
26
dicembre
Cessate
il fuocoIl
bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 52 - 2007
dal 20/12 al 26/12
Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 956
persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 229 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 28.991
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 7.276
Turchia
Questa settimana sono morte almeno 163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 585
Pakistan-talebani
Questa settimana sono morte almeno 126 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.207
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 96 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 4.031
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.161
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 990
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 651
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 2.171
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 244
Ciad
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 913
Israele-Palestina
Questa settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 540
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono 490
Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 818
Etiopia (Ogaden)
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 740
Filippine-Abusayyaf
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 171
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 498
Cecenia, Inguscezia e Daghestan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 804
Myanmar-Karen
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno, secondo la giunta militare, i morti sono almeno 59
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 770
Filippine-Npa
Questa settimana è morta almeno una persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 181
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno una persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 86
20 dicembre
Mangiare sarà un lusso
di Federica Bianchi
Il boom della domanda cinese. I raccolti destinati all'etanolo.
Il clima. La speculazione. Ecco perché esplodono i prezzi dei
cereali. Con enormi conseguenze su tutta la catena alimentare
Caro pasta e tesoretto: sulla tavola che ci metto? Con questo
slogan in rima lo scorso settembre erano scese in piazza diverse
organizzazioni di consumatori. Obiettivo: lo sciopero della
pasta. Il rincaro autunnale dei prodotti alimentari è
stato repentino e, per il grande pubblico, mal
sopportato, dopo la stangata fiscale e l'annuncio di un
ulteriore aumento delle bollette domestiche. A farsi sentire non
sono stati solo gli aumenti del prezzo del piatto nazionale (7
per cento dall'inizio dell'anno secondo i dati Eurostat, 4,5 per
Federalimentari), ma anche quello di pane, cereali,
latticini e carne.
Agli italiani è andata tutto sommato bene. Nel resto
d'Europa, quest'anno gli aumenti dei generi alimentari sono
stati ancora più sostenuti: una media del 4,3 per
cento, ben oltre il livello dell'inflazione (ferma al 3,1 per
cento) con la categoria dei latticini in crescita dell'11 per
cento e quella di pane e cereali di oltre il 7. Per non parlare
poi del resto del mondo, dagli Stati Uniti all'Africa, passando
per il Sud America e l'Asia, dove i prezzi dei cereali hanno
visto aumenti fino al 40 per cento. In Cina il prezzo della
carne di maiale e delle uova è salito addirittura del 50 per
cento.
Il problema ha dimensioni globali. E ha a che
fare con una girandola di fattori - dalle politiche agricole
alle speculazioni finanziarie, dall'aumento della domanda
mondiale di cereali all'uso dell'etanolo come carburante
alternativo, dai cambiamenti climatici alla diminuzione delle
scorte di cibo - che portano alla stessa conclusione: in futuro
mangiare ci costerà sempre più caro. "Non credo che la tendenza
si arresterà", spiega Jean Bourlot, responsabile delle materie
prime agricole della banca d'investimento Morgan Stanley.
Basta dare uno sguardo all'andamento delle materie prime
alimentari nell'ultimo anno.
Grano e mais sono gli imputati principali. Lo
scorso settembre il prezzo del grano ha raggiunto i 400 dollari
a tonnellata, un record storico e il doppio rispetto a maggio,
quando fluttuava intono ai 200 dollari. Dall'inizio del 2007 è
aumentato del 75 per cento, secondo i dati della Morgan Stanley.
Discorso simile vale per il mais, che è schizzato in alto nel
febbraio scorso, sfiorando i 200 dollari sulla scommessa di un
aumento della domanda (visto il boom dell'etanolo americano),
ripiegando un po' nel corso dell'anno, ma costando sempre il 50
per cento in più dell'anno precedente. La situazione è talmente
preoccupante che il segretario generale della Fao, Jacques Diouf,
ha avvertito a metà dicembre che se i raccolti mondiali
dell'anno prossimo saranno danneggiati dalla situazione
climatica, il mondo non avrà abbastanza riserve per fare fronte
alle sue necessità alimentari. L'Ifpri (Istituto internazionale
per la ricerca sulle politiche alimentari) ha annunciato che i
prezzi dei cereali continueranno a crescere tra il 10 e il 20
per cento almeno fino al 2015. E per sottolineare la portata
dirompente del fenomeno, gli economisti hanno coniato anche un
nuovo termine: 'agflazione', un gioco di parole tra agricoltura
e inflazione, che indica quella parte dell'aumento dei prezzi
alimentari dovuto all'aumento della domanda dei consumi umani e
delle energie alternative che ricade sul consumatore finale.
Il 2007 non è stato un anno positivo per l'agricoltura.
Siano le prime avvisaglie dei tanto temuti cambiamenti climatici
(probabile ma non certo) oppure una congiuntura poco favorevole
(meno probabile, secondo gli esperti), i raccolti dei maggiori
esportatori mondiali, dall'Australia, colpita dalla seconda
siccità consecutiva, all'Argentina all'Ucraina, sono stati
deludenti. Contemporaneamente, le riserve di grano hanno segnato
il loro livello più basso degli ultimi trent'anni. E questo
nonostante la produzione mondiale di cereali abbia nel suo
complesso raggiunto, scrive il settimanale britannico 'The
Economist', 1,66 miliardi di tonnellate, la più alta mai
registrata. Eppure non basta. I paesi in via di sviluppo
consumano sempre di più. E questo c'era da aspettarselo. Ma non
è tanto la quantità di cereali ingoiata da indiani e cinesi che
preoccupa. Piuttosto quella digerita dai loro animali: maiali,
mucche e pecore. Occorrono tre chili di cereali per produrre un
chilo di maiale, otto per un chilo di manzo. L'aumento della
ricchezza mondiale, che consente a circa 80 milioni di persone
in più all'anno di affacciarsi ai banchi dei mercati, si traduce
in aumento dei consumi di carne e proteine. Oggi in Cina si
mangia un etto di carne al giorno per persona rispetto ai 66
grammi di qualche anno fa. Moltiplicato per almeno 500 milioni
di persone, le cifre diventano astronomiche. Per adesso abbiamo
visto aumenti spettacolari soprattutto per cereali, mais e,
quest'anno, riso. Dall'anno prossimo, uova e carne potrebbero
cominciare a pesare di più sul portafogli. "Tra cinque o dieci
anni la carne diventerà un bene di lusso per tutti", pronostica
Bourlot.
Tra le cause principali di questi aumenti ci sono anche
i nuovi combustibili biologici, a partire dall'etanolo,
su cui l'amministrazione Bush ha pesantemente investito a
partire dal 2005. Lo spettacolare aumento del prezzo del mais
nel 2006 è stato infatti il riflesso delle aspettative dei
mercati verso l'utilizzo alternativo della pannocchia. I
contadini americani, i principali beneficiari di quest'aumento
mondiale dei prezzi alimentari, ne hanno approfittato per
produrre sempre maggiori quantità di mais a scapito degli altri
raccolti. Il prezzo è schizzato in alto, aiutato anche dalle
proteste per l'aumento del prezzo delle tortillas brasiliane,
per poi ridiscendere almeno in parte, una volta appurato che le
piantagioni americane erano in grado di produrre abbastanza mais
non solo per l'etanolo, ma anche per il consumo alimentare e
perfino per l'esportazione, spiega Abdolreza Abbassian, il
segretario del gruppo intergovernativo per i cereali della Fao.
Ma forse la causa principale di questa congiuntura economica, e
il motivo che rende gli esperti pessimisti su un possibile
cambiamento di rotta, è la diminuzione delle riserve
mondiali delle materie prime. Diverse le ragioni:
l'aumento dei consumi dell'uomo e l'utilizzo del cibo per scopi
alternativi, ma anche il cambiamento delle politiche agricole di
questi ultimi cinque anni. La produzione in eccesso degli anni
Ottanta, con migliaia di chili di cibo distrutto per non
superare le quote assegnate dalla Ue, è un ricordo del passato.
La recente allocazione dei sussidi europei sulla base di criteri
solo qualitativi sta disincentivando la produzione meramente
quantitativa di materie prime alimentari, spingendo i contadini
a seguire con più attenzione e in tempo reale l'andamento del
mercato, evitando l'accumulo inutile e costoso di scorte. A
regolare cosa finisce in tavola sono sempre meno i governi e
sempre più il mercato, che però non reagisce nei tempi e nei
modi sperati. "Si pensava che il mercato si sarebbe autoregolato,
ma a nessuno è venuto in mente che i prezzi di tutte le materie
prime schizzassero in alto contemporaneamente", racconta
Abbassian. Il problema è che i prezzi delle commodity alimentari
stanno diventando inevitabilmente correlati tra loro, spiegano
gli analisti. Se aumenta il prezzo della soia, automaticamente
cresce anche quello del granoturco, solo per il fatto di essere
un efficace sostituto alimentare, anche se la quantità prodotta
e la disponibilità non giustificano di per sé un aumento.
Inoltre, non è facile regolare la produzione in tempo reale con
l'andamento dei mercati. Secondo l'Ifpri un aumento del 10 per
cento dei prezzi riesce a ottenere soltanto una crescita
dell'1-2 per cento della produzione. Quest'anno i ministri
dell'agricoltura dei 27 hanno deciso di intervenire e, alla fine
di settembre, hanno sospeso i sussidi al riposo obbligatorio dei
campi (politica nata in tempi di sovraproduzione) per cercare di
aumentare la coltivazione di cereali di 12-15 milioni di
tonnellate, pari al 5 per cento del totale europeo (260 milioni
di tonnellate). Per contrastare invece l'ascesa del prezzo del
latte e dei suoi derivati, la Commissione europea ha proposto
agli Stati membri di aumentare del 2 per cento le quote prodotte
annualmente. Ma non è detto che gli allevatori francesi ce la
facciano a produrre di più.
Come se trovare un equilibrio tra le bizzarrie dei mercati e gli
interessi agricoli nazionali non fosse abbastanza difficile,
anche la speculazione finanziaria sta giocando un ruolo
crescente nel dirigere i prezzi mondiali. Prodotti
finanziari fino a qualche tempo fa sconosciuti come gli Etc
(obbligazioni che hanno come sottostante l'andamento del prezzo
di una materia prima o di un paniere di materie prime) e gli Etf
(fondi che raccolgono questo tipo di obbligazioni) sono
diventati popolari perché offrono una rosea alternativa agli
andamenti deludenti dei mercati azionari di mezzo mondo. Un
maggiore interesse degli investitori si traduce in un ulteriore
aumento dei prezzi.
Questa nuova fase economica non ha soltanto ripercussioni
negative. Sta provocando anche un sottile riequilibrio di potere
tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. L'aumento
dell'inflazione causato dalla crescita dei prezzi degli
alimentari ha spinto le banche centrali di paesi come Cina, Cile
e Messico ad aumentare i tassi di interesse. E questo nel
momento in cui gli Stati Uniti hanno cominciato a tagliarli di
nuovo, per evitare una recessione conclamata. La conseguenza è
che molti investitori stanno abbandonando i mercati tradizionali
per portare i propri soldi in paesi che ne hanno in fondo più
bisogno: dall'Africa al Sud America. Non solo. Nonostante siano
i più poveri a subire le conseguenze di qualsiasi rincaro
internazionale dei prezzi, non saranno soltanto i contadini
americani a beneficiare di vendite più proficue. Esportatori di
cibo come l'India e il Sudafrica potrebbero, dopo anni di
declino delle quotazioni delle commodity, approfittare
finalmente di raccolti più sostanziosi.
hanno collaborato da Bruxelles Alberto D'Argenzio e da San
Francisco Paolo Pontoniere
18
dicembre
Verso Kyoto 2, senza fretta
Trovato
l'accordo a Bali. Gli Usa cedono all'ultimo. Negoziati fra un anno, ma
validi solo dal 2012
Ci sarà un Kyoto 2. Ma senza fretta,
nonostante gli scenari apocalittici e il grido, o l'urlo, di allarme di
numerosi membri delle comunità scientifiche. Ma il surriscaldamento del
pianeta, secondo strateghi e e diplomatici, dovrebbe sottostare alle
regole dei consessi internazionali. Vediamo il perché di tanta
ipocrisia.
A
Bali ci sono volute 24 ore in più del tempo massimo per arrivare a una
bozza su cui trovare un accordo. Molti i problemi, di contenuto, di
posizioni. Ma soprattutto di ruoli, con Paesi definiti in via di
sviluppo che oggi, però, sono già assai sviluppati e che sono capaci di
far pendere la bilancia per l'enorme peso anche diplomatico che hanno
assunto. India e Cina da un parte, mentre i grandi inquinatori come gli
Stati Uniti avevano la pretesa di impegnare i nuovi giganti in maniera
più severa rispetto ai propri parametri. Il gioco non ha funzionato.
Nella partita diplomatica un ruiolo determinante è stato dei paesi
dell'Unione europea, coesi, che hanno perso solo su un punto,
importante: la definizione dei tagli da affrontare nei prossimi anni dei
gas inquinanti. E gli Stati Uniti, che cambieranno amministrazione fra
meno di un anno, hanno giocato duro fino alla fine, quando sono
obbligati ad accordarsi, per non rimanere soli di fronte alle
preoccupazioni mondiali per gli effetti dei cambiamenti climatici.
Ma
torniamo all'ipocrisia delle regole internazionali: documentari,
fotografie comparate, studi e documenti scientifici – addirittura un
nobel per la pace – hanno dimostrato che se non si agisce con tempi
rapidi, rischi e pericoli non possono che aumentare in maniera
esponenziale. Eppure la grande diplomazia internazionale non riesce ad
andare oltre al fatto che se il Trattato di Kyoto, ormai desueto, scade
nel 2012, non si può far altro che riunirsi prima per trovare un
accordo, ma che valga solo a partire dalla data ultima di Kyoto. Più
chiaramente: i prossimi negoziati si dovranno aprire verso aprile 2008.
Nel 2009, nel summit sul clima che avrà come sede Copenaghen si deciderà
l'accordo post-Kyoto il cui regime entrerà, quindi, in vigore nel 2012,
cioé ben tre anni dopo anche se vi fosse un accordo validamente
riconosciuto.
Sulla
riduzione dei gas serra, la vittoria è stata degli Usa. L'Unione europea
non è riuscita a imporre le cifre che aveva portato a Bali: una
diminuzione del 25-40 percento entro il 2020 e del 50 percento nel 2050.
questi numeri sono finiti in una postilla, nelle premesse dell'accordo.
Il vertice è partito male, proseguito fra
diverse ambiguità, terminato con una serie di colpi di scena, fra cui la
capriola della negoziatrice statunitense Paula Dobriansky, che dopo aver
annunciato il no di Washington alla bozza finale di accordo si
rimangiava la parola per la solitudine che si ritrovava a vivere
nell'assemblea e dopo due discorsi appaluditissimi di sud Africa e nuova
Guinea che hanno detto in maniera esplicita al'amministrazione Bush che
se non era d'accordo poteva tranquillamente levarsi di torno. La
posizione degli Usa è suscettibile i cambiamenti, non di rivoluzioni,
con il voto presidenziale. Ma anche se gli analisti sono propensi a
immaginare nuovi ostacoli per gli identikit dei candidati, non certo
ambientalisti, vale ricordare che le posizioni più aperte verso la nuova
Kyoto sono condivise da una larga fetta della società nord americana.
Soprattutto nelle grandi città come New York, San Francisco o Los
Angeles, dove i sindaci e le rispettive società civili hanno adottato
numerose misure per contenere le emissioni di inquinanti.
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale
delle guerre e dei conflitti in corso n. 50 - 2007 dal 6/12 al 12/12
Questa settimana, in tutti i Paesi ancora in
guerra, sono morte almeno 968 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 296 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 28.176
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 265 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.817
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 104 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 6.956
Algeria
Questa settimana sono morte 72 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 346
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 67 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.098
Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 48 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 3.060
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 45 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 2.130
Sudan
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 796
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 622
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 507
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 944
Ciad
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 889
Cecenia, Inguscezia e Daghestan
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 794
Colombia
Questa settimana sono morte 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono 468
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 217
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 768
Nepal
Questa settimana è morta almeno una persona.
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 93
Filippine Npa
Questa settimana è morta almeno una persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno175
17 dicembre
La carica dei
700 telefonini per la Regione Campania
Quella
della Regione Campania di sicuro è una macchina complessa, che
svolge molte funzioni ma che ha anche accumulato debiti mostruosi.
Per questo in una stagione di tagli ai bilanci pubblici non può non
sorprendere la notizia del nuovo appalto per l'acquisto di cellulari
deciso dalla giunta guidata da Antonio Bassolino. Sorprende
soprattutto il numero di nuovi telefonini previsti dal capitolato:
ben settecento. Che dovrebbero andare agli assessori, ai dirigenti e
al personale con particolari esigenze di reperibilità. C'è bisogno
di così tante persone sempre reperibili tramite cellulare? Il numero
appare alto. Così come la spesa ipotizzata per la telefonia mobile:
116 mila euro in un anno. Il fatto che alcuni di questi apparati,
come specifica il capitolato d'appalto, siano definiti "modello top
con lettore mp3" o che l'elenco includa 60 apparati Blackberry con
tanto di navigatore Gps diventa quasi secondario. Tutti questi
navigatori Gps andranno alla Protezione civile o qualcuno diventerà
un gadget per notabili a spese del contribuente?
L'ufficio stampa della Regione ha replicato spiegando che gli
apparati serviranno "per ragioni" di servizio. E che la giunta
Bassolino ha già dimezzato le spese per la telefonia mobile. Ma
siamo sicuri che di telefonini ne servissero proprio settecento?
Due ragazze
uccise dalla mafia degli sprechi
Le due ragazze morte nell'ospedale di
Vibo Valentia dovrebbero costringere questo paese a vergognarsi.
Federica Monteleone ed Eva Ruscio sono state assassinate dalla mafia
peggiore, quella che si nutre dello spreco di denaro pubblico e
uccide anche il futuro del nostro paese. Tutte le istituzioni sono
responsabili di quello che è accaduto a Vibo Valentia. Perchè dopo
la morte della prima sedicenne tutti sapevano che quell'ospedale era
un mattatoio. Dopo l'inspiegabile fine di Federica Monteleone,
avvenuta nello scorso gennaio, la Commissione d'inchiesta del Senato
ha ispezionato il nosocomio, con un verdetto choc: bisogna chiuderlo
subito, perchè è fuori da ogni regola. Inutile cercare di risanarlo
o ristrutturarlo: sarebbero soldi buttati via. L'unica strada,
scrissero i senatori, è trasferire subito i malati sotto le tende di
un ospedale da campo, dove verrebbero curati meglio che in quelle
corsie. Anche dopo la morte della prima sedicenne, a Vibo era tutto
fuori dalla legge: sale operatorie obsolete, nessuna garanzia contro
le infezioni, nido in abbandono, bagni che danno sulle cucine.
Nessuno dei dirigenti della Asl sapeva quanti fossero i posti letto
disponibili. Ma dopo la morte di Federica milioni di euro sono stati
buttati via per una struttura che andrebbe abbattuta. Un esempio? È
stata acquistata una Tac ultimo modello, piazzata in sale vetuste
con corridoi così stretti dove nemmeno le barelle riescono a
passare. L'unica cosa che abbondavano erano gli infermieri: il
Senato ne ha censiti 426 per 300 pazienti. Tutte cose pubblicate da
L'espresso nello scorso maggio. Tutto qui? No. L'Alto commissariato
per la lotta alla corruzione ha scritto in un rapporto che la Asl di
Vibo Valentia è nelle mani della 'ndrangheta. E che in quell'ospedale
ci sono infermieri pregiudicati che andavano in corsia con la
pistola sotto il camice.
Queste informazioni dovevano impedire che Eva Ruscio morisse nello
stesso modo. Quante altre persone dovranno perdere la vita prima che
lo Stato ritrovi la dignità?
Discesa di
classe
di Emiliano Fittipaldi
Meno soldi. Un lavoro meno
qualificato. E' la mobilità sociale al contrario. Quella dei figli
che stanno peggio dei padri. Soprattutto nelle famiglie di dirigenti
e imprenditori. Ma anche in quelle di impiegati e operai
Roma, Torino, Napoli, Milano, ovunque
tra i giovani italiani il gioco dell'oca è tornato di moda. Un
gioco, però, a cui nessuno vorrebbe partecipare, perché
inevitabilmente milioni di concorrenti finiscono sulla casella che
obbliga a tornare al punto di partenza. In un percorso che, fuor di
metafora, li costringe a scendere la piramide sociale peggiorando lo
stile di vita conosciuto nella famiglia d'origine. Un fenomeno
che in Occidente non si osservava dalla seconda guerra mondiale.
Difficile, dunque, che Simone Gracco, classico figlio di papà della
Roma bene, immaginasse da piccolo che a 36 anni avrebbe passato gran
parte delle ferie estive nei bollenti parchi della città. Nato da un
architetto benestante, madre professoressa al liceo, dopo la laurea
in economia ha trovato un posto a 1.200 euro al mese in una piccola
azienda fuori porta. Ci lavora da quattro anni, ma lo stipendio è
fermo al giorno dell'assunzione. "Da bambino andavo a Capalbio per
un mese, e d'inverno la settimana bianca a Corvara era di rigore.
Ora, con grandi sforzi e un aiuto del mio vecchio, riesco a fare al
massimo sei giorni in un villaggio all-inclusive. Quando mio figlio
compirà due anni dovrò pagare anche la sua quota. Sarà un disastro".
Ugo Reggiani (chiede un nome di fantasia, "non voglio guai"),
torinese e ricercatore universitario a progetto, ricorda la guerra
tra due potenti baroni della sua facoltà. "Stranamente, non si erano
organizzati come al solito. In un concorso per una cattedra di
diritto si scannarono per piazzare i rispettivi figli. L'erede del
perdente ha dovuto cambiare lavoro e status: ora fa l'impiegato in
un'assicurazione". Ad Antonio Migliaccio, 34 anni, di Napoli, è
andata meglio. Ingegnere come papà, ha evitato uno scivolamento di
ceto emigrando in Irlanda. "Elaboro sistemi informatici, e dopo un
anno sono arrivato a guadagnare tremila euro. Se sei sveglio gli
scatti di carriera sono fulminei, si cambia azienda ogni sei mesi.
Ora vivo agli stessi livelli di mio padre trent'anni fa. Forse
addirittura meglio: io ho un'Audi presa a rate, lui guidava la Fiat
850".
Antonio è un'eccezione. Se negli ultimi tempi i sociologi denunciano
la mancanza di mobilità sociale e i politici d'ogni schieramento
promettono potenti iniezioni di meritocrazia, dal Duemila la
situazione è invece drasticamente peggiorata: l'ascensore sociale è
in movimento, i giovani ci salgono sopra ma, invece di salire o,
almeno, restare fermi al livello della classe d'origine, spesso e
volentieri si ritrovano a scendere sui pianerottoli più bassi.
Ascensore per l'inferno
L'"indietro tutta" non interessa solo
la prole del ceto medio e degli operai. Sono soprattutto i figli dei
dirigenti e degli imprenditori a dover abbandonare la posizione
conquistata dal padre o dal nonno. I dati Istat e Censis sono fermi
al 2002, ma letti nelle pieghe segnalavano già il pericolo. Ora 'L'espresso'
ha consultato lo studio Ilfi, un'indagine sulle famiglie che ha
coinvolto quasi10mila individui - elaborata da esperti della Bicocca
di Milano, dall'università di Trieste e Bologna - dimostra che,
lungi dal vivere un nuovo ciclo di rimescolamento sociale, i giovani
si dirigono senza scampo verso il declino. Se la metà degli
italiani dai 18 ai 37 anni ricalca pari pari la strada di papà e
mamma e il 7,4 per cento fa un lavoro diverso ma resta inchiodato al
censo d'origine, e ben il 24,4 per cento scende a rotta di collo la
piramide sociale. Uno scivolamento 'silenzioso': come notano gli
osservatori più attenti, nonostante tirocini umilianti, mansioni
pagate quattro soldi e subalternità al potere dei gerontocrati,
la generazione nata a cavallo tra i Sessanta e i Settanta non
ringhia. E non combatte, al contrario dei propri padri protagonisti
del '68 e del '77, la guerra generazionale per la propria
emancipazione.
I dati fotografano impietosamente la caduta. Solo un quarto dei
figli dell'alta borghesia riesce a fare il dirigente o il libero
professionista, magari nello studio di famiglia. Quasi la metà è
costretta ad accontentarsi di una scrivania e fa l'impiegato 'qualificato',
il 7 per cento decide per il lavoro autonomo, mentre il 23 per cento
scende molti gradini e diventa operaio o manovale nei servizi. Anche
i colletti bianchi riescono con difficoltà a mantenere posizioni:
una piccola minoranza ha successo e fa il salto di classe, ma oltre
il 36 per cento finisce, volente o nolente, nei ceti subalterni.
Gli artigiani, i commercianti e le partite Iva sono le categorie più
mobili, ma il ritorno alle origini tocca quattro rampolli su dieci.
Anche i figli ventenni delle tute blu hanno meno possibilità di
affermarsi rispetto ai pari-censo degli anni Sessanta: solo cinque
su cento sfondano come imprenditori e professionisti, la massa (il
60 per cento) è destinato alla fabbrica. La scalata alle professioni
intellettuali, obiettivo dei proletari sessantottini, resta una
chimera. "Un paradosso. Perché la generazione che va dai 20 ai 40",
spiega il sociologo Antonio Schizzerotto, curatore della ricerca e
massimo esperto italiano in materia, "è in media molto più istruita
e preparata dei padri e dei nonni. Conosce le lingue straniere, ha
possibilità di muoversi in un mondo globalizzato, ma in termini
reali è molto più povera. Anche chi resta al piano rischia di
peggiorare il proprio ménage: fare l'impiegato oggi ha molti meno
vantaggi di un tempo, i differenziali con i salari di chi suda in
catena di montaggio sono enormemente diminuiti". La questione
centrale è che, in Italia, non c'è stato un vero passaggio al
terziario avanzato, come nel resto dei paesi occidentali. "Se negli
anni '60 e '80 la scolarizzazione di massa prima e la nascita della
società dei servizi poi portò nuova ricchezza e un boom dei sorpassi
sociali, negli anni '90 e nel 2000 siamo rimasti congelati. La
mobilità ascendente (al 21 per cento, ndr) è dovuta in gran parte a
fattori esogeni, alla scomparsa di mestieri come i coltivatori
diretti e i contadini. In realtà non ci stiamo modernizzando per
niente. Non stupiamoci se il mercato del lavoro è asfittico ed è
caratterizzato da settori ipermaturi".
Redditi da fame
L'abbassamento dei salari negli ultimi
sette anni ha riguardato quasi tutti i dipendenti, ma la vera
proletarizzazione colpisce soprattutto le nuove leve. Nemmeno il
capitale familiare e le reti relazionali, che in Italia valgono
tradizionalmente più delle risorse culturali e del merito
individuale, sembrano bastare più. La sindrome della quarta
settimana investe anche 'segnalati' e raccomandati. Se molti puntano
il dito contro una presunta pigrizia generazionale e il mito del
'tutto e subito', tanto che persino il ministro dell'Economia
Tommaso Padoa-Schioppa ha criticato "i bamboccioni" attaccati alla
gonnella di mammà, uno studio della Banca d'Italia firmato da
Alfonso Rosolia e Roberto Torrini, ancora non pubblicato in
italiano, mostra come nel corso degli anni Novanta e Duemila la
busta paga dei giovani si sia drasticamente ridotta rispetto a
quella del decennio precedente. Alla fine degli anni Ottanta le
retribuzioni nette degli under 30 erano più basse del 20 per cento
rispetto a quelle dei senior.
Nel 2004 il gap è raddoppiato, crescendo fino al 35 per cento. "Un
andamento", dicono gli autori del paper, "riscontrabile a tutti i
livelli di istruzione". Il crollo dei salari d'ingresso è
spaventoso: spulciando dati dell'archivio dell'Inps del settore
privato, si stima che dal 1992 ai primi anni del millennio sia i
diplomati che i laureati siano tornati sui livelli di venti anni
prima. Oggi, al netto del lavoro nero, il 27 di ogni mese intascano
poco più di 1.100 euro. "Un riduzione non controbilanciata" chiosano
gli studiosi "da una carriera e da una crescita delle retribuzioni
più rapida. La perdita di reddito nel confronto con le generazioni
precedenti risulta in larga parte permanente". Un controsenso, visto
che l'invecchiamento della popolazione avrebbe dovuto contribuire a
sostenere il portafoglio degli junior, sempre meno numerosi ma sulla
carta più colti e preparati. Se la crisi ha toccato milioni di
famiglie, la redistribuzione degli stipendi è stata invece
asimmetrica, a tutto vantaggio degli anziani. Non solo: in Italia al
di là del mestiere e dello status, anche la correlazione tra le
buste paga è fortissima. Un altro report dell'ufficio studi,
elaborato da Sauro Mocetto, sottolinea infatti che, se i tuoi
genitori guadagnano poco, è assai probabile che anche il tuo
stipendio sarà basso. I paesi scandinavi, Svezia in testa, sono i
più dinamici, seguiti a ruota dal Canada e dalla Gran Bretagna. I
figli dei poveri possono diventare ricchi più facilmente anche in
Francia e Stati Uniti, che galleggiano a metà classifica, mentre
l'immobilismo è massimo nel nostro Paese e in Brasile, ultimo nella
graduatoria dei casi analizzati.
L'Italia degli ignoranti
Al di là delle divisioni di classe,
protagonisti assoluti del gioco dell'oca sono i laureati. Negli anni
'60 l'agognato pezzo di carta permetteva di scalare le gerarchie e
regalava carriere fulminanti, oggi università poco selettive
sembrano aver generato, invece di maggiori opportunità, un'offerta
di dottori sproporzionata rispetto alle esigenze del sistema. "Non
conviene investire come un tempo nell'istruzione. Le imprese cercano
soprattutto tecnici diplomati, i cervelli sono troppi e il mercato
non riesce ad assorbirli", sentenzia Schizzerotto. Anche secondo i
dati Istat e Almalaurea la laurea paga poco e su tempi lunghi. "Ma
non ci sono certezze", aggiunge Luca Bianchi, vicedirettore della
Svimez. "Ho due amici romani di 40 anni, laureati in legge da oltre
dieci anni, che hanno trovato solo un impiego nei call center.
Abitano nella casa di papà, niente moglie e marmocchi, l'utilitaria
presa di seconda mano. I genitori sono impiegati di buon livello: un
classico esempio di arretramento dal ceto medio a posizioni
borderline".
Se la riforma del 'tre più due' ha peggiorato il grado di
preparazione e le matricole continuano a snobbare le più redditizie
materie scientifiche, l'inflazione dei titoli di studio è da
addebitare anche alle politiche delle imprese. Gli investimenti in
ricerca e sviluppo languono, e le figure professionali più gettonate
restano tecnici specializzati. Alla fine del 2007, secondo l'analisi
Excelsior di Unioncamere, su 100 assunti solo 9 saranno laureati.
Verranno usati come dirigenti, ma anche come impiegati (gli
ingegneri a mille euro non si contano) e addetti alle vendite. Agli
industriali i dottori interessano ancora meno: solo 5 assunzioni su
cento saranno destinate a loro. Per lavorare a salario minimo basta
un diploma, l'istruzione professionale e, per un assunto su tre, la
sola scuola dell'obbligo.
La carica dei dipendenti
Seguire il sentiero già percorso dai
genitori, nell'anno di grazia 2007, è quasi una necessità. Il 'familismo
amorale', come lo chiamano i sociologi, diventa spesso l'unica
risposta alla recessione. Così nepotismo e autoriproduzione delle
professioni invece di diminuire, crescono esponenzialmente. Non c'è
liberalizzazione, non c'è Bersani che tenga. Se una recente
inchiesta della magistratura ha svelato il mercato dei test per
l'accesso alle facoltà a numero chiuso (a Bari sembra che gli
acquirenti fossero soprattutto medici e dentisti), a Napoli la
cattedra è sempre più un diritto ereditario. Nel 2002 un rapporto
del giornale universitario 'Ateneapoli' scoprì che alla facoltà di
Economia della Federico II il 16 per cento dei professori era
imparentato con un collega, cinque anni dopo - denuncia un dossier
della Confederazione degli studenti - la percentuale è salita al 26
per cento. Padri e figli, mogli e mariti, fratelli e cognati. La
politica non fa eccezione: nel neonato Partito democratico il
giovane segretario provinciale di Avellino appena eletto si chiama
Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, mentre a Reggio Calabria i
delegati hanno eletto Alessia Zappia, figlia dell'ex segretario Ds
scomparso tre anni fa. Alan Baccini, rampollo del leader Udc, è
commissario nazionale dei giovani del partito. A volte la pratica
del passaggio di testimone nelle aziende è persino contrattualizzata:
negli ultimi anni, dalla Caripe alla Sea di Milano, fino alla
Fincantieri e agli esuberi di Intesa-Sanpaolo, i sindacati hanno
benedetto senza vergogna la staffetta tra padri e figli come
incentivo per il prepensionamento.
Nel Nord una ricerca dell'Opes ha dimostrato che, soprattutto in
Trentino, qualcosina si muove, e la meritocrazia crea più
opportunità rispetto al resto d'Italia. Non per tutti, però. "Gli
under 35 che vengono da famiglie meno abbienti", racconta Daniele
Marini, direttore della Fondazione Nordest, "per mantenere il
proprio status sono costretti a consumare molto più dei loro
genitori. Computer, cellulari, vacanze e master: oggi le famiglie si
impoveriscono anche perché investono i risparmi per sostenere una
prole non autosufficiente". La recente riconversione industriale ha
aperto la strada a giovani imprenditori in settori di nicchia, ma
per i figli delle corporazioni la cruna dell'ago è sempre più
stretta. "Medici, avvocati e giornalisti trent'anni fa erano pochi,
nel Duemila gli Ordini professionali scoppiano di iscritti. Ovvio
che per raggiungere il livello conquistato dalla famiglia ci voglia
molto più tempo". Nel felice Triveneto della piena occupazione c'è
anche una quota minoritaria di persone che sceglie di fare il
gambero, camminando all'indietro per scelta personale. "La cultura
della gratificazione e il culto del tempo libero si è diffuso a
macchia d'olio. Conosco bancari e commercialisti che si sono
trasformati in volontari o collaboratori di centri per l'infanzia",
racconta Marini.
Nel Mezzogiorno il libero arbitrio è un lusso che pochissimi
possono permettersi. Mantenere le posizioni sociali acquisite dalla
nascita è già un successo insperato. "La novità è che
l'ascensore viaggia verso il basso anche per le fasce più alte, che
in passato godevano di collaudati cuscinetti di protezione",
racconta Bianchi, che delle Svimez è tra i ricercatori più esperti.
"Il mercato è ai minimi, e quel poco che resta del settore privato
boccheggia. C'è solo la grande balena pubblica, che a fatica
foraggia un po' tutti". Non stupisce che uno studio Istat-Svimez sui
laureati meridionali del 2001 dimostra che, a tre anni dalla tesi,
parte consistente dei rampolli dell'alta borghesia tenti la fortuna
emigrando al Centro-Nord: chi rimane è costretto a fare il
dipendente, accettando stipendi da fame. Nel pubblico finiscono
anche i figli di imprenditori, commercianti e liberi professionisti:
solo uno su tre ha i capitali per rischiare in proprio, il resto
finisce dietro una scrivania con un contratto a progetto. "Sono i
più fortunati, non dimentichiamolo", chiude Bianchi, "il tenore di
vita peggiora rispetto alle abitudini familiari, ma almeno un lavoro
ce l'hanno. Secondo i nostri calcoli invece quasi 800mila ragazze
del Sud, figlie delle sessantottine che riuscirono ad emanciparsi e
a diventare impiegate e insegnanti, sono tornate tra le mura
domestiche a fare le casalinghe, come le loro nonne: un salto
all'indietro dal sapore medioevale che fa tremare i polsi".
Nei cantieri si
cade «dall'alto» e si muore. Ieri due vittime
Un romeno precipita e muore a
Torvajanica. Nello stesso cantiere un anno fa c'era stato un altro
omicidio bianco
m.ca
Le «cadute dall'alto» sono la prima
causa delle morti sul lavoro in edilizia (il settore con il più alto
numero d'infortuni). Ieri mattina a Milano Antonio P., piastrellista
di 57 anni, è precipitato dal quinto piano di un palazzo dell'Aler.
Era dipendente della ditta Urbedil. E' morto sul colpo. Come il
romeno Lazar Costel, 29 anni, caduto da un ponteggio in una
palazzina in costruzione a Torvajanica. A pochi chilometri di
distanza, a Santa Palomba, un romeno è precipiato dal tetto di
capannone in ristrutturazione. E' in prognosi riservata al San
Camillo. Ad Alassio un manovale di 54 anni sè è ferito cadendo da
un'impalcatura. Questi i casi segnalati ieri in una manciata di ore
dalle agenzie. Scorrendo le quali si poteva apprezzare la
dichiarazione di Paolo Buzzetti, presidente dell'Ance
(l'associazione dei costruttori edili): «Siamo impegnati da anni
nella lotta agli infortuni e al lavoro nero». Ma va là.
Quello avvenuto di Milano è il secondo omicidio bianco in meno di un
mese in strutture di pertinanza della Regione. Il 26 novembre all'Ersal
di Torrazza Coste (Pv) un muratore era stato travolto dal crollo
mentre pochi metri più in là un assessore si accingeva a dare il via
a una manifestazione per promuovere i vini dell'Oltrepo. In entrambi
i casi le vittime erano dipendenti di ditte che hanno lavori in
appalto dalla Regione. Proprio l'altro ieri Formigoni aveva vantato
la Lombardia come la Regione «più virtuosa» in fatto di sicurezza
nei luoghi di lavoro. Invece di autocelebrarsi, commenta il
segretario del Prc lombardo Alfio Nicotra, il presidente disponga
ispezioni a tappetto e a sopresa nei cantieri pubblici.
La notizia dell'infortunio mortale a Torvajanica è arrivata mentre a
Roma i sindacati edili tenevano un convegno sulla (in)sicurezza nei
cantieri. Si tratta di un bis: un anno fa nella stessa palazzina,
quando si stavano posando le fondamenta, un operaio di Ardea di 54
anni era stato sepolto e ucciso da uno smottamento. Il cantiere
della ditta Polis era stato messo sotto sequestro, il titolare era
stato denunciato per omicidio colposo e violazione delle norme di
sicurezza. La storia si è ripetuta tal quale.
In edilizia l'incidenza degli infortuni mortali supera di quattro
volte quella dell'industria. E le vittime sono spesso e volentieri
straniere. Nei cantieri della Penisola almeno metà della forza
lavoro è immigrata. A Roma città la percenutale sale al 75%, con una
massiccia prevalenza dei romeni. Questi ultimi in provincia di Roma
sono passati dagli 8.933 del 2006 ai 17.475 dichiarati quest'anno
alla cassa edili. Si stima che altri 20 mila romeni siano occupati
in nero nei cantieri romani. Basterebbe questo per dimostrare che
con l'ingresso della Romania nella Ue in Italia non sono arrivati
solo nullafacenti, borseggiatori e assassini (come strillano i
securitari di varie risme). Su scala nazionale si stimano in 200
mila i romeni regolarmente occupati in edilizia. Un fetta del 18%
del totale degli edili che - secondo i calcoli di Franco Martini,
segretario nazionale della Fillea - da sola produce 26 miliardi di
pil e costruisce in un anno 46 mila abitazioni.
Dalle tabelle dell'Inail da anni risulta che i lavoratori stranieri
si infortunano più degli italiani. Il nesso con il lavoro in nero e
precario è evidente.

Dopo le esternalizzazioni Telecom, i
sindacati chiedono una modifica della legge sulla «cessione di ramo»
Una legge contro
i licenziamenti camuffati
Nino Busacca
Dopo le esternalizzazioni Telecom degli ultimi
anni, e quelle più recenti - Wind e Vodafone - il sindacato chiede
riforme nel campo delle cessioni di ramo d'impresa. E lo fa
chiedendo di abrogare una parte della legge 30, divenuta oggi
«inviolabile» (purtroppo anche a sinistra) dopo le tante promesse
dell'Unione sotto elezioni. Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno
chiesto ieri, nel corso dell'Assemblea nazionale esternalizzati
Telecom, l'abrogazione dell'articolo 32 del decreto 276/2003: si
ripristinerebbe così il principio dell'«autonomia funzionale
preesistente» del ramo, impedendo che venga creato ad hoc solo
qualche mese prima per giustificare l'operazione. Il sindacato
chiede poi altri due interventi. «Deve essere riconosciuto - spiega
Alessandro Genovesi, Slc Cgil - il principio della responsabilità
solidale, vincolando il cedente e il cessionario a garantire la
totale stabilità occupazionale all'interno del ramo ceduto, per
almeno l'intera durata dei contratti di servizio e comunque per un
periodo di tempo minimo di 48-72 mesi dalla cessione». In pratica,
se l'azienda cessionaria dovesse fallire o licenziare, per il
periodo previsto la cedente sarebbe obbligata a riassumere o
ricollocare i lavoratori. «Chiediamo poi - continua - di allungare
il periodo del confronto sindacale prima della cessione, cosa che
permetterebbe una più attenta analisi delle ricadute, soprattutto
per quelle imprese che operano su servizi di interesse generale».
I cattivi esempi si sono visti soprattutto con le esternalizzazioni
Telecom: migliaia di lavoratori fuoriusciti nell'ultimo decennio,
ceduti a società create alla bisogna che hanno chiuso i battenti in
uno o due anni. Dei veri e propri «licenziamenti camuffati», come
peraltro hanno riconosciuto diverse sentenze di reintegro presso la
stessa Telecom. Diversi i casi Wind e Vodafone, seppure non esenti
da rischi: i 275 operatori Wind di Sesto San Giovanni sono stati
ceduti alla Omnia Network, con la garanzia di una commessa che dura
5 anni, ma senza alcuna clausola di salvaguardia a tutela del posto
di lavoro. Tanto che la gran parte di loro ha scelto di andare in
causa. Più garantita la cessione Vodafone: 7 anni di commessa alla
Comdata, tutti i trattamenti e benefit conservati, con la cedente
pronta a ricollocare i 914 lavoratori in caso di crisi. Ma, oltre i
7 anni, Comdata riuscirà a tenere lavoratori divenuti troppo
costosi?
Sacrosante dunque le richieste sindacali, soprattutto perché si
viola un tabù politico (nominare la legge 30 ormai è divenuto
"sacrilego", persino presso la Cgil, che fino alla primavera 2006 ne
chiedeva la cancellazione). Manca però un punto: rendere i
lavoratori direttamente partecipi. A questo proposito, su questo
giornale Alberto Burgio ha segnalato una proposta di legge
depositata alla Camera in febbraio, che riconosce ai lavoratori il
diritto di esprimersi sulla cessione, ed eventualmente a impedirla.
Non limitandosi al semplice referendum sull'accordo sindacale, come
avviene oggi. La Corte di Giustizia europea, ricordava il
parlamentare del Prc, ha sancito la legittimità di normative che
prevedano il diritto del lavoratore di «opporsi al trasferimento del
suo rapporto di lavoro». Una titolarità del proprio rapporto di
lavoro che va al di là persino degli accordi sindacali, e che deve
poter influire sulle scelte delle aziende e le cosiddette «esigenze
di mercato».
Somalia, la
seconda vita delle Corti
Nuovi scontri a Mogadiscio, gli
insorti tornano alla ribalta
Lo aveva anticipato proprio stamane il
direttore del ministero della Sicurezza Nazionale somalo: le Corti
islamiche si stanno riorganizzando, tanto che il governo somalo non
controllerebbe che il 20 percento del territorio. I fatti di oggi,
con 12 civili morti e 40 feriti a Mogadiscio a colpi di mortaio
durante scontri tra insorti e truppe somalo-etiopi, sembrano dargli
ragione. Secondo altri esponenti del governo, gli islamisti
potrebbero ora contare su numerosi combattenti, anche stranieri, e
su ingenti finanziamenti.
Riscossa. Secondo Sheikh Qasim Ibrahim Nur, il direttore del
ministero, le Corti islamiche sarebbero in procinto di lanciare un
pesante attacco nei confronti delle forze governative. Alle quali,
sempre secondo Nur, sfuggirebbe il controllo di circa l'80 percento
del territorio.
Ieri, un sito di informazione somalo riportava la notizia che un
misterioso membro delle Corti islamiche avrebbe fatto recentemente
visita al porto meridionale di Kismayo, incitando la popolazione
alla rivolta contro il governo. Secondo la fonte, la città portuale
sarebbe sostanzialmente sotto il controllo degli insorti, i quali
avrebbero anche ammassato truppe nella zona del basso Jubba.
Movimenti di truppe dei quali sarebbero a conoscenza anche le forze
etiopi, che dallo scorso dicembre controllano sostanzialmente il
Paese. Ma i militari di Addis Abeba preferiscono non attaccare per
non aprire un altro fronte, visto che finora le migliaia di soldati
etiopi fanno fatica a controllare anche solo Mogadiscio.
Mogadiscio. La città, teatro di combattimenti ormai
quotidiani da un anno a questa parte, è stata abbandonata da buona
parte della popolazione civile, rifugiatasi nei campi profughi che
circondano la capitale o dispersa nelle regioni centrali del Paese,
che anche le agenzie umanitarie trovano difficoltà a raggiungere.
Da Londra, dove è ricoverato per il consueto check-up fisico
annuale, il presidente Abdullahi Yusuf predica però calma, smentendo
la notizia della perdita di Kismayo. Ma le numerose fonti, anche
governative, che danno in aumento le quotazioni delle Corti
islamiche fanno pensare che la notizia sia molto più che una bufala.
Da Asmara, dove risiedono dall'inizio dell'anno i vertici delle
Corti islamiche, non una parola di commento sugli ultimi eventi e
sulle indiscrezioni. L'Eritrea, nonostante le smentite del governo,
è stata più volte accusata di sostenere la lotta degli insorti
somali, dando loro rifugio, armi e uomini. E se anche oggi Nur non
ha specificato chi siano i finanziatori delle Corti, il pensiero
corre subito all'Eritrea.
Matteo Fagotto
11 dicembre
Alla
canna del gas
Le Nazioni Unite avvertono: la crisi
umanitaria a Gaza e prossima alla catastrofe
Un'associazione di docenti di Gaza anuncia che, dal vertice di Annapolis
del mese scorso a oggi, le vittime palestinesi nella Striscia di Gaza
sono state oltre sessanta. Di queste, trenta erano malati gravi, che non
hanno potuto uscire dai confini per ricevere le cure necessarie. Più che
le operazioni militari israeliane, però, i palestinesi della Striscia in
questi mesi soffrono per la crisi economica causata dalla chiusura dei
valichi.

Cibo. L'ennesima conferma della crisi umanitaria a Gaza
l'ha fornita oggi il World Food Programme, secondo cui le importazioni
di generi alimentari nella Striscia coprono solo il 41 percento del
fabbisogno della popolazione locale. Il costo di molti generi essenziali
come carne e farina è cresciuto di molto, le esportazioni invece sono a
zero. La ragione, sostiene il Wfp, è la chiusura dei valichi da cui
passano solo gli aiuti umanitari. É così dalla fine della guerra civile
dello scorso giugno: Israele considera le chiusure una reazione al
lancio di razzi sul suo territorio e sostiene di non poter gestire i
valichi di frontiera assieme a Hamas. Altra conseguenza dell'assedio è
la disoccupazione, che colpisce molte delle persone che in passato si
recavano a lavorare in Israele. Migliaia di quelle oggi risescono a
lavorate solo saltuariamente.
Aiuti.
Le chiusure hanno anche l'effetto di abbattere il potere di
acquisto dei locali: sempre secondo il World Food Programme, oltre il 60
percento dei palestinesi di Gaza ha ridotto le proprie spese alimentari.
Sono sempre più numerose quelle che devono ricorrere all'aiuto delle
organizzazioni umanitarie, sia quelle religiose locali che quelle
internazionali: il World Food Programme e l'Unrwa (l'organizzazione
della Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ) forniscono aiuti al 70
percento della popolazione. “Il numero delle persone bisognose di aiuto
aumenta ogni giorno, mentre la percentuale di persone che siamo in grado
di sostenere è bassa” ha spiegato a Irin News un operatore della carità
islamica al Falah (in arabo, il contadino). Gli stessi sussidi dell'Unrwa,
che giungono con cadenza trimestrale, consistono in riso, farina, olio e
zucchero che, a detta di molti locali, non durano più di un mese e
mezzo. La gente li usa finché ci sono, poi quando finiscono si indebita
con i negozianti di alimentari. É' un meccanismo di sostentamento che
spinge la popolazione sempre più giù nella spirale della povertà.
Agricoltura.
L'organizzazione delle Nazioni Unite per il Cibo e
l'Agricoltura, Fao, stima che dal giugno 2007 le perdite per gli
agricoltori palestinesi, che sono un quarto della popolazione, superino
i 4 milioni e mezzo di dollari. Il ministero dell'Agricoltura
palestinese sostiene però che questa cifra è al ribasso, perché la
stagione delle esportazioni in Palestina inizia a novembre, e nei
prossimi mesi si attendono perdite per altri 50 milioni di dollari.
Secondo un analista della Fao, “A meno che nelle prossime settimane i
valichi vangano aperti, sia per le importazioni che per le esportazioni,
il settore agricolo della Striscia affronterà una grave catastrofe”.
Acqua.
Alla crisi agricola si aggiungono anche le difficoltà di
approvvigionamento idrico (sono 225 mila le persone che non ricevono
acqua potabile per i guasti alle pompe) e il tagli da parte di Israele
di elettricità e carburante. Queste ultime difficoltà stanno
paralizzando la vita del milione e mezzo di abitanti della Striscia: gli
ospedali non hanno abbastanza carburante per i generatori elettrici, la
mobilità è compromessa dalla scarsità di benzina e anche la raccolta
della spazzatura pare essere bloccata. Per le strade si vedono sempre
meno auto e taxi. Secondo l'Associazione per proprietari di pompe di
benzina di Gaza, il taglio delle forniture di carburante è tale da
coprire solo il 20 percento delle richieste di benzina e gasolio. I
nuovi tagli sono stati disposti dopo che il governo di Ramallah,
avversario di quello di Hamas a Gaza, ha rifiutato di pagare le spese
del carburante alla compagnia isrealiana Doron. I distributori hanno
reagito con una serie di scioperi che hanno aggravato oltremodo la
penuria. La crisi dei carburanti sta anche condizionando le abitudini di
molti gazawi, che da qualche mese stanno abbandonando le auto per
tornare al mezzo di trasporto usato in Palestina da millenni: gli asini.
Molti disoccupati si sono reinventati un lavoro vendendo frutta e
verdura porta a porta, con un asino e un carretto. Da giugno a oggi
però, anche il prezzo degli asini è salito del sessanta percento, così
come il costo per il loro cibo.
Indagine Ocse-Pisa boccia senza appello gli istituti non statali
Nella maggioranzadei Paesi, invece, il privato alza il livello medio
Private, in Italia le
peggiori d'Europa
"Meglio studiare nella pubblica"
di
SALVO INTRAVAIA
LA scuola privata italiana è la peggiore d'Europa. Ma
non solo. E' anche una delle ultime al mondo. In Italia, sulle scuole non
statali, da alcuni anni a questa parte si confrontano due opposte idee (pro
e contro il finanziamento pubblico). I favorevoli ritengono che il ruolo (e
il conseguente trasferimento di fondi pubblici) delle scuole private sia
indispensabile per fare crescere l'intero sistema scolastico nazionale. I
contrari pensano sostengono che il trasferimento diretto di risorse
pubbliche alle scuole non statali sia incostituzionale. Ma intanto arriva
l'impietoso giudizio dell'indagine Ocse-Pisa (Programme for international
student assessment) 2007, che boccia gli istituti privati senza appello.
Il report internazionale sulle competenze dei quindicenni nelle cosiddette
literacy relative alla Lettura, alle competenze in Matematica e scientifiche
certifica, in Italia, la maggiore qualità del pubblico sul privato. In poche
parole, il pur deludente quadro emerso dalla comparazione internazionale dei
quindicenni italiani con i coetanei di altri 56 stati sparsi nei 5
continenti, pubblicato appena una settimana fa, si accentua se si prendono
in considerazione i risultati delle sole scuole private.
L'Italia è uno dei pochi paesi occidentali e industrializzati dove gli
adolescenti della scuola pubblica risultano "più" attrezzati dei compagni
delle private. I numeri parlano chiaro e non lasciano spazio a troppi dubbi.
Degli oltre 21 mila quindicenni presi in considerazione nel Belpaese il 4
per cento, al momento dell'indagine, era iscritto in istituti privati. Il
divario emerso nella literacy Matematica è pari a 11 punti: 462 per gli
adolescenti delle scuole statali e 451 per i compagni iscritti nelle classi
delle scuole private. Distanza che diventa ancora più imbarazzante se si
prende in considerazione la literacy scientifica: 476 contro 462. Solo in
quella riguardante la Lettura (comprensione e produzione di testi scritti)
il divario è minimo (appena 3 punti), pur sempre a favore degli studenti che
affollano le scuole pubbliche.
Ma è il confronto internazionale a fare emergere una realtà ancora poco
conosciuta e soprattutto, misurata. Tra le 48 nazioni di cui l'Ocse ha
pubblicato i risultati disaggregati (pubblico/privato), in Matematica,
l'Italia viene sopravanzata da nazioni come Uruguay e Israele che nella
classifica complessiva la seguono e precede di appena un punto il Cile.
Facendo sempre riferimento ai risultati dei soli alunni che frequentano le
scuole private il nostro paese si colloca fra gli ultimissimi posti anche
per le competenze in Lettura e nella literacy scientifica dove paesi come l'Azerbaijan
e la Giordania, a giudicare dai risultati dei propri alunni, mostrano scuole
private più competitive della blasonata Italia.
E se nella maggior parte dei paesi del mondo nel complesso le scuole private
innalzano la qualità dell'intero sistema scolastico lo stesso non può dirsi
per il nostro paese dove quel 4 per cento di studenti, sulle conoscenze
scientifiche ad esempio, contribuisce ad abbassare il livello italiano già
di per sé preoccupante. Solo a titolo di esempio, in Germania gli studenti
delle private ottengono in Matematica quasi 40 punti in più dei compagni
delle statali. Stesso discorso per il Regno Unito dove il distacco passa
addirittura a 75 punti o in Spagna: più 25 punti a favore degli alunni delle
private.
Finanziaria in divisa
Ventun miliardi alla Difesa, Natale ricco per le aziende belliche
Le minacce del Ventunesimo secolo, evocate con forza sempre maggiore,
dopo l'11 settembre, ad ogni vertice annuale della Nato, si chiamano
terrorismo e armi di distruzione di massa. Entrambe hanno fatto della paura
un elemento di strategia politica. E per contrastare la paura si affinano e
si consolidano i sistemi di difesa. Ovvero: ci si arma. Secondo il Sipri
(Istituto di studi per la pace di Stoccolma), nel mondo le spese militari
sono cresciute nel 2006 del 3,5 percento rispetto all'anno precedente,
superando i mille miliardi di dollari (quasi 680 milioni di euro). Nella
classifica dei Paesi produttori di armi, l'Italia è al settimo posto, con 20
miliardi di euro. Il nostro Paese destina al settore difesa l'1,5 percento
del proprio prodotto interno lordo.
Risorse
sparse. Le spese militari rappresentano una delle voci più onerose
nel bilancio del nostro Paese. Grazie alla Finanziaria, passata a fine
estate al Senato per un pugno di voti e in attesa della votazione alla
Camera, sono previsti stanziamenti per 23 miliardi e 352 milioni di euro (21
miliardi nel bilancio preventivo della Difesa, 2.424 aggiunti dalla
Finanziaria). L'aumento rispetto al 2007 (la misura allora ammontava a 21
miliardi e 11 milioni) è dell'11,1 percento. Le previsioni di spesa per il
comparto militare, invece di far capo solo al ministero della Difesa, sono
disseminate nelle più disparate allocazioni: oltre alla Finanziaria e al
bilancio della Difesa, come detto, i contributi spaziano dal ministero per
l'Economia a quello dello Sviluppo economico. Essendo sparse in vari
bilanci, le risorse rendono opaca la loro interpretazione. Vediamo di
cominciare a far luce sulla loro allocazione, andando a verificare, punto
per punto, dove e a cosa sono destinate le risorse stanziate nella Legge
Finanziaria, approvata dal Senato per un pugno di voti il 15 novembre scorso
e in attesa di discussione alla Camera.
L'articolo 5, comma 12, stanzia un fondo di 107 milioni
di euro per il pagamento dell'accisa (imposta) sui prodotti energetici
delle Forze Armate.
All'articolo 21 del Disegno di Legge, il comma 1 cita:
"Per l'organizzazione del vertice G8 previsto per l'anno 2009 è
stanziata la somma di euro 30 milioni per l'anno 2008." Il vertice si
terrà alla Maddalena, in Sardegna, da dove il mese scorso sono partiti
1.500 soldati Usa, nell'ambito della dismissione della base militare,
che verrà definitivamente lasciata dalla Marina statunitense nel
febbraio 2008.
L'articolo 22 integra con 30 milioni di euro il taglio
del 15 percento della scorsa Finanziaria per la 'professionalizzazione'
delle Forze Armate; stanzia inoltre 140 milioni di euro per 'garantire
la capacità operativa' delle stesse. Venti milioni di euro vanno poi
all'arsenale della Marina militare di Taranto e 40 per il funzionamento
dell'Arma dei Carabinieri.
Nell'articolo 31 si propone l'allocazione di risorse
per: 15 velivoli addestratori Aermacchi M346; 12 elicotteri Agusta
Westland EH101; sistema di comunicazioni Sicote per i Carabinieri in
funzione anti-terrorismo; progetto Soldato futuro; partecipazione, con
la Francia, alla costruzione del satellite di comunicazioni Sicral 2.
Per l'attuazione di tale piano sono autorizzati contributi quindicennali
per un totale di 1 miliardo e 50 milioni di euro.
All'articolo
31, comma 2, figurano, per la partecipazione al programma del
Caccia Eurofighter: 318 milioni di euro per il 2008, 468 per il 2009,
918 per il 2010, 1.100 per il 2011 e 1.100 per il 2012. Aggiunti a
quelli già previsti dalla Tabella F della Finanziaria (importi da
iscrivere in bilancio alle autorizzazioni di spesa delle leggi
pluriennali), si raggiungono, per 5 anni, 4.884 milioni di euro. Al
comma 3, si dispone l'erogazione di ulteriori fondi per il programma di
sviluppo delle fregate multiruolo Fremm, in cooperazione con la Francia.
Il totale è di un miliardo e 50 milioni in 15 anni. Sempre nella Tabella
F della Finanziaria vi sono fondi aggiuntivi per le fregate Fremm di
circa 800 milioni di euro.
Nell'articolo 93, per esigenze legate alla tutela
dell'ordine pubblico, è previsto, per un piano di assunzioni, uno
stanziamento di 50 milioni di euro per il 2008, di 120 per il 2009 e di
140 per il 2010. Risorse, queste, destinate all'Arma dei Carabinieri,
alla Polizia di Stato, alla Guardia di Finanza, alla Polizia
penitenziaria e al Corpo forestale.
L'articolo 95 destina 200 milioni di euro in più per
2008, 2009 e 2010 ciascuno per i rinnovi contrattuali e la
'valorizzazione delle specifiche funzioni svolte nella tutela
dell'ordine pubblico e della difesa nazionale. Destinatari il corpo di
Polizia e le Forze Armate. Nella tabella del ministero per l'Economia è
inoltre iscritto oltre un miliardo di euro per il finanziamento delle
missioni italiane all'estero.
In conclusione, le spese militari aumentano, a dispetto delle promesse
del governo Prodi. Che nel programma pre-elettorale si era impegnato,
"nell’ambito della cooperazione europea, a sostenere una politica che
consenta la riduzione delle spese per armamenti". Promesse da marinaio.
Morire con
dignitàCittà del
Messico si conferma città progressista. Firmata una legge che permette ai malati
terminali di decidere il loro futuro.
Il dibattito sulle varie forme di morte assistita o
sull'eutanasia è da sempre, anche a livello internazionale, al centro di
grandi polemiche: molti i favorevoli, altrettanti i contrari.
Al di là dell'oceano atlantico, nella capitale del
Messico, l'Assemblea Legislativa del Distretto Federale, però, sembra aver
messo tutti d'accordo. Nei giorni scorsi, infatti, ha approvato
all'unanimità la "Ley de voluntad anticipada", una legge che consente ai
malati terminali di decidere il loro futuro.
La
legge. Nonostante il plebiscito, non sarà stato facile per i legislatori
esplorare il microcosmo di problemi che potevano nascondersi dietro questa
legge prima della sua approvazione. Allora, oltre alla "Ley de voluntad
anticipada" sono state pensate norme che tutelassero gli interessati da
eventuali procedimenti penali. La norma, in sostanza, consente ad una
persona affetta da una malattia incurabile, nelle sue piene facoltà mentali,
di sottoscrivere davanti a un notaio un documento nel quale esprime il
desiderio di interrompere le cure che prolungherebbero la vita, magari solo
di poco e non allevierebbero le sofferenze, senza, però, nessuna speranza di
guarigione. Inoltre, nel caso un malato terminale non sia in possesso delle
facoltà, consente ai familiari di intervenire e redigere il documento alla
presenza di testimoni. Per questi particolarissimi casi l'Assemblea ha anche
pensato una serie di riforme che impediscano accuse d'omicidio o d'aiuto al
suicidio per chiunque intervenga nella questione. C'è dell'altro: nel
documento notarile il malato potrà acconsentire all'espianto dei suoi
organi. "Questa legge aiuta anche a dare speranze a tutte quelle persone che
hanno necessità di un donatore", dice il presidente della commissione di
governo Victor Hugo Cirigo.
Gli
aspetti. Non pensate all'eutanasia. La "Ley de voluntad anticipada", è
un'altra cosa. In nessuna circostanza, infatti, sarà possibile somministrare
medicinali che causino il decesso del malato in stato terminale. "Non si
parla di porre fine a una vita - dice la deputata del Partido de Accion
Nacional Paula Soto - ma della qualità che deve avere la fase finale della
vita stessa".
Si tratta infatti di ortotanasia, cioè della difesa del
diritto a morire dignitosamente senza l'utilizzo di misure per
l'allungamento della vita.
Qualità della vita che coincide anche con l'offerta di
apporto psicologico da parte di personale esperto ai malati e ai i loro
familiari. E per non creare polemiche è riconosciuta l'obiezione di
coscienza ai medici e al personale sanitario che non vuole applicare la
legge. Adesso la parola passa a Marcelo Ebrard, capo del governo del
Districto Federal che dovrà promulgare la legge che entrerà definitivamente
in vigore.

Ma quanti mms venivano spediti dai telefonini dei deputati?
Quante foto si scambiavano gli onorevoli nella loro attività
d'ufficio? Il piano di tagli alle spese delle Camera, pubblicato
sul numero in edicola de L'espresso, mostra una serie di voci
sorprendenti. Per esempio, d'ora in poi sarà vietato mandare mms
e foto dai cellulari di servizio. E i furbetti che continuavano
a tenere due schede telefoniche dovranno restituirne una. Questi
due provvedimenti, assieme a una revisione delle tariffe,
dovrebbe far risparmiare 300 mila euro l'anno. Pensate che solo
per le convocazioni via fax degli organi della Camera si
spendevano 200 mila euro l'anno: d'ora in poi tutto avverrà via
email o sms. C'è poi la questione degli atti parlamentari: visto
che sono tutti sul web, che senso ha stamparne tante copie? A
parte il danno all'ambiente per lo spreco di carta, ogni anno
vengono bruciate somme da capogiro. Per il 2008 ci saranno 25
milioni di pagine stampate in meno, con un risparmio di un
milione di euro. Infine la rassegna stampa: finora costava 150
mila euro l'anno di fotocopie, dal nuovo anno invece si potrà
consultare solo sul web.
Qualcosa si muove anche sul fronte delle trasferte. I
parlamentari dovranno rinunciare ai soggiorni in hotel a cinque
stelle: il massimo adesso scende a quattro. E per i voli in
Europa o nel Mediterraneo sarà obbligatorio in biglietto in
classe economica con data non modificabile. Un plauso ai
deputati questori Gabriele Albonetti, Francesco Colucci e
Severino Galante, che hanno usato le forbici. Resta però un
interrogativo: ma quante sorprese riserva ancora lo scrigno dei
privilegi parlamentari?
7 dicembre
Documentavano l'uso di tecniche dure più volte denunciate dalle
organizzazioni umanitarie come tortura
Il direttore Hayden: "Decisione in linea con la legge per proteggere gli
agenti". Ma è polemica
Usa, la Cia distrusse le
videocassette
degli interrogatori dei sospetti terroristi
WASHINGTON - La Cia ha distrutto nel 2005 almeno
due videocassette che documentavano gli interrogatori di due operativi di Al
Qaeda sotto custodia dell'agenzia. La decisione sarebbe maturata nel mezzo
del dibattito al Congresso sui metodi utilizzati dall'agenzia di
intelligence, più volte condannati dalle organizzazioni in difesa dei
diritti umani come tortura, e oggetto di aspre dispute legali.
I video mostravano gli interrogatori di sospetti terroristi - fra cui anche
Abu Zubadayah, il primo detenuto in mano alla Cia, arrestato nel marzo del
2002 - in cui venivano usate tecniche dure, riferisce il New York Times.
Secondo il quotidiano americano vennero distrutti perché funzionari
dell'agenzia erano preoccupati che tali documenti potessero esporre i suoi
agenti a cause legali.
Dopo essere stato informato dal New York Times che la notizia stava
per essre pubblicata, il direttore della Cia Michael Hayden in un comunicato
ai dipendenti ha detto che la decisione di distruggerli è maturata
all'interno della Cia per proteggere i funzionari coinvolti e gli agenti in
incognito e perché le cassette non avevano più valore di intelligence. Se i
video fossero diventati pubblici avrebbero rappresentato "un grave rischio
per la sicurezza", ha spiegato il direttore, esponendo gli agenti e "le loro
famiglie a una rappresaglia di Al Qaeda e dei loro simpatizzanti". Hayden ha
difeso la condotta dell'agenzia, dicendo che è stata "in linea con la
legge".
La distruzione dei video fa riemergere i dubbi sul comportamento della Cia
nei confronti del Congresso, dei tribunali e della Commissione sugli
attacchi dell'11 settembre, cui potrebbe aver occultato informazioni
importanti. In particolare, quei nastri non sono stati forniti alla corte
federale dinanzi alla quale era processato Zacarias Moussaui, considerato il
20esimo dirottatore, e alla Commissione sull'11 settembre, che pure aveva
fatto richiesta alla Cia di avere tutte le trascrizioni e tutta la
documentazione sugli interrogatori ai detenuti sospettati di terrorismo.
La notizia riaccende anche il dibattito sulle leggi che autorizzano la Cia
ad impiegare metodi di interrogatorio più duri di quelli permessi alle altre
agenzie di intelligence. La notizia della distruzione dei nastri, sottolinea
il New York Times, è arrivata poche ore dopo l'approvazione in una
commissione del Congresso di un provvedimento per mettere fuorilegge le
pratiche e i metodi troppo duri di interrogatorio, provvedimento che però
dovrà passare in aula alla Camera e al Senato e su cui molto probabilmente
il presidente George W. Bush porrà il veto.
Io romeno no limits
di Fabrizio Gatti - Foto di Luca Ferrari - Prospekt
Il giornalista de 'L'espresso' ha girato l'Europa. Con una finta
identità di Bucarest per la quale era stato espulso dall'Italia.
Lavavetri alla Torre Eiffel, a Barcellona e a Monaco. Senzatetto in
Austria e persino a Montecarlo. Ma le polizie non lo fermano. Ecco il
suo reportage
Giù lo zainetto. Fuori la spazzola e la bottiglia di plastica piena
d'acqua e sapone. Il traffico al semaforo tra avenue de New York e
Pont d'Iéna arriva a ondate. Puzza di benzina il cuore della Parigi
da cartolina. Davanti, il Palais de Chaillot. Dietro, la Senna.
Sopra, la vertigine mozzafiato della Tour Eiffel. Di lavavetri a
questo incrocio forse non ne hanno mai visti. È il posto migliore
per provare. In tasca nessun documento. Solo un decreto di
espulsione della Prefettura di Lodi, scritto in due lingue, italiano
e inglese. È intestato a Roman Ladu, nato a
Bucarest il 29 dicembre 1970. Un finto romeno: il nome Roman scelto
tra i cognomi dell'elenco telefonico di Vicenza, Ladu tra quelli di
Nuoro. Ma l'assonanza sardo-veneta poco importa. In questi tempi di
xenofobia militante contro la Romania basta che un'identità finisca
per "u" e in Italia si è guardati con sospetto. Figuriamoci qui,
nella Francia di Sarkozy. Prima o poi arriverà la polizia. Perché
questa è la Francia del pugno di ferro, delle espulsioni, del rigore
citato come esempio dalla politica nostrana. Il Paese da imitare,
con Germania, Austria e Spagna. Poi si è aggiunto il pacchetto
sicurezza del governo con la decisione di dare più potere ai
sindaci. E si è visto in che modo i Comuni del lombardo-veneto
abbiano già approfittato dell'occasione. Bisogna indossare i panni
dello stereotipo per scoprire cosa succede sui marciapiedi fuori
dall'Italia. E provare a diventare ciò che il nostro Paese della
mafia, della camorra, della 'ndrangheta e del record di corruzione
ha sostituito nell'immaginario collettivo del pericolo nazionale: un
cittadino europeo, senza documenti, senza lavoro, senza casa, senza
fissa dimora, nomade e nato in Romania.
Dieci giorni in giro per l'Europa, su e giù tra
piazze, treni e stazioni. Da Milano a Parigi. E poi Stoccarda, Ulm,
Monaco di Baviera, Kufstein, Innsbruck, Verona, Milano, Marsiglia,
Montpellier, Barcellona, ancora Montpellier, Marsiglia, Nizza,
Montecarlo. E ritorno in Italia. Dal 21 novembre al primo dicembre.
Cinque controlli di polizia: in Germania, Austria, Francia e Spagna.
Sempre con la stessa intenzione: presentarsi come Roman Ladu,
mostrare il decreto di espulsione ed essere rimpatriato a Bucarest.
Oppure fermato per immigrazione clandestina: perché nell'archivio
centrale delle polizie dell'area Schengen il finto nome romeno è
associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Così
dovrebbe risultare dopo i reportage sotto copertura nel centro di
detenzione di via Corelli a Milano nel 2000 e in quello di Lampedusa
nel 2005. Invece il costoso cervellone europeo non scopre nulla. E
alla fine la risposta è sempre la stessa: «Grazie, può andare».
Quattromila chilometri di libertà che affossano ogni possibile
efficacia delle espulsioni di cittadini europei, come pretende il
pacchetto sicurezza italiano. Perché la circolazione delle persone
in Europa è un principio sancito dai Trattati.
Così l'Italia della paura rimane un caso isolato. E
ogni Paese diventa un mondo a sé. In Germania, invasa dalla
'ndrangheta e scioccata dalla strage di Duisburg, sono gli italiani
a essere perquisiti. In Austria basta dire di voler arrivare a
Verona per tranquillizzare gli agenti e farla franca. Mentre a
Barcellona è la polizia a insegnare come chiedere l'elemosina senza
infastidire i passanti. Un salto indietro alla partenza. Stazione
Centrale, Milano. Fuori è pieno di auto con i lampeggianti blu. Una
trentina di poliziotti controlla chiunque abbia un volto leggermente
diverso dai lineamenti italopadani. Qualcuno viene portato via. Due
italiani all'angolo guardano la scena e offrono sigarette di
contrabbando ai passanti. Sul Tgv per Parigi la polizia riappare al
confine. Gli agenti di Bardonecchia sono saliti davanti. La Paf, la
Police aux frontières, arriva alle spalle. Si incontrano alla
carrozza 5. Ma controllano soltanto i passeggeri dalla pelle scura.
Vengono fatti scendere un pachistano perché ha un visto solo per
l'Italia. E quattro ragazzi di colore. Un ispettore contratta con un
collega francese la restituzione di un senegalese. «L'abbiamo
fermato stamattina». Il francese non è convinto. «Guarda», dice
l'ispettore, «sul passaporto ha il timbro d'ingresso dell'aeroporto
di Parigi. È vostro ». Il graduato con la tuta blu della Paf osserva
il timbro. «Sì, va bene. È nostro». Uno almeno se lo devono
prendere. La partita finisce 5 a 1 per la Francia. Roman Ladu passa
indenne. Nonostante la barba sfatta e gli abiti dimessi, la polizia
di solito non ferma i bianchi.
Gatti sulle Rambla di Barcellona
Di lavavetri a Parigi ne hanno visti pochi. Soltanto
qualche mese fa a Porte de la Chapelle, periferia Nord, al grande
svincolo di fronte allo stadio di Francia. Erano nomadi del campo di
Saint Denis. Adesso hanno lasciato perdere. Si avvicinano due donne,
nelle loro gonne colorate. Una ha i piedi protetti soltanto da un
paio di calze di cotone lacero. Chiedono l'elemosina ai turisti
sotto gli archi della Tour Eiffel e lungo i viali nel Campo di
Marte. Dicono che vengono dalla Romania. «Due anni fa, quando hanno
tolto i visti di ingresso», spiega la ragazza senza scarpe, «siamo
partite con le famiglie». I poliziotti pattugliano in auto. Si
guardano intorno. Riprendono il giro. Ancora pochi passi e oltre il
Pont d'Iéna sulla Senna, ecco l'incrocio ideale dove lavare i
parabrezza. Le tipiche scene degli automobilisti. Un colpo di gas
per andare più avanti. Un colpo di freno per rimanere più indietro.
Un no gentile con l'indice. Uno solo, un uomo su una monovolume, si
slaccia la cintura di sicurezza e minaccia di scendere. Molti si
lasciano pulire i cristalli. Nessuno però sgancia un solo centesimo.
Ogni tanto ripassa un'auto della polizia. Qualche agente in moto.
Forse vedono. Forse no. Comunque tirano dritto. Meglio cambiare. Non
appena fa buio il traffico su Pont de l'Alma si allunga in una coda
di fari e fumi di scarico. È l'incrocio che scende agli Champs
Élysées. I poliziotti in auto arrivano, si fermano al semaforo,
ripartono. Non fanno caso all'intruso che si avvicina ai finestrini.
Stesse scene di prima. Gli automobilisti rifiutano gentilmente. I
parigini non hanno bisogno di ordinanze del loro sindaco.
Considerano la questione uno sfruttamento denigrante
dell'immigrazione. Così non regalano nulla. Per questo anche quei
pionieri del parabrezza davanti allo stadio di Francia sono subito
scomparsi. Due ragazzi su un'auto bianca invece si arrabbiano. È il
momento di inventarsi una scusa. «Sorridete, è per la televisione.
Stiamo girando una pubblicità». Loro adesso ridono e salutano a caso
cercando il cameraman.
Così va il mondo. Ma non c'è niente da ridere. La
campagna contro i romeni in Italia, innescata dopo l'omicidio di
Giovanna Reggiani a Roma, ha avuto ricadute fin qui. Un caso tra i
tanti. Nicu B., 22 anni, era partito due anni fa da Craiova, a ovest
di Bucarest, per lavorare a Pavia. Muratore in nero: «Perché»,
racconta, «il padrone diceva che mettendomi in regola avrebbe pagato
troppe tasse». Il capomastro lombardo gli versava sette euro l'ora e
si rubava i contributi di malattia e pensione. Nicu viveva con la
moglie e la loro bimba, 9 mesi. Pochi giorni dopo la presentazione
del pacchetto sicurezza, la Guardia di finanza è entrata nel
cantiere. «Il mio padrone si è preso una multa», spiega il ragazzo,
«ma io ho perso il lavoro». È l'effetto del pugno di ferro, quando
si abbatte a caso sulla gente. Così tre settimane fa Nicu ha
lasciato la moglie e la figlia da una sorella a Pavia. E ha
cominciato il suo secondo viaggio da emigrante. «Ho preso il treno a
Milano, ho il passaporto romeno. I francesi mi hanno lasciato
passare. Siamo nell'Unione europea, no?». Ora abita con i genitori
in pieno centro a Parigi, in boulevard Haussmann. Dietro al teatro
dell'Opera, davanti ai grandi magazzini Lafayette. Una bella zona.
Una grande finestra di cristallo come parete. Solo che Nicu, suo
papà Paulin, 54 anni, sua mamma, 48 anni, e suo fratello quella
finestra la guardano da fuori. La soglia dei negozi di abbigliamento
C&A è la loro camera da letto. Il materasso è uno strato di
gommapiuma steso su un giaciglio di cartoni. Se fossimo davanti alla
Rinascente di Milano, li avrebbero già cacciati. «Siamo più di
trecento », ammette Nicu: «Qui intorno a Lafayette e ai grandi
magazzini Printemps, veniamo tutti da Craiova». E la polizia non vi
ha mai allontanati? «No, i miei sono qui da due mesi, non è mai
successo. Non è come in Italia. Se non fai casino, la polizia in
Francia non ti ferma. È una società multietnica, come fanno a capire
chi è francese e chi è straniero?». Lavoro? «Ho già lavorato a
Parigi, in nero per un romeno. Sto aspettando che mi chiami.
Gatti di notte a Montecarlo
Qui è più difficile che in Italia. Perché i francesi quando
ti assumono fanno tutte le cose in regola, non è come da noi». Da
noi dove? «Da noi in Italia». La cena è una scodella di pane
inzuppato, seduti sull'asfalto. La notte è un respiro tormentato
sotto strati di coperte sporche. Le luci non si spengono mai.
Soprattutto adesso che le facciate di Lafayette e Printemps brillano
di stelle natalizie ed effetti luminosi. E la musica diffusa dalle
vetrine continua a suonare. Anche la città riaccende presto il suo
frastuono. In boulevard Haussmann dalle 3 alle 5 arrivano i furgoni
che smistano i giornali. Poi scaricano i rifornimenti per i grandi
magazzini. Arrancano i mezzi della nettezza urbana. Gli addetti
spingono carrelli carichi di rifiuti, attenti a non camminare sulle
griglie dell'aria calda. Su quelle griglie in mezzo al marciapiede i
trecento abitanti dei portici di Lafayette hanno messo ad asciugare
il loro bucato. Magliette e calzini lavati ieri sera alla fontana di
un parco. La nuova giornata comincia poco dopo le 6. Nicu e i suoi
la passano accovacciati davanti alle vetrine. Al padre Paulin, ex
saldatore, la Romania paga una pensione di invalidità. Ma cento euro
al mese non bastano. E da quando le frontiere dell'Unione si sono
estese, molti anziani romeni hanno scoperto che possono arrotondare
il sussidio chiedendo elemosina all'Europa ricca: «Se possiamo,
andiamo a casa per Natale. In primavera torniamo». Una transumanza
di mani tese. Con una coperta colorata sulla testa, un cartello che
ringrazia in francese e un bicchiere da riempire di monete. Visti
così, anche gli uomini sembrano madonne. «La gente è più tenera con
le donne», rivela Nicu: «Io devo accontentarmi. Ieri, in tutta la
giornata, ho raccolto 12 euro. Non so come farò a tornare a Pavia».
Si riparte dalla Gare de l'Est. Roman Ladu va in
Germania. A Stoccarda l'Ice per Monaco, il treno ad alta velocità,
si muove in ritardo. «Fahrkarte, bitte», chiede la controllora.
Bisogna farsi venire un'idea. Basta non consegnare il biglietto
giusto. «Passport », ordina lei a un certo punto. Guarda sorpresa il
decreto di espulsione. «Da dove viene?». «Da Parigi». Sembra stia
leggendo le frasi in inglese e in italiano. «Ah, questo è scritto in
francese», borbotta confusa, «devo chiamare la polizia». Il
poliziotto è a bordo. Un uomo con lo scudo della Polizei cucito sul
braccio del maglione. Legge il decreto di espulsione. «Dunque lei è
romeno e non ha il passaporto», commenta in francese. Confabula con
la controllora. Le dice sottovoce di farmi scendere a Ulm, la prima
fermata dopo 85 chilometri. E se ne va. «Ma io non ho soldi, non
conosco nessuno a Ulm. Non può lasciarmi arrivare a Monaco? ». «Non
è possibile», risponde la donna che per non perdere di vista Roman
Ladu si è seduta nella fila accanto: «Non ha il biglietto per questo
treno. E poi l'agente ha già telefonato alla polizia, a Ulm la
aspettano. Ormai è fatta». Il treno si ferma. La controllora fa
strada verso l'uscita. La scena è quasi calcistica. Lei estrae dalla
tasca della divisa un cartellino rosso. Scende. Si piazza davanti
alla scaletta. Risale, agita il cartellino e lascia chiudere la
porta. Il treno riparte. Forse arriverà la polizia come minacciato.
E finalmente scatterà l'espulsione. Non arriva nessuno. Fa freddo e
piove sulla città del Danubio e di Albert Einstein. Il treno
successivo entra a Monaco prima che faccia buio. C'è tempo per
lavare qualche parabrezza tra la Arnulfstrasse e il Paul Heyse
Hunterführung, il sottopasso della stazione. In 30 minuti, quattro
euro e 60. Due euro da una coppia di giovani fidanzati tedeschi. Il
resto da una famiglia di rifugiati iraniani, un arabo e un immigrato
italiano. Quattro volte più di quanto pagano all'ora molti
agricoltori in Puglia per la raccolta dei pomodori. La maggior parte
degli automobilisti però rifiuta la pulizia del vetro. Adesso, sotto
l'acquazzone, hanno i tergicristalli in funzione. Fine
dell'esperimento. Di notte ci ritroviamo in 39 a tentar di dormire
in stazione, nella scatola di vetro della sala d'attesa. Alle 4,20
entrano due poliziotti in divisa e giacca a vento. «Polizeikontrolle
», avvertono a voce alta. Leggono la parte in inglese del decreto di
espulsione. «Roman Ladu è lei?», domandano. Rileggono il nome sul
decreto. «Dove deve andare?». «In Austria». Chiamano la centrale via
radio: «99, una verifica: Roman ». La risposta arriva in un minuto.
«Niente? Bene», dice l'agente. E restituisce il decreto. Come
«niente»? Avrebbero dovuto scoprire che il nome Roman Ladu è
associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Forse i due
agenti non hanno capito. «Scusate, devo aspettare? Vi ho mostrato un
decreto di espulsione». Un controllo bis che nessuno si andrebbe a
cercare. «Sì, ho letto che lei ha un'espulsione dall'Italia», dice
il poliziotto, «ma adesso la Romania fa parte dell'Unione: lei può
rimanere in Germania fino a tre mesi». Un ragazzo consegna la sua
carta d'identità. È italiano. «Fuori le mani dalle tasche», lo
rimprovera l'agente. «99», dice il collega alla radio e detta il
nome per la verifica. Poi perquisiscono il suo zaino.
È l'ispezione più meticolosa. La pubblicità
di un'agenzia di viaggi invita a trascorrere quattro giorni a 280
euro nella città del Colosseo. «Rom», è scritto sul grande poster.
Ironia delle lingue. La mattina dopo sull'Eurocity Monaco-Verona un
uomo e una ragazza svegliano Roman Ladu. Sono agenti di frontiera
austriaci. Chiedono la carta d'identità. Scrutano il decreto di
espulsione. Il ruolo dell'Austria è fondamentale nel pacchetto
sicurezza per fermare il ritorno dei romeni cacciati dall'Italia.
L'uomo verifica il nome al telefono con la centrale. Mentre aspetta
la risposta, la ragazza svuota lo zainetto. Il suo sguardo è
attratto dalla spazzola lavavetri. Rimette tutto dentro. Senza fare
domande. La risposta dalla centrale è negativa. Il poliziotto
restituisce il decreto. «Va in Romania?», chiede. «Italia, Verona».
«Mi fa vedere il biglietto? ». I due si guardano. «Grazie, buon
viaggio», dice lui e scendono a Kufstein. Nemmeno in Austria Roman
Ladu e il suo alter ego iracheno sono registrati come persone
espulse. Al Brennero, niente controlli. Così a Ventimiglia. Così
fino a Barcellona, come è normale tra Paesi nell'area del trattato
di Schengen. Non può passare inosservata una mattinata a pulire
parabrezza sotto il Mirador de Colon, la statua di Cristoforo
Colombo alla base della Rambla. A Barcellona un'ordinanza punisce i
lavavetri. Ma una legge prevede corsi di catalano anche per gli
anziani nei campi rom, l'obbligo della scuola per i bambini,
l'accesso al lavoro e l'assegnazione di appartamenti. Roman Ladu
raccoglie due euro e 50, una sigaretta e un'offerta che potrebbe
costargli un sacco di guai. «Fumas porros», gli chiede una donna
dall'auto di servizio della nettezza urbana. «Porros?». Lei apre il
cruscotto e tira fuori una stecca di hashish. La prima macchina con
due agenti si ferma dopo mezz'ora. «Ehi, ehi, chico», grida la
ragazza in divisa al finestrino, «no limpiar, pulire è proibito. Da
dove vieni? ». «Romania». Non vuole nemmeno vedere i documenti.
«Così sì», dice alla fine e mima il gesto di chiedere l'elemosina
con la mano. «Limpiar no», ripete e indica il parabrezza: «Claro?».
Non hanno voglia di scendere. Nemmeno di rovinarsi la giornata con
una procedura burocratica noiosa. E soprattutto costosa.
Il ritorno è un viaggio in treno senza intoppi fino a
Milano. L'ultima sosta a Montecarlo. Una notte di bivacco
nel principato dei casinò, dei miliardari e delle bodyguard. Eppure
si può dormire indisturbati sul marciapiede della stazione. Sotto
volte di marmo, luci e telecamere. Appena sopra la chiesa di Saint
Devote e la prima curva del gran premio. Giusto per vedere l'effetto
che fa.
Il trucco c'è (e si vede)
L'Orso pigliatutto, ma con un
asso nella manica: i brogli
Oltre il 64 percento dei voti al partito di Putin, Russia
Unita. Poco sopra l'11 percento ai Comunisti. Otto e mezzo
ai Liberaldemocratici e sette e qualcosa a 'Russia Giusta',
questi ultimi due partiti filo-putiniani. Dare i numeri non
basta, nelle elezioni per la Duma, conclusesi ieri e
conteggiate poco fa. Oltre i numeri, c'è una realtà fatta di
numerose irregolarità, violazioni, abusi. Né basta dover
dare ragione al segretario di Russia Unita, Boris Gryzlov,
che ha ammesso che qualche irregolarità c'è stata, ma che è
del tutto irrilevante ai fini del risultato finale. Contano
i numeri, alla fina, ma dietro i numeri, si nascondono le
denunce, le intimidazioni, gli arresti, le accuse, le
preoccupazioni di molti, dal Consiglio d'Europa agli Stati
Uniti.
Denunce
ecumeniche. Le votazioni non si sono svolte in modo
corretto dall'inizio della campagna elettorale, "non hanno
rispettato gli standard democratici e molti degli impegni
presi a livello di Osce e di Consiglio d’Europa", fa sapere
l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Un
giudizio che contrasta con quello della Commissione
elettorale russa, che ha fatto sapere che durante le
elezioni tutto si è svolto regolarmente. Denunciano i
comunisti: le più irresponsabili e torbide, secondo il
leader del partito Gennady Zyuganov. Una farsa, che spingerà
il Paese verso la dittatura, dice Garry Kasparov, ex
campione di scacchi e leader di 'Altra Russia', coalizione
non ammessa a partecipare. Anche gli Stati Uniti, per bocca
del portavoce del Consiglio di Sicurezza, Gordon Johndroe,
dicono la loro: preoccupazione per l'uso di risorse statali
a sostegno di 'Russia Unita', intimidazione degli
oppositori, influenza dei media, mancanza di uguali
opportunità per i partiti minori. Gli unici che hanno potuto
contare su una rete di osservatori 'imparziali' sono quelli
di 'Golos', Ong russa che ha intervistato rappresentanti
politici, elettori, giornalisti, conducendo un monitoraggio
a tutto campo delle elezioni.
Cautela,
prima di tutto. "No comment. Non possiamo parlare
fino a domattina a mezzogiorno, quando faremo uscire il
comunicato stampa con le dichiarazioni del caso", risponde a
PeaceReporter Tatyana Bogdanova, la portavoce di Golos. I
suoi superiori le hanno imposto la consegna del silenzio.
"Domani faremo la conferenza stampa, con il rapporto finale.
Prima di allora non posso parlare. E' invitato a mezzogiorno
nell'Independent press center di Mosca". "Purtroppo sono in
Italia". "Ah, allora mi dica, forse qualche informazione
gliela posso dare comunque". La 'Golos', Ong indipendente,
ha dispiegato un esercito di alcune migliaia di persone in
38 regioni, denunciando pressioni, ostacoli, intimidazioni,
ricatti ai danni degli osservatori dei partiti
dell'opposizione, dei funzionari dell'Ong, degli stessi
elettori. "Conferma queste denunce?". "Confermo alcune delle
cose che ha detto. Non abbiamo ancora compilato il rapporto
finale, siamo ancora nella fase di raccolta dei dati.
Comunque, le 'violazioni' comprendono pressione sugli
studenti a votare in massa, gli 'absentee ballot', ovvero i
voti per corrispondenza, non al seggio...".
Ostacoli...
La legge elettorale è stata cambiata due anni fa. Non
permette a osservatori che non siano di parte di accedere ai
seggi, ma i giornalisti possono, non è vero? "Secondo la
legge sì. Le Ong non possono, quindi abbiamo dovuto
accreditarci come operatori della stampa, ovvero
giornalisti. Ma così abbiamo avuto grandi difficoltà. Ad
alcuni è stato negato accesso nelle stazioni di voto, ad
altri è stato espressamente chiesto di andarsene. Gli
ostacoli sono stati diversi, è stato vietato loro di girare
video, fare foto, insomma, documentare le procedure di voto.
Scuse e pretesti di ogni tipo sono stati inventati per
tenerli alla larga. In alcuni casi è stata chiamata la
polizia per cacciarli. Uno dei nostri
osservatori-giornalisti ha dovuto passare tutta la notte
nella stazione di polizia". Quali sono le altre violazioni?
Conferma che a molti sono stati promessi - e poi elargiti -
regali in cambio del voto? "Alcuni osservatori hanno
accertato che nella regione degli Urali sono state
organizzate alcune cose per 'incoraggiare' le persone ad
andare a votare. Sono stati dati regali, ma anche lotterie a
premi e via dicendo".
(Don't)
Go west
La Blackwater vuole una nuova sede vicino al confine col Messico. Ma
gli abitanti della città scelta non ci stanno
L'uccisione di 17 civili iracheni in una sparatoria da una
parte, l'inchiesta sul presunto contrabbando d'armi a favore del
Pkk dall'altra. Negli ultimi due mesi la Blackwater, la più
grande compagnia di sicurezza privata in Iraq, è finita sotto il
fuoco incrociato di Baghdad e Washington. Ma ora nella guerra
contro l'azienda si è aperto un altro fronte, quello
occidentale. Parte degli 850 abitanti di Potrero, un paesino
della California dove la compagnia vorrebbe costruire il
quartiere generale della nuova Blackwater West, si sono
ribellati all'acquisizione del terreno da parte della società,
perché il suo arrivo sconvolgerebbe la tranquilla vita di
provincia.
 La
Blackwater si sta muovendo da oltre un anno per espandere la sua
presenza negli Stati Uniti. Il nulla osta per l'acquisto
dell'allevamento di polli dismesso dove dovrebbe sorgere la
Blackwater West, 325 ettari nelle colline distanti 80 chilometri
da San Diego, è arrivata l'anno scorso per conto del Potrero
planning group, l'assemblea locale che ha il compito di
approvare i piani regolatori. Ma all'epoca molti abitanti non
erano neanche stati informati, e della società di contractor
si era sentito parlare meno. Nel corso del 2007 l'opposizione
alla costruzione del campo di addestramento è cresciuta, e
qualche settimana fa una manifestazione di protesta a Potrero ha
radunato oltre 200 persone. Una petizione contraria all'arrivo
della Blackwater ha raccolto centinaia di firme, e per l'11
dicembre è prevista un'elezione per cambiare la composizione del
planning group. I candidati che sfidano quelli in
carica vorrebbero ridiscutere l'accordo con la compagnia.
Ma Potrero è divisa. C'è chi è preoccupato per lo sconvolgimento
dei ritmi di vita – la città ha un solo negozio, che fa anche da
ristorante – e chi invece pensa più al nuovo giro di affari che
si creerebbe con l'arrivo di migliaia di persone da fuori. La
nuova struttura ospiterebbe 11 poligoni di tiro, una base di
atterraggio per elicotteri, senza contare gli alloggi per
centinaia di reclute da addestrare. “Questa è una comunità
piccola, si immagina il traffico e il rumore degli spari che
porterebbero quelli?”, dice al telefono a PeaceReporter
Janet Goode, una delle candidate che si oppongono all'arrivo
della Blackwater. “Quella compagnia addestra civili per farne
dei mercenari. Dovrebbero andare in una città grande, in
strutture dell'esercito. Non li voglio qui, e mi sento presa in
giro perché noi abitanti di Potrero abbiamo saputo dell'accordo
solo lo scorso dicembre, quando il nulla osta era già arrivato”,
conclude la Goode. Timothy Hammers, figlio dell'attuale
presidente del Planning group, non vede invece grandi
problemi. “Se questa società si attiene alle leggi, perché fare
tante storie?”, si chiede parlando con PeaceReporter.
“E' vero che la vita a Potrero cambierebbe, ma in fondo già
stanno arrivando tante persone che si stabiliscono qui per
scappare dalle grandi città”.
 Ma
perché proprio Potrero? I critici vedono nella decisione della
Blackwater un obiettivo ambizioso: mettere le mani sul business
dei controlli alla frontiera con il Messico. Potrero è a ridosso
del confine (“Da casa mia saranno meno di tre chilometri”, dice
la Goode), in una zona dove gli attraversamenti clandestini sono
frequenti. Al momento la gestione dei controlli è nelle mani
della Border Patrol, in alcune zone con l'aiuto di vigilantes
volontari come i Minutemen. Ma come le forze armate Usa hanno
lasciato progressivamente spazio ai contractor nelle
guerre in Iraq e in Afghanistan, così potrebbero fare in un
futuro nella lotta ai migranti clandestini. Brian Bonfiglio,
vicepresidente della Blackwater West, ha negato di aver scelto
Potrero con questa finalità in mente. Ma una testimonianza del
presidente Gary Jackson di fronte a una commissione della Camera
nel marzo 2005 sembra dire il contrario: “Così come il settore
privato si è occupato di trasportare merci in giro per il mondo
in maniera più efficiente, così la Blackwater può occuparsi dei
nuovi bisogni della Polizia di frontiera”, disse Jackson.
Intanto, nelle scorse settimane Potrero ha avuto altro a cui
pensare. Gli incendi che un mese fa sconvolsero il sud della
California hanno colpito anche qui: i boschi della zona sono
stati ridotti in cenere. “In questa zona transitano molti
immigrati clandestini, ma ora che è tutto bruciato avranno meno
posti dove nascondersi”, ironizza Hammers. Le fiamme non hanno
causato vittime a Potrero, ma per domarle ci sono voluti giorni.
E i soccorsi – acqua, cibo, carburante per gli abitanti isolati
dalle fiamme – prestati, tra gli altri, anche dalla Blackwater.
Sulla compagnia sono piovute accuse di conflitto di interessi.
Niente di illegale, sia chiaro. Ma nel processo alle intenzioni
della compagnia, l'11 dicembre la volontà di Potrero varrà come
quella di una giuria popolare.
6 dicembre
Sri Lanka,
escalation senza fine
Sempre più numerose le vittime
civili
L'escalation della guerra civile tra
singalesi e tamil non conosce limiti. Lo Sri Lanka sprofonda ogni
giorno di più in una spirale di attacchi e rappresaglie di cui sono
i civili a farne le spese: solo negli ultimi giorni ne sono morti
oltre quaranta - tra cui undici bambini - vittime di attacchi e
attentati di entrambe le parti. Migliaia di civili fuggono dai
combattimenti e dagli attacchi aerei sempre più intensi nel nord
dell'isola, mentre il governo di Colombo, ignorando gli appelli al
dialogo che giungono anche dagli Usa, annuncia: Bombarderemo fino a
sradicare il terrorismo.
Guerra senza quartiere. Martedì
scorso i jet dell'aeronautica militare hanno bombardato la sede
della stazione radiofonica dei ribelli tamil nel distretto di
Kilinochchi, uccidendo nove civili tra giornalisti e tecnici. Nelle
stesse ore e nella stessa zona, una bomba radiocomandata azionata
dalle forze speciali dell'esercito ha fatto saltare in aria un
pulmino su cui viaggiavano undici bambini tamil: tutti morti,
assieme alla loro maestra e all'autista.
Il giorno dopo, mercoledì, la
rappresaglia: una bomba piazzata dai ribelli esplode in un popolare
negozio di abbigliamento alla periferia della capitale Colombo:
muoiono undici civili singalesi. Nelle stesse ore una tigre nera,
una kamikaze tamil, si è fatta esplodere nel pieno centro della
città, davanti all'ufficio di un ministro.
Immediata la contro-rappresaglia delle
forze governative: tra la serata di mercoledì e quella di giovedì
l'esercito e l'aviazione hanno attaccato su tutti i fronti del nord,
uccidendo almeno ventotto presunti guerriglieri dell'Ltte.
Inutili gli appelli al dialogo.
Nelle scorse settimane il delegato della Croce rossa internazionale
a Colombo, Toon Vandehove, aveva lanciato l'allarme sfollati,
dicendo che l'intensificarsi degli scontri armati e dei
bombardamenti aerei nei distretti settentrionali dell'isola stanno
provocando la fuga di migliaia di persone: negli ultimi tre mesi
almeno 22 mila civili tamil hanno lasciato i villaggi del nord per
cercare rifugio al sud. In aumento, secondo la croce rossa, anche il
numero di sfollati che rimangono nella zona di conflitto: oltre 11
mila nel solo distretto di Mannar.
Negli ultimi giorni, Nazioni Unite,
Unione Europea e Stati Uniti d'America hanno condannato il crescente
numero di civili coinvolti nel conflitto, e gli Usa tramite la loro
ambasciata a Colombo hanno chiesto la ripresa del negoziato:
Chiediamo a tutti i cittadini dello Sri Lanka di lavorare per
l'obiettivo di un'equa soluzione politica del conflitto: la via
d'uscita dall'attuale ciclo di crescente violenza non è quella
militare.
Inequivocabile la risposta del primo
ministro del governo di Colombo, Ratnasiri Wickramanayake:
Continueremo a bombardare fino a quando il terrorismo non sarà
sradicato.
Enrico Piovesana
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