26 dicembre

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 52 - 2007 dal 20/12 al 26/12

Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 956 persone

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 229 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 28.991

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 7.276

Turchia
Questa settimana sono morte almeno 163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 585

Pakistan-talebani
Questa settimana sono morte almeno 126 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.207

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 96 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 4.031

Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.161

India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 990

India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 651

Somalia
Questa settimana sono morte almeno 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 2.171  

Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 244

Ciad
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 913

Israele-Palestina
Questa settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 540

Colombia
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono 490

Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 818

Etiopia (Ogaden)
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 740  

Filippine-Abusayyaf
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 171

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 498

Cecenia, Inguscezia e Daghestan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 804

Myanmar-Karen
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno, secondo la giunta militare, i morti sono almeno 59

India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 770

Filippine-Npa
Questa settimana è morta almeno una persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 181

Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno una persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 86 

 

20 dicembre

Mangiare sarà un lusso

di Federica Bianchi
Il boom della domanda cinese. I raccolti destinati all'etanolo. Il clima. La speculazione. Ecco perché esplodono i prezzi dei cereali. Con enormi conseguenze su tutta la catena alimentare
 
 
 
Caro pasta e tesoretto: sulla tavola che ci metto? Con questo slogan in rima lo scorso settembre erano scese in piazza diverse organizzazioni di consumatori. Obiettivo: lo sciopero della pasta. Il rincaro autunnale dei prodotti alimentari è stato repentino e, per il grande pubblico, mal sopportato, dopo la stangata fiscale e l'annuncio di un ulteriore aumento delle bollette domestiche. A farsi sentire non sono stati solo gli aumenti del prezzo del piatto nazionale (7 per cento dall'inizio dell'anno secondo i dati Eurostat, 4,5 per Federalimentari), ma anche quello di pane, cereali, latticini e carne.

Agli italiani è andata tutto sommato bene. Nel resto d'Europa, quest'anno gli aumenti dei generi alimentari sono stati ancora più sostenuti: una media del 4,3 per cento, ben oltre il livello dell'inflazione (ferma al 3,1 per cento) con la categoria dei latticini in crescita dell'11 per cento e quella di pane e cereali di oltre il 7. Per non parlare poi del resto del mondo, dagli Stati Uniti all'Africa, passando per il Sud America e l'Asia, dove i prezzi dei cereali hanno visto aumenti fino al 40 per cento. In Cina il prezzo della carne di maiale e delle uova è salito addirittura del 50 per cento.

Il problema ha dimensioni globali. E ha a che fare con una girandola di fattori - dalle politiche agricole alle speculazioni finanziarie, dall'aumento della domanda mondiale di cereali all'uso dell'etanolo come carburante alternativo, dai cambiamenti climatici alla diminuzione delle scorte di cibo - che portano alla stessa conclusione: in futuro mangiare ci costerà sempre più caro. "Non credo che la tendenza si arresterà", spiega Jean Bourlot, responsabile delle materie prime agricole della banca d'investimento Morgan Stanley.

Basta dare uno sguardo all'andamento delle materie prime alimentari nell'ultimo anno.
 
Grano e mais sono gli imputati principali. Lo scorso settembre il prezzo del grano ha raggiunto i 400 dollari a tonnellata, un record storico e il doppio rispetto a maggio, quando fluttuava intono ai 200 dollari. Dall'inizio del 2007 è aumentato del 75 per cento, secondo i dati della Morgan Stanley. Discorso simile vale per il mais, che è schizzato in alto nel febbraio scorso, sfiorando i 200 dollari sulla scommessa di un aumento della domanda (visto il boom dell'etanolo americano), ripiegando un po' nel corso dell'anno, ma costando sempre il 50 per cento in più dell'anno precedente. La situazione è talmente preoccupante che il segretario generale della Fao, Jacques Diouf, ha avvertito a metà dicembre che se i raccolti mondiali dell'anno prossimo saranno danneggiati dalla situazione climatica, il mondo non avrà abbastanza riserve per fare fronte alle sue necessità alimentari. L'Ifpri (Istituto internazionale per la ricerca sulle politiche alimentari) ha annunciato che i prezzi dei cereali continueranno a crescere tra il 10 e il 20 per cento almeno fino al 2015. E per sottolineare la portata dirompente del fenomeno, gli economisti hanno coniato anche un nuovo termine: 'agflazione', un gioco di parole tra agricoltura e inflazione, che indica quella parte dell'aumento dei prezzi alimentari dovuto all'aumento della domanda dei consumi umani e delle energie alternative che ricade sul consumatore finale.

Il 2007 non è stato un anno positivo per l'agricoltura. Siano le prime avvisaglie dei tanto temuti cambiamenti climatici (probabile ma non certo) oppure una congiuntura poco favorevole (meno probabile, secondo gli esperti), i raccolti dei maggiori esportatori mondiali, dall'Australia, colpita dalla seconda siccità consecutiva, all'Argentina all'Ucraina, sono stati deludenti. Contemporaneamente, le riserve di grano hanno segnato il loro livello più basso degli ultimi trent'anni. E questo nonostante la produzione mondiale di cereali abbia nel suo complesso raggiunto, scrive il settimanale britannico 'The Economist', 1,66 miliardi di tonnellate, la più alta mai registrata. Eppure non basta. I paesi in via di sviluppo consumano sempre di più. E questo c'era da aspettarselo. Ma non è tanto la quantità di cereali ingoiata da indiani e cinesi che preoccupa. Piuttosto quella digerita dai loro animali: maiali, mucche e pecore. Occorrono tre chili di cereali per produrre un chilo di maiale, otto per un chilo di manzo. L'aumento della ricchezza mondiale, che consente a circa 80 milioni di persone in più all'anno di affacciarsi ai banchi dei mercati, si traduce in aumento dei consumi di carne e proteine. Oggi in Cina si mangia un etto di carne al giorno per persona rispetto ai 66 grammi di qualche anno fa. Moltiplicato per almeno 500 milioni di persone, le cifre diventano astronomiche. Per adesso abbiamo visto aumenti spettacolari soprattutto per cereali, mais e, quest'anno, riso. Dall'anno prossimo, uova e carne potrebbero cominciare a pesare di più sul portafogli. "Tra cinque o dieci anni la carne diventerà un bene di lusso per tutti", pronostica Bourlot.

 
 
Tra le cause principali di questi aumenti ci sono anche i nuovi combustibili biologici, a partire dall'etanolo, su cui l'amministrazione Bush ha pesantemente investito a partire dal 2005. Lo spettacolare aumento del prezzo del mais nel 2006 è stato infatti il riflesso delle aspettative dei mercati verso l'utilizzo alternativo della pannocchia. I contadini americani, i principali beneficiari di quest'aumento mondiale dei prezzi alimentari, ne hanno approfittato per produrre sempre maggiori quantità di mais a scapito degli altri raccolti. Il prezzo è schizzato in alto, aiutato anche dalle proteste per l'aumento del prezzo delle tortillas brasiliane, per poi ridiscendere almeno in parte, una volta appurato che le piantagioni americane erano in grado di produrre abbastanza mais non solo per l'etanolo, ma anche per il consumo alimentare e perfino per l'esportazione, spiega Abdolreza Abbassian, il segretario del gruppo intergovernativo per i cereali della Fao.

Ma forse la causa principale di questa congiuntura economica, e il motivo che rende gli esperti pessimisti su un possibile cambiamento di rotta, è la diminuzione delle riserve mondiali delle materie prime. Diverse le ragioni: l'aumento dei consumi dell'uomo e l'utilizzo del cibo per scopi alternativi, ma anche il cambiamento delle politiche agricole di questi ultimi cinque anni. La produzione in eccesso degli anni Ottanta, con migliaia di chili di cibo distrutto per non superare le quote assegnate dalla Ue, è un ricordo del passato. La recente allocazione dei sussidi europei sulla base di criteri solo qualitativi sta disincentivando la produzione meramente quantitativa di materie prime alimentari, spingendo i contadini a seguire con più attenzione e in tempo reale l'andamento del mercato, evitando l'accumulo inutile e costoso di scorte. A regolare cosa finisce in tavola sono sempre meno i governi e sempre più il mercato, che però non reagisce nei tempi e nei modi sperati. "Si pensava che il mercato si sarebbe autoregolato, ma a nessuno è venuto in mente che i prezzi di tutte le materie prime schizzassero in alto contemporaneamente", racconta Abbassian. Il problema è che i prezzi delle commodity alimentari stanno diventando inevitabilmente correlati tra loro, spiegano gli analisti. Se aumenta il prezzo della soia, automaticamente cresce anche quello del granoturco, solo per il fatto di essere un efficace sostituto alimentare, anche se la quantità prodotta e la disponibilità non giustificano di per sé un aumento. Inoltre, non è facile regolare la produzione in tempo reale con l'andamento dei mercati. Secondo l'Ifpri un aumento del 10 per cento dei prezzi riesce a ottenere soltanto una crescita dell'1-2 per cento della produzione. Quest'anno i ministri dell'agricoltura dei 27 hanno deciso di intervenire e, alla fine di settembre, hanno sospeso i sussidi al riposo obbligatorio dei campi (politica nata in tempi di sovraproduzione) per cercare di aumentare la coltivazione di cereali di 12-15 milioni di tonnellate, pari al 5 per cento del totale europeo (260 milioni di tonnellate). Per contrastare invece l'ascesa del prezzo del latte e dei suoi derivati, la Commissione europea ha proposto agli Stati membri di aumentare del 2 per cento le quote prodotte annualmente. Ma non è detto che gli allevatori francesi ce la facciano a produrre di più.

Come se trovare un equilibrio tra le bizzarrie dei mercati e gli interessi agricoli nazionali non fosse abbastanza difficile, anche la speculazione finanziaria sta giocando un ruolo crescente nel dirigere i prezzi mondiali. Prodotti finanziari fino a qualche tempo fa sconosciuti come gli Etc (obbligazioni che hanno come sottostante l'andamento del prezzo di una materia prima o di un paniere di materie prime) e gli Etf (fondi che raccolgono questo tipo di obbligazioni) sono diventati popolari perché offrono una rosea alternativa agli andamenti deludenti dei mercati azionari di mezzo mondo. Un maggiore interesse degli investitori si traduce in un ulteriore aumento dei prezzi.

Questa nuova fase economica non ha soltanto ripercussioni negative. Sta provocando anche un sottile riequilibrio di potere tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. L'aumento dell'inflazione causato dalla crescita dei prezzi degli alimentari ha spinto le banche centrali di paesi come Cina, Cile e Messico ad aumentare i tassi di interesse. E questo nel momento in cui gli Stati Uniti hanno cominciato a tagliarli di nuovo, per evitare una recessione conclamata. La conseguenza è che molti investitori stanno abbandonando i mercati tradizionali per portare i propri soldi in paesi che ne hanno in fondo più bisogno: dall'Africa al Sud America. Non solo. Nonostante siano i più poveri a subire le conseguenze di qualsiasi rincaro internazionale dei prezzi, non saranno soltanto i contadini americani a beneficiare di vendite più proficue. Esportatori di cibo come l'India e il Sudafrica potrebbero, dopo anni di declino delle quotazioni delle commodity, approfittare finalmente di raccolti più sostanziosi.

hanno collaborato da Bruxelles Alberto D'Argenzio e da San Francisco Paolo Pontoniere

 

18 dicembre

Verso Kyoto 2, senza fretta

Trovato l'accordo a Bali. Gli Usa cedono all'ultimo. Negoziati fra un anno, ma validi solo dal 2012

Ci sarà un Kyoto 2. Ma senza fretta, nonostante gli scenari apocalittici e il grido, o l'urlo, di allarme di numerosi membri delle comunità scientifiche. Ma il surriscaldamento del pianeta, secondo strateghi e e diplomatici, dovrebbe sottostare alle regole dei consessi internazionali. Vediamo il perché di tanta ipocrisia. 
A Bali ci sono volute 24 ore in più del tempo massimo per arrivare a una bozza su cui trovare un accordo. Molti i problemi, di contenuto, di posizioni. Ma soprattutto di ruoli, con Paesi definiti in via di sviluppo che oggi, però, sono già assai sviluppati e che sono capaci di far pendere la bilancia per l'enorme peso anche diplomatico che hanno assunto. India e Cina da un parte, mentre i grandi inquinatori come gli Stati Uniti avevano la pretesa di impegnare i nuovi giganti in maniera più severa rispetto ai propri parametri. Il gioco non ha funzionato. Nella partita diplomatica un ruiolo determinante è stato dei paesi dell'Unione europea, coesi, che hanno perso solo su un punto, importante: la definizione dei tagli da affrontare nei prossimi anni dei gas inquinanti. E gli Stati Uniti, che cambieranno amministrazione fra meno di un anno, hanno giocato duro fino alla fine, quando sono obbligati ad accordarsi, per non rimanere soli di fronte alle preoccupazioni mondiali per gli effetti dei cambiamenti climatici.
Ma torniamo all'ipocrisia delle regole internazionali: documentari, fotografie comparate, studi e documenti scientifici – addirittura un nobel per la pace – hanno dimostrato che se non si agisce con tempi rapidi, rischi e pericoli non possono che aumentare in maniera esponenziale. Eppure la grande diplomazia internazionale non riesce ad andare oltre al fatto che se il Trattato di Kyoto, ormai desueto, scade nel 2012, non si può far altro che riunirsi prima per trovare un accordo, ma che valga solo a partire dalla data ultima di Kyoto. Più chiaramente: i prossimi negoziati si dovranno aprire verso aprile 2008. Nel 2009, nel summit sul clima che avrà come sede Copenaghen si deciderà l'accordo post-Kyoto il cui regime entrerà, quindi, in vigore nel 2012, cioé ben tre anni dopo anche se vi fosse un accordo validamente riconosciuto.
Sulla riduzione dei gas serra, la vittoria è stata degli Usa. L'Unione europea non è riuscita a imporre le cifre che aveva portato a Bali: una diminuzione del 25-40 percento entro il 2020 e del 50 percento nel 2050. questi numeri sono finiti in una postilla, nelle premesse dell'accordo.
Il vertice è partito male, proseguito fra diverse ambiguità, terminato con una serie di colpi di scena, fra cui la capriola della negoziatrice statunitense Paula Dobriansky, che dopo aver annunciato il no di Washington alla bozza finale di accordo si rimangiava la parola per la solitudine che si ritrovava a vivere nell'assemblea e dopo due discorsi appaluditissimi di sud Africa e nuova Guinea che hanno detto in maniera esplicita al'amministrazione Bush che se non era d'accordo poteva tranquillamente levarsi di torno. La posizione degli Usa è suscettibile i cambiamenti, non di rivoluzioni, con il voto presidenziale. Ma anche se gli analisti sono propensi a immaginare nuovi ostacoli per gli identikit dei candidati, non certo ambientalisti, vale ricordare che le posizioni più aperte verso la nuova Kyoto sono condivise da una larga fetta della società nord americana. Soprattutto nelle grandi città come New York, San Francisco o Los Angeles, dove i sindaci e le rispettive società civili hanno adottato numerose misure per contenere le emissioni di inquinanti.

 
Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 50 - 2007 dal 6/12 al 12/12

Questa settimana, in tutti i Paesi ancora in guerra, sono morte almeno 968 persone
 Iraq
Questa settimana sono morte almeno 296 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 28.176

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 265 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.817

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 104 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 6.956

Algeria
Questa settimana sono morte 72 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 346

Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 67 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.098

Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 48 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.060

Somalia
Questa settimana sono morte almeno 45 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 2.130
 
Sudan
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 796

India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 622

Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 507

India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 944

Ciad
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 889

Cecenia, Inguscezia e Daghestan
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 794

Colombia
Questa settimana sono morte 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono 468

Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 217

India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 768

Nepal
Questa settimana è morta almeno una persona.
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 93

Filippine Npa
Questa settimana è morta almeno una persona

Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno175

 

17 dicembre

 

La carica dei 700 telefonini per la Regione Campania

Quella della Regione Campania di sicuro è una macchina complessa, che svolge molte funzioni ma che ha anche accumulato debiti mostruosi. Per questo in una stagione di tagli ai bilanci pubblici non può non sorprendere la notizia del nuovo appalto per l'acquisto di cellulari deciso dalla giunta guidata da Antonio Bassolino. Sorprende soprattutto il numero di nuovi telefonini previsti dal capitolato: ben settecento. Che dovrebbero andare agli assessori, ai dirigenti e al personale con particolari esigenze di reperibilità. C'è bisogno di così tante persone sempre reperibili tramite cellulare? Il numero appare alto. Così come la spesa ipotizzata per la telefonia mobile: 116 mila euro in un anno. Il fatto che alcuni di questi apparati, come specifica il capitolato d'appalto, siano definiti "modello top con lettore mp3" o che l'elenco includa 60 apparati Blackberry con tanto di navigatore Gps diventa quasi secondario. Tutti questi navigatori Gps andranno alla Protezione civile o qualcuno diventerà un gadget per notabili a spese del contribuente?
L'ufficio stampa della Regione ha replicato spiegando che gli apparati serviranno "per ragioni" di servizio. E che la giunta Bassolino ha già dimezzato le spese per la telefonia mobile. Ma siamo sicuri che di telefonini ne servissero proprio settecento?

 

Due ragazze uccise dalla mafia degli sprechi

Le due ragazze morte nell'ospedale di Vibo Valentia dovrebbero costringere questo paese a vergognarsi. Federica Monteleone ed Eva Ruscio sono state assassinate dalla mafia peggiore, quella che si nutre dello spreco di denaro pubblico e uccide anche il futuro del nostro paese. Tutte le istituzioni sono responsabili di quello che è accaduto a Vibo Valentia. Perchè dopo la morte della prima sedicenne tutti sapevano che quell'ospedale era un mattatoio. Dopo l'inspiegabile fine di Federica Monteleone, avvenuta nello scorso gennaio, la Commissione d'inchiesta del Senato ha ispezionato il nosocomio, con un verdetto choc: bisogna chiuderlo subito, perchè è fuori da ogni regola. Inutile cercare di risanarlo o ristrutturarlo: sarebbero soldi buttati via. L'unica strada, scrissero i senatori, è trasferire subito i malati sotto le tende di un ospedale da campo, dove verrebbero curati meglio che in quelle corsie. Anche dopo la morte della prima sedicenne, a Vibo era tutto fuori dalla legge: sale operatorie obsolete, nessuna garanzia contro le infezioni, nido in abbandono, bagni che danno sulle cucine. Nessuno dei dirigenti della Asl sapeva quanti fossero i posti letto disponibili. Ma dopo la morte di Federica milioni di euro sono stati buttati via per una struttura che andrebbe abbattuta. Un esempio? È stata acquistata una Tac ultimo modello, piazzata in sale vetuste con corridoi così stretti dove nemmeno le barelle riescono a passare. L'unica cosa che abbondavano erano gli infermieri: il Senato ne ha censiti 426 per 300 pazienti. Tutte cose pubblicate da L'espresso nello scorso maggio. Tutto qui? No. L'Alto commissariato per la lotta alla corruzione ha scritto in un rapporto che la Asl di Vibo Valentia è nelle mani della 'ndrangheta. E che in quell'ospedale ci sono infermieri pregiudicati che andavano in corsia con la pistola sotto il camice.
Queste informazioni dovevano impedire che Eva Ruscio morisse nello stesso modo. Quante altre persone dovranno perdere la vita prima che lo Stato ritrovi la dignità?

 

Discesa di classe

di Emiliano Fittipaldi

Meno soldi. Un lavoro meno qualificato. E' la mobilità sociale al contrario. Quella dei figli che stanno peggio dei padri. Soprattutto nelle famiglie di dirigenti e imprenditori. Ma anche in quelle di impiegati e operai

Roma, Torino, Napoli, Milano, ovunque tra i giovani italiani il gioco dell'oca è tornato di moda. Un gioco, però, a cui nessuno vorrebbe partecipare, perché inevitabilmente milioni di concorrenti finiscono sulla casella che obbliga a tornare al punto di partenza. In un percorso che, fuor di metafora, li costringe a scendere la piramide sociale peggiorando lo stile di vita conosciuto nella famiglia d'origine. Un fenomeno che in Occidente non si osservava dalla seconda guerra mondiale.

Difficile, dunque, che Simone Gracco, classico figlio di papà della Roma bene, immaginasse da piccolo che a 36 anni avrebbe passato gran parte delle ferie estive nei bollenti parchi della città. Nato da un architetto benestante, madre professoressa al liceo, dopo la laurea in economia ha trovato un posto a 1.200 euro al mese in una piccola azienda fuori porta. Ci lavora da quattro anni, ma lo stipendio è fermo al giorno dell'assunzione. "Da bambino andavo a Capalbio per un mese, e d'inverno la settimana bianca a Corvara era di rigore. Ora, con grandi sforzi e un aiuto del mio vecchio, riesco a fare al massimo sei giorni in un villaggio all-inclusive. Quando mio figlio compirà due anni dovrò pagare anche la sua quota. Sarà un disastro".
Ugo Reggiani (chiede un nome di fantasia, "non voglio guai"), torinese e ricercatore universitario a progetto, ricorda la guerra tra due potenti baroni della sua facoltà. "Stranamente, non si erano organizzati come al solito. In un concorso per una cattedra di diritto si scannarono per piazzare i rispettivi figli. L'erede del perdente ha dovuto cambiare lavoro e status: ora fa l'impiegato in un'assicurazione". Ad Antonio Migliaccio, 34 anni, di Napoli, è andata meglio. Ingegnere come papà, ha evitato uno scivolamento di ceto emigrando in Irlanda. "Elaboro sistemi informatici, e dopo un anno sono arrivato a guadagnare tremila euro. Se sei sveglio gli scatti di carriera sono fulminei, si cambia azienda ogni sei mesi. Ora vivo agli stessi livelli di mio padre trent'anni fa. Forse addirittura meglio: io ho un'Audi presa a rate, lui guidava la Fiat 850".

Antonio è un'eccezione. Se negli ultimi tempi i sociologi denunciano la mancanza di mobilità sociale e i politici d'ogni schieramento promettono potenti iniezioni di meritocrazia, dal Duemila la situazione è invece drasticamente peggiorata: l'ascensore sociale è in movimento, i giovani ci salgono sopra ma, invece di salire o, almeno, restare fermi al livello della classe d'origine, spesso e volentieri si ritrovano a scendere sui pianerottoli più bassi.

Ascensore per l'inferno

L'"indietro tutta" non interessa solo la prole del ceto medio e degli operai. Sono soprattutto i figli dei dirigenti e degli imprenditori a dover abbandonare la posizione conquistata dal padre o dal nonno. I dati Istat e Censis sono fermi al 2002, ma letti nelle pieghe segnalavano già il pericolo. Ora 'L'espresso' ha consultato lo studio Ilfi, un'indagine sulle famiglie che ha coinvolto quasi10mila individui - elaborata da esperti della Bicocca di Milano, dall'università di Trieste e Bologna - dimostra che, lungi dal vivere un nuovo ciclo di rimescolamento sociale, i giovani si dirigono senza scampo verso il declino. Se la metà degli italiani dai 18 ai 37 anni ricalca pari pari la strada di papà e mamma e il 7,4 per cento fa un lavoro diverso ma resta inchiodato al censo d'origine, e ben il 24,4 per cento scende a rotta di collo la piramide sociale. Uno scivolamento 'silenzioso': come notano gli osservatori più attenti, nonostante tirocini umilianti, mansioni pagate quattro soldi e subalternità al potere dei gerontocrati, la generazione nata a cavallo tra i Sessanta e i Settanta non ringhia. E non combatte, al contrario dei propri padri protagonisti del '68 e del '77, la guerra generazionale per la propria emancipazione.

I dati fotografano impietosamente la caduta. Solo un quarto dei figli dell'alta borghesia riesce a fare il dirigente o il libero professionista, magari nello studio di famiglia. Quasi la metà è costretta ad accontentarsi di una scrivania e fa l'impiegato 'qualificato', il 7 per cento decide per il lavoro autonomo, mentre il 23 per cento scende molti gradini e diventa operaio o manovale nei servizi. Anche i colletti bianchi riescono con difficoltà a mantenere posizioni: una piccola minoranza ha successo e fa il salto di classe, ma oltre il 36 per cento finisce, volente o nolente, nei ceti subalterni.

Gli artigiani, i commercianti e le partite Iva sono le categorie più mobili, ma il ritorno alle origini tocca quattro rampolli su dieci. Anche i figli ventenni delle tute blu hanno meno possibilità di affermarsi rispetto ai pari-censo degli anni Sessanta: solo cinque su cento sfondano come imprenditori e professionisti, la massa (il 60 per cento) è destinato alla fabbrica. La scalata alle professioni intellettuali, obiettivo dei proletari sessantottini, resta una chimera. "Un paradosso. Perché la generazione che va dai 20 ai 40", spiega il sociologo Antonio Schizzerotto, curatore della ricerca e massimo esperto italiano in materia, "è in media molto più istruita e preparata dei padri e dei nonni. Conosce le lingue straniere, ha possibilità di muoversi in un mondo globalizzato, ma in termini reali è molto più povera. Anche chi resta al piano rischia di peggiorare il proprio ménage: fare l'impiegato oggi ha molti meno vantaggi di un tempo, i differenziali con i salari di chi suda in catena di montaggio sono enormemente diminuiti". La questione centrale è che, in Italia, non c'è stato un vero passaggio al terziario avanzato, come nel resto dei paesi occidentali. "Se negli anni '60 e '80 la scolarizzazione di massa prima e la nascita della società dei servizi poi portò nuova ricchezza e un boom dei sorpassi sociali, negli anni '90 e nel 2000 siamo rimasti congelati. La mobilità ascendente (al 21 per cento, ndr) è dovuta in gran parte a fattori esogeni, alla scomparsa di mestieri come i coltivatori diretti e i contadini. In realtà non ci stiamo modernizzando per niente. Non stupiamoci se il mercato del lavoro è asfittico ed è caratterizzato da settori ipermaturi".

Redditi da fame

L'abbassamento dei salari negli ultimi sette anni ha riguardato quasi tutti i dipendenti, ma la vera proletarizzazione colpisce soprattutto le nuove leve. Nemmeno il capitale familiare e le reti relazionali, che in Italia valgono tradizionalmente più delle risorse culturali e del merito individuale, sembrano bastare più. La sindrome della quarta settimana investe anche 'segnalati' e raccomandati. Se molti puntano il dito contro una presunta pigrizia generazionale e il mito del 'tutto e subito', tanto che persino il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa ha criticato "i bamboccioni" attaccati alla gonnella di mammà, uno studio della Banca d'Italia firmato da Alfonso Rosolia e Roberto Torrini, ancora non pubblicato in italiano, mostra come nel corso degli anni Novanta e Duemila la busta paga dei giovani si sia drasticamente ridotta rispetto a quella del decennio precedente. Alla fine degli anni Ottanta le retribuzioni nette degli under 30 erano più basse del 20 per cento rispetto a quelle dei senior.
Nel 2004 il gap è raddoppiato, crescendo fino al 35 per cento. "Un andamento", dicono gli autori del paper, "riscontrabile a tutti i livelli di istruzione". Il crollo dei salari d'ingresso è spaventoso: spulciando dati dell'archivio dell'Inps del settore privato, si stima che dal 1992 ai primi anni del millennio sia i diplomati che i laureati siano tornati sui livelli di venti anni prima. Oggi, al netto del lavoro nero, il 27 di ogni mese intascano poco più di 1.100 euro. "Un riduzione non controbilanciata" chiosano gli studiosi "da una carriera e da una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito nel confronto con le generazioni precedenti risulta in larga parte permanente". Un controsenso, visto che l'invecchiamento della popolazione avrebbe dovuto contribuire a sostenere il portafoglio degli junior, sempre meno numerosi ma sulla carta più colti e preparati. Se la crisi ha toccato milioni di famiglie, la redistribuzione degli stipendi è stata invece asimmetrica, a tutto vantaggio degli anziani. Non solo: in Italia al di là del mestiere e dello status, anche la correlazione tra le buste paga è fortissima. Un altro report dell'ufficio studi, elaborato da Sauro Mocetto, sottolinea infatti che, se i tuoi genitori guadagnano poco, è assai probabile che anche il tuo stipendio sarà basso. I paesi scandinavi, Svezia in testa, sono i più dinamici, seguiti a ruota dal Canada e dalla Gran Bretagna. I figli dei poveri possono diventare ricchi più facilmente anche in Francia e Stati Uniti, che galleggiano a metà classifica, mentre l'immobilismo è massimo nel nostro Paese e in Brasile, ultimo nella graduatoria dei casi analizzati.

L'Italia degli ignoranti

Al di là delle divisioni di classe, protagonisti assoluti del gioco dell'oca sono i laureati. Negli anni '60 l'agognato pezzo di carta permetteva di scalare le gerarchie e regalava carriere fulminanti, oggi università poco selettive sembrano aver generato, invece di maggiori opportunità, un'offerta di dottori sproporzionata rispetto alle esigenze del sistema. "Non conviene investire come un tempo nell'istruzione. Le imprese cercano soprattutto tecnici diplomati, i cervelli sono troppi e il mercato non riesce ad assorbirli", sentenzia Schizzerotto. Anche secondo i dati Istat e Almalaurea la laurea paga poco e su tempi lunghi. "Ma non ci sono certezze", aggiunge Luca Bianchi, vicedirettore della Svimez. "Ho due amici romani di 40 anni, laureati in legge da oltre dieci anni, che hanno trovato solo un impiego nei call center. Abitano nella casa di papà, niente moglie e marmocchi, l'utilitaria presa di seconda mano. I genitori sono impiegati di buon livello: un classico esempio di arretramento dal ceto medio a posizioni borderline".
Se la riforma del 'tre più due' ha peggiorato il grado di preparazione e le matricole continuano a snobbare le più redditizie materie scientifiche, l'inflazione dei titoli di studio è da addebitare anche alle politiche delle imprese. Gli investimenti in ricerca e sviluppo languono, e le figure professionali più gettonate restano tecnici specializzati. Alla fine del 2007, secondo l'analisi Excelsior di Unioncamere, su 100 assunti solo 9 saranno laureati. Verranno usati come dirigenti, ma anche come impiegati (gli ingegneri a mille euro non si contano) e addetti alle vendite. Agli industriali i dottori interessano ancora meno: solo 5 assunzioni su cento saranno destinate a loro. Per lavorare a salario minimo basta un diploma, l'istruzione professionale e, per un assunto su tre, la sola scuola dell'obbligo.

La carica dei dipendenti

Seguire il sentiero già percorso dai genitori, nell'anno di grazia 2007, è quasi una necessità. Il 'familismo amorale', come lo chiamano i sociologi, diventa spesso l'unica risposta alla recessione. Così nepotismo e autoriproduzione delle professioni invece di diminuire, crescono esponenzialmente. Non c'è liberalizzazione, non c'è Bersani che tenga. Se una recente inchiesta della magistratura ha svelato il mercato dei test per l'accesso alle facoltà a numero chiuso (a Bari sembra che gli acquirenti fossero soprattutto medici e dentisti), a Napoli la cattedra è sempre più un diritto ereditario. Nel 2002 un rapporto del giornale universitario 'Ateneapoli' scoprì che alla facoltà di Economia della Federico II il 16 per cento dei professori era imparentato con un collega, cinque anni dopo - denuncia un dossier della Confederazione degli studenti - la percentuale è salita al 26 per cento. Padri e figli, mogli e mariti, fratelli e cognati. La politica non fa eccezione: nel neonato Partito democratico il giovane segretario provinciale di Avellino appena eletto si chiama Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, mentre a Reggio Calabria i delegati hanno eletto Alessia Zappia, figlia dell'ex segretario Ds scomparso tre anni fa. Alan Baccini, rampollo del leader Udc, è commissario nazionale dei giovani del partito. A volte la pratica del passaggio di testimone nelle aziende è persino contrattualizzata: negli ultimi anni, dalla Caripe alla Sea di Milano, fino alla Fincantieri e agli esuberi di Intesa-Sanpaolo, i sindacati hanno benedetto senza vergogna la staffetta tra padri e figli come incentivo per il prepensionamento.

Nel Nord una ricerca dell'Opes ha dimostrato che, soprattutto in Trentino, qualcosina si muove, e la meritocrazia crea più opportunità rispetto al resto d'Italia. Non per tutti, però. "Gli under 35 che vengono da famiglie meno abbienti", racconta Daniele Marini, direttore della Fondazione Nordest, "per mantenere il proprio status sono costretti a consumare molto più dei loro genitori. Computer, cellulari, vacanze e master: oggi le famiglie si impoveriscono anche perché investono i risparmi per sostenere una prole non autosufficiente". La recente riconversione industriale ha aperto la strada a giovani imprenditori in settori di nicchia, ma per i figli delle corporazioni la cruna dell'ago è sempre più stretta. "Medici, avvocati e giornalisti trent'anni fa erano pochi, nel Duemila gli Ordini professionali scoppiano di iscritti. Ovvio che per raggiungere il livello conquistato dalla famiglia ci voglia molto più tempo". Nel felice Triveneto della piena occupazione c'è anche una quota minoritaria di persone che sceglie di fare il gambero, camminando all'indietro per scelta personale. "La cultura della gratificazione e il culto del tempo libero si è diffuso a macchia d'olio. Conosco bancari e commercialisti che si sono trasformati in volontari o collaboratori di centri per l'infanzia", racconta Marini.

Nel Mezzogiorno il libero arbitrio è un lusso che pochissimi possono permettersi. Mantenere le posizioni sociali acquisite dalla nascita è già un successo insperato. "La novità è che l'ascensore viaggia verso il basso anche per le fasce più alte, che in passato godevano di collaudati cuscinetti di protezione", racconta Bianchi, che delle Svimez è tra i ricercatori più esperti. "Il mercato è ai minimi, e quel poco che resta del settore privato boccheggia. C'è solo la grande balena pubblica, che a fatica foraggia un po' tutti". Non stupisce che uno studio Istat-Svimez sui laureati meridionali del 2001 dimostra che, a tre anni dalla tesi, parte consistente dei rampolli dell'alta borghesia tenti la fortuna emigrando al Centro-Nord: chi rimane è costretto a fare il dipendente, accettando stipendi da fame. Nel pubblico finiscono anche i figli di imprenditori, commercianti e liberi professionisti: solo uno su tre ha i capitali per rischiare in proprio, il resto finisce dietro una scrivania con un contratto a progetto. "Sono i più fortunati, non dimentichiamolo", chiude Bianchi, "il tenore di vita peggiora rispetto alle abitudini familiari, ma almeno un lavoro ce l'hanno. Secondo i nostri calcoli invece quasi 800mila ragazze del Sud, figlie delle sessantottine che riuscirono ad emanciparsi e a diventare impiegate e insegnanti, sono tornate tra le mura domestiche a fare le casalinghe, come le loro nonne: un salto all'indietro dal sapore medioevale che fa tremare i polsi".

 

Nei cantieri si cade «dall'alto» e si muore. Ieri due vittime

Un romeno precipita e muore a Torvajanica. Nello stesso cantiere un anno fa c'era stato un altro omicidio bianco

m.ca

Le «cadute dall'alto» sono la prima causa delle morti sul lavoro in edilizia (il settore con il più alto numero d'infortuni). Ieri mattina a Milano Antonio P., piastrellista di 57 anni, è precipitato dal quinto piano di un palazzo dell'Aler. Era dipendente della ditta Urbedil. E' morto sul colpo. Come il romeno Lazar Costel, 29 anni, caduto da un ponteggio in una palazzina in costruzione a Torvajanica. A pochi chilometri di distanza, a Santa Palomba, un romeno è precipiato dal tetto di capannone in ristrutturazione. E' in prognosi riservata al San Camillo. Ad Alassio un manovale di 54 anni sè è ferito cadendo da un'impalcatura. Questi i casi segnalati ieri in una manciata di ore dalle agenzie. Scorrendo le quali si poteva apprezzare la dichiarazione di Paolo Buzzetti, presidente dell'Ance (l'associazione dei costruttori edili): «Siamo impegnati da anni nella lotta agli infortuni e al lavoro nero». Ma va là.
Quello avvenuto di Milano è il secondo omicidio bianco in meno di un mese in strutture di pertinanza della Regione. Il 26 novembre all'Ersal di Torrazza Coste (Pv) un muratore era stato travolto dal crollo mentre pochi metri più in là un assessore si accingeva a dare il via a una manifestazione per promuovere i vini dell'Oltrepo. In entrambi i casi le vittime erano dipendenti di ditte che hanno lavori in appalto dalla Regione. Proprio l'altro ieri Formigoni aveva vantato la Lombardia come la Regione «più virtuosa» in fatto di sicurezza nei luoghi di lavoro. Invece di autocelebrarsi, commenta il segretario del Prc lombardo Alfio Nicotra, il presidente disponga ispezioni a tappetto e a sopresa nei cantieri pubblici.
La notizia dell'infortunio mortale a Torvajanica è arrivata mentre a Roma i sindacati edili tenevano un convegno sulla (in)sicurezza nei cantieri. Si tratta di un bis: un anno fa nella stessa palazzina, quando si stavano posando le fondamenta, un operaio di Ardea di 54 anni era stato sepolto e ucciso da uno smottamento. Il cantiere della ditta Polis era stato messo sotto sequestro, il titolare era stato denunciato per omicidio colposo e violazione delle norme di sicurezza. La storia si è ripetuta tal quale.
In edilizia l'incidenza degli infortuni mortali supera di quattro volte quella dell'industria. E le vittime sono spesso e volentieri straniere. Nei cantieri della Penisola almeno metà della forza lavoro è immigrata. A Roma città la percenutale sale al 75%, con una massiccia prevalenza dei romeni. Questi ultimi in provincia di Roma sono passati dagli 8.933 del 2006 ai 17.475 dichiarati quest'anno alla cassa edili. Si stima che altri 20 mila romeni siano occupati in nero nei cantieri romani. Basterebbe questo per dimostrare che con l'ingresso della Romania nella Ue in Italia non sono arrivati solo nullafacenti, borseggiatori e assassini (come strillano i securitari di varie risme). Su scala nazionale si stimano in 200 mila i romeni regolarmente occupati in edilizia. Un fetta del 18% del totale degli edili che - secondo i calcoli di Franco Martini, segretario nazionale della Fillea - da sola produce 26 miliardi di pil e costruisce in un anno 46 mila abitazioni.
Dalle tabelle dell'Inail da anni risulta che i lavoratori stranieri si infortunano più degli italiani. Il nesso con il lavoro in nero e precario è evidente.

 

 

Dopo le esternalizzazioni Telecom, i sindacati chiedono una modifica della legge sulla «cessione di ramo»
Una legge contro i licenziamenti camuffati
Nino Busacca
 
Dopo le esternalizzazioni Telecom degli ultimi anni, e quelle più recenti - Wind e Vodafone - il sindacato chiede riforme nel campo delle cessioni di ramo d'impresa. E lo fa chiedendo di abrogare una parte della legge 30, divenuta oggi «inviolabile» (purtroppo anche a sinistra) dopo le tante promesse dell'Unione sotto elezioni. Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno chiesto ieri, nel corso dell'Assemblea nazionale esternalizzati Telecom, l'abrogazione dell'articolo 32 del decreto 276/2003: si ripristinerebbe così il principio dell'«autonomia funzionale preesistente» del ramo, impedendo che venga creato ad hoc solo qualche mese prima per giustificare l'operazione. Il sindacato chiede poi altri due interventi. «Deve essere riconosciuto - spiega Alessandro Genovesi, Slc Cgil - il principio della responsabilità solidale, vincolando il cedente e il cessionario a garantire la totale stabilità occupazionale all'interno del ramo ceduto, per almeno l'intera durata dei contratti di servizio e comunque per un periodo di tempo minimo di 48-72 mesi dalla cessione». In pratica, se l'azienda cessionaria dovesse fallire o licenziare, per il periodo previsto la cedente sarebbe obbligata a riassumere o ricollocare i lavoratori. «Chiediamo poi - continua - di allungare il periodo del confronto sindacale prima della cessione, cosa che permetterebbe una più attenta analisi delle ricadute, soprattutto per quelle imprese che operano su servizi di interesse generale».
I cattivi esempi si sono visti soprattutto con le esternalizzazioni Telecom: migliaia di lavoratori fuoriusciti nell'ultimo decennio, ceduti a società create alla bisogna che hanno chiuso i battenti in uno o due anni. Dei veri e propri «licenziamenti camuffati», come peraltro hanno riconosciuto diverse sentenze di reintegro presso la stessa Telecom. Diversi i casi Wind e Vodafone, seppure non esenti da rischi: i 275 operatori Wind di Sesto San Giovanni sono stati ceduti alla Omnia Network, con la garanzia di una commessa che dura 5 anni, ma senza alcuna clausola di salvaguardia a tutela del posto di lavoro. Tanto che la gran parte di loro ha scelto di andare in causa. Più garantita la cessione Vodafone: 7 anni di commessa alla Comdata, tutti i trattamenti e benefit conservati, con la cedente pronta a ricollocare i 914 lavoratori in caso di crisi. Ma, oltre i 7 anni, Comdata riuscirà a tenere lavoratori divenuti troppo costosi?
Sacrosante dunque le richieste sindacali, soprattutto perché si viola un tabù politico (nominare la legge 30 ormai è divenuto "sacrilego", persino presso la Cgil, che fino alla primavera 2006 ne chiedeva la cancellazione). Manca però un punto: rendere i lavoratori direttamente partecipi. A questo proposito, su questo giornale Alberto Burgio ha segnalato una proposta di legge depositata alla Camera in febbraio, che riconosce ai lavoratori il diritto di esprimersi sulla cessione, ed eventualmente a impedirla. Non limitandosi al semplice referendum sull'accordo sindacale, come avviene oggi. La Corte di Giustizia europea, ricordava il parlamentare del Prc, ha sancito la legittimità di normative che prevedano il diritto del lavoratore di «opporsi al trasferimento del suo rapporto di lavoro». Una titolarità del proprio rapporto di lavoro che va al di là persino degli accordi sindacali, e che deve poter influire sulle scelte delle aziende e le cosiddette «esigenze di mercato».

 

 

Somalia, la seconda vita delle Corti

Nuovi scontri a Mogadiscio, gli insorti tornano alla ribalta

Lo aveva anticipato proprio stamane il direttore del ministero della Sicurezza Nazionale somalo: le Corti islamiche si stanno riorganizzando, tanto che il governo somalo non controllerebbe che il 20 percento del territorio. I fatti di oggi, con 12 civili morti e 40 feriti a Mogadiscio a colpi di mortaio durante scontri tra insorti e truppe somalo-etiopi, sembrano dargli ragione. Secondo altri esponenti del governo, gli islamisti potrebbero ora contare su numerosi combattenti, anche stranieri, e su ingenti finanziamenti.

Riscossa. Secondo Sheikh Qasim Ibrahim Nur, il direttore del ministero, le Corti islamiche sarebbero in procinto di lanciare un pesante attacco nei confronti delle forze governative. Alle quali, sempre secondo Nur, sfuggirebbe il controllo di circa l'80 percento del territorio.
Ieri, un sito di informazione somalo riportava la notizia che un misterioso membro delle Corti islamiche avrebbe fatto recentemente visita al porto meridionale di Kismayo, incitando la popolazione alla rivolta contro il governo. Secondo la fonte, la città portuale sarebbe sostanzialmente sotto il controllo degli insorti, i quali avrebbero anche ammassato truppe nella zona del basso Jubba. Movimenti di truppe dei quali sarebbero a conoscenza anche le forze etiopi, che dallo scorso dicembre controllano sostanzialmente il Paese. Ma i militari di Addis Abeba preferiscono non attaccare per non aprire un altro fronte, visto che finora le migliaia di soldati etiopi fanno fatica a controllare anche solo Mogadiscio.

Mogadiscio. La città, teatro di combattimenti ormai quotidiani da un anno a questa parte, è stata abbandonata da buona parte della popolazione civile, rifugiatasi nei campi profughi che circondano la capitale o dispersa nelle regioni centrali del Paese, che anche le agenzie umanitarie trovano difficoltà a raggiungere.
Da Londra, dove è ricoverato per il consueto check-up fisico annuale, il presidente Abdullahi Yusuf predica però calma, smentendo la notizia della perdita di Kismayo. Ma le numerose fonti, anche governative, che danno in aumento le quotazioni delle Corti islamiche fanno pensare che la notizia sia molto più che una bufala.
Da Asmara, dove risiedono dall'inizio dell'anno i vertici delle Corti islamiche, non una parola di commento sugli ultimi eventi e sulle indiscrezioni. L'Eritrea, nonostante le smentite del governo, è stata più volte accusata di sostenere la lotta degli insorti somali, dando loro rifugio, armi e uomini. E se anche oggi Nur non ha specificato chi siano i finanziatori delle Corti, il pensiero corre subito all'Eritrea.

Matteo Fagotto

 

11 dicembre

Alla canna del gas

Le Nazioni Unite avvertono: la crisi umanitaria a Gaza e prossima alla catastrofe
Un'associazione di docenti di Gaza anuncia che, dal vertice di Annapolis del mese scorso a oggi, le vittime palestinesi nella Striscia di Gaza sono state oltre sessanta. Di queste, trenta erano malati gravi, che non hanno potuto uscire dai confini per ricevere le cure necessarie. Più che le operazioni militari israeliane, però, i palestinesi della Striscia in questi mesi soffrono per la crisi economica causata dalla chiusura dei valichi.

 
Cibo. L'ennesima conferma della crisi umanitaria a Gaza l'ha fornita oggi il World Food Programme, secondo cui le importazioni di generi alimentari nella Striscia coprono solo il 41 percento del fabbisogno della popolazione locale. Il costo di molti generi essenziali come carne e farina è cresciuto di molto, le esportazioni invece sono a zero. La ragione, sostiene il Wfp, è la chiusura dei valichi da cui passano solo gli aiuti umanitari. É così dalla fine della guerra civile dello scorso giugno: Israele considera le chiusure una reazione al lancio di razzi sul suo territorio e sostiene di non poter gestire i valichi di frontiera assieme a Hamas. Altra conseguenza dell'assedio è la disoccupazione, che colpisce molte delle persone che in passato si recavano a lavorare in Israele. Migliaia di quelle oggi risescono a lavorate solo saltuariamente.

 
Aiuti. Le chiusure hanno anche l'effetto di abbattere il potere di acquisto dei locali: sempre secondo il World Food Programme, oltre il 60 percento dei palestinesi di Gaza ha ridotto le proprie spese alimentari. Sono sempre più numerose quelle che devono ricorrere all'aiuto delle organizzazioni umanitarie, sia quelle religiose locali che quelle internazionali: il World Food Programme e l'Unrwa (l'organizzazione della Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ) forniscono aiuti al 70 percento della popolazione. “Il numero delle persone bisognose di aiuto aumenta ogni giorno, mentre la percentuale di persone che siamo in grado di sostenere è bassa” ha spiegato a Irin News un operatore della carità islamica al Falah (in arabo, il contadino). Gli stessi sussidi dell'Unrwa, che giungono con cadenza trimestrale, consistono in riso, farina, olio e zucchero che, a detta di molti locali, non durano più di un mese e mezzo. La gente li usa finché ci sono, poi quando finiscono si indebita con i negozianti di alimentari. É' un meccanismo di sostentamento che spinge la popolazione sempre più giù nella spirale della povertà.
 
Agricoltura. L'organizzazione delle Nazioni Unite per il Cibo e l'Agricoltura, Fao, stima che dal giugno 2007 le perdite per gli agricoltori palestinesi, che sono un quarto della popolazione, superino i 4 milioni e mezzo di dollari. Il ministero dell'Agricoltura palestinese sostiene però che questa cifra è al ribasso, perché la stagione delle esportazioni in Palestina inizia a novembre, e nei prossimi mesi si attendono perdite per altri 50 milioni di dollari. Secondo un analista della Fao, “A meno che nelle prossime settimane i valichi vangano aperti, sia per le importazioni che per le esportazioni, il settore agricolo della Striscia affronterà una grave catastrofe”.
 
 Acqua. Alla crisi agricola si aggiungono anche le difficoltà di approvvigionamento idrico (sono 225 mila le persone che non ricevono acqua potabile per i guasti alle pompe) e il tagli da parte di Israele di elettricità e carburante. Queste ultime difficoltà stanno paralizzando la vita del milione e mezzo di abitanti della Striscia: gli ospedali non hanno abbastanza carburante per i generatori elettrici, la mobilità è compromessa dalla scarsità di benzina e anche la raccolta della spazzatura pare essere bloccata. Per le strade si vedono sempre meno auto e taxi. Secondo l'Associazione per proprietari di pompe di benzina di Gaza, il taglio delle forniture di carburante è tale da coprire solo il 20 percento delle richieste di benzina e gasolio. I nuovi tagli sono stati disposti dopo che il governo di Ramallah, avversario di quello di Hamas a Gaza, ha rifiutato di pagare le spese del carburante alla compagnia isrealiana Doron. I distributori hanno reagito con una serie di scioperi che hanno aggravato oltremodo la penuria. La crisi dei carburanti sta anche condizionando le abitudini di molti gazawi, che da qualche mese stanno abbandonando le auto per tornare al mezzo di trasporto usato in Palestina da millenni: gli asini. Molti disoccupati si sono reinventati un lavoro vendendo frutta e verdura porta a porta, con un asino e un carretto. Da giugno a oggi però, anche il prezzo degli asini è salito del sessanta percento, così come il costo per il loro cibo.
 

 

Indagine Ocse-Pisa boccia senza appello gli istituti non statali
Nella maggioranzadei Paesi, invece, il privato alza il livello medio

Private, in Italia le peggiori d'Europa
"Meglio studiare nella pubblica"

di SALVO INTRAVAIA

 
<B>Private, in Italia le peggiori d'Europa<br>"Meglio studiare nella pubblica"</B>
LA scuola privata italiana è la peggiore d'Europa. Ma non solo. E' anche una delle ultime al mondo. In Italia, sulle scuole non statali, da alcuni anni a questa parte si confrontano due opposte idee (pro e contro il finanziamento pubblico). I favorevoli ritengono che il ruolo (e il conseguente trasferimento di fondi pubblici) delle scuole private sia indispensabile per fare crescere l'intero sistema scolastico nazionale. I contrari pensano sostengono che il trasferimento diretto di risorse pubbliche alle scuole non statali sia incostituzionale. Ma intanto arriva l'impietoso giudizio dell'indagine Ocse-Pisa (Programme for international student assessment) 2007, che boccia gli istituti privati senza appello.

Il report internazionale sulle competenze dei quindicenni nelle cosiddette literacy relative alla Lettura, alle competenze in Matematica e scientifiche certifica, in Italia, la maggiore qualità del pubblico sul privato. In poche parole, il pur deludente quadro emerso dalla comparazione internazionale dei quindicenni italiani con i coetanei di altri 56 stati sparsi nei 5 continenti, pubblicato appena una settimana fa, si accentua se si prendono in considerazione i risultati delle sole scuole private.

L'Italia è uno dei pochi paesi occidentali e industrializzati dove gli adolescenti della scuola pubblica risultano "più" attrezzati dei compagni delle private. I numeri parlano chiaro e non lasciano spazio a troppi dubbi. Degli oltre 21 mila quindicenni presi in considerazione nel Belpaese il 4 per cento, al momento dell'indagine, era iscritto in istituti privati. Il divario emerso nella literacy Matematica è pari a 11 punti: 462 per gli adolescenti delle scuole statali e 451 per i compagni iscritti nelle classi delle scuole private. Distanza che diventa ancora più imbarazzante se si prende in considerazione la literacy scientifica: 476 contro 462. Solo in quella riguardante la Lettura (comprensione e produzione di testi scritti) il divario è minimo (appena 3 punti), pur sempre a favore degli studenti che affollano le scuole pubbliche.

Ma è il confronto internazionale a fare emergere una realtà ancora poco conosciuta e soprattutto, misurata. Tra le 48 nazioni di cui l'Ocse ha pubblicato i risultati disaggregati (pubblico/privato), in Matematica, l'Italia viene sopravanzata da nazioni come Uruguay e Israele che nella classifica complessiva la seguono e precede di appena un punto il Cile. Facendo sempre riferimento ai risultati dei soli alunni che frequentano le scuole private il nostro paese si colloca fra gli ultimissimi posti anche per le competenze in Lettura e nella literacy scientifica dove paesi come l'Azerbaijan e la Giordania, a giudicare dai risultati dei propri alunni, mostrano scuole private più competitive della blasonata Italia.

E se nella maggior parte dei paesi del mondo nel complesso le scuole private innalzano la qualità dell'intero sistema scolastico lo stesso non può dirsi per il nostro paese dove quel 4 per cento di studenti, sulle conoscenze scientifiche ad esempio, contribuisce ad abbassare il livello italiano già di per sé preoccupante. Solo a titolo di esempio, in Germania gli studenti delle private ottengono in Matematica quasi 40 punti in più dei compagni delle statali. Stesso discorso per il Regno Unito dove il distacco passa addirittura a 75 punti o in Spagna: più 25 punti a favore degli alunni delle private.
Finanziaria in divisa

Ventun miliardi alla Difesa, Natale ricco per le aziende belliche

Le minacce del Ventunesimo secolo, evocate con forza sempre maggiore, dopo l'11 settembre, ad ogni vertice annuale della Nato, si chiamano terrorismo e armi di distruzione di massa. Entrambe hanno fatto della paura un elemento di strategia politica. E per contrastare la paura si affinano e si consolidano i sistemi di difesa. Ovvero: ci si arma. Secondo il Sipri (Istituto di studi per la pace di Stoccolma), nel mondo le spese militari sono cresciute nel 2006 del 3,5 percento rispetto all'anno precedente, superando i mille miliardi di dollari (quasi 680 milioni di euro). Nella classifica dei Paesi produttori di armi, l'Italia è al settimo posto, con 20 miliardi di euro. Il nostro Paese destina al settore difesa l'1,5 percento del proprio prodotto interno lordo.

Parata militare dei LagunariRisorse sparse. Le spese militari rappresentano una delle voci più onerose nel bilancio del nostro Paese. Grazie alla Finanziaria, passata a fine estate al Senato per un pugno di voti e in attesa della votazione alla Camera, sono previsti stanziamenti per 23 miliardi e 352 milioni di euro (21 miliardi nel bilancio preventivo della Difesa, 2.424 aggiunti dalla Finanziaria). L'aumento rispetto al 2007 (la misura allora ammontava a 21 miliardi e 11 milioni) è dell'11,1 percento. Le previsioni di spesa per il comparto militare, invece di far capo solo al ministero della Difesa, sono disseminate nelle più disparate allocazioni: oltre alla Finanziaria e al bilancio della Difesa, come detto, i contributi spaziano dal ministero per l'Economia a quello dello Sviluppo economico. Essendo sparse in vari bilanci, le risorse rendono opaca la loro interpretazione. Vediamo di cominciare a far luce sulla loro allocazione, andando a verificare, punto per punto, dove e a cosa sono destinate le risorse stanziate nella Legge Finanziaria, approvata dal Senato per un pugno di voti il 15 novembre scorso e in attesa di discussione alla Camera.

L'articolo 5, comma 12, stanzia un fondo di 107 milioni di euro per il pagamento dell'accisa (imposta) sui prodotti energetici delle Forze Armate.
 
All'articolo 21 del Disegno di Legge, il comma 1 cita: "Per l'organizzazione del vertice G8 previsto per l'anno 2009 è stanziata la somma di euro 30 milioni per l'anno 2008." Il vertice si terrà alla Maddalena, in Sardegna, da dove il mese scorso sono partiti 1.500 soldati Usa, nell'ambito della dismissione della base militare, che verrà definitivamente lasciata dalla Marina statunitense nel febbraio 2008.
 
L'articolo 22 integra con 30 milioni di euro il taglio del 15 percento della scorsa Finanziaria per la 'professionalizzazione' delle Forze Armate; stanzia inoltre 140 milioni di euro per 'garantire la capacità operativa' delle stesse. Venti milioni di euro vanno poi all'arsenale della Marina militare di Taranto e 40 per il funzionamento dell'Arma dei Carabinieri.
 
Nell'articolo 31 si propone l'allocazione di risorse per: 15 velivoli addestratori Aermacchi M346; 12 elicotteri Agusta Westland EH101; sistema di comunicazioni Sicote per i Carabinieri in funzione anti-terrorismo; progetto Soldato futuro; partecipazione, con la Francia, alla costruzione del satellite di comunicazioni Sicral 2. Per l'attuazione di tale piano sono autorizzati contributi quindicennali per un totale di 1 miliardo e 50 milioni di euro.
 
La MarinaAll'articolo 31, comma 2, figurano, per la partecipazione al programma del Caccia Eurofighter: 318 milioni di euro per il 2008, 468 per il 2009, 918 per il 2010, 1.100 per il 2011 e 1.100 per il 2012. Aggiunti a quelli già previsti dalla Tabella F della Finanziaria (importi da iscrivere in bilancio alle autorizzazioni di spesa delle leggi pluriennali), si raggiungono, per 5 anni, 4.884 milioni di euro. Al comma 3, si dispone l'erogazione di ulteriori fondi per il programma di sviluppo delle fregate multiruolo Fremm, in cooperazione con la Francia. Il totale è di un miliardo e 50 milioni in 15 anni. Sempre nella Tabella F della Finanziaria vi sono fondi aggiuntivi per le fregate Fremm di circa 800 milioni di euro.
 
Nell'articolo 93, per esigenze legate alla tutela dell'ordine pubblico, è previsto, per un piano di assunzioni, uno stanziamento di 50 milioni di euro per il 2008, di 120 per il 2009 e di 140 per il 2010. Risorse, queste, destinate all'Arma dei Carabinieri, alla Polizia di Stato, alla Guardia di Finanza, alla Polizia penitenziaria e al Corpo forestale.
 
L'articolo 95 destina 200 milioni di euro in più per 2008, 2009 e 2010 ciascuno per i rinnovi contrattuali e la 'valorizzazione delle specifiche funzioni svolte nella tutela dell'ordine pubblico e della difesa nazionale. Destinatari il corpo di Polizia e le Forze Armate. Nella tabella del ministero per l'Economia è inoltre iscritto oltre un miliardo di euro per il finanziamento delle missioni italiane all'estero.
 
In conclusione, le spese militari aumentano, a dispetto delle promesse del governo Prodi. Che nel programma pre-elettorale si era impegnato, "nell’ambito della cooperazione europea, a sostenere una politica che consenta la riduzione delle spese per armamenti". Promesse da marinaio.
 
Morire con dignità

Città del Messico si conferma città progressista. Firmata una legge che permette ai malati terminali di decidere il loro futuro.

Il dibattito sulle varie forme di morte assistita o sull'eutanasia è da sempre, anche a livello internazionale, al centro di grandi polemiche: molti i favorevoli, altrettanti i contrari.
Al di là dell'oceano atlantico, nella capitale del Messico, l'Assemblea Legislativa del Distretto Federale, però, sembra aver messo tutti d'accordo. Nei giorni scorsi, infatti, ha approvato all'unanimità la "Ley de voluntad anticipada", una legge che consente ai malati terminali di decidere il loro futuro.

 
Un malato terminale nella corsia d'ospedaleLa legge. Nonostante il plebiscito, non sarà stato facile per i legislatori esplorare il microcosmo di problemi che potevano nascondersi dietro questa legge prima della sua approvazione. Allora, oltre alla "Ley de voluntad anticipada" sono state pensate norme che tutelassero gli interessati da eventuali procedimenti penali. La norma, in sostanza, consente ad una persona affetta da una malattia incurabile, nelle sue piene facoltà mentali, di sottoscrivere davanti a un notaio un documento nel quale esprime il desiderio di interrompere le cure che prolungherebbero la vita, magari solo di poco e non allevierebbero le sofferenze, senza, però, nessuna speranza di guarigione. Inoltre, nel caso un malato terminale non sia in possesso delle facoltà, consente ai familiari di intervenire e redigere il documento alla presenza di testimoni. Per questi particolarissimi casi l'Assemblea ha anche pensato una serie di riforme che impediscano accuse d'omicidio o d'aiuto al suicidio per chiunque intervenga nella questione. C'è dell'altro: nel documento notarile il malato potrà acconsentire all'espianto dei suoi organi. "Questa legge aiuta anche a dare speranze a tutte quelle persone che hanno necessità di un donatore", dice il presidente della commissione di governo Victor Hugo Cirigo.

 
Malati in ospedaleGli aspetti. Non pensate all'eutanasia. La "Ley de voluntad anticipada", è un'altra cosa. In nessuna circostanza, infatti, sarà possibile somministrare medicinali che causino il decesso del malato in stato terminale. "Non si parla di porre fine a una vita - dice la deputata del Partido de Accion Nacional Paula Soto - ma della qualità che deve avere la fase finale della vita stessa".
Si tratta infatti di ortotanasia, cioè della difesa del diritto a morire dignitosamente senza l'utilizzo di misure per l'allungamento della vita.
Qualità della vita che coincide anche con l'offerta di apporto psicologico da parte di personale esperto ai malati e ai i loro familiari. E per non creare polemiche è riconosciuta l'obiezione di coscienza ai medici e al personale sanitario che non vuole applicare la legge. Adesso la parola passa a Marcelo Ebrard, capo del governo del Districto Federal che dovrà promulgare la legge che entrerà definitivamente in vigore.


Onorevoli a quattro stelle

Camera Ma quanti mms venivano spediti dai telefonini dei deputati? Quante foto si scambiavano gli onorevoli nella loro attività d'ufficio? Il piano di tagli alle spese delle Camera, pubblicato sul numero in edicola de L'espresso, mostra una serie di voci sorprendenti. Per esempio, d'ora in poi sarà vietato mandare mms e foto dai cellulari di servizio. E i furbetti che continuavano a tenere due schede telefoniche dovranno restituirne una. Questi due provvedimenti, assieme a una revisione delle tariffe, dovrebbe far risparmiare 300 mila euro l'anno. Pensate che solo per le convocazioni via fax degli organi della Camera si spendevano 200 mila euro l'anno: d'ora in poi tutto avverrà via email o sms. C'è poi la questione degli atti parlamentari: visto che sono tutti sul web, che senso ha stamparne tante copie? A parte il danno all'ambiente per lo spreco di carta, ogni anno vengono bruciate somme da capogiro. Per il 2008 ci saranno 25 milioni di pagine stampate in meno, con un risparmio di un milione di euro. Infine la rassegna stampa: finora costava 150 mila euro l'anno di fotocopie, dal nuovo anno invece si potrà consultare solo sul web.
Qualcosa si muove anche sul fronte delle trasferte. I parlamentari dovranno rinunciare ai soggiorni in hotel a cinque stelle: il massimo adesso scende a quattro. E per i voli in Europa o nel Mediterraneo sarà obbligatorio in biglietto in classe economica con data non modificabile. Un plauso ai deputati questori Gabriele Albonetti, Francesco Colucci e Severino Galante, che hanno usato le forbici. Resta però un interrogativo: ma quante sorprese riserva ancora lo scrigno dei privilegi parlamentari?

 

7 dicembre
 

Documentavano l'uso di tecniche dure più volte denunciate dalle organizzazioni umanitarie come tortura
Il direttore Hayden: "Decisione in linea con la legge per proteggere gli agenti". Ma è polemica

Usa, la Cia distrusse le videocassette
degli interrogatori dei sospetti terroristi

<B>Usa, la Cia distrusse le videocassette<br>degli interrogatori dei sospetti terroristi</B>
WASHINGTON - La Cia ha distrutto nel 2005 almeno due videocassette che documentavano gli interrogatori di due operativi di Al Qaeda sotto custodia dell'agenzia. La decisione sarebbe maturata nel mezzo del dibattito al Congresso sui metodi utilizzati dall'agenzia di intelligence, più volte condannati dalle organizzazioni in difesa dei diritti umani come tortura, e oggetto di aspre dispute legali.

I video mostravano gli interrogatori di sospetti terroristi - fra cui anche Abu Zubadayah, il primo detenuto in mano alla Cia, arrestato nel marzo del 2002 - in cui venivano usate tecniche dure, riferisce il New York Times. Secondo il quotidiano americano vennero distrutti perché funzionari dell'agenzia erano preoccupati che tali documenti potessero esporre i suoi agenti a cause legali.

Dopo essere stato informato dal New York Times che la notizia stava per essre pubblicata, il direttore della Cia Michael Hayden in un comunicato ai dipendenti ha detto che la decisione di distruggerli è maturata all'interno della Cia per proteggere i funzionari coinvolti e gli agenti in incognito e perché le cassette non avevano più valore di intelligence. Se i video fossero diventati pubblici avrebbero rappresentato "un grave rischio per la sicurezza", ha spiegato il direttore, esponendo gli agenti e "le loro famiglie a una rappresaglia di Al Qaeda e dei loro simpatizzanti". Hayden ha difeso la condotta dell'agenzia, dicendo che è stata "in linea con la legge".

La distruzione dei video fa riemergere i dubbi sul comportamento della Cia nei confronti del Congresso, dei tribunali e della Commissione sugli attacchi dell'11 settembre, cui potrebbe aver occultato informazioni importanti. In particolare, quei nastri non sono stati forniti alla corte federale dinanzi alla quale era processato Zacarias Moussaui, considerato il 20esimo dirottatore, e alla Commissione sull'11 settembre, che pure aveva fatto richiesta alla Cia di avere tutte le trascrizioni e tutta la documentazione sugli interrogatori ai detenuti sospettati di terrorismo.

La notizia riaccende anche il dibattito sulle leggi che autorizzano la Cia ad impiegare metodi di interrogatorio più duri di quelli permessi alle altre agenzie di intelligence. La notizia della distruzione dei nastri, sottolinea il New York Times, è arrivata poche ore dopo l'approvazione in una commissione del Congresso di un provvedimento per mettere fuorilegge le pratiche e i metodi troppo duri di interrogatorio, provvedimento che però dovrà passare in aula alla Camera e al Senato e su cui molto probabilmente il presidente George W. Bush porrà il veto.

 

Io romeno no limits

di Fabrizio Gatti - Foto di Luca Ferrari - Prospekt
Il giornalista de 'L'espresso' ha girato l'Europa. Con una finta identità di Bucarest per la quale era stato espulso dall'Italia. Lavavetri alla Torre Eiffel, a Barcellona e a Monaco. Senzatetto in Austria e persino a Montecarlo. Ma le polizie non lo fermano. Ecco il suo reportage
 
 
 
Fabrizio Gatti a Parigi
Giù lo zainetto. Fuori la spazzola e la bottiglia di plastica piena d'acqua e sapone. Il traffico al semaforo tra avenue de New York e Pont d'Iéna arriva a ondate. Puzza di benzina il cuore della Parigi da cartolina. Davanti, il Palais de Chaillot. Dietro, la Senna. Sopra, la vertigine mozzafiato della Tour Eiffel. Di lavavetri a questo incrocio forse non ne hanno mai visti. È il posto migliore per provare. In tasca nessun documento. Solo un decreto di espulsione della Prefettura di Lodi, scritto in due lingue, italiano e inglese. È intestato a Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. Un finto romeno: il nome Roman scelto tra i cognomi dell'elenco telefonico di Vicenza, Ladu tra quelli di Nuoro. Ma l'assonanza sardo-veneta poco importa. In questi tempi di xenofobia militante contro la Romania basta che un'identità finisca per "u" e in Italia si è guardati con sospetto. Figuriamoci qui, nella Francia di Sarkozy. Prima o poi arriverà la polizia. Perché questa è la Francia del pugno di ferro, delle espulsioni, del rigore citato come esempio dalla politica nostrana. Il Paese da imitare, con Germania, Austria e Spagna. Poi si è aggiunto il pacchetto sicurezza del governo con la decisione di dare più potere ai sindaci. E si è visto in che modo i Comuni del lombardo-veneto abbiano già approfittato dell'occasione. Bisogna indossare i panni dello stereotipo per scoprire cosa succede sui marciapiedi fuori dall'Italia. E provare a diventare ciò che il nostro Paese della mafia, della camorra, della 'ndrangheta e del record di corruzione ha sostituito nell'immaginario collettivo del pericolo nazionale: un cittadino europeo, senza documenti, senza lavoro, senza casa, senza fissa dimora, nomade e nato in Romania.

Dieci giorni in giro per l'Europa, su e giù tra piazze, treni e stazioni. Da Milano a Parigi. E poi Stoccarda, Ulm, Monaco di Baviera, Kufstein, Innsbruck, Verona, Milano, Marsiglia, Montpellier, Barcellona, ancora Montpellier, Marsiglia, Nizza, Montecarlo. E ritorno in Italia. Dal 21 novembre al primo dicembre. Cinque controlli di polizia: in Germania, Austria, Francia e Spagna. Sempre con la stessa intenzione: presentarsi come Roman Ladu, mostrare il decreto di espulsione ed essere rimpatriato a Bucarest. Oppure fermato per immigrazione clandestina: perché nell'archivio centrale delle polizie dell'area Schengen il finto nome romeno è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Così dovrebbe risultare dopo i reportage sotto copertura nel centro di detenzione di via Corelli a Milano nel 2000 e in quello di Lampedusa nel 2005. Invece il costoso cervellone europeo non scopre nulla. E alla fine la risposta è sempre la stessa: «Grazie, può andare». Quattromila chilometri di libertà che affossano ogni possibile efficacia delle espulsioni di cittadini europei, come pretende il pacchetto sicurezza italiano. Perché la circolazione delle persone in Europa è un principio sancito dai Trattati.
 

Così l'Italia della paura rimane un caso isolato. E ogni Paese diventa un mondo a sé. In Germania, invasa dalla 'ndrangheta e scioccata dalla strage di Duisburg, sono gli italiani a essere perquisiti. In Austria basta dire di voler arrivare a Verona per tranquillizzare gli agenti e farla franca. Mentre a Barcellona è la polizia a insegnare come chiedere l'elemosina senza infastidire i passanti. Un salto indietro alla partenza. Stazione Centrale, Milano. Fuori è pieno di auto con i lampeggianti blu. Una trentina di poliziotti controlla chiunque abbia un volto leggermente diverso dai lineamenti italopadani. Qualcuno viene portato via. Due italiani all'angolo guardano la scena e offrono sigarette di contrabbando ai passanti. Sul Tgv per Parigi la polizia riappare al confine. Gli agenti di Bardonecchia sono saliti davanti. La Paf, la Police aux frontières, arriva alle spalle. Si incontrano alla carrozza 5. Ma controllano soltanto i passeggeri dalla pelle scura. Vengono fatti scendere un pachistano perché ha un visto solo per l'Italia. E quattro ragazzi di colore. Un ispettore contratta con un collega francese la restituzione di un senegalese. «L'abbiamo fermato stamattina». Il francese non è convinto. «Guarda», dice l'ispettore, «sul passaporto ha il timbro d'ingresso dell'aeroporto di Parigi. È vostro ». Il graduato con la tuta blu della Paf osserva il timbro. «Sì, va bene. È nostro». Uno almeno se lo devono prendere. La partita finisce 5 a 1 per la Francia. Roman Ladu passa indenne. Nonostante la barba sfatta e gli abiti dimessi, la polizia di solito non ferma i bianchi.
 
 
Gatti sulle Rambla di Barcellona
Di lavavetri a Parigi ne hanno visti pochi.
Soltanto qualche mese fa a Porte de la Chapelle, periferia Nord, al grande svincolo di fronte allo stadio di Francia. Erano nomadi del campo di Saint Denis. Adesso hanno lasciato perdere. Si avvicinano due donne, nelle loro gonne colorate. Una ha i piedi protetti soltanto da un paio di calze di cotone lacero. Chiedono l'elemosina ai turisti sotto gli archi della Tour Eiffel e lungo i viali nel Campo di Marte. Dicono che vengono dalla Romania. «Due anni fa, quando hanno tolto i visti di ingresso», spiega la ragazza senza scarpe, «siamo partite con le famiglie». I poliziotti pattugliano in auto. Si guardano intorno. Riprendono il giro. Ancora pochi passi e oltre il Pont d'Iéna sulla Senna, ecco l'incrocio ideale dove lavare i parabrezza. Le tipiche scene degli automobilisti. Un colpo di gas per andare più avanti. Un colpo di freno per rimanere più indietro. Un no gentile con l'indice. Uno solo, un uomo su una monovolume, si slaccia la cintura di sicurezza e minaccia di scendere. Molti si lasciano pulire i cristalli. Nessuno però sgancia un solo centesimo. Ogni tanto ripassa un'auto della polizia. Qualche agente in moto. Forse vedono. Forse no. Comunque tirano dritto. Meglio cambiare. Non appena fa buio il traffico su Pont de l'Alma si allunga in una coda di fari e fumi di scarico. È l'incrocio che scende agli Champs Élysées. I poliziotti in auto arrivano, si fermano al semaforo, ripartono. Non fanno caso all'intruso che si avvicina ai finestrini. Stesse scene di prima. Gli automobilisti rifiutano gentilmente. I parigini non hanno bisogno di ordinanze del loro sindaco. Considerano la questione uno sfruttamento denigrante dell'immigrazione. Così non regalano nulla. Per questo anche quei pionieri del parabrezza davanti allo stadio di Francia sono subito scomparsi. Due ragazzi su un'auto bianca invece si arrabbiano. È il momento di inventarsi una scusa. «Sorridete, è per la televisione. Stiamo girando una pubblicità». Loro adesso ridono e salutano a caso cercando il cameraman.

Così va il mondo. Ma non c'è niente da ridere. La campagna contro i romeni in Italia, innescata dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, ha avuto ricadute fin qui. Un caso tra i tanti. Nicu B., 22 anni, era partito due anni fa da Craiova, a ovest di Bucarest, per lavorare a Pavia. Muratore in nero: «Perché», racconta, «il padrone diceva che mettendomi in regola avrebbe pagato troppe tasse». Il capomastro lombardo gli versava sette euro l'ora e si rubava i contributi di malattia e pensione. Nicu viveva con la moglie e la loro bimba, 9 mesi. Pochi giorni dopo la presentazione del pacchetto sicurezza, la Guardia di finanza è entrata nel cantiere. «Il mio padrone si è preso una multa», spiega il ragazzo, «ma io ho perso il lavoro». È l'effetto del pugno di ferro, quando si abbatte a caso sulla gente. Così tre settimane fa Nicu ha lasciato la moglie e la figlia da una sorella a Pavia. E ha cominciato il suo secondo viaggio da emigrante. «Ho preso il treno a Milano, ho il passaporto romeno. I francesi mi hanno lasciato passare. Siamo nell'Unione europea, no?». Ora abita con i genitori in pieno centro a Parigi, in boulevard Haussmann. Dietro al teatro dell'Opera, davanti ai grandi magazzini Lafayette. Una bella zona. Una grande finestra di cristallo come parete. Solo che Nicu, suo papà Paulin, 54 anni, sua mamma, 48 anni, e suo fratello quella finestra la guardano da fuori. La soglia dei negozi di abbigliamento C&A è la loro camera da letto. Il materasso è uno strato di gommapiuma steso su un giaciglio di cartoni. Se fossimo davanti alla Rinascente di Milano, li avrebbero già cacciati. «Siamo più di trecento », ammette Nicu: «Qui intorno a Lafayette e ai grandi magazzini Printemps, veniamo tutti da Craiova». E la polizia non vi ha mai allontanati? «No, i miei sono qui da due mesi, non è mai successo. Non è come in Italia. Se non fai casino, la polizia in Francia non ti ferma. È una società multietnica, come fanno a capire chi è francese e chi è straniero?». Lavoro? «Ho già lavorato a Parigi, in nero per un romeno. Sto aspettando che mi chiami.
 
 
Gatti di notte a Montecarlo
Qui è più difficile che in Italia.
Perché i francesi quando ti assumono fanno tutte le cose in regola, non è come da noi». Da noi dove? «Da noi in Italia». La cena è una scodella di pane inzuppato, seduti sull'asfalto. La notte è un respiro tormentato sotto strati di coperte sporche. Le luci non si spengono mai. Soprattutto adesso che le facciate di Lafayette e Printemps brillano di stelle natalizie ed effetti luminosi. E la musica diffusa dalle vetrine continua a suonare. Anche la città riaccende presto il suo frastuono. In boulevard Haussmann dalle 3 alle 5 arrivano i furgoni che smistano i giornali. Poi scaricano i rifornimenti per i grandi magazzini. Arrancano i mezzi della nettezza urbana. Gli addetti spingono carrelli carichi di rifiuti, attenti a non camminare sulle griglie dell'aria calda. Su quelle griglie in mezzo al marciapiede i trecento abitanti dei portici di Lafayette hanno messo ad asciugare il loro bucato. Magliette e calzini lavati ieri sera alla fontana di un parco. La nuova giornata comincia poco dopo le 6. Nicu e i suoi la passano accovacciati davanti alle vetrine. Al padre Paulin, ex saldatore, la Romania paga una pensione di invalidità. Ma cento euro al mese non bastano. E da quando le frontiere dell'Unione si sono estese, molti anziani romeni hanno scoperto che possono arrotondare il sussidio chiedendo elemosina all'Europa ricca: «Se possiamo, andiamo a casa per Natale. In primavera torniamo». Una transumanza di mani tese. Con una coperta colorata sulla testa, un cartello che ringrazia in francese e un bicchiere da riempire di monete. Visti così, anche gli uomini sembrano madonne. «La gente è più tenera con le donne», rivela Nicu: «Io devo accontentarmi. Ieri, in tutta la giornata, ho raccolto 12 euro. Non so come farò a tornare a Pavia».

Si riparte dalla Gare de l'Est. Roman Ladu va in Germania. A Stoccarda l'Ice per Monaco, il treno ad alta velocità, si muove in ritardo. «Fahrkarte, bitte», chiede la controllora. Bisogna farsi venire un'idea. Basta non consegnare il biglietto giusto. «Passport », ordina lei a un certo punto. Guarda sorpresa il decreto di espulsione. «Da dove viene?». «Da Parigi». Sembra stia leggendo le frasi in inglese e in italiano. «Ah, questo è scritto in francese», borbotta confusa, «devo chiamare la polizia». Il poliziotto è a bordo. Un uomo con lo scudo della Polizei cucito sul braccio del maglione. Legge il decreto di espulsione. «Dunque lei è romeno e non ha il passaporto», commenta in francese. Confabula con la controllora. Le dice sottovoce di farmi scendere a Ulm, la prima fermata dopo 85 chilometri. E se ne va. «Ma io non ho soldi, non conosco nessuno a Ulm. Non può lasciarmi arrivare a Monaco? ». «Non è possibile», risponde la donna che per non perdere di vista Roman Ladu si è seduta nella fila accanto: «Non ha il biglietto per questo treno. E poi l'agente ha già telefonato alla polizia, a Ulm la aspettano. Ormai è fatta». Il treno si ferma. La controllora fa strada verso l'uscita. La scena è quasi calcistica. Lei estrae dalla tasca della divisa un cartellino rosso. Scende. Si piazza davanti alla scaletta. Risale, agita il cartellino e lascia chiudere la porta. Il treno riparte. Forse arriverà la polizia come minacciato. E finalmente scatterà l'espulsione. Non arriva nessuno. Fa freddo e piove sulla città del Danubio e di Albert Einstein. Il treno successivo entra a Monaco prima che faccia buio. C'è tempo per lavare qualche parabrezza tra la Arnulfstrasse e il Paul Heyse Hunterführung, il sottopasso della stazione. In 30 minuti, quattro euro e 60. Due euro da una coppia di giovani fidanzati tedeschi. Il resto da una famiglia di rifugiati iraniani, un arabo e un immigrato italiano. Quattro volte più di quanto pagano all'ora molti agricoltori in Puglia per la raccolta dei pomodori. La maggior parte degli automobilisti però rifiuta la pulizia del vetro. Adesso, sotto l'acquazzone, hanno i tergicristalli in funzione. Fine dell'esperimento. Di notte ci ritroviamo in 39 a tentar di dormire in stazione, nella scatola di vetro della sala d'attesa. Alle 4,20 entrano due poliziotti in divisa e giacca a vento. «Polizeikontrolle », avvertono a voce alta. Leggono la parte in inglese del decreto di espulsione. «Roman Ladu è lei?», domandano. Rileggono il nome sul decreto. «Dove deve andare?». «In Austria». Chiamano la centrale via radio: «99, una verifica: Roman ». La risposta arriva in un minuto. «Niente? Bene», dice l'agente. E restituisce il decreto. Come «niente»? Avrebbero dovuto scoprire che il nome Roman Ladu è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Forse i due agenti non hanno capito. «Scusate, devo aspettare? Vi ho mostrato un decreto di espulsione». Un controllo bis che nessuno si andrebbe a cercare. «Sì, ho letto che lei ha un'espulsione dall'Italia», dice il poliziotto, «ma adesso la Romania fa parte dell'Unione: lei può rimanere in Germania fino a tre mesi». Un ragazzo consegna la sua carta d'identità. È italiano. «Fuori le mani dalle tasche», lo rimprovera l'agente. «99», dice il collega alla radio e detta il nome per la verifica. Poi perquisiscono il suo zaino.

È l'ispezione più meticolosa. La pubblicità di un'agenzia di viaggi invita a trascorrere quattro giorni a 280 euro nella città del Colosseo. «Rom», è scritto sul grande poster. Ironia delle lingue. La mattina dopo sull'Eurocity Monaco-Verona un uomo e una ragazza svegliano Roman Ladu. Sono agenti di frontiera austriaci. Chiedono la carta d'identità. Scrutano il decreto di espulsione. Il ruolo dell'Austria è fondamentale nel pacchetto sicurezza per fermare il ritorno dei romeni cacciati dall'Italia. L'uomo verifica il nome al telefono con la centrale. Mentre aspetta la risposta, la ragazza svuota lo zainetto. Il suo sguardo è attratto dalla spazzola lavavetri. Rimette tutto dentro. Senza fare domande. La risposta dalla centrale è negativa. Il poliziotto restituisce il decreto. «Va in Romania?», chiede. «Italia, Verona». «Mi fa vedere il biglietto? ». I due si guardano. «Grazie, buon viaggio», dice lui e scendono a Kufstein. Nemmeno in Austria Roman Ladu e il suo alter ego iracheno sono registrati come persone espulse. Al Brennero, niente controlli. Così a Ventimiglia. Così fino a Barcellona, come è normale tra Paesi nell'area del trattato di Schengen. Non può passare inosservata una mattinata a pulire parabrezza sotto il Mirador de Colon, la statua di Cristoforo Colombo alla base della Rambla. A Barcellona un'ordinanza punisce i lavavetri. Ma una legge prevede corsi di catalano anche per gli anziani nei campi rom, l'obbligo della scuola per i bambini, l'accesso al lavoro e l'assegnazione di appartamenti. Roman Ladu raccoglie due euro e 50, una sigaretta e un'offerta che potrebbe costargli un sacco di guai. «Fumas porros», gli chiede una donna dall'auto di servizio della nettezza urbana. «Porros?». Lei apre il cruscotto e tira fuori una stecca di hashish. La prima macchina con due agenti si ferma dopo mezz'ora. «Ehi, ehi, chico», grida la ragazza in divisa al finestrino, «no limpiar, pulire è proibito. Da dove vieni? ». «Romania». Non vuole nemmeno vedere i documenti. «Così sì», dice alla fine e mima il gesto di chiedere l'elemosina con la mano. «Limpiar no», ripete e indica il parabrezza: «Claro?». Non hanno voglia di scendere. Nemmeno di rovinarsi la giornata con una procedura burocratica noiosa. E soprattutto costosa.

Il ritorno è un viaggio in treno senza intoppi fino a Milano. L'ultima sosta a Montecarlo. Una notte di bivacco nel principato dei casinò, dei miliardari e delle bodyguard. Eppure si può dormire indisturbati sul marciapiede della stazione. Sotto volte di marmo, luci e telecamere. Appena sopra la chiesa di Saint Devote e la prima curva del gran premio. Giusto per vedere l'effetto che fa.
 
Il trucco c'è (e si vede)

L'Orso pigliatutto, ma con un asso nella manica: i brogli

Oltre il 64 percento dei voti al partito di Putin, Russia Unita. Poco sopra l'11 percento ai Comunisti. Otto e mezzo ai Liberaldemocratici e sette e qualcosa a 'Russia Giusta', questi ultimi due partiti filo-putiniani. Dare i numeri non basta, nelle elezioni per la Duma, conclusesi ieri e conteggiate poco fa. Oltre i numeri, c'è una realtà fatta di numerose irregolarità, violazioni, abusi. Né basta dover dare ragione al segretario di Russia Unita, Boris Gryzlov, che ha ammesso che qualche irregolarità c'è stata, ma che è del tutto irrilevante ai fini del risultato finale. Contano i numeri, alla fina, ma dietro i numeri, si nascondono le denunce, le intimidazioni, gli arresti, le accuse, le preoccupazioni di molti, dal Consiglio d'Europa agli Stati Uniti. 
 
Lo zarDenunce ecumeniche. Le votazioni non si sono svolte in modo corretto dall'inizio della campagna elettorale, "non hanno rispettato gli standard democratici e molti degli impegni presi a livello di Osce e di Consiglio d’Europa", fa sapere l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Un giudizio che contrasta con quello della Commissione elettorale russa, che ha fatto sapere che durante le elezioni tutto si è svolto regolarmente. Denunciano i comunisti: le più irresponsabili e torbide, secondo il leader del partito Gennady Zyuganov. Una farsa, che spingerà il Paese verso la dittatura, dice Garry Kasparov, ex campione di scacchi e leader di 'Altra Russia', coalizione non ammessa a partecipare. Anche gli Stati Uniti, per bocca del portavoce del Consiglio di Sicurezza, Gordon Johndroe, dicono la loro: preoccupazione per l'uso di risorse statali a sostegno di 'Russia Unita', intimidazione degli oppositori, influenza dei media, mancanza di uguali opportunità per i partiti minori. Gli unici che hanno potuto contare su una rete di osservatori 'imparziali' sono quelli di 'Golos', Ong russa che ha intervistato rappresentanti politici, elettori, giornalisti, conducendo un monitoraggio a tutto campo delle elezioni.
 
Orso pigliatuttoCautela, prima di tutto. "No comment. Non possiamo parlare fino a domattina a mezzogiorno, quando faremo uscire il comunicato stampa con le dichiarazioni del caso", risponde a PeaceReporter Tatyana Bogdanova, la portavoce di Golos. I suoi superiori le hanno imposto la consegna del silenzio. "Domani faremo la conferenza stampa, con il rapporto finale. Prima di allora non posso parlare. E' invitato a mezzogiorno nell'Independent press center di Mosca". "Purtroppo sono in Italia". "Ah, allora mi dica, forse qualche informazione gliela posso dare comunque". La 'Golos', Ong indipendente, ha dispiegato un esercito di alcune migliaia di persone in 38 regioni, denunciando pressioni, ostacoli, intimidazioni, ricatti ai danni degli osservatori dei partiti dell'opposizione, dei funzionari dell'Ong, degli stessi elettori. "Conferma queste denunce?". "Confermo alcune delle cose che ha detto. Non abbiamo ancora compilato il rapporto finale, siamo ancora nella fase di raccolta dei dati. Comunque, le 'violazioni' comprendono pressione sugli studenti a votare in massa, gli 'absentee ballot', ovvero i voti per corrispondenza, non al seggio...".
 
Aleksieev, leader della comunità gayOstacoli... La legge elettorale è stata cambiata due anni fa. Non permette a osservatori che non siano di parte di accedere ai seggi, ma i giornalisti possono, non è vero? "Secondo la legge sì. Le Ong non possono, quindi abbiamo dovuto accreditarci come operatori della stampa, ovvero giornalisti. Ma così abbiamo avuto grandi difficoltà. Ad alcuni è stato negato accesso nelle stazioni di voto, ad altri è stato espressamente chiesto di andarsene. Gli ostacoli sono stati diversi, è stato vietato loro di girare video, fare foto, insomma, documentare le procedure di voto. Scuse e pretesti di ogni tipo sono stati inventati per tenerli alla larga. In alcuni casi è stata chiamata la polizia per cacciarli. Uno dei nostri osservatori-giornalisti ha dovuto passare tutta la notte nella stazione di polizia". Quali sono le altre violazioni? Conferma che a molti sono stati promessi - e poi elargiti - regali in cambio del voto? "Alcuni osservatori hanno accertato che nella regione degli Urali sono state organizzate alcune cose per 'incoraggiare' le persone ad andare a votare. Sono stati dati regali, ma anche lotterie a premi e via dicendo".

 

(Don't) Go west

La Blackwater vuole una nuova sede vicino al confine col Messico. Ma gli abitanti della città scelta non ci stanno

L'uccisione di 17 civili iracheni in una sparatoria da una parte, l'inchiesta sul presunto contrabbando d'armi a favore del Pkk dall'altra. Negli ultimi due mesi la Blackwater, la più grande compagnia di sicurezza privata in Iraq, è finita sotto il fuoco incrociato di Baghdad e Washington. Ma ora nella guerra contro l'azienda si è aperto un altro fronte, quello occidentale. Parte degli 850 abitanti di Potrero, un paesino della California dove la compagnia vorrebbe costruire il quartiere generale della nuova Blackwater West, si sono ribellati all'acquisizione del terreno da parte della società, perché il suo arrivo sconvolgerebbe la tranquilla vita di provincia.
 
Contractor della Blackwater di scorta a Paul Bremer, quando era capo dell'Autorità provvisoria irachenaLa Blackwater si sta muovendo da oltre un anno per espandere la sua presenza negli Stati Uniti. Il nulla osta per l'acquisto dell'allevamento di polli dismesso dove dovrebbe sorgere la Blackwater West, 325 ettari nelle colline distanti 80 chilometri da San Diego, è arrivata l'anno scorso per conto del Potrero planning group, l'assemblea locale che ha il compito di approvare i piani regolatori. Ma all'epoca molti abitanti non erano neanche stati informati, e della società di contractor si era sentito parlare meno. Nel corso del 2007 l'opposizione alla costruzione del campo di addestramento è cresciuta, e qualche settimana fa una manifestazione di protesta a Potrero ha radunato oltre 200 persone. Una petizione contraria all'arrivo della Blackwater ha raccolto centinaia di firme, e per l'11 dicembre è prevista un'elezione per cambiare la composizione del planning group. I candidati che sfidano quelli in carica vorrebbero ridiscutere l'accordo con la compagnia.
 
Ma Potrero è divisa. C'è chi è preoccupato per lo sconvolgimento dei ritmi di vita – la città ha un solo negozio, che fa anche da ristorante – e chi invece pensa più al nuovo giro di affari che si creerebbe con l'arrivo di migliaia di persone da fuori. La nuova struttura ospiterebbe 11 poligoni di tiro, una base di atterraggio per elicotteri, senza contare gli alloggi per centinaia di reclute da addestrare. “Questa è una comunità piccola, si immagina il traffico e il rumore degli spari che porterebbero quelli?”, dice al telefono a PeaceReporter Janet Goode, una delle candidate che si oppongono all'arrivo della Blackwater. “Quella compagnia addestra civili per farne dei mercenari. Dovrebbero andare in una città grande, in strutture dell'esercito. Non li voglio qui, e mi sento presa in giro perché noi abitanti di Potrero abbiamo saputo dell'accordo solo lo scorso dicembre, quando il nulla osta era già arrivato”, conclude la Goode. Timothy Hammers, figlio dell'attuale presidente del Planning group, non vede invece grandi problemi. “Se questa società si attiene alle leggi, perché fare tante storie?”, si chiede parlando con PeaceReporter. “E' vero che la vita a Potrero cambierebbe, ma in fondo già stanno arrivando tante persone che si stabiliscono qui per scappare dalle grandi città”.

La sede della Blackwater in North CarolinaMa perché proprio Potrero? I critici vedono nella decisione della Blackwater un obiettivo ambizioso: mettere le mani sul business dei controlli alla frontiera con il Messico. Potrero è a ridosso del confine (“Da casa mia saranno meno di tre chilometri”, dice la Goode), in una zona dove gli attraversamenti clandestini sono frequenti. Al momento la gestione dei controlli è nelle mani della Border Patrol, in alcune zone con l'aiuto di vigilantes volontari come i Minutemen. Ma come le forze armate Usa hanno lasciato progressivamente spazio ai contractor nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, così potrebbero fare in un futuro nella lotta ai migranti clandestini. Brian Bonfiglio, vicepresidente della Blackwater West, ha negato di aver scelto Potrero con questa finalità in mente. Ma una testimonianza del presidente Gary Jackson di fronte a una commissione della Camera nel marzo 2005 sembra dire il contrario: “Così come il settore privato si è occupato di trasportare merci in giro per il mondo in maniera più efficiente, così la Blackwater può occuparsi dei nuovi bisogni della Polizia di frontiera”, disse Jackson.
 
Intanto, nelle scorse settimane Potrero ha avuto altro a cui pensare. Gli incendi che un mese fa sconvolsero il sud della California hanno colpito anche qui: i boschi della zona sono stati ridotti in cenere. “In questa zona transitano molti immigrati clandestini, ma ora che è tutto bruciato avranno meno posti dove nascondersi”, ironizza Hammers. Le fiamme non hanno causato vittime a Potrero, ma per domarle ci sono voluti giorni. E i soccorsi – acqua, cibo, carburante per gli abitanti isolati dalle fiamme – prestati, tra gli altri, anche dalla Blackwater. Sulla compagnia sono piovute accuse di conflitto di interessi. Niente di illegale, sia chiaro. Ma nel processo alle intenzioni della compagnia, l'11 dicembre la volontà di Potrero varrà come quella di una giuria popolare.
 

6 dicembre

Sri Lanka, escalation senza fine

Sempre più numerose le vittime civili

L'escalation della guerra civile tra singalesi e tamil non conosce limiti. Lo Sri Lanka sprofonda ogni giorno di più in una spirale di attacchi e rappresaglie di cui sono i civili a farne le spese: solo negli ultimi giorni ne sono morti oltre quaranta - tra cui undici bambini - vittime di attacchi e attentati di entrambe le parti. Migliaia di civili fuggono dai combattimenti e dagli attacchi aerei sempre più intensi nel nord dell'isola, mentre il governo di Colombo, ignorando gli appelli al dialogo che giungono anche dagli Usa, annuncia: Bombarderemo fino a sradicare il terrorismo.

Guerra senza quartiere. Martedì scorso i jet dell'aeronautica militare hanno bombardato la sede della stazione radiofonica dei ribelli tamil nel distretto di Kilinochchi, uccidendo nove civili tra giornalisti e tecnici. Nelle stesse ore e nella stessa zona, una bomba radiocomandata azionata dalle forze speciali dell'esercito ha fatto saltare in aria un pulmino su cui viaggiavano undici bambini tamil: tutti morti, assieme alla loro maestra e all'autista.

Il giorno dopo, mercoledì, la rappresaglia: una bomba piazzata dai ribelli esplode in un popolare negozio di abbigliamento alla periferia della capitale Colombo: muoiono undici civili singalesi. Nelle stesse ore una tigre nera, una kamikaze tamil, si è fatta esplodere nel pieno centro della città, davanti all'ufficio di un ministro.

Immediata la contro-rappresaglia delle forze governative: tra la serata di mercoledì e quella di giovedì l'esercito e l'aviazione hanno attaccato su tutti i fronti del nord, uccidendo almeno ventotto presunti guerriglieri dell'Ltte.

Inutili gli appelli al dialogo. Nelle scorse settimane il delegato della Croce rossa internazionale a Colombo, Toon Vandehove, aveva lanciato l'allarme sfollati, dicendo che l'intensificarsi degli scontri armati e dei bombardamenti aerei nei distretti settentrionali dell'isola stanno provocando la fuga di migliaia di persone: negli ultimi tre mesi almeno 22 mila civili tamil hanno lasciato i villaggi del nord per cercare rifugio al sud. In aumento, secondo la croce rossa, anche il numero di sfollati che rimangono nella zona di conflitto: oltre 11 mila nel solo distretto di Mannar.

Negli ultimi giorni, Nazioni Unite, Unione Europea e Stati Uniti d'America hanno condannato il crescente numero di civili coinvolti nel conflitto, e gli Usa tramite la loro ambasciata a Colombo hanno chiesto la ripresa del negoziato: Chiediamo a tutti i cittadini dello Sri Lanka di lavorare per l'obiettivo di un'equa soluzione politica del conflitto: la via d'uscita dall'attuale ciclo di crescente violenza non è quella militare.

Inequivocabile la risposta del primo ministro del governo di Colombo, Ratnasiri Wickramanayake: Continueremo a bombardare fino a quando il terrorismo non sarà sradicato.

Enrico Piovesana

 

 

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