Provengono soprattutto da quattro paesi: Francia,
Belgio, Germania, Gran Bretagna. Il 30 per cento è rientrato a casa, il 20 è
morto sui campi di battaglia, cinque su cento sono minorenni, 17 su cento sono
donne. Ma solo pochissimi si arruolano tra le fila dello Stato islamico per
motivi religiosi. Lo fanno per soldi e per trovare un'identità e un ruolo che
hanno smarrito. La conversione arriva dopo, una volta addestrati e rispediti in
patria per colpire gli occidentali "infedeli". Siamo entrati in possesso del
primo rapporto europeo su un fenomeno che conosciamo poco e male.
L'identikit dei foreign fighters
di DAVID CHIERCHINI e DANIELE MASTROGIACOMO.
Infografiche e elaborazione dati di PAOLA CIPRIANI
L'AJA - In un solo anno, dal settembre 2014 al
settembre 2015, sono diventati 30 mila. Praticamente il doppio di quanti si
contavano fino a quel momento tra le fila del Califfato di Abu Bakr al Bagdadi.
Provengono da 104 paesi. Di questi, circa 4 mila arrivano dall'Europa. Il numero
esatto varia. Dipende da dati contenuti negli archivi elettronici delle diverse
sezioni dell'Europol. Ma una stima più che attendibile oscilla tra 3.922 e
4.294.
La maggioranza, 2.838, è fornita da quattro paesi: Francia, Germania, Gran
Bretagna e Belgio che fornisce il numero più alto rispetto alla sua popolazione.
Il 30 per cento, stando alle verifiche incrociate su più dati, sarebbe rientrato
nei loro paesi d'origine; 14 su cento sarebbero morti sui campi di battaglia.
Sul totale dei combattenti ben il 17 per cento sono donne, un cinque per cento
minorenne. Ma l'elemento che forse sorprende di più e che conferma una costante
già registrata dagli investigatori europei sono le motivazioni alla base
dell'arruolamento tra le fila dello Stato islamico: l'85 per cento lo fa per
ragioni economiche e solo tra il 6 e il 23 per cento di chi parte verso la Siria
e il nord dell'Iraq è mosso da una spinta religiosa.
Ecco chi sono i jihadisti d'Europa
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La mappa. Per la prima volta l'Europa traccia una mappa accurata sui
foreign fighters. Lo fa attraverso una ricerca durata tre anni ed elaborata in
un dossier di oltre 150 pagine dall'International Centre for Counter- Terrorism
de L'Aja. L'Olanda vuole così segnare, su un tema assasi sensibile soprattutto
dopo Parigi e Bruxelles, il turno di presidenza della Eu che svolge nei primi
sei mesi di quest'anno. Le prime notizie sul fenomeno dei foreign fighters
risalgono all’estate del 2012, quando gruppi di combattenti con passaporto
europeo si sono raccolti sotto la bandiera nera dello Stato Islamico per unirsi
alla rivolta armata contro il regime di Bashar al Assad in Siria. Da allora, le
fila di questo esercito internazionale verso i campi di battaglia del Medio
Oriente sono cresciute in modo significativo. Il fenomeno risulta meno presente
in Europa orientale, con nessun paese della regione che conti più di 50 casi.
Reazioni pericolose. "I foreign fighters sono il più grave problema securitario
che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi dieci anni", sostiene Dick Schoof,
coordinatore nazionale dell’anti terrorismo olandese. Diverse agenzie di
sicurezza hanno da tempo messo in guardia le istituzioni sulla potenziale
minaccia dei foreign fighters e dei fenomeni terroristici ad essi collegati, in
primo luogo sulla coesione sociale dei paesi dell’Unione. Attentati perpetrati
da cittadini europei su suolo europeo sono inevitabilmente destinati ad
alimentare un circolo vizioso di radicalizzazione e risposte violente spontanee.
Particolarmente insidiosa è poi la sovrapposizione nella percezione pubblica del
fenomeno migratorio e di quello dei nuovi jihadisti, che spesso utilizzano
proprio le rotte dei migranti per tornare in Europa. L’Europol in questo
contesto ha sottolineato la crescente potenzialità di attrazione che stanno
avendo gruppi di estrema destra come i Patrioti Europei contro l’Islamizzazione
dell’Occidente (Pegida) in Germania, le cui ‘marce’ raccolgono ogni settimana
decine di migliaia di persone a Dresda.
Giovane, maschio, con precedenti penali
di DAVID CHIERCHINI
L'AJA - Pur non essendoci un profilo preciso del
foreign fighter europeo si possono riscontrare alcuni aspetti ricorrenti.
Secondo il rapporto dell’ICCT, la maggior parte sono giovani maschi tra i 18 e i
30 anni, anche se il numero di donne ha visto una forte crescita nell’ultimo
anno, arrivando a contare il 17 % dei casi. Molti provengono dalle aree
metropolitane e dai sobborghi periferici delle grandi città europee, spesso
dalla stessa zona come nel caso di Moleenbek in Belgio, a dimostrazione del
fatto che i foreign fighters utilizzino network già esistenti o che gruppi di
individui si radicalizzino insieme e decidano di partire.
Ragazzi di periferia. "Il fenomeno dei foreign fighters non è nuovo e si
inscrive nella recente evoluzione del terrorismo internazionale", sostiene Brian
Donald, funzionario dell’ Europol, "tuttavia presenta caratteristiche
peculiari". I nuovi combattenti, a differenza dei jihadisti in Afghanistan degli
anni ‘80 e dei loro più recenti predecessori di al Qaeda, non sembrano spinti da
una precisa ideologia politico-religiosa volta alla distruzioni dei regimi
infedeli o dei valori occidentali. La religione, per quanto usata come polo di
attrazione in una prima fase, non è il principale fattore della
radicalizzazione.
Questa nuova generazione presenta un’età media decisamente bassa, è meno educata
ai precetti religiosi e la sua azione si colloca in un contesto più simile a
quello della delinquenza giovanile e delle gang di strada. La stragrande
maggioranza ha precedenti penali per reati di piccola criminalità: furti,
qualche rapinam, spaccio di sostenze stupefacenti. Solo raramente si registrano
sparatoria con armi pesanti. Sono per lo più ragazzi che vivono alla periferia
di una big society europea razzista e islamofoba, senza un futuro e alla
disperata ricerca di una causa da adottare. Questi giovani alienati diventano
suscettibili alle interpretazioni di un islam radicale che rifiuta il concetto
di cultura, di un islam della regola che gli permette di ricostruirsi da sé.
Nelle parole del politologo francese Oliver Roy, non si tratta di una
"radicalizzazione dell’islam ma piuttosto di un’islamizzazione del radicalismo".
Il linguaggio diretto e semplice dello Stato Islamico permette ai suoi seguaci
l’individuazione precisa di un colpevole designato e una giustificazione a
combattere ciò che più odiano, la mancata integrazione, la reale o percepita
marginalizzazione da una società che li ha rigettati.
In questo senso il desiderio di andare a combattere in Siria e in Iraq più che
rispondere a un obbligo religioso sembra una risposta emotiva a un senso di
ingiustizia percepito nel proprio paese. Per molti, unirsi allo Stato Islamico
offre una nuova, eccitante prospettiva di avventura, un’opportunità di rifarsi
una vita e di guadagnarsi lo status di eroe.
Rinuncia alla discriminazione. "Nell’assenza di un profilo definito e del
fallimento di politiche basate su un approccio esclusivamente securitario, il
problema dei foreign fighters riguarda la società tutta", sottolinea Sofia
Zavagli, una delle autrici del rapporto. "E come tale richiede azioni preventive
di tipo comprensivo e multidisciplinare, così come efficaci politiche
d’integrazione che comprendano un lavoro capillare degli enti locali e la
diffusione di messaggi concilianti che non intacchino il tessuto sociale. La
rinuncia totale alla discriminazione in questa fase è forse più importante della
distruzione fisica dello Stato Islamico".
Fonte: La Repubblica
6
aprile
Ci mancava Riina jr... Aveva
ragione donna Franca: la tv è deficiente
Deborah Dirani
Le signore cotonate e un po' agée andrebbero
ascoltate: ché di vita ne hanno vissuta abbastanza da saper riconoscere
l'idiozia, quando la incontrano.
Donna Franca (Ciampi), in tempi meno sospetti di quelli attuali, definì la
televisione, una certa televisione, "deficiente". Fu tutto un levar di scudi e
indignazione, di dibattiti in cui offese prime donne inalberavano bronci da
incomprese e semiologi del piccolo schermo sbertucciavano colei che, fondando il
suo giudizio sul buonsenso e non sulle belle lettere, aveva svelato le nudità
dell'imperatore.
Perché donna Franca aveva ragione sulla deficienza di certa tv e, a guardare i
palinsesti di un paio di talk (già destinati a picchi di audience e conseguente
raccolta pubblicitaria) che ci attendono questa settimana, dovrebbero essere in
tanti a cospargersi il crapino di cenere chiedendole scusa. Scusa per non essere
stati in grado di usare un mezzo tanto potente per diffondere sapere e cultura
(che non devono per forza essere impalcature di noia) ma aver preferito
divulgare ignoranza e pruderie.
Che 'sta settimana non ci attende solo il piccolo Riina che tenta l'improbabile
salto mortale dell'operazione simpatia nei confronti di papà suo (che era tanto
caro mentre se ne stava seduto sul divano a mangiar biscotti guardandosi
l'America's Cup nel 1992 e durante la pubblicità pianificava di far saltare per
aria un'autostrada, un palazzo, un paio di giudici con tutta la scorta)...
No no, ci attende anche il nuovo opinion leader e grande esperto di criminologia
che pare essere diventato - o essere sempre stato - quel grazioso biondino
capace di confondere i lombrosiani di tutto il mondo che è Raffaele Sollecito.
Applausi scroscianti agli autori, ai registi, ai conduttori capaci di elevare il
cinismo a strategia di marketing. Del resto la tv ha le sue leggi e a farle, più
o meno consapevolmente, siamo noi. Noi che la guardiamo, dico. E' il vecchio
principio della domanda e dell'offerta: se rintanati nel divano, sotto il
pannetto e col gatto in testa non ci fossero ogni sera milioni di italiani
pronti a sviluppar teorie di innocenza e colpevolezza basate su un plastico,
Porta a Porta avrebbe già chiuso i battenti (perdonate il facile gioco di
parole) da quel po'. E invece ha appena festeggiato i 20 anni e sulle sue
poltroncine bianche si sono seduti assassini presunti e reali, politici reali
che avremmo preferito presunti, avvocati presunti che ci son toccati reali. Una
fiera dell'umanità che, in qualche caso, fa sospirare nell'attesa dell'asteroide
che ci farà fare la stessa fine dei dinosauri.
Perché francamente se a qualcuno è balzato in testa di far fare un libro sulla
vita segreta di suo padre al figliolo di Riina, di trasformarlo in prestigioso
ospite televisivo e se a qualcun altro è scaturita dal più profondo dell'anima
l'idea di trasformare in criminologo un cittadino il cui nome rimarrà per sempre
legato a quello di un orrendo delitto, il problema è serio ed è di un sacco di
umanità.
E quindi, tornando alla signora Franca, direi che, dato per assunto che la tv è
deficiente, chi la guarda non deve essere molto migliore.
Fonte: L'Huffington Post
L'Aquila, sette anni dal
terremoto: ecco cosa è cambiato - fotoconfronto
Sono 424 i cantieri attivi nel comune dell'Aquila,
263 all'interno delle mura cittadine. Per chi percorre le vie del centro, ancora
disabitato dopo il sisma del 6 aprile 2009, l'impressione è che qualcosa si
muova. Ovunque risuonano i colpi metallici e gli operai popolano i fabbricati
puntellati e messi in sicurezza. Eppure, se ci si addentra nei vicoli, le ferite
dell'Aquila sono ancora lì. E, a distanza di anni, le foto dimostrano che per
gran parte del capoluogo troppo poco è cambiato. Panni stesi fuori dalle
finestre da sette anni a prendere sole, pioggia e neve, frigoriferi semivuoti,
abbandonati nei cortili e pezzi di vita lasciati senza che nessuno si preoccupi
di recuperarli, armadi ancora pieni di vestiti e oggetti di una vita interrotta
dal terremoto delle 03:32. Nei vicoli, tra le impalcature e i portoni aperti dei
palazzi distrutti, ogni tanto si incontra un cittadino che vaga in cerca dei
ricordi.