Il colonnello dei Ris Davide Zavattaro, a cui
sono stati affidati i supplementi d’indagine disposte dal pm Boni pochi mesi fa
riaprendo il caso, commenta: “La caduta non può essere avvenuta così come
descritta negli atti…”
Davide Vecchi per “Ilfattoquotidiano.it”
Gli sguardi sconsolati dei vigili del fuoco
lasciano trasparire la sensazione d’inadeguatezza. Perché loro ci provano a fare
ciò che gli è stato chiesto, ma quel che gli è stato chiesto sembra impossibile
da fare: simulare la caduta nel vuoto di David Rossi, il manager del Monte dei
Paschi trovato morto la sera del 6 marzo 2013 in vicolo Monte Pio, una stradina
privata sotto la finestra del suo ufficio. E infatti, dopo tre ore di tentativi
rinunciano a effettuare la simulazione.
Dall’impossibile
poi si passa all’inutile: gli fanno repertare tracce di residui lungo la parete
esterna e nel perimetro in cui è stato rinvenuto il cadavere. Lo fanno a
distanza di 39 mesi. Mesi di pioggia, neve, persone, auto. Le indagini, riaperte
a distanza di tre anni, chiedono di individuare pure tracce di Dna.
I rilievi vengono effettuati anche all’interno dell’ufficio di Rossi, nel
frattempo trasformato in sala riunioni. Trovare indizi seppur minimi è pura
utopia. Eppure questi rilievi, che dovevano essere svolti subito, non sono mai
stati effettuati. E le falle delle indagini iniziali, svolte dai magistrati
Marini e Natalini, ieri si sono rilevate ancora più evidenti. Già dalla
ricostruzione della caduta ufficializzata negli atti.
Lo dice lo stesso colonnello dei Ris, Davide Zavattaro, a cui sono stati
affidati i supplementi d’indagine disposte dal pm Boni pochi mesi fa riaprendo
il caso. “La caduta non può essere avvenuta così come descritta negli atti”, si
lascia scappare Zavattaro al termine del sopralluogo.
Dopo sei ore di tentativi, per ricostruire la dinamica, gli stessi inquirenti
rimettono in dubbio l’intera ricostruzione iniziale fino a spingersi a
ipotizzare che il volo da Rocca Salimbeni il manager l’abbia fatto non dalla
finestra del suo ufficio ma da quello del piano di sopra. E cioè dall’ufficio
che all’epoca era occupato da Fabrizio Viola, amministratore delegato di Mps.
I tecnici cercheranno di calcolare la velocità di caduta del corpo studiando il
video registrato dalle telecamere di sorveglianza sul vicolo: 7 frame al
secondo. Ma per farlo servirebbe la bobina originale sequestrata il mattino dopo
la morte in versione digitale ARV mentre quelle consegnate dai magistrati alle
parti sono in AVI, un formato accelerato. Bobina che è repertata agli atti ma
che sembra sparita dalla procura. E senza la registrazione originale sarà
impossibile calcolare la velocità di caduta del corpo e, quindi, impossibile
stabilire da quale altezza è caduto e da quale finestra.
I periti nominati dalla procura hanno tentato di certificare la versione della
prima indagine che aveva archiviato il caso come suicidio scrivendo che Rossi si
era gettato dalla finestra del suo ufficio di spalle. Ebbene, un vigile del
fuoco ha tentato di imitare la dinamica aggrappandosi al davanzale col volto
rivolto alla parete: se si fosse lasciato andare il corpo avrebbe sbattuto
contro il muro e non sarebbe rovinato in mezzo alla via.
Poi i dubbi, sempre più numerosi, sulle ferite riportate dal corpo: sotto le
ascelle e sulle braccia di Rossi l’autopsia ha accertato ematomi. Secondo i
periti di parte dei familiari erano frutto di “costrizioni” e “afferramento” da
parte di terzi. Secondo i pm Marini e Natalini, invece, erano stati causati dal
davanzale al quale Rossi si sarebbe aggrappato prima di lanciarsi nel vuoto. Il
vigile del fuoco ieri ha accertato che nulla poteva lesionare gli arti al
manager.
Luca Goracci, avvocato della vedova Rossi, ha assistito all’intera giornata di
operazioni insieme anche ai periti di parte tra cui l’ingegnere Luca Scarselli.
“Soddisfatti? Abbiamo avuto conferma alle nostre ipotesi”. Scarselli, invece, è
preoccupato: “Il video è fondamentale e non si trova”.
Nessuno tra amici e parenti di Rossi lo conferma ufficialmente, ma a voler
arrivare alla verità sulla scomparsa di David sono in molti. Come Giuseppe
Mussari che si informa con frequenza sulla scomparsa dell’amico e fidato
collaboratore.
Mafia nigeriana in ascesa
Oltre ai capi ci sono le “maman” che ricorrono
al voodoo per terrorizzare le ragazze, gli adepti di sette pseudo-religiose
mimetizzati nella comunità, i boys che fanno da galoppini, i ragazzi mandati
davanti ai supermercati ad elemosinare. Un vero e proprio impero criminale
fondato sulla schiavitù...
Roberto Brunelli per “il Venerdì - la Repubblica”
Le ragazze arrivano dalla Nigeria senza nemmeno
sapere dove sia l’Italia. Quando dicono di aver diciott’anni quasi sempre
significa che non superano i diciassette. Molte non sanno né leggere né
scrivere. Le portano qui promettendo un lavoro da parrucchiera, soldi, un
futuro. Invece il loro destino, una volta sbarcate nel nostro Paese, è la
prostituzione.Un inferno di violenze, minacce, e sfruttamento.
Solo nel 2015 sono state in cinquemila ad esser state trascinate qui, magari dai
sobborghi di Benin City, oppure dalle campagne di Ihobge: prima, erano al
massimo due-trecento l’anno. Il fatto è che la criminalità nigeriana è cresciuta
esponenzialmente negli ultimi due anni. Una specie di boom e al tempo stesso una
nebulosa, che le forze dell’ordine e gli operatori sociali ancora non hanno
ancora capito bene come fronteggiare.
Eppure si tratta di mafia vera e propria: non solo bande sparpagliate sul
territorio, ma una grande organizzazione internazionale - dai contorni
paragonabili a quelli della ‘ndrangheta - che minaccia, sfrutta, uccide. I capi
stanno al sicuro ad Abuja o a Benin City, la manovalanza lavora in Italia: le
maman che ricorrono al voodoo per terrorizzare le ragazze, gli adepti di sette
pseudo-religiose mimetizzati nella comunità, i boys che fanno da galoppini, i
ragazzi mandati davanti ai supermercati ad elemosinare. Un vero e proprio impero
criminale fondato sulla schiavitù.
Il sociologo Francesco Carchedi, docente alla Sapienza, ha condotto centinaia di
interviste, ricerche sul campo, è stato numerose volte in Nigeria, ripercorrendo
a ritroso le vie degli aguzzini e delle loro vittime. È considerato uno dei
massimi esperti europei nel campo della tratta di esseri umani. Il quadro che
delinea è sconcertante: «Si calcola che le donne nigeriane che esercitano la
prostituzione in Italia sono oggi tra le 14 mila e le 18 mila. Da questo
traffico nasce un giro d’affari enorme, che oscilla tra i 1,3 miliardi e i 1,7
miliardi di euro. Cifre che vengono a loro volta reinvestite nel commercio di
stupefacenti ma anche nel traffico d’armi, con introiti stellari».
E non è certo una realtà che riguardi solo il nostro Paese. Un esempio: un
quarto delle droghe che arrivano negli Usa transita per la Nigeria. Al cuore di
tutto questo, la prostituzione. Spiega il professore: «Il flusso delle ragazze è
praticamente ininterrotto. Da qui passano in Francia, Spagna, ma anche Romania,
Germania e Inghilterra».
«Una struttura a stella cometa», così Carchedi definisce l’organizzazione. Al
suo centro c’è una figura femminile dall’aura quasi mistica: la maman. Donna di
fortissima autorità, reclutatrice, sfruttatrice, «sorella maggiore», cassiera,
la maman ha alle proprie dipendenze dei boys, guardie del corpo e assistenti
tuttofare.
Nella fascia più bassa di questa piramide ci sono le giovani mandate a vendersi
- anche nei pressi dei centri d’accoglienza per richiedenti asilo, da cui escono
e rientrano dopo essersi prostituite – e poi uomini e donne utilizzati per lo
spaccio e i maschi sfruttati per lavoro e accattonaggio. Il tutto controllato
dai boss che stanno in Nigeria. A rendere il quadro ancora più inquietante sono
i «cultisti», ossia adepti di alcune sette di ispirazione cristiano-evangeliche
e animiste.
Mimetizzati fra i fedeli, non si espongono, non si fanno notare. Ma le vittime
li conoscono bene: terrorizzano chi non sta ai patti, proteggono gli affari,
recuperano crediti. Non solo: nel loro modus operandi ci sono anche rapine,
mutilazioni, omicidi rituali. In Nigeria e in Italia. Il quadro è quello di
un’organizzazione ramificata su più livelli. «Queste mafie sono parte integrante
di segmenti del potere politico nigeriano basati sulla corruzione.
Le risorse accumulate qui vengono trasferite in patria, dove la forza economica
e politico-sociale dell’organizzazione si decuplica», spiega il sociologo. Una
realtà duttile, capace di insinuarsi anche tra le pieghe delle leggi italiane.
Ancora Carchedi: «Le bande nigeriane nel tempo hanno raffinato le loro
strategie: per esempio, le ragazze al loro arrivo sono indotte a dichiararsi
rifugiate politiche o profughe».
Un modo per renderle meno «vulnerabili» rispetto alle autorità. «Nel chiedere
asilo queste donne esercitano un sacrosanto diritto. Il problema è che la
criminalità coglie tutte le opportunità, anche quello di piegare questo diritto
ai propri interessi». E le prime vittime sono, ancora una volta, le ragazze.
Soprattutto le ragazze. Il racconto di M.M, 17 anni, uno tra i tanti: «Vivevo a
Benin City. Mi raccontarono che l’Italia era bella e che si guadagnava molto e
si poteva avere successo nel mondo della televisione, anche come parrucchiera
delle attrici. Poi mi parlarono di un giuramento davanti agli spiriti degli
antenati. Era un rito voodoo. Non mi faceva paura, perché è la religione dei
miei genitori. Giurai di pagare quanto mi veniva prestato: 40 mila euro. Non
sapevo neanche cosa significasse quella cifra». Un patto d’obbedienza che costa
caro. Invece di un lavoro da parrucchiera, lei e le altre hanno trovato
l’inferno, a Caserta come a Torino, Como, Roma, Mestre. Ragazze senza diritti e
senza futuro.
24
giugno
Bonus 80 euro, “ho
rinunciato ad averlo per non restituire tutto. Ecco chi paga le leggi fatte con
i piedi” – Le storie
Per una lavoratrice saltuaria come Stefania,
ridare la somma in una botta sola non è stata una passeggiata. Così l'anno dopo
ha deciso di farne a meno. Anche imprese, sindacati, commercialisti suggeriscono
questa operazione ai lavoratori dal reddito incerto. Al massimo, se poi risulta
che avevano davvero diritto al beneficio, lo riceveranno in un'unica soluzione a
fine anno
di Stefano De Agostini
“Ho un lavoro part-time di 20 ore settimanali e
nell’anno 2014 ho percepito il bonus. Alla fine dell’anno con il conguaglio me
li hanno ripresi, perché il mio Cud diceva che avevo guadagnato meno di 8mila
euro. All’inizio dell anno 2015 ho rinunciato al tuttofirmando un modulo e devo
dire che è andata meglio”. Per una lavoratrice saltuaria come Stefania, la
restituzione del bonus da 80 euro in una botta sola non è una passeggiata. Come
lei, altri 1,4 milioni di italiani nel 2015 sono stati costretti a ridare la
somma allo Stato. E come lei, in tanti avevano un reddito basso: in 341mila
hanno guadagnato meno di 7.500 euro (leggi le storie). E così, c’è chi l’anno
dopo ha deciso di fare a meno del bonus. E anche leimprese, i sindacati, i
commercialisti suggeriscono a chi è nell’incertezza di rinunciare al beneficio,
in modo da scongiurare brutte sorprese. Al massimo, se risulterà che i
lavoratori avevano davvero diritto al beneficio, lo riceveranno in un’unica
soluzione a fine anno.
Così è accaduto a Stefania: dopo avere rinunciato al bonus, ha scoperto che in
realtà rientrava nei parametri e così l’ha percepito tutto in una volta. “Alla
fine dell’anno 2015 – aggiunge la signora – il mio Cudriportava un reddito
superiore a 8mila perché ho fatto un po’ di straordinari durante l’anno. Ho
fatto la denuncia dei redditi e mi hanno detto che posso chiedere il rimborso.
In realtà dovrò riprendere mille euro circa, non male“. Al bonus, infatti, ha
diritto chi ha un reddito compreso tra gli 8mila e i 26mila euro. Ma gli 80 euro
arrivano di mese in mese, mentre il reddito si conosce solo a fine anno. E così,
diventa difficile prevedere se si sta dentro o meno i paletti. Inevitabile
conseguenza: una gran confusione. C’è chi non l’ha percepito e l’ha ricevuto
tutto con la dichiarazione dei redditi (1,6 milioni di italiani) e chi l’ha
percepito e poi ha dovuto restituirlo tutto in una volta (1,4 milioni di
persone).
“L’anno scorso molti colleghi hanno avuto una pessima sorpresa a Natale: lo
stipendio falcidiato dalla restituzione del bonus da 80 euro. Quest’anno hanno
deciso di rinunciare. Se poi ne avranno diritto, lo riceveranno a fine anno.
Come era logico che fosse fin dall’inizio”. Gianni Cargnelutti lavora in
un’azienda della provincia di Reggio Emilia che si occupa di componentistica per
macchine operatrici. Fino a pochi mesi fa, era delegato sindacale Cobas e ha
seguito da vicino le disavventure degli operai della ditta. “A fine 2015 abbiamo
scoperto che una parte degli operai, pur avendo ricevuto il bonus per tutto
l’anno, dovevano restituirlo perché hanno superato il limite dei 26mila euro –
spiega Cargnelutti – In qualità di sostituto di imposta, a dicembre l’azienda
avrebbe dovuto scalare dalla busta paga il bonus da restituire. Ma avrebbe fatto
passare un pessimo Natale ai dipendenti, alla faccia del contributo alla ripresa
dei consumi. Ecco chi paga le leggi fatte con i piedi nella fretta di incassare
voti e potere”. Ma le cose sono andate diversamente: “Per fortuna, in accordo
con i sindacati, la società ha deciso di rateizzare la restituzione in tre
mesi”. E così, scampata la stangata nel 2015, per l’anno successivo l’impresa e
le rappresentanze dei lavoratori hanno deciso di mettere le mani avanti.
“Azienda e sindacati hanno preparato un modulo – racconta l’ex delegato – Ora i
lavoratori possono rinunciare al bonus e, nel caso, riprenderlo a fine anno”.
E non solo aziende e sindacati suggeriscono ai lavoratori dal reddito incerto di
congelare gli 80 euro. “Nei casi di incertezza, abbiamo consigliato ai
dipendenti di rinunciare al bonus – spiega Roberto Bordin, commercialista con
studio a Roma – Tanto poi a fine anno, nel caso il lavoratore ne abbia diritto,
lo recupera in un’unica soluzione. Noi abbiamo predisposto un documento con il
quale il lavoratore può chiedere all’impresa di rinunciare al bonus”. Anche
perché la restituzione rischia di complicare non poco la vita ai dipendenti:
“Già lo stipendio di dicembre è falcidiato dal conguaglio fiscale, perché le
tasse penalizzano maggiormente la retribuzione. Se poi si aggiungono anche 900
euro di restituzione del bonus, l’impatto diventa pesante per il lavoratore”.
Cibi scaduti, ricongelati e
nocivi: in Italia una mensa scolastica su 4 ha problemi
Qualità degli alimenti, costruzione del menù e
assegnazione del servizio attraverso le gare d'appalto: Nas e ministero della
Sanità presentano i risultati delle ispezioni svolte dai carabinieri tra 2015 e
2016. Su 2.678 controlli, 670 situazioni non conformi
di MICHELE BOCCI
UNA mensa scolastica su quattro in Italia ha
problemi, di qualità del cibo, di costruzione del menù, di assegnazione del
servizio attraverso le gare d'appalto. Oggi i Nas e il ministro alla
Sanità,Beatrice Lorenzin, hanno presentato i risultati delle ispezioni svolte
dai carabinieri tra il 2015 e il 2016. Ebbene, su 2.678 controlli sono state
trovate 670 situazioni non conformi. Le strutture chiuse sono state 37 (1,4%),
101 le persone segnalate all'autorità giudiziaria e 487 all'autorità
amministrativa. Alla fine i carabinieri hanno sequestrato 4.264 chili di
alimenti. Chiusure e sequestri valgono 13 milioni di euro. Queste le violazioni
penali contestate: frode in pubbliche forniture (58 casi), commercio alimenti
nocivi (23), inadempienza in pubbliche forniture (15), alimenti in cattivo stato
di conservazione (10), omissione e abuso d'ufficio (10), esercizio abusivo
docenza scuola dell'infanzia (6). Dal punto di vista amministrativo sono state
trovate soprattutto carenze igienico strutturali e mancate attuazioni del piano
di autocontrollo (695 casi).
Sono stati fatti poi alcuni esempi dei risultati delle ispezioni. A Milano, in
un centro cottura di una scuola elementare, sono stati sequestrati 36.500
articoli utilizzati per il servizio di ristorazione scolastica (tra cui piatti
fondi) contenenti un additivo non consentito (fluororato). Ad Ancona sono stari
trovati prodotti con caratteristiche diverse rispetto al capitolato d’appalto
(congelati anziché freschi). Sequestrati 3.700 chili di carne privi di
indicazioni per la rintracciabilità. "Il titolare - dicono i Nas - si
approvvigionava di alimenti prossimi alla scadenza e, dopo averli riconfezionati,
rietichettati con una nuova data di scadenza, indebitamente, li sottoponeva a
procedura di congelamento per fornirli successivamente alle mense
come freschi". A Napoli dopo una apparente infezione alimentare presa da alcuni
alunni di un istituto comprensivo, è stato denunciato l’amministratore di una
ditta appaltatrice del servizio di refezione scolastica, per aver somministrato
alimenti in stato di alterazione e nocivi.
9
giugno
L'agricoltura nella tempesta perfetta
Deflazione che comprime i prezzi,
cambiamenti climatici sempre più estremi, una burocrazia feroce e il colpo di
grazia con l'embargo russo: per chi lavora la terra è un momento difficilissimo.
Dal latte alle arance siciliane, spesso i prodotti dei campi sono venduti
sottocosto con il risultato che in 15 anni sono fallite oltre 300mila imprese. A
salvarsi è solo chi riesce a saltare la filiera distributiva, ma non tutti se lo
possono permettere
di ANTONIO FRASCHILLA, VALERIO
GUALERZI e JENNER MELETTI
Un caffè vale 11 uova, il
paradosso dei prezzi
di JENNER MELETTI
ROMA - Bisognerebbe tornare al
baratto per capire l'economia "reale". Il contadino italiano, per avere un caffè
da 1 euro, dovrebbe andare al bar mettendo sul bancone 11 uova, oppure un chilo
di carne di toro o di maiale, 6 chili di frumento tenero o di mais, quasi 3
chili di riso o 2 di mele. Se produce arance, in cambio della tazzina, ne deve
consegnare 6 chili. Gli va meglio con le patate o con i pomodori di serra: ne
bastano 2 chili. L’allevatore di vacche deve portare almeno 3 litri di latte e
magari il barista gli chiede 10 o 20 centesimi in più in cambio della "macchia".
Non è in incubo e nemmeno uno scherzo: questi sono attualmente i prezzi veri
dell’agricoltura italiana, ovviamente all'ingrosso, che entrano nei bilanci
delle aziende agricole rischiando di farle crollare. Deflazione è purtroppo una
parola ora conosciuta anche nelle campagne: secondo l'indice alimentare della
Fao i prezzi all’inizio del 2016 sono scesi al livello di sette anni addietro
Scarse differenze. Fra l'Italia, l'Europa ed il resto del mondo non ci sono
molte differenze. La Fao registra in particolare i prezzi dei cereali, della
carne, dei prodotti lattiero caseari, degli oli vegetali e dello zucchero.
L'ultimo rilevamento – gennaio 2016 contro dicembre 2015 – ha accertato una
diminuzione dei prezzi pari all’1,9%, riportando così il listino ai livelli del
2009. Calo dello zucchero del 4,9% (per la maggior produzione del Brasile), calo
del 3,0% per i lattiero caseari, calo dell’1,7% per i cereali, stessa
percentuale per gli oli vegetali. Per la carne i prezzi diminuiscono dell’1,1%
(lieve aumento solo per la carne di maiale).Esiste un preicolo crack per i
coltivatori italiani? "C’è un rischio consistente – risponde Lorenzo Bazzana,
responsabile economico della Coldiretti nazionale – di abbandono delle attività,
soprattutto in settori che richiedono fortissimi investimenti".
"Lavoriamo in perdita", il
grido d'allarme degli agricoltori italiani
L'esempio del latte. "Facciamo
l'esempio del latte - continua Bazzana - Il prezzo è fermo o in diminuzione
ormai da anni. Il latte spot – quello che non è sotto contratto ma viene messo
sul mercato per la trasformazione – nel 2000 veniva pagato 33,83 centesimi al
litro. Nel 2008 è salito a 50,62 e in questi giorni è pagato 23,46. Il latte
alla stalla – con contratto e raccolta – oggi viene pagato 37,29 centesimi. Per
questo latte nel 2008 l’allevatore incassava 43,29. Basterebbero questi numeri
per comprendere la gravità della crisi. Ma c’è di più. In questi anni i
coltivatori hanno dovuto fare investimenti giusti ma anche pesanti per il
benessere animale, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente. Nelle
stalle le sale di mungitura sono piastrellate, negli allevamenti di polli gli
animali sono a terra o nelle gabbie più spaziose. In agricoltura sono stati
eliminati 500 principi attivi ritenuti dannosi ed al loro posto ci sono prodotti
più ecologici ma più costosi. Tutto questo mentre i prezzi di vendita continuano
a diminuire. Sarà difficile andare avanti. Dalla fine delle quote latte sono già
state chiuse 1500 stalle. Senza interventi seri - stabilendo ad esempio che il
prezzo della vendita non deve essere inferiore al costo di produzione - le
stalle vuote (basta un giorno per chiuderle, servono anni per trovare i milioni
necessari per riaprirle) saranno solo l'inizio di un ulteriore abbandono
dell’agricoltura".
Non è solo una questione di soldi. "Se non sei più in grado di produrre alimenti
sani perché non ti pagano il prezzo giusto, il cibo arriverà – anzi, sta
arrivando - da altri paesi che hanno regole e controlli più leggeri o comunque
diversi dai nostri. Così la sicurezza viene messa in discussione. Il mercato
alimentare è come quello della benzina: il petrolio va su e soprattutto giù ed i
prezzi alla pompa restano fermi. Così è per il latte, la pasta, il pane e quasi
tutto il resto. Crollano i prezzi in campagna ma il consumatore non se ne
accorge. Se invece, di fronte al crollo del latte, si abbassassero anche i
prezzi del formaggio, il consumo salirebbe e aiuterebbe la ripresa".
Un’illusione, almeno per ora. Con il latte a 37,29 – il migliore – un mezzo
litro di microfiltrato oggi costa 1 euro. Paghi soprattutto la lavorazione, il
packaging, il trasporto, la pubblicità e tutto il resto. E così in tasca
all’allevatore, dell’euro pagato per mezzo litro microfiltrato, arrivano poco
meno di 19 centesimi.
Crisi agricoltura,
l'autocritica di un vinificatore: "Abbiamo innovato poco"
Pochi centesimi decidono. Nella
guerra commerciale spesso sono proprio pochi centesimi a decidere il successo o
il fallimento. Si risparmia su tutto. In tante pubblicità si cita la mitica
nonna con i suoi biscotti, le torte, dolci vari. La "nonna" però usava il burro,
mentre adesso vanno alla grande l'olio di palma e la margarina. Tutto spiegato
dai prezzi. Il burro in questi giorni sul mercato europeo costa 2823 euro la
tonnellata, la margarina 980 euro e l'olio di palma scende a 751. Se vuoi
battere la concorrenza, non hai scelta. "Noi della Coldiretti – dice Lorenzo
Bazzana – crediamo che solo fissando un prezzo non inferiore al costo di
produzione si possano salvare le aziende contadine e risalire la china. Se
invece si va avanti così, si rischia forte. Se costruisci un’automobile puoi
cercare di risparmiare sugli optional. Ma non puoi usare materiali scadenti
nelle gomme o nei freni. Altrimenti vai a sbattere".
Il peso di burocrazia, cemento
e sanzioni
di JENNER MELETTI
BOLOGNA - Dal 2000 ad oggi –
questa la denuncia di Confagricoltura, Cia eCopagri – in Italia sono state
chiuse oltre 310mila imprese agricole. Per dire basta sono scesi in piazza, nei
giorni scorsi, migliaia di contadini e allevatori. Antonio Dosi è il presidente
della Cia, Agricoltori italiani, dell’Emilia Romagna ed è vice presidente
nazionale della stessa associazione.
È possibile fermare questa emorragia?
"Il numero è enorme ma può salire ancora vertiginosamente se non si mette mano
ai tanti problemi 'in campo': i ritardi nei pagamenti comunitari, la burocrazia
asfissiante, i prezzi all’origine in caduta libera e le vendite sottocosto, le
incognite dell'embargo russo, gli investimenti bloccati, la difesa del “Made in
Italy”, la cementificazione del suolo, l’abbandono delle aree rurali, i danni da
fauna selvatica. Sono ancora troppi i problemi non risolti: dalla burocrazia ai
prezzi sul campo, che schiacciano inesorabilmente il reddito, impedendo
innovazione e sviluppo. Basti pensare che solo la macchina amministrativa - tra
ritardi, lungaggini, disservizi e inefficienze - sottrae all’agricoltura 4
miliardi di euro. Ogni azienda è costretta a produrre ogni anno 4 chilometri di
materiale cartaceo per rispondere agli obblighi burocratici, 'bruciando' oltre
100 giornate di lavoro. Per non parlare del crollo vertiginoso dei prezzi alla
produzione e della forbice esorbitante nella filiera tra i listini all’origine e
quelli al consumo".
Quanto resta, rispetto al prezzo pagato dal consumatore, nella tasche di chi
produce?
"In media per ogni euro speso dal consumatore finale, solo 15 centesimi vanno
nelle tasche del contadino. Solo per fare alcuni esempi le arance sono pagate
agli agricoltori il 40% in meno di un anno fa: ovvero 18 centesimi al chilo,
contro i 2 euro al supermercato, con un rincaro che dal campo alla tavola tocca
il 1111%. O ancora un agricoltore, per pagarsi il biglietto del cinema, deve
vendere 30 chili di melanzane che oggi 'valgono' 26 centesimi al kg (-61% in un
anno), mentre al consumatore vengono proposte a 1,90 euro con un ricarico del
731%".
L'embargo russo ha poi aggravato i problemi.
"Tra frutta, verdura, carni e prodotti lattieri, il blocco di Mosca alle nostre
produzioni agricole è costato finora 355 milioni di euro, con esportazioni 'made
in Italy' dimezzate in quasi due anni. Anche per questo siamo scesi in piazza.
Ci sono tematiche fondamentali che vanno affrontate e risolte al più presto e
che devono essere comprese anche dall’opinione pubblica. Perché il settore
primario ha un valore inestimabile a livello produttivo, culturale e di
salvaguardia dell’ambiente che deve essere sostenuto e non lasciato, appunto,
nell’immobilità".
Il costoso pedaggio del clima
che cambia
di VALERIO GUALERZI
ROMA – "Sotto la neve il pane,
sotto la pioggia la fame". Come ci ricorda il proverbio, è dalla sua invenzione
che l’agricoltura è costretta a fare i conti con i capricci del tempo. L’ultimo
bollettino dei danni diramato dalla Cia è eloquente: le bombe d’acqua che hanno
colpito a maggio il Paese hanno causato grosse perdite soprattutto alle
ciliegie. In Puglia sono andati distrutti quasi 80 milioni di euro di frutti da
inizio campagna. Mentre a Ferrara, ma anche in diverse aree del Bolognese, del
Basso Veneto e del Mantovano, la situazione climatica atipica ha provocato nei
frutteti un grave fenomeno di "cascola", la caduta anormale e prematura dei
fiori e dei frutti. La confederazione parla di "un colpo durissimo, tanto più
che la Puglia è la prima regione in Italia in termini di produzione di ciliegie,
rappresentando il 40% del totale nazionale, con 17mila ettari investiti (di cui
15mila nella sola provincia di Bari), 600mila quintali prodotti, un volume
d'affari di 300 milioni di euro e un fabbisogno annuo di manodopera stimato in 2
milioni di ore lavorative". Tempi difficili anche per peri e albicocchi del
ferrarese, con perdite tra il 50 e il 60%. Qui a compromettere l’andamento sono
state le brusche e improvvise variazioni di temperatura dalla fine di aprile con
minime tra 0 e 4-5 gradi e fenomeni di brina seguiti da termometri schizzati,
nei momenti centrali della giornata, anche a 28 gradi in pieno sole.
Se è vero che da sempre una grandinata, una gelata o un botta di caldo possono
facilmente rovinare il raccolto, è altrettanto vero però che quanto sta
accadendo ora nei campi italiani è qualcosa di molto diverso dal naturale
rischio che ogni contadino si assume nel momento in cui pianta un seme e sceglie
di affidarsi alla clemenza del tempo. L'eccezionale si sta trasformando in
normale e l'anomalo in consueto. Il riscaldamento globale aumenta infatti la sia
frequenza che la violenza degli episodi meteo estremi e l’Italia, come
certificano il IV e il V Rapporto realizzati dall'Ipcc (l'organismo Onu che
analizza, valuta e sintetizza le pubblicazioni scientifiche in materia di
clima), si trova nel cuore di un cosiddetto hot spot, ovvero in una zona
particolarmente sensibile a cavallo di diverse fasce climatiche dove i
cambiamenti saranno (e hanno iniziato ad essere prima di quanto stimato a suo
tempo) particolarmente accentuati.
Il puntuale "piagnisteo" che arriva dalle associazioni di coltivatori e
agricoltori sui danni del maltempo non è più quindi maliziosamente attribuibile
solo alla proverbiale furbizia contadina per mettere le mani avanti sui prezzi,
ma è un problema concreto che purtroppo promette solo di peggiorare. Solo per
rimanere alla produzione delle ciliege, il pezzo pregiato di questa stagione,
inun articolo pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, il professor
Carlo Fideghelli del Centro ricerche per la frutticoltura, spiega: "La
frutticoltura europea è prevalentemente concentrata nei paesi mediterranei e la
maggior parte delle cultivar attualmente coltivate ha un fabbisogno in freddo
invernale che varia da 6-700 a 1000-1200 ore (calcolate convenzionalmente da
ottobre a febbraio al di sotto di 7,2°C), in linea con il normale andamento
climatico. Il progressivo innalzamento delle temperature invernali, che ha avuto
un’accelerazione negli ultimi anni, fa registrare, con sempre maggiore
frequenza, un accumulo di freddo che non supera le 500-600 ore, riportando di
attualità un problema che sembrava risolto".
Anche le gravissime perdite con cui hanno dovuto fare i conti l'olivicoltura
italiana nel 2014 in seguito all’attacco della mosca olearia, sono stata
favorite dal clima che cambia. "Purtroppo gli eventi meteorologici estremi sono
sempre più frequenti e hanno conseguenze dirette sulle coltivazioni: dal 2007 a
oggi, per gli effetti combinati di maltempo e siccità, caldo e gelate
improvvise, l’agricoltura ha già pagato un conto di 6 miliardi di euro.",
commenta il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Il bilancio stilato
da Coldiretti è persino più pesante: 14 miliardi di euro di danni nell'ultimo
decennio a causa delle bizzarrie del tempo. "È chiaro, quindi - insiste la Cia -
che ora come in futuro, c’è bisogno di azioni più incisive tanto per la
prevenzione quanto per i risarcimenti alle perdite subite dagli agricoltori". In
tal senso, conclude Scanavino, "è sempre più necessario rafforzare e rendere più
tempestivi sia gli interventi in caso di crisi sia gli strumenti di gestione del
rischio, come ad esempio quelli assicurativi e mutualistici".
Arance crack: prodotte a 20,
vendute a 5
di ANTONIO FRASCHILLA
PALERMO - Una crisi senza fine.
Ogni anno un nuovo record negativo. La produzione di quello che era una volta
l’oro della Sicilia, adesso è soltanto un peso. Anche nell’ultima stagione la
vendita di agrumi, arancia rossa su tutti e limoni, ha fatto registrare numeri a
dir poco bassi e perdite per tutti i produttori. "È stata un’annata disastrosa,
credo sia stata la peggiore di sempre – dice Giovanni Pappalardo, agrumicoltore
e direttore Coldiretti Catania – quest'anno i prezzi sono scesi a 5 centesimi al
chilo e non si sono coperti i costi di produzione perché per il coltivatore il
costo al chilo per le arance è di circa 20 centesimi. Insomma, nessuna
remunerazione per il lavoro, ancora piante con arance non raccolte e dove le
arance sono rimaste sulla pianta l’imprenditore non può fare i lavori per
mantenere l’agrumeto pronto per la prossima stagione. Quindi crescerà ancora
l’abbandono della coltivazione di quello che una volta era il fiore
all’occhiello dell’agricoltura siciliana e italiana".
I numeri dell’ultima stagione sono impietosi. Nell'Isola, leader assoluta nella
coltivazione di agrumi in Italia, la superficie di arance coltivate è 53mila
ettari: soltanto dieci anni fa erano 60mila. La produzione totale è scesa
quest'anno a 11,7 milioni di quintali, nel 2006 si produceva un milione di
quintali in più di arance. Ma il problema è che questi numeri non sono
sufficienti a spiegare il calo della redditività: prima un quintale valeva
quattro volte di più. Adesso il prezzo alla vendita scende di anno in anno a
causa di una filiera troppo lunga, di una concorrenza agguerrita e per certi
versi sleale dei paesi del Nord Africa e di un settore produttivo che non riesce
a fare sistema: in Sicilia non vi sono grandi cooperative di produttori che
possono imporre prezzi e marchi. L'arancia rossa nei supermercati di Catania è
venduta a 1 euro e in alcuni casi anche 1,5 euro al chilo, nel resto d'Italia i
prezzi sono stati ancora più alti. Qui ci guadagnano tutti: dal commerciante che
acquista sulla pianta alla grande distribuzione. Tutti tranne i coltivatori.
Ma a cosa è dovuto il crollo del prezzo? "La risposta è semplice – dice
Pappalardo - incide l'embargo russo, che di fatto riduce la domanda. E incidono
gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero.
Lì la mano d'opera costa 30 dollari al mese, noi un operaio lo paghiamo 50 euro
al giorno più contributi. Loro in Nord Africa possono utilizzare pesticidi, noi
no. Questa è concorrenza sleale".
Secondo l’osservatorio Coldiretti il rischio è che la produzione di agrumi
scompaia e con questa anche la spremuta di arancia rossa. Negli ultimi quindici
anni una pianta di arance su tre è sparita, una su due se si parla di limoni. Se
si allarga poi l'orizzonte a tutta la produzione agrumicola italiana, negli
ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari di agrumi e ne sono rimasti
124mila, dei quali 30mila in Calabria e 71mila in Sicilia. "Il disboscamento
delle campagne italiane – sostiene la Coldiretti - è il risultato di una vera
invasione di frutta straniera con le importazioni di agrumi freschi e secchi che
negli ultimi 15 anni sono praticamente raddoppiate per raggiungere nel 2015 il
massimo storico di 480 milioni di chili".
Asparago contro mais, vince chi
salta la filiera
di JENNER MELETTI
FERRARA - Loris Braga, quando lo
andiamo a trovare, sta seminando il mais nelle immense campagne del ferrarese,
in quella che era la valle paludosa del Mezzano. Roberto Lodi sta raccogliendo
gli asparagi nel suo fondo, Corte Roeli di Malalbergo. Due modi diversi di
coltivare la terra, e soprattutto di affrontare il mercato. "Sto seminando –
racconta Loris Braga – e ancora non ho venduto il mais dell’anno scorso. Prezzi
troppo bassi, ci avrei rimesso. In questi giorni il prezzo sembra in leggera
ripresa, sopra i 17 euro al quintale, e ogni settimana cresce di una decina di
centesimi, che sono poi quelli che permettono di pagare il magazzino. Ma basta
la notizia di una nave che arriva carica di mais per fare abbassare subito il
prezzo. In sintesi: sto spendendo soldi e fatica per seminare e ancora non so se
e a quanto venderò la produzione dello scorso anno".
Sognando 20 euro al quintale. Grandi campi – qui imperava il latifondo – di
soia, barbabietole e mais. "Il mercato dei cereali c’è sempre stato. A rovinare
noi produttori è soprattutto la speculazione. Il 70% del mais viene comprato
all’estero – anche se è meno ricco di proteine e grassi – e con il 30% italiano
gli speculatori giocano come il gatto con il topo. Se in prezzo scende,
comprano. Appena sale anche di poco, non si fanno più sentire, fino al nuovo
ribasso. Fino a una ventina di anni fa c'era più stabilità dei prezzi ed era
possibile programmare una rotazione delle colture sapendo che comunque il pane
lo avresti portato a casa. Fino a quattro o cinque anni fa il mais era venduto
ancora a 20 o 21 euro al quintale e si faceva reddito. Venti euro sarebbe un
prezzo onesto anche oggi ma ormai sembra impossibile. Perché continuo a
seminare? Questa è terra benedetta per i cereali e soprattutto per il mais. Qui
vicino a Comacchio produciamo 120-130 quintali per ettaro contro un media della
provincia di Ferrara di 90-100 e medie ancora più basse in quasi tutta la
Valpadana. Chi produce molto meno di noi, e magari non ha ancora venduto i
sacchi dell’anno passato, non so proprio come possa tirare avanti. Capisce
adesso perché ogni anno l’agricoltura perde migliaia di ettari?".
Davanti alla bottega di Campagna Amica alla Corte Roeli di Malalbergo c'è la
fila. Al momento della nostra visita è tempo di asparagi verdi: i migliori sono
venduti a 4 euro al chilo. Roberto Lodi ha 8 ettari di terra. “Inizio a fine
marzo con gli asparagi e finisco a novembre con i miei cachi che hanno ormai
cento anni. In mezzo, albicocche, pesche, prugne, pere, mele, con tanta
attenzione a quelle specie che stavano scomparendo, come le pere dottor Guyot e
abate Fetel".
C'è anche l’agriturismo. Nei prossimi giorni arriveranno cuochi stranieri per
imparare a cucinare gli asparagi e a preparare i tortelloni. “Ho capito da tempo
che se non tagli la filiera non ci salti fuori. I miei asparagi a 4 euro costano
comunque molto meno di quelli dei supermercati e sono più freschi e buoni. È per
questo che i miei clienti arrivano da Ferrara, da Bologna, da Modena, in un
raggio di 20-25 chilometri". Una posizione fortunata (poche centinaia di metri
da un casello autostradale) e soprattutto la capacità di tenere aperta la
Bottega tutto l’anno. "Vendo frutta e verdura fresche ma soprattutto le
conservo. Faccio l’esempio delle pere Abate, che sono Igp. Se le do ai
commercianti, prendo 0,37 euro al chilo. Nella Bottega, appena raccolte, sono
vendute a 1,50 al chilo. Le altre le faccio sciroppare in un laboratorio e mezzo
chilo è venduto a 3,5 euro. Ci sono spese in più, certo,per la lavorazione, il
vasetto, lo sciroppo ma un chilo di Abate così mi viene pagato 7 euro. E posso
incassare tutto l’anno".
Le ricette valore aggiunto. Non pretende di insegnare agli altri agricoltori,
Roberto Lodi. "E chiaro che chi produce migliaia di quintali di grano o di mais
non può certo vendere a bottega in azienda. Io dico soltanto che, dove è
possibile, questa è la strada giusta da prendere. Arrivi qui, vai nei campi di
asparagi, li puoi anche mangiare nel nostro agriturismo, magari ti fai insegnare
qualche ricetta… Ci sono verdurai di Bologna che mi telefonano e mi dicono:
portami gli asparagi, il prezzo fallo tu, non importa. Sono soddisfazioni.
Quando penso che ci sono colleghi che consegnano i frutti del loro lavoro ai
commercianti o all’industria e non sanno quando e quanto saranno pagati, sto
male per loro. L’agricoltura deve cambiare. Io posso solo indicare il pezzo di
strada che ho scelto".
Quell'ultimo
comizio di Enrico
Il 7 giugno del 1984, nel corso della campagna
politica per le Europee, Enrico Berlinguer tiene a Padova il suo ultimo comizio,
durante il quale è colpito da un ictus. Il momento tragico in cui egli avverte
che le forze stanno per venirgli meno è notato da tanti, sia dalle persone del
suo entourage che dal pubblico che lo ascolta. Un momento che si protrae, che
sembra non avere fine. Nella memoria di ognuno che ha assistito a quella scena,
di persona o vista in tv, resta ferma l'immagine eterna e pregna di tensione
emotiva di uomo per bene prestato alla politica. Il segretario del Pci non si
ferma, continua nel suo discorso alla folla, non pensa minimamente di
abbandonare quel luogo per affidarsi alle cure del caso, che, a quel punto,
sarebbero di massima urgenza. Non ha assolutamente intenzione di lasciare quella
affezionata massa di gente e quello sventolio di bandiere rosse. Resiste, come
solo chi ha una grande forza interiore può fare. Come solo chi ha cuore il suo
dovere di rappresentante del popolo. Come solo chi ricambia con il giusto
entusiasmo la speranza della gente comune.
Con ogni probabilità, egli vede davanti a sé solo una grande macchia variopinta
in movimento, che si restringe e si allarga come un cuore pulsante negli
applausi d'amore nei confronti di un uomo che ha scelto di rimanere al suo
posto, come se cedere al malore fosse stato un segno di debolezza, prima ancora
che una mancanza di considerazione verso quella piazza appassionata. E continua
a parlare, a portarsi avanti con le parole, anche quando la sua voce ha perso
ormai smalto e vigore, rivelando il suo terrificante stato di salute. Nessuno ha
il coraggio di soccorrerlo, di fermarlo, di portarlo via, non per difetto di
negligenza o scarsa prontezza, ma per il rispetto che si deve agli eroi nel
pieno esercizio della loro funzione archetipica, nell'osservanza del loro
sacrificio al di sopra di ogni umana sofferenza, nel rito dell'ammirazione
incondizionata che si nutre per chi ha la stoffa del difensore degli umili.
Ancora applausi, mugugni di tensione, paura e grande preoccupazione per
l'integrità del gigante segretario, che non si stacca dal microfono. Poi, un
coro straziante, di una commozione che tocca l'anima: "Enrico! Enrico! Enrico!"
Ed in ultimo la voce di chi non ce la fa più a reggere il pathos tellurico di
quell'emozione: "Basta, Enrico! Enrico, per favore, fermati!".
La storia la conoscete. Enrico, seppure a fatica, riesce a portare a conclusione
il comizio. Morì, quattro giorni dopo, l'11 giugno del 1984. Le ultime parole di
quel discorso, pronunciate dal palco della Piazza della Frutta di Padova furono
queste: "E ora compagne e compagni, vi invito a impegnarvi tutti, in questi
pochi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio che sempre i comunisti
hanno dimostrato nei momenti cruciali. Lavorate tutti, casa per casa, azienda
per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per
le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che
siamo stati e siamo... è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle
nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del
lavoro, del progresso della nostra civiltà".
Tre anni prima, sollevando la "Questione morale", in un intervista rilasciata ad
Eugenio Scalfari su "La repubblica" affermò: "I partiti di oggi sono soprattutto
macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e
dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi,
sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più
contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le
esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il
bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su
questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne
promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di
correnti, di camarille, ciascuna con un 'boss' e dei 'sotto-boss'. La carta
geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in
Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad
Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i
socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...".
Fonte: Huffington Post
7
giugno
Così il
sistema Zonin ha piegato Vicenza
Prestiti con il "premio" in
cambio dell'acquisto di azioni. La relazione interna svela il meccanismo usato
per salvare i conti e aiutare i soci amici, incluso il gruppo Marchini. E ora
molti dei 118 mila risparmiatori hanno perso tutto. Tutti i segnali del crack
ignorati da Bankitalia e pm con l'aiuto anche di diplomatici e prefetti. Gli
esposti sono rimasti inascoltati
di FRANCO VANNI. Con un commento
di GIANLUCA DI FEO
Dalla voragine alla valanga
FRANCO VANNI
MILANO - Il meccanismo è quello della valanga. La voragine nei conti della
Popolare di Vicenza, che ha messo sul lastrico molti dei 118mila soci, cresce
fino a travolgere la banca. Già prima del 2008 l’istituto guidato per 19 anni da
Gianni Zonin offre prestiti a “soci amici” in cambio dell’acquisto di azioni
BpVi, con garanzia di riacquisto o di un rendimento. La pratica si trasforma,
fino a divenire la leva per sostenere la crescita del gruppo e le
ricapitalizzazioni del 2013 e del 2014. Se gli strumenti evolvono, lo scopo non
cambia: ricapitalizzare la banca e garantire denaro fresco agli amici. Ma il il
debito cresce. E negli ultimi due anni dell’era Zonin, dimessosi il 23 novembre
scorso, l’acquisto di azioni viene imposto ai risparmiatori. Gli stessi che,
disperati, il 2 giugno hanno manifestato alla tenuta di Gambellara, cuore delle
attività di Zonin.
Il report nascosto. Per capire come le azioni di BpVi siano crollate in pochi
mesi da 62,5 euro a dieci centesimi, e poi rastrellate da Fondo Atlante, basta
leggere le 25 pagine della relazione depositata il 21 agosto 2015 dall’audit
interno a Francesco Iorio, subentrato nel maggio a Samuele Sorato come
amministratore delegato e direttore generale. Un documento che la gestione Zonin
ha nascosto, ma che oggi è agli atti dell’inchiesta della procura vicentina, con
indagati per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza Zonin, Sorato e altri quattro
ex manager di BpVi. Il report dimostra che a Vicenza c’era una “banca nella
banca”, riservata a un’élite. E i danni ricadono sui piccoli soci.
La banca nella banca. L’analisi dell’audit si concentra sulla concessione di
finanziamenti correlati all’acquisto di azioni BpVi. Il ricorso alle “operazioni
baciate” comincia “prima del 2008” con “primari clienti storici come i fratelli
Ravazzolo, Piergiorgio Cattelan, Ambrogio Dalla Rovere, Francesco Rigon”. Per
consolidarsi nel 2009 con operazioni di importo significativo, rivolte a “soci
amici” per supportare “esigenze svuota-fondo”. A trattare con i soci sono Sorato
e Giustini (anche lui indagato), suo vice e responsabile dei Mercati. Le
operazioni baciate o “big ticket”, attivate e chiuse in sei mesi, prevedevano
che al socio disposto ad acquistare azioni fosse garantito un compenso pari alla
differenza fra dividendo e costo del finanziamento, cui si aggiungeva la
plusvalenza ricavata dalla vendita dei titoli. In pratica, guadagnava due volte.
Il "metodo Rizzi". Alle operazioni baciate si aggiungeva il metodo messo in atto
da Roberto Rizzi, gestore Private dell’area vicentina: l’erogazione di un
finanziamento di importo superiore al valore delle azioni acquistate e un
compenso fra 1 e 1,5 percento accreditato al socio direttamente sul conto
corrente. L’audit sospetta vi fossero irregolarità nei contratti e nei
meccanismi di giroconto.
Le lettere alla direzione. Nella fase iniziale, per i grandi soci il rischio era
nullo. Dal 2009 le lettere di impegno al riacquisto o ad altre forme di
remunerazione pattuita ammontano a 248,8 milioni di euro. Le prime lettere sono
firmate da Sorato in persona. Nel 2011, dopo l’apertura della filiale in piazza
Venezia a Roma, il trattamento riservato agli amici veneti viene garantito a
nuovi clienti. Riporta l’audit: “Gruppo Degennaro, Bufacchi, Torzilli, Gruppo
Marchini”. Quest’ultimo è il gruppo riconducibile ad Alfio Marchini, candidato
sindaco a Roma, le cui società hanno ricevuto130 milioni, di cui 75 iscritti
come “incagli” e difficili da recuperare. Nel 2012 Banca d’Italia fa una
verifica sulla concessione di credito da parte di BpVi, “analizzando i primi 20
soci, chiedendo le proposte di fido ed i movimenti di conto corrente senza
formulare rilievi”. Intanto la valanga cresce, per mole e velocità.
Vendi o ti licenzio. Nel 2013 il fenomeno dei finanziamenti in cambio
dell’acquisto di azioni assume “maggiore rilevanza per importi e numero di
operazioni”, si legge nell’audit. Per ricapitalizzare, la direzione segnala ai
capi area la necessità di vendere azioni a chiunque chieda prestiti. E minaccia
“il licenziamento in caso di obiettivi mancati”. È il giro di vite. Se i
venditori avanzano dubbi, la risposta è che “investitori istituzionali come
Fondi Optimum e Athena sono interessati alle nostre azioni”.
Il premio fedeltà. Con gli aumenti di capitale del 2013-2014, gli interessi
relativi ai finanziamenti sono compensati con cessione di azioni come “premio
fedeltà”. Oppure, se la remunerazione promessa non è raggiunta, la banca
compensa il socio con “storni non giustificati”. Un’altra modalità è l’acquisto
di azioni per il 50 per cento dell’importo e la sottoscrizione di un time
deposit a tassi del 4 percento. Il meccanismo dei “fidi per operazione K”
prevede invece vendite di azioni per il 10 per cento del totale del credito
concesso. E il 14 ottobre 2014 viene deliberata la “riqualificazione degli
impieghi”, per “sostenere i clienti di elevato standing creditizio”. Il prezzo
dei titoli varia con la percentuale delle azioni sottoscritte.
Nell’aumento di capitale da 506 milioni del 2013, la vendita di azioni il cui
acquisto è correlato ai finanziamenti pesa per 136 milioni. Salgono a 146
milioni su 607 totali nel 2014. Nel biennio 2013-2014 il valore delle azioni
acquistate come contropartita di credito concesso ammonta a 506 milioni, tenendo
conto delle operazioni sul mercato secondario e di altri finanziamenti a “Bpv
Finance (Jupiter, Makalu, Sorgenia), al Gruppo Marchini e al fondo Agris”.
Facendo un’analisi sui soci che avevano avuto accesso al credito, l’audit
individua altri 481 milioni di azioni acquistate. A conti fatti, sono 941
milioni di azioni vendute come condizione per la concessione di credito. Più
della metà - il 54 percento, 505 milioni – è in mano a 50 grandi clienti fra
Vicenza e Roma.
Le responsabilità. “L’ideazione e l’esecuzione” delle “operazioni non
ammissibili” - scrive l’audit - “sono avvenute ad opera e sotto la regia” di
Sorato e Giustini. Le strategie venivano “imposte ai direttori regionali e capi
area con pressioni e minacce” relative al “mantenimento di ruolo e posto di
lavoro”. Pressioni efficaci, al punto da “dissuadere dal segnalare i
comportamenti anomali”. Sorato e Giustini avrebbero “ostacolato con
comportamenti dilatori” l’audit. Il report fu trasmesso il 4 settembre 2014 per
“ulteriori verifiche”, senza esiti. Il 7 luglio 2015 Giustini avrebbe chiesto
“la restituzione di qualsiasi copia del documento” ritenendo “opportuno che non
fosse circolarizzato”.
Rete di protezione con
ispettori, giudici e Gdf
FRANCO VANNI
VICENZA - Li chiamavano "i pretoriani". E anche se nessuno lo ha mai
esplicitato, nei corridoio della Popolare di Vicenza tutti intuivano quale fosse
la loro missione: controllare i controllori. Adesso dicono che questa è sempre
stata l'idea fissa di Gianni Zonin, presidente della banca dal 1996 allo scorso
23 novembre. E' stato lui, già celebre come re dei vini, a segnare l'ascesa e la
caduta di questo istituto, che dal Veneto si è esteso in tutta Italia con 5 mila
dipendenti e 482 filiali. Un castello di carte ridotto in cenere, bruciando in
pochi mesi 6,2 miliardi di euro e lasciando sul lastrico 118 mila soci che
avevano investito i loro risparmi in azioni passate dal valore di 62,5 euro a
dieci centesimi. Il 2 giugno le vittime del crac hanno manifestato davanti alla
villa di Zonin, chiedendo alla magistratura di sequestrarla. Ma ufficialmente
non è più sua, perché si è liberato di ogni proprietà, forse pronto a
trascorrere la vecchiaia nei suoi possedimenti esteri. Il crollo è stato
rapidissimo mentre le indagini dei pm che lo hanno scalzato dal vertice
dell'istituto sono lente, tanto da non prevedere sviluppi prima dell'autunno.
Eppure nel corso degli anni i campanelli di allarme sulla solidità della banca,
che sponsorizzava squadre sportive e finanziava film da Oscar come la "Grande
Bellezza", non sono mancati: dal 2001 al 2014 ci sono stati esposti, ispezioni
di Bankitalia e due inchieste della procura che avrebbero dovuto approfondire
proprio gli elementi poi rivelatisi determinanti nello sgretolamento del
forziere vicentino.
Ad esempio, secondo quanto accertato dalla Bce negli anni passati, la crescita
di BpVi che nel ventennio di Zonin ha portato all'acquisizione di Banca Nuova e
Cari Prato è stata sostenuta imponendo ai soci l'acquisto di azioni della stessa
banca come condizione necessaria per la concessione di prestiti. Una pratica
denunciata da gruppi di piccoli risparmiatori già agli esordi della presidenza
di Gianni Zonin. "Sin dall'inizio il suo intento era mettere al riparo la
Popolare di Vicenza da verifiche e guai giudiziari - dice Renato Bertelle,
avvocato di Malo, presidente dell'associazione nazionale azionisti BpVi -. Come
lo ha fatto? Con nomine e assunzioni. Ha creato una rete di protezione, per
evitare che franasse tutto. Ha cercato di mettere a libro paga quelli che
potevano dargli fastidio, o i loro capi. E in molti casi ce l'ha fatta". Non è
un caso che fra le prime iniziative del nuovo amministratore delegato Francesco
Iorio ci sia stata la sostituzione dei "pretoriani", arruolati ai vertici delle
istituzioni che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la banca. Porte girevoli
che hanno permesso di passare dai ranghi della magistratura, delle Fiamme
Gialle, di Bankitalia a quelli della Popolare.
Le crepe e i guadagni. Le inchieste avviate dalla procura di Vicenza sulla
gestione di BpVi fino a oggi sonostate affossate da archiviazioni, prescrizione
dei reati e sentenze di non luogo a procedere, arrivate dopo anni dall'apertura
dei fascicoli. Un ventennio di occasioni sprecate. "La cosa che fa più male,
vedendo i soci che hanno perso tutto, è che già nel 2001 le crepe erano visibili
- sottolinea Antonio Tanza, avvocato e vice presidente dell'associazione Adusbef,
che prima del 2008 aveva presentato 19 esposti contro gli amministratori
vicentini - . E sono quelle stesse crepe che si sono allargate fino a provocare
il crac". L'epilogo è stato il salvataggio da parte di Fondo Atlante, costretto
a rastrellare per 1,5 miliardi tutte le azioni della banca, dopo il flop della
sottoscrizione di capitale. "È assurdo che si sia arrivati a tanto. Le premesse
del disastro erano chiare quindici anni fa", conclude Tanza.
L'ispezione di Bankitalia. Nel 2001 Bankitalia dispone un'ispezione sulla
Popolare di Vicenza, la prima da quando Zonin è presidente. Al centro degli
accertamenti, i criteri con cui la Popolare ha valutato le azioni. Gli
ispettori, al lavoro da febbraio a luglio, concludono che il valore di 85.196
lire (44 euro) era "poco oggettivo". E che la banca, nonostante si fosse
all'inizio della presidenza Zonin, era già caratterizzata da un "modello
gestionale verticistico che limita l'attività del cda". Unico oppositore di
Zonin in consiglio di amministrazione è l'avvocato Gianfranco Rigon, che nel
1999 lascia la vicepresidenza. A suo dire, "il ruolo presupponeva sudditanza
alla autoritaria e autocratica gestione di Zonin ". Già allora c'è un episodio
illuminante, sottolineato dall'avvocato Bertelle: "La storia sembra incredibile,
ma è agli atti dell'inchiesta milanese su Antonveneta. Nicola Stabile, che nel
2001 era nel team ispettivo di Bankitalia, riferì di avere ricevuto un invito da
Zonin a trascorrere le vacanze in una sua tenuta nel Chianti". Non solo. Luigi
Amore, funzionario della Vigilanza di via Nazionale che ha firmato quella
verifica, sarà poi chiamato alla Popolare come responsabile dell'Audit. Allo
stesso modo Andrea Monorchio, dopo tredici anni come Ragioniere generale dello
Stato, sarà nominato nel cda di BpVi fino a divenirne vicepresidente nel 2014.
L'uomo che ha arbitrato i bilanci del Paese diventa una sorta di ambasciatore di
Zonin nei palazzi romani del potere.
La tenuta trasformata in
fortezza: ecco dove si è ritirato Zonin
Affari di famiglia. Le
segnalazioni che hanno dato il via all'ispezione della Banca d'Italia finiscono
sui tavoli della procura di Vicenza, che nello stesso 2001 apre un'inchiesta.
Zonin viene indagato per falso in bilancio. Secondo gli esposti, gli
amministratori avrebbero fatto sparire dal rendiconto del 1998 quasi 58 miliardi
di lire di minusvalenze, frutto dell'acquisto di derivati. All'attenzione dei pm
vicentini vengono portate anche alcune operazioni immobiliari intraprese dalla
banca nel 1999 con la società Querciola Srl diretta da Silvano Zonin, fratello
di Gianni. L'istituto avrebbe pagato affitti per un valore eccessivo, con danno
per i soci. L'allora procuratore capo, Antonio Fojadelli, avoca a sé il
fascicolo. Esperto in criminalità organizzata - aveva guidato le inchieste sulla
mala del Brenta - chiede l'archiviazione. Il gip Cecilia Carreri respinge la
richiesta e ordina l'imputazione coatta per Zonin. Ma nel 2005 la giudice viene
travolta da uno scandalo dai contorni oscuri, nato dalla pubblicazione di una
sua foto sul giornale locale. Per Zonin la vicenda si chiude con una sentenza di
non luogo a procedere. Fojadelli nel 2011 lascia la magistratura e tre anni dopo
Zonin lo chiama nel cda della Nord Est Merchant, detenuta da BpVi. Direttamente
dalla guardia di finanza arriva invece Giuseppe Ferrante, ex capo del nucleo di
polizia Tributaria di Vicenza, già dal 2006 responsabile della direzione
Antiriciclaggio della banca. Anche l'avvocato Massimo Pecori, figlio di uno dei
pm di punta della procura cittadina, ottiene incarichi per l'istituto. Ma, come
spiega lui stesso, la Popolare "ha centinaia di legali sotto contratto".
L'istituto di Zonin infatti è il simbolo stesso della ricchezza in un NordEst
che all'epoca non conosce crisi.
Gli esposti del 2008. Adusbef il 18 marzo 2008 segnala a Bankitalia e alla
procura di Vicenza "il ricorso illegittimo da parte della Popolare al prestito
obbligazionario subordinato per reperire 220 milioni dei complessivi 950 di
rafforzamento patrimoniale" e denuncia "il valore inverosimile della quotazione
azionaria". Per la prima volta, si fa riferimento a "metodi estorsivi per
diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi",
ipotesi alla base delle attuali inchieste aperte dopo il crollo. Nel 2008 il
procuratore di Vicenza è Ivano Nelson Salvarani. L'inchiesta viene affidata al
pm Angela Barbaglio, che il 15 aprile 2009 chiede archiviazione, "non ravvisando
credibili ipotesi di reato". Il 21 aprile l'ufficio del gip di Vicenza chiude il
fascicolo senza nemmeno comunicarlo ad Adusbef. Intanto, Zonin rafforza la
fortezza attorno alla banca, continuando ad arruolare magistrati e uomini di
vertice delle istituzioni bancarie. Già alla fine del 2008 arriva Mario Sommella,
assunto come addetto della Segreteria generale dell'istituto, lo stesso ruolo
che aveva ricoperto in Banca d'Italia.
Le porte girevoli. Luigi Amore e Mario Sommella non sono gli unici uomini di
vertice di Bankitalia ad approdare a Vicenza. Nel 2013 Zonin ingaggia alle
relazioni istituzionali di BpVi Gianandrea Falchi. Già membro della segreteria
quando governatore era Mario Draghi, aveva condotto una seconda ispezione sulla
Popolare di Vicenza, i cui risultati costituiscono la spina dorsale dell'attuale
inchiesta della procura di Vicenza sulla gestione Zonin. Nel dicembre 2012 la
verifica si conclude con un verdetto "parzialmente sfavorevole" e senza
sanzioni. Come "ambiti di sofferenza" viene indicata la valutazione dei cespiti
ricevuti a garanzia dei crediti. Quello che la verifica non mette in luce fino
in fondo è il cuore del problema: il meccanismo della concessione di
finanziamenti in cambio dell'acquisto di azioni della banca, che sarà reso
esplicito solo quindici mesi dopo dall'intervento della Bce, con i conti ormai
irrimediabilmente compromessi.
Nel 2012 Zonin appare ancora forte, come il gruppo che guida. Da un anno il
prezzo delle azioni è fissato a 62,5 euro e il numero dei soci (che nel 2008
erano 60mila) lievita. È in quei mesi che il cda di Banca Nuova istituto con 100
sportelli in Sicilia, creato nel 2000 a Palermo da BpVi - nomina come
consigliere indipendente Manuela Romei Pasetti, già presidente della Corte
d'Appello di Venezia, competente sul territorio di Vicenza. "Zonin, come sempre
nella sua vita, ha fatto le cose in grande anche quando si è trattato di
comporre i cda di fondazioni e controllate - dice l'avvocato Bertelle - verso la
fine della sua avventura in banca, aveva così tanto potere da portarsi in casa
prefetti e diplomatici". Il prefetto è Sergio Porena, rappresentante degli
Interni a Vicenza fra il 1989 e il 1991, e già probiviro di BpVi. Zonin gli apre
le porte del cda della Fondazione Roi, di cui lui stesso è presidente. Il
diplomatico è Sergio Vento, già ambasciatore a Parigi, ingaggiato da Zonin come
vice presidente di Nord Est Merchant Due, società di risparmio gestito di BpVi.
Nulla di straordinario. In centri di provincia come Vicenza, Arezzo, Treviso,
Chieti, Ancona, Ferrara gli istituti locali erano il cuore della ricchezza e del
potere, elargivano finanziamenti, incarichi e offrivano prestigiose poltrone. In
ogni città si è ripetuto un copione simile, con controllori incapaci di
riconoscere i segnali del crollo.
E adesso il prezzo di quella grande illusione lo pagano migliaia di
risparmiatori. Senza che nessuno si ponga il problema di cambiare le regole e
creare meccanismi più efficaci di vigilanza. Una settimana fa, durante la visita
di Sergio Mattarella ad Asiago, un gruppo di azionisti della Popolare di
Vicenza, una rappresentanza dei tanti che hanno visto il valore dei loro
investimenti passare da 62,5 euro ad azione a soli dieci centesimi, gli ha
consegnato un appello: "Siamo stati educati a rimboccarci le maniche e lavorare
ancora di più per ricostruire
quanto abbiamo perduto, ma non vogliamo sentire denigrare o irridere la nostra
operosità. Vogliamo giustizia, vogliamo che i responsabili di questo tracollo
siano messi di fronte alle proprie responsabilità".
Vittime e movente ci sono, ora
tocca ai colpevoli
di GIANLUCA DI FEO
ROMA -Si conoscono le vittime. Sono gran parte dei 118 mila soci che in Veneto,
ma anche in Toscana, Friuli e Lombardia, che hanno visto crollare il valore
delle azioni da 62,5. Le indagini hanno ipotizzato pure il movente: garantire un
sistema di potere, sostenendo gli amici con varie forme di finanziamento.
Mancano però i responsabili. A sette mesi dalle dimissioni forzate di Gianni
Zonin, arbitro dell'ascesa e caduta dell'istituto, l'inchiesta penale è ancora
in alto mare. Tra carenza di organici nella procura e difficoltà tecniche nella
ricostruzione delle operazioni, non si annunciano sviluppi prima dell'autunno.
Zonin ha ceduto tutti i suoi beni e si è rinchiuso nella villa fortezza
friulana, con proprietà di famiglia all'estero per un eventuale esilio futuro. E
l'ira di chi ha perso i risparmi continua a crescere. «L'unica magra
consolazione – ha dichiarato il viceministro all'Economia Enrico Zanetti - è che
appena il Fondo Atlante avrà fatto pulizia di questo cda incapace di voltare
pagina, partiranno al 100% tutte le azioni di responsabilità che, con grave
danno reputazionale per la banca, la città e più in generale il sistema Paese,
ancora non sono partite».
Sulla scia dell'inchiesta di Repubblica sulle “porte girevoli” che hanno
trasformato gli ispettori di Bankitalia e gli investigatori incaricati di fare
luce sulla banca in suoi dirigenti, Zanetti sottolinea: «Come si fa a dire ai
Veneti che i controlli sono stati sicuramente adeguati e sufficienti? Per questo
noi diciamo no ad accuse a scatola chiusa alle nostre istituzioni di vigilanza,
ma anche no ad assoluzioni a scatola chiusa e riteniamo importante una
commissione che aiuti a capire cosa non ha funzionato e se ci sono delle colpe
individuali».
Le associazioni di consumatori Adusbef e Federconsumatori si sono rivolte invece
al Ministro della Giustizia Orlando, al presidente della Repubblica e del Csm
Mattarella, al vice presidente Legnini ed a tutti i membri del Csm, al
presidente dell'Anm Davigo, all'Autorità Anticorruzione di Cantone, al premier
Renzi e al ministro Padoan. Chiedono «di intervenire per ripristinare i diritti
e la legalità violata, essendo intollerabile che i protagonisti di un crac
annunciato, che in Veneto ha prodotto un buco di 18,9 miliardi di euro, siano
ancora a piede libero».
Nelle inchieste sui crac dell'ultimo ventennio, la prigione non si è mai
rivelata un deterrente efficace. La detenzione di Calisto Tanzi non ha impedito
che altri imprenditori senza scrupoli manovrassero società e banche ai danni dei
soci e degli investitori. Quello che continua a mancare nel nostro paese è un
meccanismo di controllo efficace che tuteli i risparmiatori. E una giustizia
celere che colpisca i patrimoni di chi ha lucrato senza mai dovere rendere conto
delle proprie responsabilità.
Se le rovine
vanno in rovina
Il nuovo direttore, Gabriel
Zuchtriegel, spiega che non un centesimo dei 38 milioni destinati a Paestum può
essere usato rimuovere la strada, perché le varie tabelle del finanziamento, nei
capitoli di spesa, non lo prevedono….
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
La comprereste per mezzo milione di euro una casa diroccata impossibile da
restaurare perché costruita sopra l' anfiteatro di un celeberrimo sito
archeologico e quindi stracarica di vincoli? Eppure così c' è scritto, sul
cartello: «Vendesi». A chi, se potrebbe comprarla solo lo Stato? «Compriamola!»,
direte voi. No: anche se a Paestum stanno arrivando (era ora!) 38 milioni di
euro, per quella casa non si può spendere un solo cent. Non è previsto dai
«capitoli di spesa» burocratici.
Per capire cosa faccia quella catapecchia proprio là, sopra l' antico
anfiteatro, occorre tornare al 1829 quando l' ingegnere Raffaele Petrilli,
sciaguratamente incaricato di costruire la «Tirrena inferiore» da Salerno verso
le Calabrie, pensò bene di tagliare in due le rovine di Paestum, demolire la
Porta Aurea, segare a metà l' anfiteatro e il Foro per non disturbare con la
nuova arteria, si disse, un signorotto della zona che aveva la tenuta lì.
Risultato: salvata la parte ad ovest, tutta la parte est dell' area archeologica
è stata via via sommersa da casette e casone, ville e villini, trattorie e
gelaterie, pizzerie e botteghe di cianfrusaglie. Tempietti di plastica,
terracotta, metallo, tempietti da attaccare con la calamita al frigo, tempietti
nelle sfere di vetro che se le giri cade la neve…
Altri tempi? Per niente! Era passato oltre mezzo secolo, quando fu fatta quella
strada criminale, dal 1776 in cui Alphonse de Sade aveva lanciato la sua
invettiva contro chi amministrava le rovine di Pompei: «Ma in quali mani si
trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in
grado di apprezzarle?». C' era già la consapevolezza che i siti archeologici
andavano rispettati. Tanto è vero che il barbaro Raffaele «Attila» Petrilli finì
sotto inchiesta.
Uno Stato serio, ormai alla vigilia del duecentesimo anniversario (mancano una
dozzina di anni) dell' osceno stupro cementizio, requisirebbe una volta per
tutte l' arteria, che oggi appartiene al Comune e non accoglie più (ovvio…) il
traffico della «Statale 18».
E rileverebbe a prezzo sensato (guai se accettasse le estorsioni di questo o
quel privato) il rudere che dicevamo più altri pezzi di terra, costruiti o no,
per ricomporre quanto più è possibile dell' unitarietà dell' antica Paestum.
Cosa prevista, tra parentesi, dallo Studio di fattibilità firmato anni fa da
Ottavia Voza e Fondazione Paestum.
Macché. Dopo lo spreco in passato di milioni di euro (due per il sottopasso
pedonale della stazione con sedia mobile per i disabili subito arrugginita, tre
per i due parcheggi e Visitor center in cartongesso e subito devastati, per non
dire dei soldi buttati per un marciapiede in teak: manco si trattasse di una
barca a vela) sono ora in arrivo 38 milioni di euro. Per la precisione: 20 dal
ministero dei Beni culturali di Dario Franceschini (onore al merito) e 18 di «Pon»,
fondi strutturali europei.
Ossigeno. Ma… Al suo arrivo, mesi fa, il nuovo direttore Gabriel Zuchtriegel,
archeologo, 34 anni, tedesco ma da molti anni in Italia, si era trovato in una
situazione da mani nei capelli. Manutenzione ridotta al minimo. Non un cartello
tra gli scavi che fosse leggibile e in condizioni decenti.
Non una bacheca del primo piano del museo che non avesse le lampadine bruciate,
coi turisti che accendevano la pila del telefonino per vedere i pezzi. Non una
tenda che non fosse lurida. Non una moquette decorosa: era squarciata perfino
quella nella stanza della meravigliosa Tomba del Tuffatore. Ciliegina sulla
torta: il crollo del controsoffitto della sezione romana, all' ultimo piano,
venuto giù aprendo uno squarcio di due metri per sette, con conseguente chiusura
di tutta la sezione. Da avvampare di vergogna davanti a ogni turista. Pochi
rispetto al valore del sito: 132.032 visitatori paganti nel 2014 contro i
157.747 del 1996.
Estraneo al temperamento bellicoso di altri svevi, Gabriel Zuchtriegel dice di
aver scelto di fare un passo alla volta. La moquette. Le tende. Le lampadine. I
controsoffitti. Il dialogo diretto coi dipendenti: «Ho cercato di parlare a
tutti, uno ad uno». Inutile partire senza soldi. O tappare un buco mentre se ne
aprivano altri. Meglio individuare le soluzioni e tenersi pronti per dare a
tutto, finalmente, una sistemata.
Nel frattempo, «spendendo solo duemila euro», ha fatto sfalciare l' erba e
mettere in sicurezza i cavi elettrici sparpagliati ovunque e a Pasqua ha aperto
(prima volta) il Tempio di Nettuno. Migliaia e migliaia di turisti. Trionfale.
Adesso, i lavori partono sul serio. Dal restauro della sala del Tuffatore
(sponsor quel Vannulo che passa per un «mozzarellaro umanista» e fa sentire
Mozart alla bufale ed è ricambiato con mozzarelle squisite) a tutto il resto.
A partire dal Museo e dalle rovine dell' impianto Cirio che sono qualche
centinaio di metri più in là dove stava il «tempio di Santa Venera».
Stabilimento che aumenterà finalmente gli spazi espositivi permettendo di vedere
stabilmente i pezzi conservati nei depositi, alcuni dei quali straordinari,
esposti per la prima volta da metà aprile ma solo al venerdì e per pochi
fortunati.
Resta, per chi ama Paestum, quel cruccio: perché non si comincia a rimuovere
pezzo a pezzo quello stradone indecente per ricomporre quanto più si può dell'
antica città a partire dall' Anfiteatro mozzato dall' ingegnere vandalo? Passi
per il dubbio se rimettere o no in piedi monumenti abbattuti da un terremoto nel
IV secolo a.C. come il Tempio G a Selinunte. Ma se Antonio Cederna battagliò per
rimuovere la via dell' Impero voluta da Mussolini per far rivivere i Fori,
perché non rimuovere la «Statale 18» e far rivivere l' anfiteatro?
Niente da fare: dei soldi in arrivo, spiega il direttore, non un centesimo può
essere usato per comprare quella stamberga o rimuovere la strada. Perché? Perché
le varie tabelle del finanziamento, nei capitoli di spesa, non lo prevedono. Non
puoi comprare una matita, sancisce la burocrazia, se devi comprare penne. Sarà,
ma sapete quante pagine ha Google su Paestum solo in tedesco?
Mezzo milione. Più mezzo milione in francese e mezzo milione in spagnolo e mezzo
milione in inglese e così via. Ve l' immaginate l' impatto mondiale di una
rinascita dell' Anfiteatro e del Foro? O il figurone che farebbe un mecenate se
comprasse quella catapecchia e la donasse allo Stato per farci ciò che va fatto?
Insomma: se non ora, quando?
Crack Banca
Etruria
Fabio Tonacci per “la Repubblica”
Mentre l’Etruria sprofondava
nell’abisso del fallimento, e le obbligazioni in mano a migliaia di
risparmiatori diventavano cenere, un piccolo istituto controllato dai vip
dell’alta finanza, il Credito Fondiario spa, faceva l’affare del decennio. Ha
comprato più di trecento milioni di euro di crediti vantati dalla Popolare
aretina al prezzo “di saldo” di 49 milioni. Con l’autorizzazione della Banca
d’Italia, emessa poco prima che l’Etruria venisse dichiarata insolvente dal
Tribunale fallimentare di Arezzo.
Un’operazione fatta con tempistica e criteri quantomeno singolari, che hanno
spinto il pool di magistrati guidati da Roberto Rossi a disporre alcuni
accertamenti per ricostruirne i passaggi. La storia dell’affare di Fonspa è
riassunta nella relazione finale del commissario liquidatore Giuseppe Santoni,
inserita negli atti dell’indagine per bancarotta fraudolenta.
Torniamo dunque al novembre di un anno fa. Al comando della vecchia Etruria ci
sono da qualche mese i due commissari inviati da Palazzo Koch, Sora e Pironti, i
quali stanno toccando con mano il disastro dei conti già segnalato nelle
relazioni ispettive di Bankitalia.
Il portafoglio dei crediti in sofferenza (cioè difficili da recuperare) ammonta
a 1,9 miliardi, e per qualcuno sono una torta da mordere prima che la procedura
di fallimento - a quel punto assai probabile - congeli il patrimonio. Si è fatto
avanti il fondo Algebris di Davide Serra, l’imprenditore vicino al premier
Matteo Renzi, ma non si è concluso niente. Sul tavolo c’è anche offerta del
Credito Fondiario, che secondo alcune fonti finanziarie era stata presentata ai
vecchi manager quando l’Etruria non era in amministrazione controllata.
Fonspa è un salotto esclusivo. È controllato dalla Tages Holding di Panfilo
Tarantelli, manager del colosso finanziario americano Citigroup. Ai vertici del
gruppo ci sono, o sono passati, Piero Gnudi (ex presidente Enel, ora commissario
dell’Ilva), l’ex Bce Lorenzo Bini Smaghi e Jean Baptiste de Franssu, presidente
dello Ior. Tra i soci, Alessandro Benetton, la famiglia De Agostini e Umberto
Quadrino, ex Fiat e ora presidente di Edison.
«Il 16 novembre — scrive Santoni — la banca perfezionava la cessione di un
portafoglio di crediti a Sallustio srl, società veicolo di Credito Fondiario:
1.860 posizioni cedute per un valore di 302 milioni, riferiti per due terzi a
esposizioni chirografarie (cioè senza nessuna garanzia reale o personale, ndr) e
un terzo a esposizioni con garanzia ipotecaria. Il corrispettivo è di 49,2
milioni ». Un sesto del valore. Con quale criterio sono stati scelti i crediti?
Difficile pensare che Fonspa abbia acquistato quelli impossibili da recuperare,
e comunque Santoni non lo specifica.
L’operazione si conclude con un tempismo perfetto: sei giorni prima del decreto
Salva-Banche. «Era condizionata — sottolinea però Santoni — all’ottenimento
della autorizzazione della Banca d’Italia». Anche quella arriva in extremis,
pochi giorni prima della sentenza di fallimento dell’11 febbraio 2016.
Dall'Arabia Saudita
all'Angola, che affare gli Stati canaglia
I rapporti economici dell’Italia con i regimi
peggiori del mondo sono in crescita da un anno. Compresa la vendita di armi
DI EMANUELA SCRIDEL
I rapporti economici e politici fra l’Italia e
numerosi paesi i cui regimi sono classificati fra i peggiori al mondo si sono
moltiplicati negli ultimi anni, in particolare nel 2015. Oltre all’Egitto, sono
Stati repressivi e non democratici Angola,Iran, Arabia Saudita,Turkmenistan
eKazakistan. Fra 6 e 7 oscilla infatti il punteggio assegnato a questi paesi
daFreedom House : più alto è il punteggio (e sette è il massimo) peggiore è il
regime e massima la violazione dei diritti umani.
Come per l’Egitto, dal 2014 vi è stato un intensificarsi dei rapporti economici
anche con l’Angola, oggi terzo partner commerciale sub-sahariano dell’Italia con
una presenza italiana caratterizzata principalmente da Eni e Inalca-Cremonini.
Ma è sul settore militare che l’Italia intende puntare. E infatti, nel 2014, il
tour promozionale dell’industria bellica denominato “Sistema paese in movimento”
guarda all’Angola: un giro d’affari potenzialmente miliardario che può
coinvolgere Fincantieri, Selex ES, Oto Melara e molte altre imprese e che pare
stia iniziando a dare i suoi frutti. È dello scorso gennaio il contratto di
Finmeccanica e Selex in Angola per forniture militari per più di 300 milioni di
euro.
Ma chi è il presidente angolano con il quale facciamo accordi?José Eduardo dos
Santos è salito al potere con una serie di brogli elettorali nel 1992 e oggi,
dopo alterne vicende, è ancora in carica. Insieme alla sua famiglia detiene le
maggiori ricchezze del Paese. Il suo operato è stato condannato da molti
organismi internazionali che si battono per la difesa dei diritti umani:
l’Angola è classificata oggi come “dittatura” sia dal Democracy Index dell’“Economist”
sia da Freedom House. Jose Filomeno, il figlio del presidente, soprannominato
“il Principe”, è attualmente capo del Fondo sovrano nazionale. In Angola è
considerato più importante del padre a livello politico, e insieme agli altri
membri della famiglia si spartisce tutti i settori chiave dell’economia. Sua
sorella, Isabel, è considerata dalla rivista “Forbes” la donna più ricca
dell’Angola. Nel contempo il reddito medio angolano si aggira intorno ai 1.600
euro l’anno.
Dall’Africa al Medio Oriente il passo è breve e i flussi di denaro non conoscono
confini. I noti accordi tra imprese e istituzioni italiane e iraniane -
stipulati nel corso della recente visita del presidente Hassan Rouhani in Italia
- valgono 17 miliardi di dollari. Una lista di 24 accordi destinati ad
aumentare. Dai trasporti alla ingegneristica, passando per la cantieristica e la
raffinazione.
Può darsi, che come afferma Rouhani, a seguito dei recenti risultati elettorali
nella Repubblica Islamica dell’Iran si respiri «un’atmosfera nuova». Ma secondo
quanto riportato da diversi osservatori internazionali, fra cui Nessuno Tocchi
Caino, nei due anni di presidenza di Rouhani sono stati giustiziati 2.277
detenuti. Oltre al fatto che le esecuzioni di minorenni sono continuate nel
2015, fatto che pone l’Iran in aperta violazione del Patto Internazionale sui
Diritti Civili e Politici e della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che ha
però ratificato.
Peggio ancora la situazione in Arabia Saudita dove il numero di esecuzioni ha
raggiunto il suo livello più alto degli ultimi cinque anni: nel 2015 sono state
almeno 102, contro 78 del 2013. Sotto il comando della dinastia saudita è fatta
rispettare rigorosamente la legge della dottrina wahhabita, un’interpretazione
fondamentalista del Corano. Molte libertà fondamentali proprie della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non esistono. Ciononostante, come
spiega la nota economica della Farnesina del gennaio 2016, «le relazioni
economiche italo-saudite vivono un momento decisamente favorevole e strategico
per i nostri interessi nazionali. Il Regno è infatti largamente disponibile a
intensificare le relazioni economiche con l’Italia, che gode di un’immagine
complessivamente positiva, e a sviluppare iniziative economiche e finanziarie di
comune interesse». Per valore complessivo dell’interscambio con l’Arabia
Saudita, l’Italia figura nel 2014 come undicesimo partner commerciale del regno
a livello mondiale e come il terzo tra i paesi della Ue.
Gli ultimi due anni hanno visto il consolidarsi anche dei rapporti fra l’Italia
e due delle cosiddette repubbliche ex sovietiche, a tutti gli effetti regimi
dittatoriali: ilTurkmenistan e il Kazakistan. Il “Democracy Index” dell’Economist
annovera da diversi anni il Turkmenistan tra i regimi più autoritari del mondo:
sia il Dipartimento di Stato degli Usa sia numerose organizzazioni umanitarie
denunciano da tempo le reiterate violazioni dei diritti umani. Nel 2014 Renzi è
il primo capo di governo occidentale a recarsi nel Paese centroasiatico. Una
visita sfociata nell’accordo siglato dall’Eniper la gestione e l’uso di
idrocarburi in Turkmenistan.
Ancora una volta a completare il quadro dei rapporti economici fra i due paesi
vi è il business delle armi: in pochi anni è stata autorizzata l’esportazione di
un arsenale dall’Italia verso il Turkmenistan che nell’insieme vale quasi 370
milioni di euro.
Quelli fra Italia e Kazakistan sono invece rapporti di lunga data, per nulla
scalfiti dal caso Shalabayeva. Il Kazakistanpossiede risorse naturali in
grandissima quantità. Occupa il dodicesimo posto nel mondo per riserve di
petrolio ed il quattordicesimo per quelle di gas. Inoltre è il primo Paese al
mondo per la produzione di uranio. A ciò si aggiunge, negli ultimi vent’anni, un
tasso di crescita medio annuo tra i più dinamici, pari a circa l’8 per cento.
Dal punto di vista della forma di governo, sebbene si autodefinisca una
Repubblica presidenziale, il Kazakistan è un regime dispotico. Il presidente
Nursultan Nazarbaev, in carica dal 1991, gode di un potere praticamente
assoluto. Nell’aprile del 2015 si è fatto legittimare da elezioni farsa con il
97,8 per cento dei voti: una consultazione condannata dalla Osce come
particolarmente carente nel rispetto degli standard internazionali di
democrazia.
Nonostante questo, i rapporti fra Italia e Kazakistan sono andati
intensificandosi, come dimostrano i risultati del business forum italo-kazako
svoltosi a Milano nel giugno 2015, in cui i due Paesi hanno firmato accordi
commerciali per un valore di 500 milioni di dollari. L’Italia è oggi al terzo
posto tra i partner commerciali del Kazakistan, dopo Russia e Cina, e tra i
principali investitori europei. Roma continua inoltre ad essere uno dei
principali fornitori di armamenti leggeri al Kazakistan: destinate alle Forze
Armate, hanno un valore stimato poco al di sotto del milione di euro. È peraltro
di qualche mese fa la ratifica dell’accordo tra i governi italiano e kazako
sulla cooperazione militare, grazie al quale si promuove l’esportazione e
l’importazione di materiale della difesa nei settori aeronautico, navale
militare e l’approvvigionamento di armamenti..