21 aprile

 

Ecco chi sono i jihadisti d'Europa

Provengono soprattutto da quattro paesi: Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna. Il 30 per cento è rientrato a casa, il 20 è morto sui campi di battaglia, cinque su cento sono minorenni, 17 su cento sono donne. Ma solo pochissimi si arruolano tra le fila dello Stato islamico per motivi religiosi. Lo fanno per soldi e per trovare un'identità e un ruolo che hanno smarrito. La conversione arriva dopo, una volta addestrati e rispediti in patria per colpire gli occidentali "infedeli". Siamo entrati in possesso del primo rapporto europeo su un fenomeno che conosciamo poco e male.

L'identikit dei foreign fighters

di DAVID CHIERCHINI e DANIELE MASTROGIACOMO. Infografiche e elaborazione dati di PAOLA CIPRIANI

L'AJA - In un solo anno, dal settembre 2014 al settembre 2015, sono diventati 30 mila. Praticamente il doppio di quanti si contavano fino a quel momento tra le fila del Califfato di Abu Bakr al Bagdadi. Provengono da 104 paesi. Di questi, circa 4 mila arrivano dall'Europa. Il numero esatto varia. Dipende da dati contenuti negli archivi elettronici delle diverse sezioni dell'Europol. Ma una stima più che attendibile oscilla tra 3.922 e 4.294.

La maggioranza, 2.838, è fornita da quattro paesi: Francia, Germania, Gran Bretagna e Belgio che fornisce il numero più alto rispetto alla sua popolazione. Il 30 per cento, stando alle verifiche incrociate su più dati, sarebbe rientrato nei loro paesi d'origine; 14 su cento sarebbero morti sui campi di battaglia. Sul totale dei combattenti ben il 17 per cento sono donne, un cinque per cento minorenne. Ma l'elemento che forse sorprende di più e che conferma una costante già registrata dagli investigatori europei sono le motivazioni alla base dell'arruolamento tra le fila dello Stato islamico: l'85 per cento lo fa per ragioni economiche e solo tra il 6 e il 23 per cento di chi parte verso la Siria e il nord dell'Iraq è mosso da una spinta religiosa.
Ecco chi sono i jihadisti d'Europa
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La mappa. Per la prima volta l'Europa traccia una mappa accurata sui foreign fighters. Lo fa attraverso una ricerca durata tre anni ed elaborata in un dossier di oltre 150 pagine dall'International Centre for Counter- Terrorism de L'Aja. L'Olanda vuole così segnare, su un tema assasi sensibile soprattutto dopo Parigi e Bruxelles, il turno di presidenza della Eu che svolge nei primi sei mesi di quest'anno. Le prime notizie sul fenomeno dei foreign fighters risalgono all’estate del 2012, quando gruppi di combattenti con passaporto europeo si sono raccolti sotto la bandiera nera dello Stato Islamico per unirsi alla rivolta armata contro il regime di Bashar al Assad in Siria. Da allora, le fila di questo esercito internazionale verso i campi di battaglia del Medio Oriente sono cresciute in modo significativo. Il fenomeno risulta meno presente in Europa orientale, con nessun paese della regione che conti più di 50 casi.
Reazioni pericolose. "I foreign fighters sono il più grave problema securitario che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi dieci anni", sostiene Dick Schoof, coordinatore nazionale dell’anti terrorismo olandese. Diverse agenzie di sicurezza hanno da tempo messo in guardia le istituzioni sulla potenziale minaccia dei foreign fighters e dei fenomeni terroristici ad essi collegati, in primo luogo sulla coesione sociale dei paesi dell’Unione. Attentati perpetrati da cittadini europei su suolo europeo sono inevitabilmente destinati ad alimentare un circolo vizioso di radicalizzazione e risposte violente spontanee. Particolarmente insidiosa è poi la sovrapposizione nella percezione pubblica del fenomeno migratorio e di quello dei nuovi jihadisti, che spesso utilizzano proprio le rotte dei migranti per tornare in Europa. L’Europol in questo contesto ha sottolineato la crescente potenzialità di attrazione che stanno avendo gruppi di estrema destra come i Patrioti Europei contro l’Islamizzazione dell’Occidente (Pegida) in Germania, le cui ‘marce’ raccolgono ogni settimana decine di migliaia di persone a Dresda.

Giovane, maschio, con precedenti penali

di DAVID CHIERCHINI

L'AJA - Pur non essendoci un profilo preciso del foreign fighter europeo si possono riscontrare alcuni aspetti ricorrenti. Secondo il rapporto dell’ICCT, la maggior parte sono giovani maschi tra i 18 e i 30 anni, anche se il numero di donne ha visto una forte crescita nell’ultimo anno, arrivando a contare il 17 % dei casi. Molti provengono dalle aree metropolitane e dai sobborghi periferici delle grandi città europee, spesso dalla stessa zona come nel caso di Moleenbek in Belgio, a dimostrazione del fatto che i foreign fighters utilizzino network già esistenti o che gruppi di individui si radicalizzino insieme e decidano di partire.

Ragazzi di periferia. "Il fenomeno dei foreign fighters non è nuovo e si inscrive nella recente evoluzione del terrorismo internazionale", sostiene Brian Donald, funzionario dell’ Europol, "tuttavia presenta caratteristiche peculiari". I nuovi combattenti, a differenza dei jihadisti in Afghanistan degli anni ‘80 e dei loro più recenti predecessori di al Qaeda, non sembrano spinti da una precisa ideologia politico-religiosa volta alla distruzioni dei regimi infedeli o dei valori occidentali. La religione, per quanto usata come polo di attrazione in una prima fase, non è il principale fattore della radicalizzazione.

Questa nuova generazione presenta un’età media decisamente bassa, è meno educata ai precetti religiosi e la sua azione si colloca in un contesto più simile a quello della delinquenza giovanile e delle gang di strada. La stragrande maggioranza ha precedenti penali per reati di piccola criminalità: furti, qualche rapinam, spaccio di sostenze stupefacenti. Solo raramente si registrano sparatoria con armi pesanti. Sono per lo più ragazzi che vivono alla periferia di una big society europea razzista e islamofoba, senza un futuro e alla disperata ricerca di una causa da adottare. Questi giovani alienati diventano suscettibili alle interpretazioni di un islam radicale che rifiuta il concetto di cultura, di un islam della regola che gli permette di ricostruirsi da sé. Nelle parole del politologo francese Oliver Roy, non si tratta di una "radicalizzazione dell’islam ma piuttosto di un’islamizzazione del radicalismo". Il linguaggio diretto e semplice dello Stato Islamico permette ai suoi seguaci l’individuazione precisa di un colpevole designato e una giustificazione a combattere ciò che più odiano, la mancata integrazione, la reale o percepita marginalizzazione da una società che li ha rigettati.

In questo senso il desiderio di andare a combattere in Siria e in Iraq più che rispondere a un obbligo religioso sembra una risposta emotiva a un senso di ingiustizia percepito nel proprio paese. Per molti, unirsi allo Stato Islamico offre una nuova, eccitante prospettiva di avventura, un’opportunità di rifarsi una vita e di guadagnarsi lo status di eroe.

Rinuncia alla discriminazione. "Nell’assenza di un profilo definito e del fallimento di politiche basate su un approccio esclusivamente securitario, il problema dei foreign fighters riguarda la società tutta", sottolinea Sofia Zavagli, una delle autrici del rapporto. "E come tale richiede azioni preventive di tipo comprensivo e multidisciplinare, così come efficaci politiche d’integrazione che comprendano un lavoro capillare degli enti locali e la diffusione di messaggi concilianti che non intacchino il tessuto sociale. La rinuncia totale alla discriminazione in questa fase è forse più importante della distruzione fisica dello Stato Islamico".

Fonte: La Repubblica

 

6 aprile

 

Ci mancava Riina jr... Aveva ragione donna Franca: la tv è deficiente

Deborah Dirani

Le signore cotonate e un po' agée andrebbero ascoltate: ché di vita ne hanno vissuta abbastanza da saper riconoscere l'idiozia, quando la incontrano.

Donna Franca (Ciampi), in tempi meno sospetti di quelli attuali, definì la televisione, una certa televisione, "deficiente". Fu tutto un levar di scudi e indignazione, di dibattiti in cui offese prime donne inalberavano bronci da incomprese e semiologi del piccolo schermo sbertucciavano colei che, fondando il suo giudizio sul buonsenso e non sulle belle lettere, aveva svelato le nudità dell'imperatore.

Perché donna Franca aveva ragione sulla deficienza di certa tv e, a guardare i palinsesti di un paio di talk (già destinati a picchi di audience e conseguente raccolta pubblicitaria) che ci attendono questa settimana, dovrebbero essere in tanti a cospargersi il crapino di cenere chiedendole scusa. Scusa per non essere stati in grado di usare un mezzo tanto potente per diffondere sapere e cultura (che non devono per forza essere impalcature di noia) ma aver preferito divulgare ignoranza e pruderie.

Che 'sta settimana non ci attende solo il piccolo Riina che tenta l'improbabile salto mortale dell'operazione simpatia nei confronti di papà suo (che era tanto caro mentre se ne stava seduto sul divano a mangiar biscotti guardandosi l'America's Cup nel 1992 e durante la pubblicità pianificava di far saltare per aria un'autostrada, un palazzo, un paio di giudici con tutta la scorta)...

No no, ci attende anche il nuovo opinion leader e grande esperto di criminologia che pare essere diventato - o essere sempre stato - quel grazioso biondino capace di confondere i lombrosiani di tutto il mondo che è Raffaele Sollecito. Applausi scroscianti agli autori, ai registi, ai conduttori capaci di elevare il cinismo a strategia di marketing. Del resto la tv ha le sue leggi e a farle, più o meno consapevolmente, siamo noi. Noi che la guardiamo, dico. E' il vecchio principio della domanda e dell'offerta: se rintanati nel divano, sotto il pannetto e col gatto in testa non ci fossero ogni sera milioni di italiani pronti a sviluppar teorie di innocenza e colpevolezza basate su un plastico, Porta a Porta avrebbe già chiuso i battenti (perdonate il facile gioco di parole) da quel po'. E invece ha appena festeggiato i 20 anni e sulle sue poltroncine bianche si sono seduti assassini presunti e reali, politici reali che avremmo preferito presunti, avvocati presunti che ci son toccati reali. Una fiera dell'umanità che, in qualche caso, fa sospirare nell'attesa dell'asteroide che ci farà fare la stessa fine dei dinosauri.

Perché francamente se a qualcuno è balzato in testa di far fare un libro sulla vita segreta di suo padre al figliolo di Riina, di trasformarlo in prestigioso ospite televisivo e se a qualcun altro è scaturita dal più profondo dell'anima l'idea di trasformare in criminologo un cittadino il cui nome rimarrà per sempre legato a quello di un orrendo delitto, il problema è serio ed è di un sacco di umanità.

E quindi, tornando alla signora Franca, direi che, dato per assunto che la tv è deficiente, chi la guarda non deve essere molto migliore.

Fonte: L'Huffington Post

 

L'Aquila, sette anni dal terremoto: ecco cosa è cambiato - fotoconfronto

Sono 424 i cantieri attivi nel comune dell'Aquila, 263 all'interno delle mura cittadine. Per chi percorre le vie del centro, ancora disabitato dopo il sisma del 6 aprile 2009, l'impressione è che qualcosa si muova. Ovunque risuonano i colpi metallici e gli operai popolano i fabbricati puntellati e messi in sicurezza. Eppure, se ci si addentra nei vicoli, le ferite dell'Aquila sono ancora lì. E, a distanza di anni, le foto dimostrano che per gran parte del capoluogo troppo poco è cambiato. Panni stesi fuori dalle finestre da sette anni a prendere sole, pioggia e neve, frigoriferi semivuoti, abbandonati nei cortili e pezzi di vita lasciati senza che nessuno si preoccupi di recuperarli, armadi ancora pieni di vestiti e oggetti di una vita interrotta dal terremoto delle 03:32. Nei vicoli, tra le impalcature e i portoni aperti dei palazzi distrutti, ogni tanto si incontra un cittadino che vaga in cerca dei ricordi.

Fonte: La Repubblica

 

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