensare solo al modo tradizionale di organizzazione del lavoro. Dobbiamo anche considerare come può il sindacato raggiungere i lavoratori vulnerabili e fare in modo di rispettare i loro diritti".

Mobilitazione per i diritti dei lavoratori. I polacchi avvertono un senso di smarrimento al momento del loro arrivo in Gran Bretagna. Alcuni lavoratori reclutati dalle agenzie vengono pagati appena 180 euro alla settimana. Gli affitti si aggirano in media sui 120 euro. I polacchi sono spesso sfruttati sul luogo di lavoro. Un cameriere a Southampton ha denunciato che i datori di lavoro del suo ristorante prendevano una percentuale su tutte le mance e che il giorno di Natale o di altre festività non veniva retribuito come lavoro straordinario. Ross Murdoch, funzionario del sindacato, non si è quindi stupito quando, durante un incontro pubblico con i lavoratori polacchi, se ne è visti arrivare 150 invece dei 20 previsti. La richiesta per migliori condizioni di lavoro è stata così pressante che in pochi giorni si è formata una sezione del sindacato dedicata esclusivamente a lavoratori polacchi, e simili progetti sono in corso di realizzazione a Swindon, Slough e Brighton. Altri gruppi a Bristol, Londra e nell'East Anglia hanno contattato le Trade Unions per informazioni e assistenza. Funzionari sindacali britannici hanno preso contatti con gli omologhi polacchi e la segreteria regionale del Nord-Est delle Trade Unions ha invitato un membro di Solidarnosc per offrire assistenza sui diritti dei lavoratori. Quest'ultimo sindacato nacque in Polonia negli anni '80, e in Gran Bretagna fu considerato l'emblema dell'anti-comunismo. Adesso, i polski d'Inghilterra sperano che i valori di giustizia e solidarietà diffusi dal sindacato polacco durante il governo del generale Jaruzelski possano venire esportati anche nella liberale e democratica terra britannica.

Il deputato di Rc, autorecluso da ieri nel Centro di Crotone, elogia la solidarietà degli immigrati, e sul suo blog racconta: "Mi hanno prestato un materasso"

Caruso al Cpt: "Un lager etnico dove si è frantumata la libertà"

Il parlamentare chiede la chiusura di queste strutture: "Vedremo se ci sarà un'inversione di tendenza, intanto io continuo così"

La lettera-racconto di Caruso sul sito di Rifondazione

CROTONE - Ha trascorso la notte dormendo per terra, su un materasso prestato dagli immigrati, il deputato di Rifondazione comunista Francesco Caruso, autorecluso da ieri mattina nel Cpt di Crotone. Una protesta, la sua, che - ha riferito stamane sul suo blog - ha portato ad "alcuni segnali da Roma". "Vediamo adesso - ha spiegato come fare in modo che questi segnali diventino segnali concreti e tangibili di un'inversione di tendenza e di cambiamento rispetto ai cinque anni di disastri di leggi xenofobe. Noi per adesso continuiamo". Uscito dal Cpt, Caruso ha dichiarato che "la protesta comunque non finisce. Domani ci ritroveremo, con i movimenti antirazzisti, a Caserta dove nel pomeriggio avremo un incontro con il sottosegretario all'Interno con delega all'immigrazione, Marcella Lucidi, al quale chiederemo risposte concrete alle nostre rivendicazioni".

Ecco il suo racconto, pubblicato sul blog del parlamentare e sul sito di Rifondazione. "Sono stato ospitato - ha detto Caruso - nel modulo B1, una delle quattro strutture del campo dove dormono venticinque immigrati, in prevalenza iracheni e palestinesi. Hanno visto in tv le immagini della protesta e sono rimasti straordinariamente entusiasti del fatto che, finalmente, qualcuno richiama l'attenzione dell'opinione pubblica sulla loro situazione. Questi ragazzi vivono questo stato di cose come se fossero stati scaraventati nel cast di un assurdo film dell'orrore del quale sono inconsapevoli protagonisti".

Il deputato di Rifondazione, nonché leader dei Disobbedienti, ha ricordato che molti di questi extracomunitari si trovano nel Cpt solo per il mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Ed è tornato a definire una "aberrazione giuridica la detenzione amministrativa". "Per una violazione amministrativa quale il mancato rinnovo del permesso - ha detto - gli viene affibbiata una condanna penale. Tutto ciò è preoccupante per lo stato di diritto. E' un problema che deve essere affrontato in Parlamento".

Molti di loro, ha spiegato Caruso, avrebbero diritto all'asilo o alla protezione umanitaria: "Dopo ore di ascolto e discussione - scrive Caruso - ti accorgi che per la stragrande maggioranza di loro non ci sarebbe nemmeno bisogno di un'evasione, ma un semplice e banale ricorso all'espulsione: iracheeni, sudanesi, palestinesi avrebbero diritto all'asilo o quantomeno alla protezione umanitaria, ma nessuno si è preoccupato di informarli. Vorremmo organizzare un'assemblea con i migranti, cerchiamo di discutere delle condizioni di vita, ma non ce la fanno e forse nemmeno gli interessa la qualità del cibo, le condizioni igieniche, i servizi e le strutture. No, mi ripetono con straordinaria lucidità politica, non è questo il cuore del problema. Il punto dirimente non è il come, ma il perchè. Qui, in questi lager etnici, si è rotta la democrazia, si è frantumata la libertà".

 

La Repubblica dei veleni

di Peter Gomez e Marco Lillo

Le richieste di Scaramella su D'Alema e Fassino. I soldi di Telekom Serbia. Il depistatore Anghessa. Dossier e misteri si incrociano in una fiduciaria di San Marino

di Pino Nicotri

Mitrokhin al velenoSan MarinoVia Tre Settembre 270, Repubblica di San Marino. S'incrociano qui, al secondo piano di una palazzina di vetro e cemento, tutte le calunnie e i veleni creati nella scorsa legislatura per infangare Romano Prodi e il centrosinistra durante i lavori delle commissioni parlamentari Telekom Serbia e Mitrokhin. S'incrociano qui e non è un caso. Perché proprio in questa strada a due passi dal confine con l'Italia aveva sede la Finbroker, una misteriosa fiduciaria, che oggi rappresenta l'anello di congiunzione tra i depistaggi di Igor Marini e i tentativi di Mario Scaramella, il consulente del senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti, di spingere una serie di ex agenti segreti russi ad accusare Prodi di essere stato un uomo del Kgb. Secondo uno di loro, intervistato da 'Repubblica', Scaramella - finito in ospedale a Londra dopo essere stato contaminato dal polonio che ha ucciso l'ex colonnello Alexander Litvinenko - aveva promesso di pagarlo tramite questa società anonima. E sempre attraverso la Finbroker sono transitati, nel 2000, i 14 miliardi di lire versati da Telecom Italia a un mediatore romano in occasione dell'acquisto della compagnia telefonica di Belgrado.

Che cos'è dunque la Finbroker? 'L'espresso' lo ha scoperto e c'è da rabbrividire. Dietro la fiduciaria emerge la figura di un uomo specializzato in depistaggi e traffici di uranio. Di un faccendiere che per tutti gli anni '90 ha intossicato indagini della magistratura, giornali e politica: l'ex (o almeno così dicono) collaboratore dei servizi segreti italiani e svizzeri, Aldo Anghessa. Nel 2000 Anghessa, assieme a un discusso notaio sanmarinese, vende la società a Loris Bassini, un imprenditore forlivese legato al mondo delle cooperative rosse, oggi sotto inchiesta per bancarotta. Ma continua a monitorarne l'attività chiedendo, lo raccontano alcune intercettazioni telefoniche, a un dirigente di stilare dei "rapportini" su quanto accade in Finbroker e nel resto della Repubblica più antica del mondo. E non basta. Come 'L'espresso' è in grado di rivelare, Anghessa a Roma frequenta spesso anche gli uffici della fondazione Caschi Bianchi, dove venivano preparati i dossier calunniatori di Telekom Serbia. E sono sempre uomini di Anghessa anche molti degli strani personaggi che insieme al cosiddetto supertestimone Igor Marini, tentavano di frodare le banche italiane e straniere usando titoli di credito fasulli. Tutta gente che Anghessa, oggi latitante in Africa dopo due condanne definitive, era solito presentare come "la squadra".

Ma come si arriva da questo mondo di truffatori internazionali fino a Mario Scaramella? Una prima spiegazione la offre a 'L'espresso', proprio Loris Bassini, l'ultimo titolare della Finbroker. Bassini nega che la sua società sia mai stata utilizzata dal consulente della commissione Mitrokhin per pagare ex spie del Kgb o per finanziare l'attività della Ecpp (l'agenzia diretta da Scaramella), ma ricorda bene il sedicente esperto in scorie nucleari napoletano.

"Scaramella l'ho incontrato nel 2005", racconta, "nello studio del commercialista della Finbroker, Franco Botteghi. La società era già in liquidazione da due anni. Botteghi mi chiese di conoscere questo importante personaggio e io accettai di buon grado. Scaramella si presentò come un sostituto procuratore napoletano, che aveva lavorato con il procuratore Cordova. Mi disse che aveva carta bianca con la Repubblica di San Marino e mi chiese notizie su D'Alema, Fassino e altri nomi. Poi aggiunse: 'Se lei mi dà informazioni per la commissione Mitrokhin, vedo cosa posso fare per lei'. Io in quel periodo ero stato già denunciato e le indagini di San Marino e Forlì erano già pubbliche". Bassini poche settimane dopo sarà arrestato dalla Procura di Forlì per bancarotta. In quei giorni, insomma, ha un disperato bisogno di aiuto. E Scaramella, che dal governo di San Marino ha ottenuto una consulenza "per la sicurezza dello Stato", potrebbe essere la persona giusta. Ma, giura Bassini, lui gli risponde di no: "Il colloquio durò dieci minuti, l'ho respinto come un cane. Quel tipo non mi piaceva".

Scaramella però nella Repubblica era molto popolare. Aveva appena fatto finire San Marino sulle prime pagine di tutti i giornali denunciando un traffico fasullo di valigie di uranio che aveva portato all'arresto di tre pensionati della Riviera romagnola. Esattamente come aveva fatto, sempre a Rimini, nel 1992, Aldo Anghessa. Grazie al placet del governo sanmarinese il consulente di Guzzanti gira così per lo staterello scortato da sei bodyguard israeliani che presenta come ex agenti del Mossad, discute con la gendarmeria, parla con i politici. Il suo obiettivo è aprire qui la sede principale della sua agenzia di studi sull'inquinamento, l'Ecpp, in modo che possa usufruire di una sorta di status transnazionale. In quel periodo, secondo il racconto dell'ex agente del Kgb Euvgeni Limarev, Scaramella entra con lui negli uffici della Finbroker. E gli dice che se gli avesse dato una mano a costruire dei dossier su politici del centrosinistra sarebbe stato pagato con soldi della fiduciaria. "Sarebbe interessante", considera oggi Bassini, "scoprire chi gli ha dato le chiavi, visto che era in liquidazione e non era più sotto il mio controllo. Certamente dietro l'arrivo di Scaramella a San Marino c'erano i politici locali".

Per capire l'interesse di Scaramella alla Finbroker bisogna dunque ricostruire la storia della società. Bassini la compra per un miliardo e 50 milioni nel maggio del 2000, pochi mesi dopo la sua costituzione. "È stato Roberto Pasquali, un signore ben introdotto negli ambienti politici di San Marino, a portarmi nello studio del notaio Livio Bacciocchi per acquistarla", sostiene Bassini secondo il quale Pasquali potrebbe essere stato legato ai servizi segreti (quali?). Nello studio del notaio sono presenti due persone: l'avvocato Alvaro Selva e un certo Giovanni Manfredini. Il primo è uno dei boss della politica locale, già segretario del Pcs, il Partito comunista sanmarinese, ora passato al Psd, il Partito socialista democratico, prima ancora un dc, come è noto a San Marino le ideologie contano poco. Selva è stato il ministro degli Interni di San Marino per molti anni. Di certo, nella Finbroker rappresentava i soci promotori. Ancora più interessante il profilo di Manfredini, l'uomo che consegna fisicamente le quote a Bassini cedendo 'ogni diritto e obbligo'. Secondo Bassini, quel Manfredini in realtà usa un documento falso. "Me ne accorsi solo quando la polizia stradale di Rimini ci fermò insieme, e lui consegnò la carta d'identità con un altro nome". Altro che Manfredini, l'uomo che cede la Finbroker a Bassini è Anghessa. E che le cose stiano così lo dimostrano anche alcune carte allegate agli atti del processo contro i calunniatori di Romano Prodi nel caso di Telekom Serbia. A Bologna viene perquisito un amico di Igor Marini, un truffatore che l'inventore delle inesistenti tangenti ha tirato in ballo nei propri verbali come complice nel riciclaggio della mazzetta. Ai finanzieri l'uomo dice subito di lavorare per i servizi segreti del comandante Manfredini, di cui ha anche il cellulare. La Procura di Bologna capisce così che Manfredini è il "noto Aldo Anghessa".

Anghessa si muove nell'ombra, ma su più piani. Nel periodo in cui viene costituita la società Finbroker, fa la spola tra l'Italia e San Marino. Sul monte Titano vede spesso Alvaro Selva e il suo amico Roberto Pasquali, che lavora per la fiduciaria almeno fino al 2002. In Italia frequenta invece Antonio Volpe, l'imputato di calunnia, che ha consegnato al commissario del centrodestra Alfredo Vito un falso dossier per corroborare le accuse di Igor Marini, contro Prodi, Dini e Fassino. Secondo una testimonianza processuale Volpe frequenta pure la Finbroker, ma Bassini nega: "Se è venuto si è presentato con un altro nome". Dice invece di aver visto più volte il suo amico Anghessa: "Raccontava di essere vicino ai servizi segreti e si vantava di essere molto potente in quell'ambiente. Pasquali lo chiamava comandante e lo trattava con soggezione". Il comandante Manfredini-Anghessa viene arrestato nel 2001 per l'ennesimo traffico di titoli falsi.

Quando torna libero chiama da Mosca nell'ottobre del 2003 il suo amico Pasquali che continua a seguire da vicino la Finbroker. Nel frattempo sono cominciate le indagini su Telekom Serbia e Anghessa chiede a Pasquali notizie segrete su un vertice che si era tenuto tra i giudici di San Marino e le procure di Torino e Forlì. La telefonata si chiude con un inquietante: "Fammi un rapportino". Bassini commenta: "Oggi capisco tante cose. Questa società era stata creata da persone vicine ai servizi e io sono stato contattato anche per il mio passato nella cooperazione rossa. Ora mi spiego perché hanno voluto usare proprio la mia finanziaria per far rientrare i miliardi di Telekom in Italia. E io ho fatto l'oca in pieno. Ero un uomo che veniva dalle cooperative rosse, con me era facile mettere in piedi un bel complotto".

Vero o falso? Non si sa. Resta un dato: Scaramella prima di approdare in commissione Mitrokhin ha fatto il consulente in una indagine sui traffici di uranio per la Procura di Reggio Calabria. Una indagine in cui sono finite agli atti anche le fondamentali rivelazioni di Aldo Anghessa, alias il comandate Manfredini. Sedicente collaboratore dei servizi, bidonaro di professione. Sarebbe tutto da ridere se questa volta a Londra non ci fosse scappato il morto.

 

Debiti anch'io

di Roberta Carlini

L'auto, la casa, il computer, l'istruzione dei figli. Per decenni restii a indebitarsi, gli italiani scoprono il piacere di pagare domani. Più di un cittadino su due firma cambiali. E banche, multinazionali e finanziarie fanno a gara per conquistarlo

Tasso zero. Tasso sottozero. Prendi oggi, paghi quando vuoi. Minirate e maxipremi. Da quando gli italiani hanno smesso di fare le formiche, come un'orda è calato sulla Penisola il popolo dei promotori dell'indebitamento: finanziarie e banche, grandi multinazionali e piccoli intermediari, società collegate alle case produttrici o da esse del tutto autonome. Tutti decisi a sfruttare quella prateria di mercato che si è aperta da qualche anno in Italia; e a tramutare l'antica virtù privata degli italiani, quella del risparmio, speculare al pubblico vizio del debito di Stato, nel business del futuro: il debito delle famiglie. Perché quando le formiche cominciano a fare le cicale, il formicaio diventa un grande affare.

E nel formicaio Italia, anno 2006, ci si indebita. Secondo l'indagine realizzata da Swg per 'L'espresso', ai primi di dicembre più di un italiano su due aveva una rata da pagare, per prestiti a breve o veri e propri mutui. Il solo credito al consumo, che già aveva superato i 47 miliardi di euro nel 2005, nei primi nove mesi del 2006 sfiorava già i 40, per un totale di oltre 60 milioni di operazioni, secondo i dati raccolti dall'Assofin. Ai primi posti negli oggetti per cui ci si indebita, il mezzo per muoversi: auto o moto, per il cui acquisto il 56 per cento del campione Swg ha fatto ricorso alle rate. Subito dopo, effetto dell'ultimo boom degli immobili e dei mutui, viene l'acquisto della casa. Incalzano, astri nascenti nel firmamento del debito, tutti i prodotti dell'alta tecnologia: dai computer alle tv al plasma, dall'hi-fi fino al telefonino. Ed emergono nuove voci: dalla salute alle spese per l'istruzione dei figli, debiti noti da anni alla famiglia americana media, vere new entry nei budget familiari nostrani. Più che il contenuto in chips o in welfare privato, è l'ampiezza della diffusione del nuovo credito al consumo a fare la differenza tra le rate italiane di oggi e quelle degli scorsi decenni: considerate dai più 'una cosa normale', e non certo il segno di una minorità o arretratezza, né lo stigma di una classe sociale che cerca di allungare il passo più di quanto le sue gambe non consentano.

La grande trasformazione, segnalata con qualche preoccupazione dal governatore di Bankitalia Mario Draghi, è arrivata in sordina. Complice il livello dei tassi di interesse, assai basso, ma ancora per poco, e l'apertura della concorrenza tra molti operatori che ha moltiplicato le offerte, di anno in anno gli italiani hanno cominciato a indebitarsi sempre più. Così in dieci anni il rapporto tra il debito delle famiglie e il loro reddito disponibile è salito dal 32 al 59 per cento: ma nell'annunciare queste cifre la scorsa settimana l'Ocse ha anche sottolineato il fatto che, nonostante tale balzo in avanti, l'Italia resta ancora agli ultimi posti nella classifica del debito privato. Siamo invece al primo nel rapporto tra patrimonio netto e reddito: dunque, potenzialmente buoni debitori, di quelli che le rate poi le pagano puntuali. Di qui la guerra per la conquista del mercato italiano.

Una guerra che si combatte su ogni fronte e che finora ha fatto una vittima sicura: la scomparsa dello sconto per chi paga subito. Basta guardare le pubblicità delle offerte speciali: tutte giocate sulle rate, la loro diluizione, i loro tassi. Ma se uno vuole pagare tutto subito e chiede uno sconto, la risposta è no. Com'è possibile? Perché chi vende fa di tutto per non essere, apparentemente, pagato? Giuseppe Bertola, uno degli economisti italiani che più ha studiato il settore, sul fenomeno delle promozioni finanziarie al consumo ha scritto un paper pubblicato sull''International Economic Review'. Vi si dimostra che con le vendite a rate il commerciante riesce ad attuare un sogno da manuale del monopolista, diversificare i prezzi a seconda delle disponibilità del compratore: in sostanza, divide il suo mercato tra la clientela che può pagare subito e gli altri. Quelli che, senza le rate, non potrebbero permettersi l'acquisto, sono tutti clienti conquistati, con uno sconto sugli interessi anziché sul valore immediato del bene.

Già, ma allora conviene a tutti comprare a rate, saltare nella parte della clientela 'non liquida'? Calma, dicono gli esperti. Le associazioni di consumatori si sgolano da anni: guardate il tasso effettivo (Taeg, deve essere sempre indicato nelle offerte, ma il più delle volte è molto in piccolo), e non quello nominale. Il tasso effettivo include anche le spese di istruttoria, commissioni e varie, dunque può essere consistente anche quando quello nominale è pari a zero. Poi ci sono le eventuali imposte di bollo e il pagamento delle spese bancarie (Rid) o postali (bollettini), non sempre indicate nel Taeg. Da un'indagine a tappeto fatta da Altroconsumo è venuto fuori che, su 116 grandi negozi visitati nel Nord, solo 55 esponevano il Taeg reale. Pubblicità ingannevoli o lifting a parte, se con la lente d'ingrandimento si verifica che davvero il tasso è pari a zero o comunque più basso di quello di mercato, qual è la motivazione dei produttori e delle finanziarie? Dov'è il trucco? "L'obiettivo è agganciare il cliente", dice Ivano Daelli, dell'ufficio studi di Altroconsumo: "Invogliarlo a comprare, con la prospettiva di piccole rate, beni che magari non aveva in programma di acquistare, ma che sono molto di moda. O anticipare l'acquisto di beni soggetti a rapidissimi cambiamenti tecnologici, come i computer". Subito dopo, scatta la fase due: "Metterlo nella rete dei prodotti finanziari. Per prima cosa, gli regalano una revolving card". Le carte revolving sono l'ultima moda dell'Italia del debito: le cita anche l'ultimo rapporto Censis, notando che sono cresciute del 300 per cento in cinque anni. Si tratta di una linea di credito per un importo fisso, di solito non molto alto, che si ricostituisce man mano che si rimborsa, con ampia flessibilità per il debitore: che può decidere di anticipare il rientro dal debito quando ha i soldi, e che appena paga può indebitarsi di nuovo per l'importo rimborsato. "Solo che in questo caso i tassi non sono zero, ma vanno dall'8 al 20 per cento", dice Daelli. Un prodotto conveniente per le finanziarie, ma da maneggiare con cura: sarà per questo che le carte revolving in circolazione sono ben 12 milioni, ma quelle attive solo 5 milioni.

Non c'è solo il fenomeno 'revolving'. La lista dei prodotti finanziari da vendere è lunga, e ogni nominativo di persone a cui segnalarli vale oro: si tratta di clienti di cui si conoscono l'attitudine a indebitarsi, la capacità di reddito, i gusti. Per questo con le promozioni sui tassi "c'è un doppio interesse commerciale: quello del venditore a vendere e quello della finanziaria ad arricchire il suo database", spiega Roberto Anedda, direttore marketing di PrestitiOnline. Il meccanismo è semplice: "Lo sconto lo fa il venditore, che riceve dalla finanziaria un importo inferiore a quello del prezzo reale di vendita", spiega Giuseppe Piano Mortari, direttore operativo di Assofin: "Ma la sua convenienza cresce al crescere del numero dei clienti che lui porta alla finanziaria". I clienti del futuro: quelli che colmeranno il gap tra l'Italia e il resto dei paesi Ocse quanto ad attitudine a indebitarsi; quelli che useranno il credito al consumo come una delle forme per diversificare il proprio portafogli, mantenendo insieme risparmi di qua, debiti di là; quelli che continueranno a far crescere il business, secondo le previsioni, a passo di carica.

Ma ci sarà una convenienza anche per il compratore? Gli addetti ai lavori consigliano a ciascuno di guardare con i propri occhi: "Vedere qual è il Taeg, il tasso reale dice tutto", dice Piano Mortari. Aggiunge Anedda: "Conviene non perdere mai di vista il valore complessivo del bene". In altre parole chiedersi: alla fine, quanto mi viene a costare? E voglio davvero spendere quella cifra per quel prodotto? Secondo l'Assofin, la gran parte dei debitori al consumo paga a rate per convenienza o comodità, più che per necessità. L'indagine Swg-'L'espresso' relativa a tutto l'universo del debito privato, dunque comprensiva anche di quella fetta maggioritaria che sono i mutui-casa, conferma solo in parte: le 'condizioni favorevoli' spiegano il 32 per cento delle scelte, mentre resta un 45 per cento di indebitamento per 'mancanza di altra scelta'. Secondo la ricerca, i nuovi debitori sono tutt'altro che spensierati e imprevidenti: il ricorso al debito, pur essendo diventato 'una cosa normale', continua a generare uno stato d'ansia per la paura di non riuscire a pagare. E il 57 per cento vede giusto prevedendo imminenti rialzi dei tassi: che, se non avranno l'effetto destabilizzante che si teme in paesi con famiglie molto più indebitate delle nostre, comunque faranno entrare in sofferenza la fascia bassa dei redditi e coloro che, una promozione di qua e una di là, si trovano ora con più di una rata da pagare a fine mese. Anche perché, se la maggioranza dei prestiti al consumo è a tasso fisso (revolving escluse), i mutui-casa sono a prevalente tasso variabile. Dunque in faticosa salita.

 

Alla camorra 25 milioni di euro dello Stato

NAPOLI - Soldi dello Stato finivano nelle casse della camorra: il tutto attraverso cooperative sociali composte da ex detenuti e convenzionate con la Provincia di Napoli. La scoperta è stata fatta dalla Procura della Repubblica di Napoli ed oggi, la direzione distrettuale antimafia ha affidato al centro operativo Dia di Napoli l'esecuzione di un decreto di sequestro preventivo di somme di denaro erogate dal ministero dell'Interno, tramite l'amministrazione provinciale, alla cooperativa ex detenuti "La Vittoria III", una delle 11 cooperative convenzionate con la Provincia di Napoli per la esecuzione di lavori socialmente utili. Secondo una stima aprossimativa pare che la camorra si sia impossessata di circa 25 milioni di euro.

 

La procura di Roma indaga per abuso di ufficio per la nomina del dg.

Chiamati in causa: Urbani, Malgeri, Staderini, Bianchi Clerici e Petroni

Stipendi manager, nomina Meocci: indagati 5 consiglieri della Rai

ROMA - La procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati per abuso d'ufficio i nomi di Giuliano Urbani, Gennaro Malgeri, Marco Staderini, Giovanna Bianchi Clerici e Angelo Petroni, i cinque componenti del consiglio di amministrazione della Rai che votarono a favore della scelta di Alfredo Meocci a direttore generale dell'azienda di Viale Mazzini.

Quando si trattò di procedere alla nomina ci furono contrasti in seno al Cda. I consiglieri Sandro Curzi (che oggi è stato sentito come persona informata sui fatti), Nino Rizzo Nervo e Carlo Rognoni, sostennero che Meocci non poteva essere nominato in base alla presunta incompatibiltà per un suo precedente incarico in seno all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. I pareri di alcuni studi legali confermarono le perplessità dei consiglieri contrari paventando anche la possibilità di sanzioni che furono effettivamente comminate dall'Agcom alla Rai (14,3 milioni di euro) e allo stesso Meocci (373 mila euro). Sanzione poi confermata dal Tar del Lazio che respinse un ricorso di Alfredo Meocci. Nonostante ciò 5 consiglieri, ora sotto inchiesta, decisero per la nomina che poi fu annullata dopo qualche mese.

La questione Meocci rientra nell'inchiesta sull'entità degli stipendi percepiti da alcuni manager pubblici. La magistratura romana ha acquisito i provvedimenti con i quali l'autorità per le comunicazioni aveva dichiarato incompatibile la nomina di Meocci, già commissario della stessa authority. In questo caso, le indagini mirano ad appurare se possa essere ipotizzato l'abuso d'ufficio da parte del consiglio di amministrazione che approvò la nomina.

Appresa la notizia i cinque consiglieri indagati hanno espresso "preocupazione e sconcerto" dicendosi, però, "fiduciosi" nell'opera della magistratura.

 

Di nuovo in mezzo a una strada

Hrw denuncia: mezzo milione di rifugiati iracheni in Giordania trattati come criminali

Fuggire dalla guerra per finire in un carcere. Questo è il destino di tanti iracheni in Giordania, almeno secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch, che si batte per il rispetto dei diritti umani: in un rapporto accusa il governo di Amman di discriminare i profughi provenienti dall’Iraq.

Da profughi a criminali. Dall’inizio della guerra in Iraq, nel marzo 2003, fino a oggi, sono circa 1 milione gli iracheni che sono fuggiti dal Paese in fiamme, dilaniato dal conflitto tra ribelli e forze di occupazione e dalla lotta interreligiosa tra sunniti e sciiti. Molti di loro sono riparati in Giordania. Ma dopo un primo periodo nel quale l’accoglienza è stata buona, anche grazie al lavoro di una serie di ong, il vento è cambiato e, come denuncia Hrw, gli iracheni si sono trasformati per la legge giordana da profughi a immigrati clandestini. Nell’indagine di Hrw, un documento di 110 pagine, vengono denunciati arresti arbitrari ed espulsioni forzate che, secondo l’ong statunitense, configurano una vera e propria deportazione di massa, ancora più grave perché gli iracheni espulsi verso un Paese dilaniato dalla guerra, dove sono esposti a violenze di ogni tipo.

Di nuovo in fuga. Quando è scoppiata la guerra, per far fronte alla massa di profughi che premeva alle frontiere della Giordania, il governo di Amman aveva concesso una serie di visti turistici agli iracheni in fuga, in attesa di una soluzione più stabile. Ma con l’andare del tempo, secondo le autorità giordane, la situazione è diventata insostenibile per quello che è un piccolo paese e, invece dell’agognato permesso di soggiorno come profughi politici, sono cominciati a fioccare i decreti d’espulsione. Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, nell’ultimo vertice con il re giordano Abdallah II, alla fine del mese scorso, ha chiesto di rispettare i diritti dei profughi iracheni, ma il governo di Amman non pare in grado, senza aiuti sostanziosi, di gestire una crisi umanitaria di queste proporzioni, visto che si parla di quasi 500mila persone.

Ossessione securitaria. Il report di Hrw fissa a novembre dello scorso anno il punto di svolta dell’atteggiamento del governo giordano verso i profughi iracheni, in concomitanza con il triplice attentato che ha colpito tre grandi alberghi di Amman, con un bilancio di 57 morti e 300 feriti. I 4 attentatori suicidi erano tutti iracheni e si erano introdotti in Giordania fingendosi profughi. Da quel momento, per timore di una destabilizzazione interna, le autorità giordane hanno cominciato a non rinnovare i permessi di soggiorno e a non concederne di nuovi. Hrw ha raccolto le testimonianze di molti profughi iracheni che, prima degli attentati ad Amman, avevano cominciato una nuova vita in Giordania, trovandosi una casa e un lavoro. Molti di loro sono stati cacciati, perdendo ancora una volta tutto e ritrovandosi nell’inferno dal quale erano fuggiti.

 

Mose: Legambiente ricorre al Tar

Il governo porta avanti il progetto delle paratie mobili. Le ragioni del ricorso: contrasta le norme urbanistiche comunali, quelle sulla Via della Regione ed europee sui Sic. Della Seta: «Una scelta obbligata»

Legambiente porta il Mose davanti al Tar. Perché se il Consiglio dei Ministri, nonostante l’assoluta mancanza di Via e il parere nettamente contrario del Comune di Venezia, ha deciso di dare il via libera a un progetto di tale portata e così controverso, allora per Legambiente diventa inevitabile fare ricorso alla giustizia amministrativa. E lo fa per 3 buoni motivi: è un progetto che contrasta con le norme urbanistiche del Comune e il Piano di Area della Laguna e dell’Area Veneziana (Palav) della Regione Veneto, con le leggi nazionali che prevedono la Valutazione di Impatto Ambientale e con quelle europee sui Siti di Interesse Comunitario (Sic).

«Abbiamo deciso che quella giudiziaria è purtroppo una via obbligata per fermare un’opera che, allo stato attuale, rischia di rivelarsi un clamoroso e costosissimo errore - dice il presidente nazionale di Legambiente Roberto Della Seta – Fino a oggi abbiamo tentato di far ascoltare le ragioni della nostra contrarietà, abbiamo chiesto che venissero esaminati i progetti alternativi, meno impattanti e meno costosi, ma il Ministro Di Pietro, ignorando le stesse perplessità del sindaco Cacciari, ha deciso di ingranare la quinta e far viaggiare questa infrastruttura a tutta velocità e sulla corsia d’emergenza».

A queste considerazioni va aggiunto che si tratta di un progetto sbagliato, che non risolve ma aggrava i problemi di acqua alta che affliggono Venezia, e che avrà un impatto ambientale e paesaggistico devastante e permanente sulla Laguna. Esiste il progetto alternativo prodotto dal Comune di Venezia che è stato scartato a priori, senza la minima considerazione, così come è stato bypassato il parere contrario del Ministero dell’Ambiente. «Venezia è un tesoro dell’umanità e non c’è prezzo troppo alto per salvaguardarne il futuro – conclude Della Seta – il MOSE sottrarrebbe una quantità enorme di risorse agli interventi veramente urgenti per mettere in sicurezza la città. Per questo chiediamo al governo di ripensarci».

 

Cessate il fuoco

Sudan.

Il 23 novembre scorso, un gruppo di ribelli non identificato ha attaccato una base della polizia a Manwachi, 75 chilometri a nord di Nyala nella regione del Darfur, uccidendo 6 poliziotti e ferendone altri 7.
Il 27, scontri si sono verificati tra l'esercito sudanese e gruppi armati non identificati nelle regioni del Darfur meridionale e del Kordofan occidentale, secondo quanto riferito dalle autorità di Khartoum. Il bilancio è di 32 morti.
Il 29, i ribelli ugandesi del Lord’s Resistance Army hanno accusato l’esercito di aver ucciso 3 ribelli presso i campi di raccolta di Ngangala e Magwi, nel Sudan meridionale.

Repubblica Democratica del Congo.

Il 24, investigatori dell'Onu hanno scoperto una fossa comune con 30 cadaveri, tra cui quelli di donne e bambini apparentemente giustiziati, presso il campo militare di Bavi, circa 40 chilometri a sud della città di Bunia, capoluogo della regione nordorientale dell'Ituri.
Il 29, l'esercito congolese ha reso noto che i combattimenti attorno al centro di Sake, nel Kivu, tra le Forze Armate e i dissidenti guidati dal generale Laurent Nkunda hanno provocato almeno 3 morti e 50 feriti, costringendo alla fuga centinaia di civili.

Nigeria.

Il 29, la polizia nigeriana ha reso noto che una bomba, nascosta in un'automobile, è esplosa nella città meridionale di Benin City, nello stato di Edo. Nell'esplosione è morto un uomo d'affari locale.

Uganda.

Il 24, rappresentanti dell’Onu nel Paese hanno accusato l’esercito ugandese di atrocità nei confronti dei civili nell'àmbito delle operazioni condotte nella regione nordorientale del Karamoja. Tra il 29 ottobre e il 15 novembre, le vittime sarebbero state almeno 55, tra cui alcuni civili giustiziati sommariamente dall'esercito ugandese.

Somalia.

Il 30, le Corti islamiche hanno reso noto di aver teso un'imboscata presso il confine a un convoglio di militari etiopi diretti a Baidoa, uccidendone almeno 20.

Israele e Palestina.

Il 23, un palestinese di 20 anni è stato ucciso dall'esercito israeliano nei pressi di Beit Lahiya. Sempre a Beit Lahiya 2 militanti palestinesi sono morti in un raid aereo israeliano. Nella stessa zona, una donna di 64 anni si è fatta esplodere contro una postazione israeliana, ferendo 2 soldati.
Il 24, un militante di Hamas è stato ucciso a Jabaliya, nel nord di Gaza city, da soldati israeliani. Un bambino di 10 anni è stato ucciso dal fuoco israeliano a Beit Lahya, a nord di Gaza.
Il 25, un palestinese è morto durante uno scontro a fuoco con le truppe israeliane a Beit Lahiya, un altro è stato ucciso nei pressi del valico di Karni, tra Israele e la Striscia di Gaza.
Il 27, Un palestinese di 25 anni è stato ucciso durante un incursione israeliana a Jenin, in Cisgiordania. Una donna di 50 anni è stata uccisa mentre tentava di soccorrerlo.

Nord Caucaso.

Il 23, un leader dei miliziani ceceni, Bogdan Suleimanov, è stato ucciso in un'operazione speciale delle truppe federali e delle forze di sicurezza locali nel distretto di Shatoi, nel sud della Cecenia.
Il 26, un portavoce delle forze di sicurezza russe ha dichiarato che Abu Khavs, un leader dei ribelli che comandava i mercenari stranieri in Cecenia, è stato ucciso insieme altri 5 ribelli a Khasavyurt, in Daghestan, durante uno scontro a fuoco con la polizia. Un sospetto ribelle è stato ucciso dalle forze speciali a Malgobek, in Inguscezia, durante un tentativo di arresto.
Il 27, un soldato è morto e altri due sono rimasti feriti in un attacco ad opera di sconosciuti nel distretto di Gudermes, circa 30 chilometri ad est della capitale cecena Grozny.

Colombia.

Il 26, 2 paramilitari di una fazione dissidente dell’Autodifesa unita della Colombia sono morti durante uno scontro a fuoco con l’esercito. Dieci i detenuti, 8 dei quali feriti. Lo scontro è avventuo nella zona rurale di Seminá, nella zona centro-ovest del paese.

Sri Lanka.

Il 24 almeno 30 guerriglieri delle Tigri Tamil sono stati uccisi in combattimenti contro l'esercito. E' accaduto nell'est e nel nord del Paese.

India (Kashmir).

Il 24 quattro soldati indiani e due presunti militanti islamici sono morti in scontri a fuoco nel Kashmir indiano. Lo ha riferito un portavoce dell'esercito. Le violenze si sono verificate nell'area di Shopian, a sud di Srinagar.
Il 27 la polizia indiana ha annunciato di avere ucciso durante uno scontro a fuoco due militanti del gruppo guerrigliero Lashkar-e-Toiba. L'episodio è avvenuto a Pampore, a 20 chilometri da Srinagar.

 

Italiani in ufficio, poco aiuto da capi e colleghi

Indagine Eurofound: Italia agli ultimi posti per cooperazione negli uffici. Solo un lavoratore su due può chiedere aiuto ai colleghi. Ancor meno sono quelli che si possono rivolgere diretto responsabile. Molto più cooperativi gli uffici in Danimarca, Olanda, Svezia e Finlandia. E pochi sono quelli che lavorano in gruppo. UFFICI D’EUROPA: quando i colleghi si aiutano.

di FEDERICO PACE

Peggiorano le condizioni di lavoro negli uffici italiani. E il lavoro diventa sempre di più una cosa che ci si deve sbrigare da soli. Senza potersi aspettare troppo sostegno dagli altri. Tanto che sono sempre meno i lavoratori che possono chiedere aiuto ai colleghi e sempre più raramente qualcuno di loro arriva a rivolgersi, in caso di bisogno, al diretto responsabile.

Da noi solo il 50,7% dei lavoratori può chiedere aiuto ai colleghi mentre un ancor più misero 33,6% può fare lo stesso con il suo capo diretto. Sono questi alcuni dei dati che verranno presentati oggi a Roma da Eurofound, la Fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dell’Unione europea, presso la sede centrale della Cgil a Roma.

Così, gli open space, le dichiarazioni di intenti di manager e coordinatori tutte tese alla cooperazione, all'organizzazione orizzontale, si scontrano con la realtà che da noi pare essere caratterizzata da individualismo e sfiducia.

In Europa, a vedere i dati della quarta indagine europea sulle condizioni di lavoro, la cooperazione è molto più elevata. Nel Vecchio Continente ricorre all’aiuto dei colleghi il 67,1 per cento dei lavoratori, mentre possono interpellare il capo il 56,1% dei dipendenti. Per questo non desta sorpresa quanto da noi sia poco diffuso il lavoro di gruppo: in Italia solo il 39 per cento dei dipendenti lavora costantemente in team, mentre, nei rimanenti paesi dell'Unione europea a 25, succede lo stesso ad una media di oltre cinque lavoratori su dieci (55%).

"Questi primi risultati – ha dichiarato Jorma Karppinen, direttore della Fondazione europea - rivelano che in Italia negli ultimi cinque anni vi è stato un deterioramento delle condizioni di lavoro, almeno rispetto al resto dell'Europa.” I paesi in cui la cooperazione tra colleghi è più spiccata sono Svezia, Danimarca, Lettonia, Olanda e Irlanda dove le percentuali superano di gran lunga l’80 per cento. Stretto il legame anche il responsabile diretto in Lettonia, Danimarca, Irlanda e Finlandia.

Quanto ai sintomi sanitari, è lo stress quello che gli italiani più comumente associano al lavoro. Lo menziona infatti il 27 per cento dei lavoratori italiani contro il 22% della media europea. Tra gli altri problemi citati, mal di schiena, mal di testa e affaticamento generale.

 

Libertà, ma non per tutti

La pioggia di denaro nel Kurdistan iracheno è finita in poche mani

dal nostro inviato Vauro

Villaggi rurali, casupole fatte di fango secco, sparsi sugli altopiani curdi. Lì la gente è costretta a vivere di niente. Intorno, specialmente nella zona del confine con l’Iran, decine di migliaia di mine, proiettili e ordigni inesplosi, eredità micidiali di guerre passate e recenti, sono gli unici doni portati dal ''progresso'' a queste popolazioni, visto che elettricità, strade, scuole, ospedali sono sempre state loro negate e continuano ad esserlo anche ora che nel Kurdistan 'liberato' piovono i soldi della ricostruzione e degli investimenti stranieri.

Baraccopoli curde. Denaro che solidi argini fatti di corruzione e speculazione fanno confluire sui centri urbani come Sulemanya o Erbil. Ed ecco che allora, come una frana carsica, dagli altopiani la miseria si riversa sulle città e ne lambisce le periferie. Hanno veramente l’aspetto di una frana carsica le distese di immondizia che circondano, fino quasi a soffocarle, 8mila baracche fatte di blocchetti di cemento accatastati uno sull’altro, coperte con teli di plastica e terra. Sono sorte in pochi mesi in questo vasto affossamento di terreno al confine sud della citta di Sulemanya. Alcune ruspe scavano percorsi tra i cumuli di rifiuti, strade di melma fetida che collegano l’una all’altra le zone di questo immenso agglomerato di squallore. Il colore del fango sembra sommergere tutto, ma qua e là il rosso, il blu brillante dei vestiti tradizionali delle donne curde riescono a tratti a sconfiggerlo, resi più vivaci dal movimento delle figure affaccendate o che si affacciano curiose dal buio degli ingressi delle baracche. Davanti ad una di esse una donna anziana ha appeso un telo di plastica sul fango della strada sopra il mucchietto di spezie ambrate che sta setacciando con gesti antichi. Ne raccoglie un pò con un recipiente di latta e poi lo lascia ricadere sul mucchio, il vento porta via scintille dorate. Uomini fermi, a gruppetti sparsi, infagottati nel larghi vestiti dei peshmerga, chiusi con una fascia alla vita. Ferma anche una pecora spelacchiata legata a un palo, patrimonio prezioso che una famiglia si è portata dal villaggio di provenienza.

La clessidra di pietra. Per un momento tutto sembra immobile, bloccato in un tempo che non ha sbocco, animato solo dal volo ottuso di nugoli di mosche, invadenti e onnipresenti. Poi, quasi all’improvviso, frotte di bambini riempiono delle loro voci e delle loro corse gli spazi angusti tra le baracche. Tornano dal loro turno di lezione nella scuola. La scuola che è stata ricavata da quella che era la vecchia struttura di un allevamento di polli. Una costruzione di cemento bassa e lunga, stanze buie una a fianco all’altra, dove la luce filtra solo da alcune feritoie chiuse da sbarre di ferro, sono già piene di altri bambini, quelli del secondo turno. Se proprio questo pollaio non si può chiamare scuola, almeno le divise scolastiche sono tali, camicia bianca e cravatta nera per i bambini, vestito grigio e fiocco blu per le bambine. Non sappiamo perché Shiniar oggi non è andata a scuola. Shiniar ha sette anni, è paffutella e con le gote rosse. Ancora più rosse adesso che è intimidita dalla nostra presenza mentre suo padre ci riceve nella sua abitazione, facendoci accoccolare sul tappeto, unico arredo della stanza. ''Noi, io e la mia famiglia veniamo dal villaggio di Kanispika – ci spiega - là non avevo possibilità di lavoro, non riuscivamo più a sopravvivere, qui in città ho comunque qualche speranza in più''. Poi guarda Shiniar, "c’erano campi minati intorno al villaggio, certo erano segnalati, ma Shiniar aveva solo 5 anni, i bambini corrono qua e là per giocare, anche stando attenti è difficile tenerli sempre sotto controllo. È bastato un attimo..". Scopre con un gesto delicato la gamba destra di Shiniar, alzando il pantaloncino, al suo posto c’è una protesi, il piede di plastica calza come l’altro una ciabattina bianca con un fregio di perline di plastica.

 

6 dicembre

 

Un po’ di chiarezza sulla nazionalizzazione di bankitalia

Di Pierluigi Paoletti www.centrofondi.it

Negli ultimi giorni il neo governatore Draghi ha riportato alla ribalta il tema della nazionalizzazione della banca d’italia (il carattere minuscolo non è un errore) attualmente in mano proprio a quelle banche sulle quali avrebbe il compito istituzionale di vigilanza. Questa, come sappiamo dalle cronache degli ultimi anni, non è un’anomalia solo italiana, ma comune a molti paesi tra cui la fed americana (http://it.wikipedia.org/wiki/Federal_Reserve).

Noi non possiamo sapere come sia avvenuto questo colpo di mano, l’art.3 dello statuto di bankitalia prevede che la maggioranza delle azioni sia in mano pubblica, perché gli azionisti sono stati a lungo celati da una spessa cortina di nebbia ed il loro elenco è stato reso pubblico solo fortunosamente per un controllo incrociato sui bilanci fatto dall’ufficio studi di Mediobanca nel 2003 e ufficialmente apparso (purtroppo ancora incompleto) sul sito di bankitalia http://www.bancaditalia.it/la_banca/partecipanti/Partecipanti.pdf solo dal settembre dello scorso anno grazie agli sforzi della controinformazione.

Ora, cacciato con disonore Fazio, si vuole ridare una mano di onorabilità a bankitalia rivedendo il suo statuto e restituendola al controllo pubblico. Una delle poche favole a lieto fine? Neanche per sogno e vediamo perché.

Il fatto della proprietà è importante solo ai fini di un corretto controllo dell’attività di credito svolta dalle banche, il fatto che con un blitz le banche si siano impossessate del controllo dell’istituzione che dovrebbe vigilare sul loro operato la dice lunga sulla serietà dei controlli messi in atto da bankitalia e profumatamente pagati dal contribuente (allo stato sono rimasti tutti i pesantissimi oneri della gestione – una manovrina finanziaria - compresi stipendi, spese, pensioni ecc. tutti d’oro naturalmente). I risultati sono sotto gli occhi ancora esterrefatti dei sottoscrittori di obbligazioni Cirio, Parmalat, Argentina o dei clienti truffati di Monte dei Paschi e Banca 121 per non parlare della BPL di Fiorani e di Banca Unipol di Consorte solo per citare gli ultimi fatti di cronaca.

Le banche azioniste dal canto loro, con la consueta e sempre più insopportabile arroganza del potere, si sono dichiarate “preoccupate” di dover svendere la loro partecipazione in bankitalia valutata da 800 milioni di euro dall’ex ministro Tremonti ai 23 mld di euro dell’ABI. Uno strano senso di giustizia non c’è che dire. Invece di vergognarsi di essere state colte con le mani nella marmellata, restituendo con mille scuse la proprietà di bankitalia alla comunità e dover rispondere nelle opportune sedi di tutte le malefatte compiute con la silenziosa complicità del controllore in questi anni, compreso un congruo risarcimento ai cittadini loro vittime, si preoccupano di quanto incasseranno dalla vendita della loro partecipazione (posseduta illegittimamente) in bankitalia.

Ma ci faccia il piacere! direbbe il Principe De Curtis, in arte Totò

La questione della proprietà della banca d’italia, pur importante, passa però in secondo piano quando esaminiamo il cuore del problema ovvero l’emissione monetaria. (su questo tema consigliamo anche di rileggere un nostro “profetico” articolo del settembre 2005 http://www.centrofondi.it/articoli/bankitalia_signoraggio.htm)

Una comunità evoluta per agevolare gli scambi usa il denaro come controvalore delle merci e dei servizi prodotti oltre a quella necessaria per gli investimenti futuri. Semplificando il fabbisogno di moneta è pari all’incremento del PIL più la quota relativa agli investimenti come infrastrutture, strade, ponti, ferrovie. La comunità invece di emettere in proprio questo fabbisogno monetario, come sarebbe legittimo e sancito dalla Costituzione della Repubblica quando dice che il popolo è sovrano, la fa emettere dalla banca centrale (ora la bce).

Il problema è che alla banca centrale lo stato non rifonda i soli costi di stampa per il servizio, non essendoci oramai alcuna copertura di oro o di altra ricchezza a garanzia del denaro emesso, ma paga questo servizio indebitandosi emettendo obbligazioni (Bot, Btp, Cct ecc.) per un importo pari al valore facciale delle banconote con il risultato che così facendo tutta la comunità si indebita per un qualcosa che invece gli dovrebbe appartenere di diritto, generando il famigerato e pesantissimo debito pubblico oggi al 106% del Pil.

Questa enorme massa di denaro invece di essere accreditata alla comunità crea un debito che nemmeno con tutta la buona volontà sarà possibile ripianare facendoci precipitare nell’inferno più orribile. Diventa superfluo dire che tutto ciò non sarebbe potuto accadere se tutta la classe politica passata e presente non fosse stata complice attivo e consapevole di questi misfatti.

Di tutta questa enorme ricchezza che entra nelle tasche della bc, misteriosamente non ne rimane traccia nei bilanci. Perché?

Semplicemente perché la bc iscrive al passivo quel guadagno come se si fosse privata di tanta ricchezza pari al valore facciale del denaro emesso oltre alla carta e all’inchiostro. E’ chiaro anche ai non addetti ai lavori che con queste premesse il bilancio di bankitalia è sempre in perdita e quindi non c’è nessun utile da ripartire tra gli azionisti.

Che strada prenda tutto quel ben di Dio non è dato sapere anche se lo scandalo delle stanze di compensazione delle segretissime Euroclear e Clearstreem e qualche conto scoperto nei paradisi fiscali, qualcosa fa immaginare.

Allora, rebus sic stantibus mentre è chiarissima la ragione per cui le “controllate” hanno preso il controllo del “controllore”, meno chiara appare la ragione per cui lo stato dovrebbe riprendersi bankitalia senza riappropriarsi della sovranità monetaria e oltretutto pagare per qualcosa che è suo.

Pagare qualcosa che ci appartiene però, come abbiamo spiegato prima, speriamo con la dovuta chiarezza, sembra essere lo sport nazionale e la proprietà pubblica della banca centrale di stati come Canada, Inghilterra, Svezia, Svizzera ecc. e soprattutto il loro debito pubblico dimostra che è una pratica diffusa anche all’estero.

In questo caso lasciateci dire che il detto “mal comune mezzo gaudio” non ci soddisfa per niente.

 

L'Asso pigliatutto in piazza San Giovanni

di EUGENIO SCALFARI

MOLTI mesi fa scrissi un articolo su Silvio Berlusconi intitolandolo "Il corpo del re", il re o comunque il Capo che si esprime anche e anzi soprattutto attraverso il proprio corpo, parla con il corpo, il suo più appropriato linguaggio è quello del corpo, degli istinti e delle pulsioni anziché dei concetti. Berlusconi pensa con il corpo, l'intelletto viene dopo e gli serve per razionalizzare e dare una parvenza logica a ciò che l'istinto gli ha suggerito.

Questo modo di esprimersi istintivamente ha il pregio, in certe occasioni, di mettere il Capo in comunicazione diretta con la gente, con l'istinto e le pulsioni della gente. Sconvolge il modello della democrazia rappresentativa, scardina i partiti, inclina verso l'unanimismo plebiscitario. Quando il corpo del Capo si allontana, non scende direttamente in battaglia ma s'impiglia nei meandri della politica e dell'amministrazione, allora la sintonia istintiva tra la gente e il Capo s'indebolisce, emergono gli errori, le debolezze, le bugie che fino a quel momento erano state oscurate dal carisma del Capo in forza del quale tutto veniva perdonato, rimosso o addirittura convertito in positivo: le bugie diventavano verità, gli errori e i vizi si trasformavano in virtù.

Berlusconi è perfettamente consapevole di questo suo dono che è al tempo stesso il limite della sua azione politica. Ne è talmente consapevole da avere sempre personalizzato al massimo le sue campagne elettorali, d'aver privilegiato gli slogan sul ragionamento, da aver demonizzato e inventato il nemico riservandosi la parte dell'Arcangelo che uccide con la lancia dalla punta d'oro il drago liberando il mondo dalla sua infernale presenza.

Questo è il modello che dal 1994 configura lo scontro politico in Italia: una sorta di funesta fascinazione che ha reso dura la vita di chi opera servendosi della ragione, delle mediazioni, della politica senza miracoli e senza plebisciti. E questa è anche una delle cause, direi la principale, della debolezza del riformismo. Il riformismo da solo non suscita entusiasmi, non fa sognare; promette e spesso ottiene risultati importanti e duraturi ma non sconvolgenti né miracolosi. Il riformismo richiede tenacia e tempi lunghi. Non esibisce il corpo del re perché non si affida ad un re, ad un Capo indiscusso.

Anche i grandi riformisti hanno avuto un carisma ma l'hanno usato per realizzare obiettivi. Il carisma del Capo usa il carisma per rafforzarlo. Lo conferma il fatto che dopo dodici anni da quell'ormai lontano 1994 il consuntivo del berlusconismo è una pagina bianca. Non ha diminuito il debito, non ha diminuito le tasse, non ha aumentato la competitività, non ha regolato l'immigrazione, non ha migliorato i servizi pubblici, non ha realizzato la sicurezza, non ha arricchito il patrimonio delle infrastrutture, non ha liberalizzato i mercati. Anzi ha decisamente peggiorato quasi tutti questi capitoli dalla politica interna, dell'economia, della politica estera.

Eppure il corpo del re è ancora lì e ancora esercita un intatto fascino sulla gente. Lo si è visto ieri nella grande manifestazione svoltasi a Roma "per Silvio e contro le tasse". Una manifestazione che sarebbe sbagliato prendere sottogamba facendo finta di non averla vista e derubricandola a episodio privo d'importanza e di effetti.

* * *

Il discorso del Capo non poteva essere più chiaro, più demagogico, più gremito di slogan, più fitto di bugie di quello che abbiamo ascoltato ieri. Talmente ripetitivo che da un certo punto in poi la piazza gremita e inizialmente entusiasta e plaudente ha cambiato umore rifugiandosi in un ascolto silente e vagamente annoiato.

Il discorso avrebbe potuto concludersi dopo i primi dieci minuti. Tutto quello che è stato detto dopo non ha fatto che ripetere quasi letteralmente il già detto: un partito unico per difendere la libertà contro un governo animato dall'odio sociale, dal desiderio di tassare tutti senza dare niente a nessuno, contro lo sviluppo, contro il risparmio, contro il patrimonio, contro il reddito, contro la famiglia, contro la scuola, contro la ricerca, contro gli artigiani, contro i commercianti, contro le piccole imprese, contro le forze armate. Insomma contro tutti.

Per fronteggiare il drago e la pestilenza che esso vuole diffondere ecco l'Arcangelo e la sua lancia, ecco il popolo che scende in piazza per mandare a casa il governo e uccidere il drago in nome della Patria, della famiglia, del cristianesimo.

Di tanto in tanto una parte della piazza scandiva "Silvio Silvio", ma il coro è stato sempre meno unanime col passare dei minuti. Questo abbiamo sentito e questo, in coscienza, riferiamo.

* * *

Gli effetti politici di questa manifestazione sono quattro. Primo: è stata numericamente imponente. Secondo: il leader unico del centrodestra è più che mai Silvio Berlusconi; Fini, Bossi e nella lontana Palermo, Casini, ne escono frantumati. Terzo: l'ipotesi d'un governo di larghe intese non esiste e semmai fosse esistita ora è completamente affondata. Quarto: l'odio contro la Finanziaria è il cemento - forse l'unico vero cemento - che tiene unita la gente che ascoltava Berlusconi e quanti a casa si riconoscono in essa e ne sono rappresentati. Programmi? Nessuno. Declamazioni? Moltissime. Forza politica? Notevole.

Il centrosinistra ha, dal canto suo, notevoli responsabilità nel fatto che il corpo del re risulti ancora suggestivo. Ha dissipato un capitale che nel maggio scorso era altissimo. Ma la colpa non è nella Finanziaria le cui linee maestre sono quelle che la situazione rendeva necessarie. La colpa è d'una maggioranza slabbrata, frantumata, rissosa. Che vuole (capitemi bene) vuole apparire slabbrata, frantumata, rissosa. Tra i partiti e dentro gli stessi partiti; tra partiti e governo e dentro lo stesso governo.

Il corpo del re era esanime nel maggio scorso e lo era già a partire dal 2003. Se oggi è di nuovo in piedi lo si deve più alla frantumazione di cui la maggioranza vuole far mostra che alle virtù proteiche dell'opposizione. Questa è la triste verità e i sondaggi più recenti ne danno conferma.

Il raduno romano dei berlusconiani non lascia più tempo al governo e alla sua maggioranza. Al contrario di quanto finora hanno voluto, d'ora in poi debbono volere ed essere uniti, positivi, selezionare gli obiettivi e puntare su di essi, abbandonare l'ossimoro "di lotta e di governo". La buona politica si fa governando o opponendosi a chi governa, in mezzo al guado non si può stare.

Il centrosinistra ci sta da sei mesi. Ha già superato la soglia del tollerabile. Per grottesco e per certi aspetti terrificante che sia apparso il comizio di Berlusconi, il centrosinistra non ha più nemmeno un giorno a sua disposizione. Dietro l'angolo, se continua sulla strada del Brancaleone, c'è un naufragio che sarebbe drammatico non solo per il centrosinistra ma per la democrazia italiana.

 

La giungla dei privilegi

Stipendi folli, auto blu, biglietti gratis, poltrone assicurate, bonus faraonici. Dai politici ai manager, dai religiosi ai sindacalisti, tutti i benefici-scandalo. Che gli italiani vedono crescere sempre di più.

Ancora di più. Le caste dei diritti acquisiti non si arrendono e continuano a fare incetta di nuovi privilegi. C'è chi si muove personalmente, con modi tra il piratesco e l'autoritario. E chi marcia compatto nei ranghi delle corporazioni, unica istituzione che sopravvive allo sfascio di partiti e pubblica moralità. Ma tutti puntano a un solo obiettivo: ritagliarsi quell'orticello di vantaggi protetti, svincolati da meriti e risultati. Un po' per interesse, spinti dalla brama di guadagni sicuri; un po' per la voglia di emergere ostentando status symbol come l'auto blu; un po' per una mai sopita vocazione da hidalgo che fa sentire superiori ai comuni mortali e all'obbligo di pagare biglietti. Certo: il vizio è atavico. Ed è sopravvissuto a ogni rivoluzione egualitaria, a ogni processo di razionalizzazione, a ogni ondata di modernità e moralità: particolarismo, egoismo e protezionismo; la sacra trinità di una passione italica immortale. Che nessuna crisi e nessuna stretta riesce a sconfiggere. Anzi, come dimostra il sondaggio Swg realizzato per conto de 'L'espresso', la maggioranza degli italiani è convinta che il fronte dei 'lei non sa chi sono io' stia costantemente crescendo. E non si illude di sconfiggerli: per la metà degli intervistati nessuno può far arretrare i sistemisti del benefit a spese altrui. Solo un terzo ritiene che il premier Romano Prodi possa scendere in campo con successo contro il dilagare dei cavalieri dell'indennità facile e ancora meno (il 14 per cento) ripone fiducia nelle capacità del suo predecessore Silvio Berlusconi: insomma, per il 49 per cento entrambi sono impotenti.

Intanto però il bestiario si arricchisce di nuove figure: di baroni del posto nepotista che assieme alle università colonizzano anche il futuro del Paese, di procacciatori di prebende federaliste che proliferano nelle regioni, di speculatori squattrinati che vivono da nababbi sulle spalle del risparmiatore. Ne studiano tante e così velocemente da spiazzare la popolazione. Perché le indennità record dei parlamentari, le lunghe vacanze di molti magistrati, i posti prioritari dei figli di boiardi sono vantaggi che tutti comprendono e tutti indignano. Mentre il top manager che con un investimento minimo sale al timone di una holding quotata a piazza Affari e si riempie le tasche di stock option riesce a sottrarsi all'ira delle masse. Come fa? Sfrutta l'ignoranza e la diffidenza per la Borsa: il sondaggio realizzato da 'L'espresso' dimostra che quattro italiani su dieci non sanno cosa siano le stock option e quindi non le vivono come un privilegio. Forse se si rendessero conto che con questo escamotage finanziario una pattuglia di capitani d'industria porta a casa milioni di euro extra, allora rivedrebbero le loro hit parade. Che oggi restano molto convenzionali. Al primo posto tra i benefici che provocano irritazione ci sono gli stipendi dei politici: detestati dall'83 per cento degli italiani, con una quota che sale fino al 94 tra gli elettori del centrodestra e scende all'80 tra quelli dell'Unione. Seguono le paghe dei manager pubblici, da sempre sospettati di inefficenza e lottizzazione, invisi al 73 per cento del campione. Infine i vantaggi diretti, la Bengodi delle auto di servizio, dei passaggi gratis in aereo e dei pranzi a ufo di cui approfittano tante categorie tra il pubblico e il privato: il 72 per cento li vorrebbe cancellare. Molte volte ci sono anche luoghi comuni, difficili da sfatare: l'ondata di baby pensionati nelle amministrazioni statali ha creato una massa di invidia e malcontento consolidati nel 58 per cento. La stessa premessa vale per le ferie lunghe che vengono attribuite a insegnanti e magistrati, il segno di una scarsa considerazione nella produttività delle due categorie. Quello che invece finisce nel conto di manager privati non sorprende più di tanto e non sembra scatenare sentimenti particolarmente negativi.

In generale, il disgusto per questa corsa al tesserino e al piedistallo lascia spazio a una grande rassegnazione. No, la speranza non viene né dai politici, né dai sindacati, percepiti anzi come alfieri del beneficio garantito: c'è il sogno della rivolta di base, animata dalle associazioni dei cittadini (31 per cento) e magari mobilitata da un ruolo più pungente dei mass media (28). Perché il privilegio si allarga e contagia nuove categorie, tutte avide di ritagliarsi una fettina di onnipotenza. Pubblico, privato; laici e cattolici; guardie e ladri; tutti uniti nel difendere la loro isoletta dorata.

Camere a cinque stelle

Stipendi smisurati e una vita spesata, questo è il bello del rappresentare i cittadini. Forse troppo, tanto che, come dimostra il sondaggio Swg per 'L'espresso', gli italiani sarebbero felici di limare questo montepremi. Già, perché deputati e senatori incassano ogni mese più di 14 mila euro tra indennità, diaria e rimborsi vari. Allo stipendio di 5 mila e 500 euro bisogna aggiungere il rimborso di 4 mila euro per il soggiorno a Roma e altre 4 mila e 200 euro per 'le spese inerenti il rapporto tra il deputato e l'elettore'. Al Senato questa voce è aumentata di circa 500 euro al mese. Poi c'è il capitolo trasporti: il parlamentare si muove come l'aria nel territorio nazionale. Infila la porta del telepass in autostrada senza ricevere nessun estratto conto, al check-in prende posto in business senza mettere mano al portafoglio e all'imbarco del traghetto non fa fila né biglietto. E i taxi? Niente paura. È previsto un rimborso trimestrale pari a 3 mila e 300 euro. Mentre per i deputati che abitano a più di cento chilometri dall'aeroporto più vicino, il rimborso sale a 4 mila euro. L'angelo custode del bonus non abbandona il parlamentare nemmeno quando varca i confini nazionali per 'ragioni di studio o connesse alla sua attività': gli spettano fino a 3.100 euro all'anno. Per avere un'idea del costo degli 'onorevoli viaggi' basti un dato: i soli deputati nel 2005 sono costati alla collettività 40 milioni. Non paga nemmeno il telefono, fisso o mobile, fino a una bolletta massima di 3.100 euro. E ha diritto a un computer portatile e alla fine della legislatura (per tutelare la riservatezza dei dati) può tenerselo.

Di tutti i privilegi, però quello che costa di più è il dopo. Ossia il trattamento pensionistico. Deputati e senatori, anche se in carica per una sola legislatura, maturano il diritto a una pensione straordinaria. Si chiama vitalizio e dovrebbe maturare al compimento dell'età di 65 anni. In realtà, se ha fatto più legislature il deputato, come un lavoratore usurato, può andare in pensione a 60 anni (che scendono a 50 per quelli delle precedenti legislature). Il vitalizio varia da un minimo del 25 per cento dell'indennità (2.500 euro circa) per chi ha versato solo i canonici cinque anni di contributi della singola legislatura. Ma arriva fino a un massimo dell'80 per cento dell'indennità per chi ha più legislature alle spalle. Comunque, per maturare il diritto alla pensione non è necessario restare in carica cinque anni. In passato bastavano pochi giorni. Ora ci vogliono due anni, sei mesi e un giorno. E gli eletti dal popolo contano doppio: possono sommare la pensione dovuta per la loro attività professionale a quella ottenuta per rappresentare i cittadini. La liquidazione parlamentare, poi, non è meno regale: 80 per cento dell'indennità moltiplicato per gli anni della legislatura, ossia minimo 35 mila euro.

Ottimi Consiglieri

Evviva il federalismo, evviva le regioni: ogni capoluogo si sente capitale, ogni assemblea vuole imitare Montecitorio. Ma che bel mestiere fare il consigliere: Lombardia, Lazio, Abruzzo, Emilia Romagna, Calabria gli elargiscono il 65 per cento del compenso riconosciuto al deputato. E più si sentono autonomi, più si premiano. I sardi, infatti portano a casa l'80 per cento dell'indennità nazionale a cui vanno aggiunte tutte le voci previste alla Camera: la diaria, i rimborsi, la segreteria. A conti fatti si superano i 10 mila euro. E non è finita qui. I consiglieri isolani hanno inventato anche i fondi per i gruppi: 2 mila e 500 euro per ogni consigliere più altri 5 mila al gruppo di almeno cinque persone. Inoltre, quando sono a Roma, hanno diritto a un auto blu con autista.

In passato la Sardegna si distingueva anche per le sue generose buonuscite: 117 mila euro per consigliere. La chiamavano 'indennità di reinserimento', come si fa con i tossici usciti da San Patrignano. Ora è stata ridotta a 48 mila euro, speriamo che non ricadano nel vizio. Quella del reinserimento è una moda diffusa. Il Molise ha appena varato un sostanzioso "premio di reinserimento nelle proprie attività di lavoro" a tutti i consiglieri trombati o non ricandidati: così l'onorevole Aldo Patricello dell'Udc, dimessosi per diventare europarlamentare, si prende più di 72.700 euro ed è primo della speciale classifica, al pari dei diessini Nicolino D'Ascanio (attuale presidente della Provincia di Campobasso) e Antonio D'Ambrosio e a Italo Di Sabato di Rifondazione. Ai privilegi infatti ci si affeziona. L'ex governatore pugliese Raffaele Fitto di Forza Italia aveva ottenuto l'auto blu per alleviare i primi cinque anni senza carica. La delibera è stata cambiata dopo le contestazioni, ma la giunta di sinistra non si è dimenticata degli ex: le pensioni sono state ritoccate. Al rialzo. Perché in Puglia il benefit è ecumenico: anche alcune delle 19 Lancia Thesis noleggiate dalla Regione sono a disposizione dei 12 assessori uscenti.

Le strade del bonus sono infinite. Un'altra veste giuridica per coprire l'ennesima erogazione va sotto il nome di indennità di funzione per i vertici di giunte e commissioni su misura. Per questo ogni giorno ne nasce una nuova. La Campania deteneva il record nazionale: l'anno scorso le commissioni erano 18. Ognuno dei presidenti intasca 1.650 euro in più al mese, oltre allo stipendio di consigliere regionale (circa 7 mila euro). Poi ci sono le spese di rappresentanza (in media 400 euro mensili) e quelle per il personale distaccato (9.550 euro al mese per un massimo di sei dipendenti a organismo): totale, 180 mila euro. La settimana scorsa, dopo un'ondata di indignazione, la Regione ne ha abrogate sei. Ma dal 2000 al 2005 le indennità dei consiglieri sono passate da 18 milioni a 30 milioni di euro all'anno mentre i benefit sono saliti da 18 a 30 milioni. Nella regione dell'emergenza perenne quei fondi potevano trovare impiego migliore.

Vizi privati

I bilanci aziendali grondano utili e il titolo vola in Borsa? Complimenti ai manager: si meritano un bell'aumento di stipendio. Profitti in calo e quotazioni in ribasso? La musica non cambia: i compensi di amministratori delegati e direttori generali crescono comunque. In Italia, quasi sempre, funziona così. Le retribuzioni dei massimi dirigenti delle società quotate in Borsa si muovono a senso unico: verso l'alto. Stock option, bonus o incentivi vari corrono a gran velocità se l'azienda fa faville. In caso contrario aumentano più lentamente, ma aumentano comunque. Prendiamo l'esempio di Mediaset. L'anno scorso il titolo ha perso lo 0,3 per cento e gli utili sono aumentati del 9 per cento. Difficile definirla una performance brillante. Eppure il presidente Fedele Confalonieri ha visto raddoppiare il suo compenso a 4,7 milioni grazie anche a un bonus di 2 milioni. Telecom Italia, che ha chiuso l'ultimo esercizio con utili di gruppo in aumento del 77 per cento, ha invece deluso in Borsa con un calo del 17,6 per cento tra gennaio e dicembre del 2005. Insomma, per i soci c'è poco da festeggiare, ma i compensi del presidente (dimissionario dal 15 settembre scorso) Marco Tronchetti Provera sono comunque aumentati del 66 per cento: da 3,1 a 5,2 milioni.

Se non bastassero premi e incentivi vari, i manager italiani sono riusciti a cavalcare alla grande anche il gran rialzo di Borsa che dura ormai da quasi tre anni. Come? Grazie alle stock option, cioè le azioni a prezzi di favore assegnate ai manager come forma di retribuzione. Con la riforma fiscale varata dal governo in piena estate questo strumento è diventato molto meno conveniente per i dirigenti, obbligati a inserire nella dichiarazione dei redditi i guadagni derivanti dall'esercizio delle opzioni. Nel frattempo, però, qualcuno era già passato alla cassa. Ai primi posti nella speciale classifica dei super compensi da stock option troviamo così un paio di banchieri protagonisti di grandi operazioni societarie varate in questi mesi. Corrado Passera di Banca Intesa, prossima sposa di Sanpaolo Imi, ha guadagnato 9,9 milioni e poi li ha reinvestiti in titoli del suo istituto. Scelta quanto mai azzeccata, visto che dall'inizio del 2006 le quotazioni di Banca Intesa sono cresciute del 25 per cento. Anche Giampiero Auletta Armenise numero uno di Bpu (Banche Popolari Unite) si prepara alla prossima fusione con Banca Lombarda forte di un guadagno extra di 7,5 milioni realizzato nel 2005 grazie alle sue stock option.

Il gran rialzo del listino azionario ha finito per creare anche un altro gruppo di privilegiati. Banchieri, avvocati, consulenti d'immagine e pubblicitari: sono loro i veri vincitori della grande lotteria delle matricole di Borsa. Una febbre da quotazione che ha portato sul listino una ventina di nuove società negli ultimi mesi, coinvolgendo migliaia e migliaia di risparmiatori. Solo che gli investitori si sono presi il rischio di bidoni e ribassi. I banchieri invece guadagnano comunque. Come è puntualmente successo anche per lo sbarco in Borsa della Saras, l'azienda petrolifera della famiglia Moratti. L'operazione ha fruttato circa 2 miliardi alla famiglia di industriali milanesi. Ai risparmiatori è andata molto peggio, visto che in meno di sei mesi dalla quotazione il titolo ha perso quasi il 30 per cento. Un disastro, ma i banchieri del consorzio di collocamento guidato dalla banca d'affari americana Jp Morgan, affiancata da Caboto (Banca Intesa), hanno comunque incassato la loro provvigione: quasi 40 milioni di euro. A cui vanno aggiunti altri 12 milioni da dividere tra consulenti legali, d'immagine e altri ancora. Mica male per un flop.

Servizi extra

Il 16 dicembre, quando lasceranno i vertici dell'intelligence, avranno già distrutto molti segreti. Qualche carta, invece, la porteranno con sé a futura memoria. Niente di strano: funziona così in tutto il mondo. Emilio Del Mese, Nicolò Pollari e Mario Mori stanno facendo le valigie e si preparano al passaggio di consegne con i loro successori. Ma i conteggi della loro pensione, con relativa buonuscita, sono già pronti. Così, secondo quanto risulta a 'L'espresso', ai tre illustri pensionandi il governo avrebbe riconosciuto una liquidazione che sfiora quota un milione e 800 mila euro. Una somma che forse farà alzare qualche sopracciglio, ma che sarà certamente stata costruita nel pieno rispetto di leggi e contratti e che, in ogni caso, riguarda tre persone che hanno servito lo Stato ad alto livello per oltre 40 anni. Più anomala l'entità della pensione: ogni mese 31 mila euro lordi. A questo importo-monstre si è arrivati cumulando lo stipendio con l'indennità di funzione, che nei servizi chiamano 'indennità di silenzio'. Chi presta servizio al Sisde o al Sismi, infatti, di solito guadagna il doppio rispetto al parigrado che è rimasto in divisa. E l'avanzamento nei servizi è molto discrezionale e rapido. Quando la barba finta va in pensione, però, non si porta dietro quella ricca indennità: il privilegio dei privilegi riconosciuto solo ai capi. Per il resto, chi fa il militare o il poliziotto, di privilegi veri ne ha pochi. Gli stipendi sono bassi e spesso poco rispettosi dell'alto grado di rischio o di stress. Con il tesserino si può viaggiare gratis sui mezzi pubblici e, spesso, godersi gratis la partita di calcio. Ma definirli privilegi sarebbe un po' ardito.

La via Nazionale

Non ci sono più gli affitti agevolati negli immobili di proprietà della banca. Né il caro-legna, un sussidio alle spese per il riscaldamento, o la speciale indennità per gli autisti della sede di Venezia, che guidano il motoscafo invece dell'auto blu. Così come sono un ricordo del passato gli straordinari benefici pensionistici di quando si poteva andare a casa con 20 anni di servizio e un assegno che restava ancorato alle retribuzioni. Anche nell'era di Mario Draghi la Banca d'Italia continua però a dispensare un trattamento ultra-privilegiato ai suoi dipendenti. Basta pensare che gli stipendi dei magnifici quattro del Direttorio di palazzo Koch (il governatore, il direttore generale e i due vice) sono segreti. Scavando un po' si può scoprire che oggi i funzionari generali hanno un lordo annuo di 110 mila euro. Gli oltre 200 direttori di filiale stanno a quota 64 mila; i funzionari di prima a 49 mila e 200. Ma allo stipendio-base si aggiunge una giungla di altre voci che arrotonda la cifra finale. Siccome lavorare stanca, c'è per esempio uno stravagante premio di presenza: chi va in ufficio per almeno 241 giorni in un anno si porta a casa una sorta di quattordicesima: il premio Stachanov. A dicembre c'è la cosiddetta gratifica di bilancio: vale circa 35 mila euro per i funzionari generali; 18 mila per i direttori e oltre 6 mila per i funzionari. Siccome poi la banca ha un suo decoro, i più alti in grado incassano anche un'indennità di rappresentanza, una specie di buono-sarto, che è semestrale, forse per rispettare il cambio di stagione: poco meno di 8.500 euro per i funzionari generali; 4 mila per i direttori; 1.200 per i funzionari.

Onorati baroni

In teoria i professori universitari non dovrebbero godere di chissà quali privilegi, ma in realtà la loro posizione è unica. Perché da noi i controlli di produttività non esistono e una volta conquistata la cattedra i prof restano incollati ritardando pure la pensione. Per arrivare sulla poltrona, poi, fanno di tutto; ma nell'immaginario collettivo e negli atti di parecchie indagini penali domina la catena del nipotismo. Si ereditano posti da ordinario o li si scambia, creando intrecci o addirittura facendo nascere nuove facoltà per gemmazione. La summa del 'tengo famiglia' viene registrata a Bari dove nell'ateneo prosperano tre clan principali: uno vanta ben otto parenti-docenti, gli altri due si attestano a sei. Insomma, l'ateneo è cosa nostra. Il discorso non cambia quando in cattedra sale il medico, che di sicuro dovrà rispondere della sua produttività clinica, ma che rappresenta anche la vetta di una categoria molto corteggiata. Soprattutto dalle case farmaceutiche, prodighe di viaggi per convegni e presentazioni di mirabolanti macchinari: prodotti che poi vengono pagati dalle Asl. Una casta sono sempre stati considerati anche i giornalisti, soprattutto quelli stipendiati per far poco o imbucati in qualche meandro della tv di Stato. Il tesserino rosso, in realtà, si è molto scolorito. Gli sconti delle Fs non sono più automatici, ma richiedono l'acquisto di card annuali (60 euro per avere il 10 per cento in meno sui treni), Alitalia e Airone invece tagliano del 25 per cento i biglietti a prezzo intero. L'unico vero privilegio è l'ingresso gratuito nei musei statali e in numerose gallerie comunali. È chiaro che le eccezioni non mancano. Alcune sono frutto di operazioni di public relation: viaggi, show, vetture in prova, riduzioni su acquisto di auto, sconti su alcuni noleggi. Altre sono concessioni ad personam, come i cadeaux natalizi.

Partecipazioni interessate

Un vero e proprio Carnevale di privilegi è stato per anni il contratto di lavoro dei dipendenti dell'Alitalia. In un'azienda dove la definizione di giorno di riposo sembrava scritta da Totò & Peppino ("Deve avere una durata di almeno 34 ore") e dove i dirigenti riuscivano a farsi infilare nella mazzetta dei giornali i fumetti di Topolino per (si spera) i pupi di casa, alla fine i soldi sono davvero finiti. I piloti hanno così perso via via dei benefit, come il buono-sarto per farsi confezionare la divisa su misura, il diritto all'autista da casa all'aeroporto, o la cosiddetta indennità Bin Laden, istituita dopo l'11 settembre 2001 sulle tratte mediorientali. Sono rimasti, però, i ricchi sconti al personale sui voli: i dipendenti (e i pensionati) hanno diritto ad acquistare (anche per figli e coniugi o conviventi) i biglietti con una riduzione del 90 per cento sulla tariffa piena se rinunciano al diritto di prenotazione. Altro capolavoro di sindacalismo all'italiana è il contratto dei ferrovieri. Quando un macchinista guida un treno da solo come in tutto il resto del mondo, invece che in coppia secondo la procedura made in Fs, ha diritto a incamerare anche la paga del compagno assente. Tutti i dipendenti dispongono inoltre di una carta di libera circolazione, che consente di viaggiare gratis (con coniugi e figli) su treni regionali, interregionali e Intercity.

Carriere insindacabili

Sono decine di migliaia alla Cisl. Altrettanti alla Cgil. Un po' meno alla Uil. Nel complesso, si parla di ben 200 mila persone a fronte di oltre 10 milioni di iscritti: un folto esercito comunque di distaccati, delegati, quadri e dirigenti che mantengono saldi nelle proprie mani privilegi e facilitazioni che riguardano soprattutto la possibilità di contrattare direttamente condizioni preferenziali con le controparti; di sedere nei consigli di amministrazione di enti e banche e assicurazioni; di gestire le attività legali, assistenziali e fiscali tramite patronati e sportelli di servizio; di curare un patrimonio immobiliare di non poco conto. Privilegi e facilitazioni che, in particolare, partono dalla fine della carriera. E soprattutto dalla garanzia di arrivare all'età pensionabile con un buon livello economico. In tempi di incertezze previdenziali, infatti, i sindacalisti si trovano in una botte di ferro. Prima la legge Mosca del '74 e poi un provvedimento approvato dall'Ulivo nel '96 (e promosso dall'ex ministro del Lavoro, Tiziano Treu, uomo di area Cisl) prevedono una contribuzione che vale doppia e la possibilità di beneficiare di un ulteriore versamento da parte del sindacato. Inoltre, nello statuto dei lavoratori è previsto che ai dipendenti in aspettativa per lo svolgimento di incarichi sindacali vengano riconosciuti e versati contributi figurativi a carico dell'Inps, che sono calcolati sulla base dello stipendio che non viene più versato dall'azienda o dell'ente di provenienza. Stessa situazione viene riconosciuta ai sindacalisti che usufruiscono del regime di distacco per attività sindacale e che percepiscono lo stipendio di un'azienda privata o di un ente pubblico anche se lavorano a tempo pieno solo per il sindacato. Secondo alcuni dati, sono diverse migliaia di persone a godere di questo regime speciale di doppia contribuzione. Tra distacchi, diarie e rimborsi, un sindacalista di medio profilo porta a casa circa 2.500 euro al mese, ma per i dirigenti la retribuzione supera i 5 mila.

In piedi entra la Corte

Per i semplici componenti, 370 mila euro l'anno; oltre 444 mila per i presidenti. Questo il tetto massimo delle retribuzioni lorde di quasi tutte le Authority: telecomunicazioni, energia, antitrust e Consob. I compensi sono fissati per legge e sono identici agli stipendi di giudici e presidente della Corte costituzionale, a loro volta legati agli andamenti della retribuzione del primo presidente della Cassazione. Il calcolo dei compensi è semplice. Il primo presidente della Cassazione può arrivare a guadagnare fino a 246 mila 800 euro lordi l'anno, come (unica eccezione tra le autorità di garanzia) il Garante della privacy, il cui stipendio nel 2006 sarà in totale di 216 mila euro. I giudici della Corte costituzionale hanno diritto invece a uno stipendio superiore del 50 per cento all'appannaggio del primo presidente di Cassazione, cioè 370 mila euro. Mentre il presidente della Consulta incassa la stessa cifra (370 mila) maggiorata del 20 per cento. Totale: 444 mila euro lordi l'anno. Tutti i membri della Consulta hanno diritto all'auto blu e a una struttura di segreteria. Il presidente ha diritto anche ad utilizzare i voli di Stato. Gran parte dei membri della Consulta ne diventano prima o poi presidenti, poiché la scelta ricade ormai sempre sul giudice in carica da più tempo, magari per pochi mesi (negli ultimi sette anni sono stati dieci). I presidenti emeriti sono attualmente 16: ciascuno di loro ha diritto vita natural durante a un'auto blu con autista. Ma anche da defunti possono contare su un particolare onore: una delibera del Comune di Roma stabilisce che a tutti gli ex presidenti della Corte trapassati sia dedicata una strada nel quartiere Aurelio.

I magistrati italiani hanno stipendi in media con l'Europa. Il meccanismo più discusso, in ogni caso, è quello degli scatti automatici. In parte tutela la toga coraggiosa dagli ingranaggi più odiosi del potere e della politica, ma non sfugge a nessuno che consenta anche carriere garantite e spesso sganciate dal merito. E paradossalmente a guadagnare di più sono quelli sospettati dai colleghi di lavorare di meno, ovvero i magistrati amministrativi. Ci sono poi i doppi canali: il Csm poi può autorizzare incarichi remunerati come le docenze. E un malcostume più volte denunciato riguarda il numero crescente di magistrati che lasciano sguarniti uffici di periferia delicati per assieparsi al ministero con ricche diarie. La vera variabile poi è il prestigio. In Italia, il magistrato, specie se maneggia inchieste penali, è un vero vip; all'estero non lo conosce nessuno. Tutto qui? Alla fine, il privilegio forse più vistoso è quello delle ferie: due mesi e mezzo ogni estate. I pm che hanno in mano le inchieste più scottanti lavorano lo stesso, con pc e cellulare sempre acceso. Ma se un avvocato prova a cercare un magistrato della fallimentare a metà giugno, è facile che lo trovi intorno alla fine di settembre. La legge è uguale per tutti, i privilegi invece no.

 

1 dicembre

 

Due fratelli perdono la vita ad Avellino, un altro operaio a Salerno. Rumeno grave a Roma

Edili, nuovo bollettino di morte

Avellino

Stavano lavorando alla ristrutturazione di un rustico per trasformato in cantina su commissione di una nota azienda vinicola dell'avellinese. Per mangiare si erano trasferiti nella casa attigua, al momento disabitata e gelida. Volevano scaldarsi prima di consumare il pasto e hanno acceso il camino collegato da un tubo a una termocaldaia. Probabilmente non si sono resi conto nemmeno di cosa stava accadendo, l'esplosione li ha travolti in pieno. Sono morti sul colpo due fratelli, Pasquale e Giovanni Colucci, rispettivamente di 48 e 50 anni, mentre Salvatore Colucci, di 20 anni figlio di Pasquale e Vincenzo Longobardi, 20, sono rimasti gravemente feriti. E' successo a Sant'Angelo all'Esca nella Valle Ufita, a 40 chilometri da Avellino. I quattro sono stati travolti da gas e fiamme, poi seppelliti dalle macerie della casa coloniale crollata a causa del violento scoppio. I vigili del fuoco hanno dovuto lavorare parecchio per estrarre gli uomini, ma per i fratelli Colucci non c'è stato niente da fare. I due giovani, invece, trasferiti in ospedale non sono in pericolo di vita.
Quella dei Colucci è un'impresa edile a conduzione familiare e in base ai dati forniti dalla Fillea-Cgil Campania si tratta di una società in regola: fino ad agosto sono stati regolarmente versati tutti i contributi relativi a sei operai. Quanto accaduto verrebbe burocraticamente classificato come incidente «anomalo», non essendo direttamente imputabile ai lavori di ristrutturazione. Eppure sempre di sicurezza si tratta, di norme non rispettate, di mancanza di cautele e di pressappochismo. Le cose non funzionano se solo in Campania negli ultimi mesi per questi motivi sono morti 23 operai e quasi tutti lavoravano in piccoli cantieri. «Uno dei problemi - spiega Vincenzo Petruzziello, segretario regionale Fillea Cgil - è sicuramente collegato al mancato rispetto delle norme, ma è anche vero che i controlli dovrebbero essere più severi sulle imprese che si iscrivono alla camera di commercio». Il 90% di queste - secondo i dati delle casse edili - non supera infatti i 4-5 dipendenti, la maggior parte sono microsocietà a conduzione familiare. «Oggi per avere lo status di impresa edile basta un'iscrizione - continua Petruzziello - sarebbe invece opportuno che ogni azienda presentasse un curriculum e una commissione ne valutasse la solidità e la struttura. Poi non ci meravigliamo se in Campania il 40% degli edili lavora in nero».
Anche Luigi Cuomo, 40 anni, un altro operaio morto ieri sul lavoro, era impiegato in una microimpresa. Stava infatti ristrutturando delle case private nel salernitano a Giffoni Sei Casali. E' stato travolto dal camion che stava manovrando, mentre trasportava una ruspa dal mezzo alle abitazioni. Ora si dovrà accertare se il freno della vettura abbia ceduto o se c'è stata un'imprudenza del manovale. In ogni caso questi incidenti riaccendono il dibattito sulla precarietà dei lavoratori, troppo spesso costretti ad operare senza seguire le norme di sicurezza. «Gli edili lavorano alla stessa maniera degli anni '50 - conclude Petruzziello - non c'è stata nessuna innovazione nelle tutele da applicare. Cinquant'anni fa, per esempio, la prima causa di morte tra loro era la caduta dall'alto, oggi è sempre la caduta dall'alto». A questo proposito la Cgil Campania ha diffuso un comunicato per invitare le istituzioni ad agire. «Lavoro nero, precarietà, assenza di cultura e pratica della prevenzione, scarsità dei controlli e risorse, insufficienza di cultura politica e istituzionale in materia concorrono - si legge - al quadro desolante di un'inerzia e un'impotenza generale. Le misure annunciate dal governo nazionale, le parole accorate spese dal presidente della Repubblica hanno bisogno dell'impegno di tutti, da oggi».
Sempre ieri a Roma un operaio rumeno di 20 anni è precipitato da un'impalcatura alta 6 metri, mentre lavorava in un cantiere edile di via delle Vigne Nuove. L'uomo è stato immediatamente portato all'ospedale Sant'Andrea, le sue condizioni fortunatamente non sono gravi. «Assicurare la sicurezza sul lavoro deve essere una priorità per le istituzioni, altrimenti dovremo rassegnarci ad assistere impotenti ad incidenti come quelli avvenuti a Vigne Nuove e in Campania», ha detto Alessandro Cardente, presidente del IV Municipio.

 

Il sindacato denuncia l'ispettorato

A Napoli il segretario della Fillea segnala alcune anomalie, poi scopre che il suo dossier è stato reso pubblico. A rischio camorra

Napoli

«Non mi sento di esprimere un commento sulle morti di Avellino e Salerno. Ritengo gravissimi questi ennesimi incidenti sul lavoro e mi sento vicino alle famiglie degli operai». E' amareggiato Ciro Crescentini, della Fillea Cgil di Napoli: le morti nei cantieri arrivano proprio nel giorno in cui ha denunciato i vertici provinciali dell'ispettorato del lavoro. Le motivazioni, se confermate, sarebbero molto pesanti e potrebbero nascondere non solo inefficienze da parte dell'ispettorato e condotte contrarie alla legge, ma anche fenomeni di corruzione all'interno dell'organo di controllo.
Ciro Crescentini, il 30 ottobre scorso, invia un fax all'ispettorato in cui notifica gravi violazioni delle norme contrattuali e della sicurezza antinfortunistica in dieci cantieri edili aperti a Napoli e Provincia. Luoghi in cui gli operai lavorano a nero, con contratti a progetto ma che figurano come subordinati, senza rispettare nessuna norma; cantieri in cui alcuni lavoratori e lavoratrici si sono infortunati o hanno contratto malattie. Nei giorni successivi alla denuncia non solo non viene effettuato nessun controllo, ma il fax «fuoriesce» dall'ispettorato e circola in Cgil. «L'ho ritrovato nei nostri uffici - spiega Crescentini - con tanto di numero di protocollo e leggibile da chiunque». Eppure una denuncia «personale», sebbene effettuata da un sindacalista, per legge non deve uscire dagli uffici preposti. Soprattutto se i cantieri aperti in zone a rischio camorra rendono molto più concreti i pericoli per il denunciante. «Ora ho paura per la mia incolumità - continua Crescentini - ma sono anche preoccupato per la limpidezza delle strutture. Per questo ho dato mandato all'avvocato Maria Federica Bonadies del foro di Napoli per attivare le opportune iniziative legali, contro i vertici dell'ispettorato che hanno violato la legge sulla privacy». Ma c'è di più: «I lavoratori ci hanno segnalato comportamenti poco ortodossi da parte degli organismi di vigilanza - afferma il sindacalista - Gli ispettori del lavoro sono completamente assenti da mesi su alcuni territori a rischio. Quando effettuano rarissimi sopralluoghi, i titolari delle imprese vengono avvisati almeno una settimana prima». Ora spetterà alla magistratura fare chiarezza.

 

Bolivia

Riforma agraria. Indigeni in festa

Serena Corsi

Nel momento di maggior difficoltà, con l'opposizione di destra impegnata nelle strade e in senato (dove il Mas non ha la maggioranza per un seggio: 14 contro 13) a contrastare i progetti del governo (in particolare sull'assemblea costituente e la riforma agraria), il presidente Evo Morales ha messo a segno ieri una grossa vittoria riuscendo a far passare in senato la riforma agraria.
Alla Camera, dove il Mas ha una larga maggioranza, il progetto era già approvato. Lo scoglio era il senato, da dove qualche giorno fa i senatori dell'opposizione (Podemos, Union Nacional e Mnr) avevano annunciato il ritiro sull'Aventino in segno di protesta contro il Mas (in realtà per bloccare i lavori parlamentari) che nella Costituente aveva imposto il criterio della maggioranza assoluta (che ha) a scapito di quella qualificata dei 2/3 per l'approvazione della nuova costituzione.
Morale è riuscito a dividere l'opposizione convincendo due senatori - uno di Podemos e uno di Un -, supplenti di due degli aventiniani, a partecipare al voto e consentendo così al progetto di essere approvato, alle 11 di sera di martedì, con 15 sì su 27.
Meno di un'ora dopo Morales ha firmato la legge, promulgandola seduta stante, fra i lamenti dell'opposizione che gridava alla corruzione dei due supplenti e alla ineluttabile rovina dei produttori agricoli, e le manifestazioni di giubilo delle migliaia di campesinos indigeni che nei giorni scorsi avevano marciato su La Paz per l'approvazione rapida della riforma agraria e riempivano la plaza Murillo della capitale. Morales è sceso fra la folla: «A partire da questa legge il latifondo in Bolivia ha chiuso, ora abbiamo uno strumento legale per farla finita con i terratenientes, anche se le terre produttive e legali saranno rispettate», ha detto.
Le reazioni dell'opposizione si annunciano dure (scioperi della fame e manifestazioni nei dipartimenti orientali ricchi che spingono per una «autonomia» sempre più completa, come Santa Cruz e Tarija). Il leader di Podemos, Tuto Quiroga, ha accusato Morales di «manipolare gli indigeni».
La nuova legge non è nulla di rivoluzionario o particolarmente radicale e consentirà allo Stato di tornare in possesso di 200 mila km quadrati di terre improduttive o acquisite illegalmente che saranno poi assegnate a campesinos poveri o alle comunità indigene. Approfittando della resipiscenza dei due senatori supplenti, il senato ha anche approvato nella stessa seduta i 44 contratti petroliferi che erano stati rinegoziati con le compagnie transnazionali dopo la nazionalizzazione del primo maggio.
Dopo gli idrocarburi e i latifondi, Morales ha parlato agli indigeni della tappa successiva: il «recupero» delle ricchezze minerarie che consentirà, ha detto, allo Stato di disporre delle risorse per ampliare le recenti misure prese a favore della scolarizzazione dei bambini delle famiglie più povere.

 

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