28 giugno

 

La procura delle nebbie

Il colonnello dei Ris Davide Zavattaro, a cui sono stati affidati i supplementi d’indagine disposte dal pm Boni pochi mesi fa riaprendo il caso, commenta: “La caduta non può essere avvenuta così come descritta negli atti…”

Davide Vecchi per “Ilfattoquotidiano.it”

Gli sguardi sconsolati dei vigili del fuoco lasciano trasparire la sensazione d’inadeguatezza. Perché loro ci provano a fare ciò che gli è stato chiesto, ma quel che gli è stato chiesto sembra impossibile da fare: simulare la caduta nel vuoto di David Rossi, il manager del Monte dei Paschi trovato morto la sera del 6 marzo 2013 in vicolo Monte Pio, una stradina privata sotto la finestra del suo ufficio. E infatti, dopo tre ore di tentativi rinunciano a effettuare la simulazione.

Dall’impossibile poi si passa all’inutile: gli fanno repertare tracce di residui lungo la parete esterna e nel perimetro in cui è stato rinvenuto il cadavere. Lo fanno a distanza di 39 mesi. Mesi di pioggia, neve, persone, auto. Le indagini, riaperte a distanza di tre anni, chiedono di individuare pure tracce di Dna.

I rilievi vengono effettuati anche all’interno dell’ufficio di Rossi, nel frattempo trasformato in sala riunioni. Trovare indizi seppur minimi è pura utopia. Eppure questi rilievi, che dovevano essere svolti subito, non sono mai stati effettuati. E le falle delle indagini iniziali, svolte dai magistrati Marini e Natalini, ieri si sono rilevate ancora più evidenti. Già dalla ricostruzione della caduta ufficializzata negli atti.

Lo dice lo stesso colonnello dei Ris, Davide Zavattaro, a cui sono stati affidati i supplementi d’indagine disposte dal pm Boni pochi mesi fa riaprendo il caso. “La caduta non può essere avvenuta così come descritta negli atti”, si lascia scappare Zavattaro al termine del sopralluogo.

Dopo sei ore di tentativi, per ricostruire la dinamica, gli stessi inquirenti rimettono in dubbio l’intera ricostruzione iniziale fino a spingersi a ipotizzare che il volo da Rocca Salimbeni il manager l’abbia fatto non dalla finestra del suo ufficio ma da quello del piano di sopra. E cioè dall’ufficio che all’epoca era occupato da Fabrizio Viola, amministratore delegato di Mps.

I tecnici cercheranno di calcolare la velocità di caduta del corpo studiando il video registrato dalle telecamere di sorveglianza sul vicolo: 7 frame al secondo. Ma per farlo servirebbe la bobina originale sequestrata il mattino dopo la morte in versione digitale ARV mentre quelle consegnate dai magistrati alle parti sono in AVI, un formato accelerato. Bobina che è repertata agli atti ma che sembra sparita dalla procura. E senza la registrazione originale sarà impossibile calcolare la velocità di caduta del corpo e, quindi, impossibile stabilire da quale altezza è caduto e da quale finestra.

I periti nominati dalla procura hanno tentato di certificare la versione della prima indagine che aveva archiviato il caso come suicidio scrivendo che Rossi si era gettato dalla finestra del suo ufficio di spalle. Ebbene, un vigile del fuoco ha tentato di imitare la dinamica aggrappandosi al davanzale col volto rivolto alla parete: se si fosse lasciato andare il corpo avrebbe sbattuto contro il muro e non sarebbe rovinato in mezzo alla via.

Poi i dubbi, sempre più numerosi, sulle ferite riportate dal corpo: sotto le ascelle e sulle braccia di Rossi l’autopsia ha accertato ematomi. Secondo i periti di parte dei familiari erano frutto di “costrizioni” e “afferramento” da parte di terzi. Secondo i pm Marini e Natalini, invece, erano stati causati dal davanzale al quale Rossi si sarebbe aggrappato prima di lanciarsi nel vuoto. Il vigile del fuoco ieri ha accertato che nulla poteva lesionare gli arti al manager.

Luca Goracci, avvocato della vedova Rossi, ha assistito all’intera giornata di operazioni insieme anche ai periti di parte tra cui l’ingegnere Luca Scarselli. “Soddisfatti? Abbiamo avuto conferma alle nostre ipotesi”. Scarselli, invece, è preoccupato: “Il video è fondamentale e non si trova”.

Nessuno tra amici e parenti di Rossi lo conferma ufficialmente, ma a voler arrivare alla verità sulla scomparsa di David sono in molti. Come Giuseppe Mussari che si informa con frequenza sulla scomparsa dell’amico e fidato collaboratore.

 

Mafia nigeriana in ascesa

Oltre ai capi ci sono le “maman” che ricorrono al voodoo per terrorizzare le ragazze, gli adepti di sette pseudo-religiose mimetizzati nella comunità, i boys che fanno da galoppini, i ragazzi mandati davanti ai supermercati ad elemosinare. Un vero e proprio impero criminale fondato sulla schiavitù...

Roberto Brunelli per “il Venerdì - la Repubblica”

Le ragazze arrivano dalla Nigeria senza nemmeno sapere dove sia l’Italia. Quando dicono di aver diciott’anni quasi sempre significa che non superano i diciassette. Molte non sanno né leggere né scrivere. Le portano qui promettendo un lavoro da parrucchiera, soldi, un futuro. Invece il loro destino, una volta sbarcate nel nostro Paese, è la prostituzione.Un inferno di violenze, minacce, e sfruttamento.

Solo nel 2015 sono state in cinquemila ad esser state trascinate qui, magari dai sobborghi di Benin City, oppure dalle campagne di Ihobge: prima, erano al massimo due-trecento l’anno. Il fatto è che la criminalità nigeriana è cresciuta esponenzialmente negli ultimi due anni. Una specie di boom e al tempo stesso una nebulosa, che le forze dell’ordine e gli operatori sociali ancora non hanno ancora capito bene come fronteggiare.

Eppure si tratta di mafia vera e propria: non solo bande sparpagliate sul territorio, ma una grande organizzazione internazionale - dai contorni paragonabili a quelli della ‘ndrangheta - che minaccia, sfrutta, uccide. I capi stanno al sicuro ad Abuja o a Benin City, la manovalanza lavora in Italia: le maman che ricorrono al voodoo per terrorizzare le ragazze, gli adepti di sette pseudo-religiose mimetizzati nella comunità, i boys che fanno da galoppini, i ragazzi mandati davanti ai supermercati ad elemosinare. Un vero e proprio impero criminale fondato sulla schiavitù.

Il sociologo Francesco Carchedi, docente alla Sapienza, ha condotto centinaia di interviste, ricerche sul campo, è stato numerose volte in Nigeria, ripercorrendo a ritroso le vie degli aguzzini e delle loro vittime. È considerato uno dei massimi esperti europei nel campo della tratta di esseri umani. Il quadro che delinea è sconcertante: «Si calcola che le donne nigeriane che esercitano la prostituzione in Italia sono oggi tra le 14 mila e le 18 mila. Da questo traffico nasce un giro d’affari enorme, che oscilla tra i 1,3 miliardi e i 1,7 miliardi di euro. Cifre che vengono a loro volta reinvestite nel commercio di stupefacenti ma anche nel traffico d’armi, con introiti stellari».

E non è certo una realtà che riguardi solo il nostro Paese. Un esempio: un quarto delle droghe che arrivano negli Usa transita per la Nigeria. Al cuore di tutto questo, la prostituzione. Spiega il professore: «Il flusso delle ragazze è praticamente ininterrotto. Da qui passano in Francia, Spagna, ma anche Romania, Germania e Inghilterra».

«Una struttura a stella cometa», così Carchedi definisce l’organizzazione. Al suo centro c’è una figura femminile dall’aura quasi mistica: la maman. Donna di fortissima autorità, reclutatrice, sfruttatrice, «sorella maggiore», cassiera, la maman ha alle proprie dipendenze dei boys, guardie del corpo e assistenti tuttofare.

Nella fascia più bassa di questa piramide ci sono le giovani mandate a vendersi - anche nei pressi dei centri d’accoglienza per richiedenti asilo, da cui escono e rientrano dopo essersi prostituite – e poi uomini e donne utilizzati per lo spaccio e i maschi sfruttati per lavoro e accattonaggio. Il tutto controllato dai boss che stanno in Nigeria. A rendere il quadro ancora più inquietante sono i «cultisti», ossia adepti di alcune sette di ispirazione cristiano-evangeliche e animiste.

Mimetizzati fra i fedeli, non si espongono, non si fanno notare. Ma le vittime li conoscono bene: terrorizzano chi non sta ai patti, proteggono gli affari, recuperano crediti. Non solo: nel loro modus operandi ci sono anche rapine, mutilazioni, omicidi rituali. In Nigeria e in Italia. Il quadro è quello di un’organizzazione ramificata su più livelli. «Queste mafie sono parte integrante di segmenti del potere politico nigeriano basati sulla corruzione.

Le risorse accumulate qui vengono trasferite in patria, dove la forza economica e politico-sociale dell’organizzazione si decuplica», spiega il sociologo. Una realtà duttile, capace di insinuarsi anche tra le pieghe delle leggi italiane. Ancora Carchedi: «Le bande nigeriane nel tempo hanno raffinato le loro strategie: per esempio, le ragazze al loro arrivo sono indotte a dichiararsi rifugiate politiche o profughe».

Un modo per renderle meno «vulnerabili» rispetto alle autorità. «Nel chiedere asilo queste donne esercitano un sacrosanto diritto. Il problema è che la criminalità coglie tutte le opportunità, anche quello di piegare questo diritto ai propri interessi». E le prime vittime sono, ancora una volta, le ragazze.

Soprattutto le ragazze. Il racconto di M.M, 17 anni, uno tra i tanti: «Vivevo a Benin City. Mi raccontarono che l’Italia era bella e che si guadagnava molto e si poteva avere successo nel mondo della televisione, anche come parrucchiera delle attrici. Poi mi parlarono di un giuramento davanti agli spiriti degli antenati. Era un rito voodoo. Non mi faceva paura, perché è la religione dei miei genitori. Giurai di pagare quanto mi veniva prestato: 40 mila euro. Non sapevo neanche cosa significasse quella cifra». Un patto d’obbedienza che costa caro. Invece di un lavoro da parrucchiera, lei e le altre hanno trovato l’inferno, a Caserta come a Torino, Como, Roma, Mestre. Ragazze senza diritti e senza futuro.

 

24 giugno

 

 

Bonus 80 euro, “ho rinunciato ad averlo per non restituire tutto. Ecco chi paga le leggi fatte con i piedi” – Le storie

Per una lavoratrice saltuaria come Stefania, ridare la somma in una botta sola non è stata una passeggiata. Così l'anno dopo ha deciso di farne a meno. Anche imprese, sindacati, commercialisti suggeriscono questa operazione ai lavoratori dal reddito incerto. Al massimo, se poi risulta che avevano davvero diritto al beneficio, lo riceveranno in un'unica soluzione a fine anno

di Stefano De Agostini

“Ho un lavoro part-time di 20 ore settimanali e nell’anno 2014 ho percepito il bonus. Alla fine dell’anno con il conguaglio me li hanno ripresi, perché il mio Cud diceva che avevo guadagnato meno di 8mila euro. All’inizio dell anno 2015 ho rinunciato al tuttofirmando un modulo e devo dire che è andata meglio”. Per una lavoratrice saltuaria come Stefania, la restituzione del bonus da 80 euro in una botta sola non è una passeggiata. Come lei, altri 1,4 milioni di italiani nel 2015 sono stati costretti a ridare la somma allo Stato. E come lei, in tanti avevano un reddito basso: in 341mila hanno guadagnato meno di 7.500 euro (leggi le storie). E così, c’è chi l’anno dopo ha deciso di fare a meno del bonus. E anche leimprese, i sindacati, i commercialisti suggeriscono a chi è nell’incertezza di rinunciare al beneficio, in modo da scongiurare brutte sorprese. Al massimo, se risulterà che i lavoratori avevano davvero diritto al beneficio, lo riceveranno in un’unica soluzione a fine anno.

Così è accaduto a Stefania: dopo avere rinunciato al bonus, ha scoperto che in realtà rientrava nei parametri e così l’ha percepito tutto in una volta. “Alla fine dell’anno 2015 – aggiunge la signora – il mio Cudriportava un reddito superiore a 8mila perché ho fatto un po’ di straordinari durante l’anno. Ho fatto la denuncia dei redditi e mi hanno detto che posso chiedere il rimborso. In realtà dovrò riprendere mille euro circa, non male“. Al bonus, infatti, ha diritto chi ha un reddito compreso tra gli 8mila e i 26mila euro. Ma gli 80 euro arrivano di mese in mese, mentre il reddito si conosce solo a fine anno. E così, diventa difficile prevedere se si sta dentro o meno i paletti. Inevitabile conseguenza: una gran confusione. C’è chi non l’ha percepito e l’ha ricevuto tutto con la dichiarazione dei redditi (1,6 milioni di italiani) e chi l’ha percepito e poi ha dovuto restituirlo tutto in una volta (1,4 milioni di persone).

“L’anno scorso molti colleghi hanno avuto una pessima sorpresa a Natale: lo stipendio falcidiato dalla restituzione del bonus da 80 euro. Quest’anno hanno deciso di rinunciare. Se poi ne avranno diritto, lo riceveranno a fine anno. Come era logico che fosse fin dall’inizio”. Gianni Cargnelutti lavora in un’azienda della provincia di Reggio Emilia che si occupa di componentistica per macchine operatrici. Fino a pochi mesi fa, era delegato sindacale Cobas e ha seguito da vicino le disavventure degli operai della ditta. “A fine 2015 abbiamo scoperto che una parte degli operai, pur avendo ricevuto il bonus per tutto l’anno, dovevano restituirlo perché hanno superato il limite dei 26mila euro – spiega Cargnelutti – In qualità di sostituto di imposta, a dicembre l’azienda avrebbe dovuto scalare dalla busta paga il bonus da restituire. Ma avrebbe fatto passare un pessimo Natale ai dipendenti, alla faccia del contributo alla ripresa dei consumi. Ecco chi paga le leggi fatte con i piedi nella fretta di incassare voti e potere”. Ma le cose sono andate diversamente: “Per fortuna, in accordo con i sindacati, la società ha deciso di rateizzare la restituzione in tre mesi”. E così, scampata la stangata nel 2015, per l’anno successivo l’impresa e le rappresentanze dei lavoratori hanno deciso di mettere le mani avanti. “Azienda e sindacati hanno preparato un modulo – racconta l’ex delegato – Ora i lavoratori possono rinunciare al bonus e, nel caso, riprenderlo a fine anno”.

E non solo aziende e sindacati suggeriscono ai lavoratori dal reddito incerto di congelare gli 80 euro. “Nei casi di incertezza, abbiamo consigliato ai dipendenti di rinunciare al bonus – spiega Roberto Bordin, commercialista con studio a Roma – Tanto poi a fine anno, nel caso il lavoratore ne abbia diritto, lo recupera in un’unica soluzione. Noi abbiamo predisposto un documento con il quale il lavoratore può chiedere all’impresa di rinunciare al bonus”. Anche perché la restituzione rischia di complicare non poco la vita ai dipendenti: “Già lo stipendio di dicembre è falcidiato dal conguaglio fiscale, perché le tasse penalizzano maggiormente la retribuzione. Se poi si aggiungono anche 900 euro di restituzione del bonus, l’impatto diventa pesante per il lavoratore”.

 

Cibi scaduti, ricongelati e nocivi: in Italia una mensa scolastica su 4 ha problemi

Qualità degli alimenti, costruzione del menù e assegnazione del servizio attraverso le gare d'appalto: Nas e ministero della Sanità presentano i risultati delle ispezioni svolte dai carabinieri tra 2015 e 2016. Su 2.678 controlli, 670 situazioni non conformi

di MICHELE BOCCI

UNA mensa scolastica su quattro in Italia ha problemi, di qualità del cibo, di costruzione del menù, di assegnazione del servizio attraverso le gare d'appalto. Oggi i Nas e il ministro alla Sanità,Beatrice Lorenzin, hanno presentato i risultati delle ispezioni svolte dai carabinieri tra il 2015 e il 2016. Ebbene, su 2.678 controlli sono state trovate 670 situazioni non conformi. Le strutture chiuse sono state 37 (1,4%), 101 le persone segnalate all'autorità giudiziaria e 487 all'autorità amministrativa. Alla fine i carabinieri hanno sequestrato 4.264 chili di alimenti. Chiusure e sequestri valgono 13 milioni di euro. Queste le violazioni penali contestate: frode in pubbliche forniture (58 casi), commercio alimenti nocivi (23), inadempienza in pubbliche forniture (15), alimenti in cattivo stato di conservazione (10), omissione e abuso d'ufficio (10), esercizio abusivo docenza scuola dell'infanzia (6). Dal punto di vista amministrativo sono state trovate soprattutto carenze igienico strutturali e mancate attuazioni del piano di autocontrollo (695 casi).

Sono stati fatti poi alcuni esempi dei risultati delle ispezioni. A Milano, in un centro cottura di una scuola elementare, sono stati sequestrati 36.500 articoli utilizzati per il servizio di ristorazione scolastica (tra cui piatti fondi) contenenti un additivo non consentito (fluororato). Ad Ancona sono stari trovati prodotti con caratteristiche diverse rispetto al capitolato d’appalto (congelati anziché freschi). Sequestrati 3.700 chili di carne privi di indicazioni per la rintracciabilità. "Il titolare - dicono i Nas - si approvvigionava di alimenti prossimi alla scadenza e, dopo averli riconfezionati, rietichettati con una nuova data di scadenza, indebitamente, li sottoponeva a procedura di congelamento per fornirli successivamente alle mense

come freschi". A Napoli dopo una apparente infezione alimentare presa da alcuni alunni di un istituto comprensivo, è stato denunciato l’amministratore di una ditta appaltatrice del servizio di refezione scolastica, per aver somministrato alimenti in stato di alterazione e nocivi.

 

9 giugno

 

L'agricoltura nella tempesta perfetta

Deflazione che comprime i prezzi, cambiamenti climatici sempre più estremi, una burocrazia feroce e il colpo di grazia con l'embargo russo: per chi lavora la terra è un momento difficilissimo. Dal latte alle arance siciliane, spesso i prodotti dei campi sono venduti sottocosto con il risultato che in 15 anni sono fallite oltre 300mila imprese. A salvarsi è solo chi riesce a saltare la filiera distributiva, ma non tutti se lo possono permettere

di ANTONIO FRASCHILLA, VALERIO GUALERZI e JENNER MELETTI

Un caffè vale 11 uova, il paradosso dei prezzi

di JENNER MELETTI

ROMA - Bisognerebbe tornare al baratto per capire l'economia "reale". Il contadino italiano, per avere un caffè da 1 euro, dovrebbe andare al bar mettendo sul bancone 11 uova, oppure un chilo di carne di toro o di maiale, 6 chili di frumento tenero o di mais, quasi 3 chili di riso o 2 di mele. Se produce arance, in cambio della tazzina, ne deve consegnare 6 chili. Gli va meglio con le patate o con i pomodori di serra: ne bastano 2 chili. L’allevatore di vacche deve portare almeno 3 litri di latte e magari il barista gli chiede 10 o 20 centesimi in più in cambio della "macchia". Non è in incubo e nemmeno uno scherzo: questi sono attualmente i prezzi veri dell’agricoltura italiana, ovviamente all'ingrosso, che entrano nei bilanci delle aziende agricole rischiando di farle crollare. Deflazione è purtroppo una parola ora conosciuta anche nelle campagne: secondo l'indice alimentare della Fao i prezzi all’inizio del 2016 sono scesi al livello di sette anni addietro

Scarse differenze. Fra l'Italia, l'Europa ed il resto del mondo non ci sono molte differenze. La Fao registra in particolare i prezzi dei cereali, della carne, dei prodotti lattiero caseari, degli oli vegetali e dello zucchero. L'ultimo rilevamento – gennaio 2016 contro dicembre 2015 – ha accertato una diminuzione dei prezzi pari all’1,9%, riportando così il listino ai livelli del 2009. Calo dello zucchero del 4,9% (per la maggior produzione del Brasile), calo del 3,0% per i lattiero caseari, calo dell’1,7% per i cereali, stessa percentuale per gli oli vegetali. Per la carne i prezzi diminuiscono dell’1,1% (lieve aumento solo per la carne di maiale).Esiste un preicolo crack per i coltivatori italiani? "C’è un rischio consistente – risponde Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti nazionale – di abbandono delle attività, soprattutto in settori che richiedono fortissimi investimenti".

"Lavoriamo in perdita", il grido d'allarme degli agricoltori italiani

L'esempio del latte. "Facciamo l'esempio del latte - continua Bazzana - Il prezzo è fermo o in diminuzione ormai da anni. Il latte spot – quello che non è sotto contratto ma viene messo sul mercato per la trasformazione – nel 2000 veniva pagato 33,83 centesimi al litro. Nel 2008 è salito a 50,62 e in questi giorni è pagato 23,46. Il latte alla stalla – con contratto e raccolta – oggi viene pagato 37,29 centesimi. Per questo latte nel 2008 l’allevatore incassava 43,29. Basterebbero questi numeri per comprendere la gravità della crisi. Ma c’è di più. In questi anni i coltivatori hanno dovuto fare investimenti giusti ma anche pesanti per il benessere animale, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente. Nelle stalle le sale di mungitura sono piastrellate, negli allevamenti di polli gli animali sono a terra o nelle gabbie più spaziose. In agricoltura sono stati eliminati 500 principi attivi ritenuti dannosi ed al loro posto ci sono prodotti più ecologici ma più costosi. Tutto questo mentre i prezzi di vendita continuano a diminuire. Sarà difficile andare avanti. Dalla fine delle quote latte sono già state chiuse 1500 stalle. Senza interventi seri - stabilendo ad esempio che il prezzo della vendita non deve essere inferiore al costo di produzione - le stalle vuote (basta un giorno per chiuderle, servono anni per trovare i milioni necessari per riaprirle) saranno solo l'inizio di un ulteriore abbandono dell’agricoltura".

Non è solo una questione di soldi. "Se non sei più in grado di produrre alimenti sani perché non ti pagano il prezzo giusto, il cibo arriverà – anzi, sta arrivando - da altri paesi che hanno regole e controlli più leggeri o comunque diversi dai nostri. Così la sicurezza viene messa in discussione. Il mercato alimentare è come quello della benzina: il petrolio va su e soprattutto giù ed i prezzi alla pompa restano fermi. Così è per il latte, la pasta, il pane e quasi tutto il resto. Crollano i prezzi in campagna ma il consumatore non se ne accorge. Se invece, di fronte al crollo del latte, si abbassassero anche i prezzi del formaggio, il consumo salirebbe e aiuterebbe la ripresa". Un’illusione, almeno per ora. Con il latte a 37,29 – il migliore – un mezzo litro di microfiltrato oggi costa 1 euro. Paghi soprattutto la lavorazione, il packaging, il trasporto, la pubblicità e tutto il resto. E così in tasca all’allevatore, dell’euro pagato per mezzo litro microfiltrato, arrivano poco meno di 19 centesimi.

Crisi agricoltura, l'autocritica di un vinificatore: "Abbiamo innovato poco"

Pochi centesimi decidono. Nella guerra commerciale spesso sono proprio pochi centesimi a decidere il successo o il fallimento. Si risparmia su tutto. In tante pubblicità si cita la mitica nonna con i suoi biscotti, le torte, dolci vari. La "nonna" però usava il burro, mentre adesso vanno alla grande l'olio di palma e la margarina. Tutto spiegato dai prezzi. Il burro in questi giorni sul mercato europeo costa 2823 euro la tonnellata, la margarina 980 euro e l'olio di palma scende a 751. Se vuoi battere la concorrenza, non hai scelta. "Noi della Coldiretti – dice Lorenzo Bazzana – crediamo che solo fissando un prezzo non inferiore al costo di produzione si possano salvare le aziende contadine e risalire la china. Se invece si va avanti così, si rischia forte. Se costruisci un’automobile puoi cercare di risparmiare sugli optional. Ma non puoi usare materiali scadenti nelle gomme o nei freni. Altrimenti vai a sbattere".

Il peso di burocrazia, cemento e sanzioni

di JENNER MELETTI

BOLOGNA - Dal 2000 ad oggi – questa la denuncia di Confagricoltura, Cia eCopagri – in Italia sono state chiuse oltre 310mila imprese agricole. Per dire basta sono scesi in piazza, nei giorni scorsi, migliaia di contadini e allevatori. Antonio Dosi è il presidente della Cia, Agricoltori italiani, dell’Emilia Romagna ed è vice presidente nazionale della stessa associazione.

È possibile fermare questa emorragia?
"Il numero è enorme ma può salire ancora vertiginosamente se non si mette mano ai tanti problemi 'in campo': i ritardi nei pagamenti comunitari, la burocrazia asfissiante, i prezzi all’origine in caduta libera e le vendite sottocosto, le incognite dell'embargo russo, gli investimenti bloccati, la difesa del “Made in Italy”, la cementificazione del suolo, l’abbandono delle aree rurali, i danni da fauna selvatica. Sono ancora troppi i problemi non risolti: dalla burocrazia ai prezzi sul campo, che schiacciano inesorabilmente il reddito, impedendo innovazione e sviluppo. Basti pensare che solo la macchina amministrativa - tra ritardi, lungaggini, disservizi e inefficienze - sottrae all’agricoltura 4 miliardi di euro. Ogni azienda è costretta a produrre ogni anno 4 chilometri di materiale cartaceo per rispondere agli obblighi burocratici, 'bruciando' oltre 100 giornate di lavoro. Per non parlare del crollo vertiginoso dei prezzi alla produzione e della forbice esorbitante nella filiera tra i listini all’origine e quelli al consumo".

Quanto resta, rispetto al prezzo pagato dal consumatore, nella tasche di chi produce?
"In media per ogni euro speso dal consumatore finale, solo 15 centesimi vanno nelle tasche del contadino. Solo per fare alcuni esempi le arance sono pagate agli agricoltori il 40% in meno di un anno fa: ovvero 18 centesimi al chilo, contro i 2 euro al supermercato, con un rincaro che dal campo alla tavola tocca il 1111%. O ancora un agricoltore, per pagarsi il biglietto del cinema, deve vendere 30 chili di melanzane che oggi 'valgono' 26 centesimi al kg (-61% in un anno), mentre al consumatore vengono proposte a 1,90 euro con un ricarico del 731%".

L'embargo russo ha poi aggravato i problemi.
"Tra frutta, verdura, carni e prodotti lattieri, il blocco di Mosca alle nostre produzioni agricole è costato finora 355 milioni di euro, con esportazioni 'made in Italy' dimezzate in quasi due anni. Anche per questo siamo scesi in piazza. Ci sono tematiche fondamentali che vanno affrontate e risolte al più presto e che devono essere comprese anche dall’opinione pubblica. Perché il settore primario ha un valore inestimabile a livello produttivo, culturale e di salvaguardia dell’ambiente che deve essere sostenuto e non lasciato, appunto, nell’immobilità".

Il costoso pedaggio del clima che cambia

di VALERIO GUALERZI

ROMA – "Sotto la neve il pane, sotto la pioggia la fame". Come ci ricorda il proverbio, è dalla sua invenzione che l’agricoltura è costretta a fare i conti con i capricci del tempo. L’ultimo bollettino dei danni diramato dalla Cia è eloquente: le bombe d’acqua che hanno colpito a maggio il Paese hanno causato grosse perdite soprattutto alle ciliegie. In Puglia sono andati distrutti quasi 80 milioni di euro di frutti da inizio campagna. Mentre a Ferrara, ma anche in diverse aree del Bolognese, del Basso Veneto e del Mantovano, la situazione climatica atipica ha provocato nei frutteti un grave fenomeno di "cascola", la caduta anormale e prematura dei fiori e dei frutti. La confederazione parla di "un colpo durissimo, tanto più che la Puglia è la prima regione in Italia in termini di produzione di ciliegie, rappresentando il 40% del totale nazionale, con 17mila ettari investiti (di cui 15mila nella sola provincia di Bari), 600mila quintali prodotti, un volume d'affari di 300 milioni di euro e un fabbisogno annuo di manodopera stimato in 2 milioni di ore lavorative". Tempi difficili anche per peri e albicocchi del ferrarese, con perdite tra il 50 e il 60%. Qui a compromettere l’andamento sono state le brusche e improvvise variazioni di temperatura dalla fine di aprile con minime tra 0 e 4-5 gradi e fenomeni di brina seguiti da termometri schizzati, nei momenti centrali della giornata, anche a 28 gradi in pieno sole.

Se è vero che da sempre una grandinata, una gelata o un botta di caldo possono facilmente rovinare il raccolto, è altrettanto vero però che quanto sta accadendo ora nei campi italiani è qualcosa di molto diverso dal naturale rischio che ogni contadino si assume nel momento in cui pianta un seme e sceglie di affidarsi alla clemenza del tempo. L'eccezionale si sta trasformando in normale e l'anomalo in consueto. Il riscaldamento globale aumenta infatti la sia frequenza che la violenza degli episodi meteo estremi e l’Italia, come certificano il IV e il V Rapporto realizzati dall'Ipcc (l'organismo Onu che analizza, valuta e sintetizza le pubblicazioni scientifiche in materia di clima), si trova nel cuore di un cosiddetto hot spot, ovvero in una zona particolarmente sensibile a cavallo di diverse fasce climatiche dove i cambiamenti saranno (e hanno iniziato ad essere prima di quanto stimato a suo tempo) particolarmente accentuati.

Il puntuale "piagnisteo" che arriva dalle associazioni di coltivatori e agricoltori sui danni del maltempo non è più quindi maliziosamente attribuibile solo alla proverbiale furbizia contadina per mettere le mani avanti sui prezzi, ma è un problema concreto che purtroppo promette solo di peggiorare. Solo per rimanere alla produzione delle ciliege, il pezzo pregiato di questa stagione, inun articolo pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, il professor Carlo Fideghelli del Centro ricerche per la frutticoltura, spiega: "La frutticoltura europea è prevalentemente concentrata nei paesi mediterranei e la maggior parte delle cultivar attualmente coltivate ha un fabbisogno in freddo invernale che varia da 6-700 a 1000-1200 ore (calcolate convenzionalmente da ottobre a febbraio al di sotto di 7,2°C), in linea con il normale andamento climatico. Il progressivo innalzamento delle temperature invernali, che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni, fa registrare, con sempre maggiore frequenza, un accumulo di freddo che non supera le 500-600 ore, riportando di attualità un problema che sembrava risolto".

Anche le gravissime perdite con cui hanno dovuto fare i conti l'olivicoltura italiana nel 2014 in seguito all’attacco della mosca olearia, sono stata favorite dal clima che cambia. "Purtroppo gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e hanno conseguenze dirette sulle coltivazioni: dal 2007 a oggi, per gli effetti combinati di maltempo e siccità, caldo e gelate improvvise, l’agricoltura ha già pagato un conto di 6 miliardi di euro.", commenta il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Il bilancio stilato da Coldiretti è persino più pesante: 14 miliardi di euro di danni nell'ultimo decennio a causa delle bizzarrie del tempo. "È chiaro, quindi - insiste la Cia - che ora come in futuro, c’è bisogno di azioni più incisive tanto per la prevenzione quanto per i risarcimenti alle perdite subite dagli agricoltori". In tal senso, conclude Scanavino, "è sempre più necessario rafforzare e rendere più tempestivi sia gli interventi in caso di crisi sia gli strumenti di gestione del rischio, come ad esempio quelli assicurativi e mutualistici".

Arance crack: prodotte a 20, vendute a 5

di ANTONIO FRASCHILLA

PALERMO - Una crisi senza fine. Ogni anno un nuovo record negativo. La produzione di quello che era una volta l’oro della Sicilia, adesso è soltanto un peso. Anche nell’ultima stagione la vendita di agrumi, arancia rossa su tutti e limoni, ha fatto registrare numeri a dir poco bassi e perdite per tutti i produttori. "È stata un’annata disastrosa, credo sia stata la peggiore di sempre – dice Giovanni Pappalardo, agrumicoltore e direttore Coldiretti Catania – quest'anno i prezzi sono scesi a 5 centesimi al chilo e non si sono coperti i costi di produzione perché per il coltivatore il costo al chilo per le arance è di circa 20 centesimi. Insomma, nessuna remunerazione per il lavoro, ancora piante con arance non raccolte e dove le arance sono rimaste sulla pianta l’imprenditore non può fare i lavori per mantenere l’agrumeto pronto per la prossima stagione. Quindi crescerà ancora l’abbandono della coltivazione di quello che una volta era il fiore all’occhiello dell’agricoltura siciliana e italiana".

I numeri dell’ultima stagione sono impietosi. Nell'Isola, leader assoluta nella coltivazione di agrumi in Italia, la superficie di arance coltivate è 53mila ettari: soltanto dieci anni fa erano 60mila. La produzione totale è scesa quest'anno a 11,7 milioni di quintali, nel 2006 si produceva un milione di quintali in più di arance. Ma il problema è che questi numeri non sono sufficienti a spiegare il calo della redditività: prima un quintale valeva quattro volte di più. Adesso il prezzo alla vendita scende di anno in anno a causa di una filiera troppo lunga, di una concorrenza agguerrita e per certi versi sleale dei paesi del Nord Africa e di un settore produttivo che non riesce a fare sistema: in Sicilia non vi sono grandi cooperative di produttori che possono imporre prezzi e marchi. L'arancia rossa nei supermercati di Catania è venduta a 1 euro e in alcuni casi anche 1,5 euro al chilo, nel resto d'Italia i prezzi sono stati ancora più alti. Qui ci guadagnano tutti: dal commerciante che acquista sulla pianta alla grande distribuzione. Tutti tranne i coltivatori.

Ma a cosa è dovuto il crollo del prezzo? "La risposta è semplice – dice Pappalardo - incide l'embargo russo, che di fatto riduce la domanda. E incidono gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero. Lì la mano d'opera costa 30 dollari al mese, noi un operaio lo paghiamo 50 euro al giorno più contributi. Loro in Nord Africa possono utilizzare pesticidi, noi no. Questa è concorrenza sleale".

Secondo l’osservatorio Coldiretti il rischio è che la produzione di agrumi scompaia e con questa anche la spremuta di arancia rossa. Negli ultimi quindici anni una pianta di arance su tre è sparita, una su due se si parla di limoni. Se si allarga poi l'orizzonte a tutta la produzione agrumicola italiana, negli ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari di agrumi e ne sono rimasti 124mila, dei quali 30mila in Calabria e 71mila in Sicilia. "Il disboscamento delle campagne italiane – sostiene la Coldiretti - è il risultato di una vera invasione di frutta straniera con le importazioni di agrumi freschi e secchi che negli ultimi 15 anni sono praticamente raddoppiate per raggiungere nel 2015 il massimo storico di 480 milioni di chili".

Asparago contro mais, vince chi salta la filiera

di JENNER MELETTI

FERRARA - Loris Braga, quando lo andiamo a trovare, sta seminando il mais nelle immense campagne del ferrarese, in quella che era la valle paludosa del Mezzano. Roberto Lodi sta raccogliendo gli asparagi nel suo fondo, Corte Roeli di Malalbergo. Due modi diversi di coltivare la terra, e soprattutto di affrontare il mercato. "Sto seminando – racconta Loris Braga – e ancora non ho venduto il mais dell’anno scorso. Prezzi troppo bassi, ci avrei rimesso. In questi giorni il prezzo sembra in leggera ripresa, sopra i 17 euro al quintale, e ogni settimana cresce di una decina di centesimi, che sono poi quelli che permettono di pagare il magazzino. Ma basta la notizia di una nave che arriva carica di mais per fare abbassare subito il prezzo. In sintesi: sto spendendo soldi e fatica per seminare e ancora non so se e a quanto venderò la produzione dello scorso anno".

Sognando 20 euro al quintale. Grandi campi – qui imperava il latifondo – di soia, barbabietole e mais. "Il mercato dei cereali c’è sempre stato. A rovinare noi produttori è soprattutto la speculazione. Il 70% del mais viene comprato all’estero – anche se è meno ricco di proteine e grassi – e con il 30% italiano gli speculatori giocano come il gatto con il topo. Se in prezzo scende, comprano. Appena sale anche di poco, non si fanno più sentire, fino al nuovo ribasso. Fino a una ventina di anni fa c'era più stabilità dei prezzi ed era possibile programmare una rotazione delle colture sapendo che comunque il pane lo avresti portato a casa. Fino a quattro o cinque anni fa il mais era venduto ancora a 20 o 21 euro al quintale e si faceva reddito. Venti euro sarebbe un prezzo onesto anche oggi ma ormai sembra impossibile. Perché continuo a seminare? Questa è terra benedetta per i cereali e soprattutto per il mais. Qui vicino a Comacchio produciamo 120-130 quintali per ettaro contro un media della provincia di Ferrara di 90-100 e medie ancora più basse in quasi tutta la Valpadana. Chi produce molto meno di noi, e magari non ha ancora venduto i sacchi dell’anno passato, non so proprio come possa tirare avanti. Capisce adesso perché ogni anno l’agricoltura perde migliaia di ettari?".

Davanti alla bottega di Campagna Amica alla Corte Roeli di Malalbergo c'è la fila. Al momento della nostra visita è tempo di asparagi verdi: i migliori sono venduti a 4 euro al chilo. Roberto Lodi ha 8 ettari di terra. “Inizio a fine marzo con gli asparagi e finisco a novembre con i miei cachi che hanno ormai cento anni. In mezzo, albicocche, pesche, prugne, pere, mele, con tanta attenzione a quelle specie che stavano scomparendo, come le pere dottor Guyot e abate Fetel".

C'è anche l’agriturismo. Nei prossimi giorni arriveranno cuochi stranieri per imparare a cucinare gli asparagi e a preparare i tortelloni. “Ho capito da tempo che se non tagli la filiera non ci salti fuori. I miei asparagi a 4 euro costano comunque molto meno di quelli dei supermercati e sono più freschi e buoni. È per questo che i miei clienti arrivano da Ferrara, da Bologna, da Modena, in un raggio di 20-25 chilometri". Una posizione fortunata (poche centinaia di metri da un casello autostradale) e soprattutto la capacità di tenere aperta la Bottega tutto l’anno. "Vendo frutta e verdura fresche ma soprattutto le conservo. Faccio l’esempio delle pere Abate, che sono Igp. Se le do ai commercianti, prendo 0,37 euro al chilo. Nella Bottega, appena raccolte, sono vendute a 1,50 al chilo. Le altre le faccio sciroppare in un laboratorio e mezzo chilo è venduto a 3,5 euro. Ci sono spese in più, certo,per la lavorazione, il vasetto, lo sciroppo ma un chilo di Abate così mi viene pagato 7 euro. E posso incassare tutto l’anno".

Le ricette valore aggiunto. Non pretende di insegnare agli altri agricoltori, Roberto Lodi. "E chiaro che chi produce migliaia di quintali di grano o di mais non può certo vendere a bottega in azienda. Io dico soltanto che, dove è possibile, questa è la strada giusta da prendere. Arrivi qui, vai nei campi di asparagi, li puoi anche mangiare nel nostro agriturismo, magari ti fai insegnare qualche ricetta… Ci sono verdurai di Bologna che mi telefonano e mi dicono: portami gli asparagi, il prezzo fallo tu, non importa. Sono soddisfazioni. Quando penso che ci sono colleghi che consegnano i frutti del loro lavoro ai commercianti o all’industria e non sanno quando e quanto saranno pagati, sto male per loro. L’agricoltura deve cambiare. Io posso solo indicare il pezzo di strada che ho scelto".

 

Quell'ultimo comizio di Enrico

Il 7 giugno del 1984, nel corso della campagna politica per le Europee, Enrico Berlinguer tiene a Padova il suo ultimo comizio, durante il quale è colpito da un ictus. Il momento tragico in cui egli avverte che le forze stanno per venirgli meno è notato da tanti, sia dalle persone del suo entourage che dal pubblico che lo ascolta. Un momento che si protrae, che sembra non avere fine. Nella memoria di ognuno che ha assistito a quella scena, di persona o vista in tv, resta ferma l'immagine eterna e pregna di tensione emotiva di uomo per bene prestato alla politica. Il segretario del Pci non si ferma, continua nel suo discorso alla folla, non pensa minimamente di abbandonare quel luogo per affidarsi alle cure del caso, che, a quel punto, sarebbero di massima urgenza. Non ha assolutamente intenzione di lasciare quella affezionata massa di gente e quello sventolio di bandiere rosse. Resiste, come solo chi ha una grande forza interiore può fare. Come solo chi ha cuore il suo dovere di rappresentante del popolo. Come solo chi ricambia con il giusto entusiasmo la speranza della gente comune.

Con ogni probabilità, egli vede davanti a sé solo una grande macchia variopinta in movimento, che si restringe e si allarga come un cuore pulsante negli applausi d'amore nei confronti di un uomo che ha scelto di rimanere al suo posto, come se cedere al malore fosse stato un segno di debolezza, prima ancora che una mancanza di considerazione verso quella piazza appassionata. E continua a parlare, a portarsi avanti con le parole, anche quando la sua voce ha perso ormai smalto e vigore, rivelando il suo terrificante stato di salute. Nessuno ha il coraggio di soccorrerlo, di fermarlo, di portarlo via, non per difetto di negligenza o scarsa prontezza, ma per il rispetto che si deve agli eroi nel pieno esercizio della loro funzione archetipica, nell'osservanza del loro sacrificio al di sopra di ogni umana sofferenza, nel rito dell'ammirazione incondizionata che si nutre per chi ha la stoffa del difensore degli umili.

Ancora applausi, mugugni di tensione, paura e grande preoccupazione per l'integrità del gigante segretario, che non si stacca dal microfono. Poi, un coro straziante, di una commozione che tocca l'anima: "Enrico! Enrico! Enrico!" Ed in ultimo la voce di chi non ce la fa più a reggere il pathos tellurico di quell'emozione: "Basta, Enrico! Enrico, per favore, fermati!".

La storia la conoscete. Enrico, seppure a fatica, riesce a portare a conclusione il comizio. Morì, quattro giorni dopo, l'11 giugno del 1984. Le ultime parole di quel discorso, pronunciate dal palco della Piazza della Frutta di Padova furono queste: "E ora compagne e compagni, vi invito a impegnarvi tutti, in questi pochi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo... è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà".

Tre anni prima, sollevando la "Questione morale", in un intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari su "La repubblica" affermò: "I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un 'boss' e dei 'sotto-boss'. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...".

Fonte: Huffington Post

 

7 giugno

 

Così il sistema Zonin ha piegato Vicenza

Prestiti con il "premio" in cambio dell'acquisto di azioni. La relazione interna svela il meccanismo usato per salvare i conti e aiutare i soci amici, incluso il gruppo Marchini. E ora molti dei 118 mila risparmiatori hanno perso tutto. Tutti i segnali del crack ignorati da Bankitalia e pm con l'aiuto anche di diplomatici e prefetti. Gli esposti sono rimasti inascoltati

di FRANCO VANNI. Con un commento di GIANLUCA DI FEO

Dalla voragine alla valanga

FRANCO VANNI
MILANO - Il meccanismo è quello della valanga. La voragine nei conti della Popolare di Vicenza, che ha messo sul lastrico molti dei 118mila soci, cresce fino a travolgere la banca. Già prima del 2008 l’istituto guidato per 19 anni da Gianni Zonin offre prestiti a “soci amici” in cambio dell’acquisto di azioni BpVi, con garanzia di riacquisto o di un rendimento. La pratica si trasforma, fino a divenire la leva per sostenere la crescita del gruppo e le ricapitalizzazioni del 2013 e del 2014. Se gli strumenti evolvono, lo scopo non cambia: ricapitalizzare la banca e garantire denaro fresco agli amici. Ma il il debito cresce. E negli ultimi due anni dell’era Zonin, dimessosi il 23 novembre scorso, l’acquisto di azioni viene imposto ai risparmiatori. Gli stessi che, disperati, il 2 giugno hanno manifestato alla tenuta di Gambellara, cuore delle attività di Zonin.

Il report nascosto. Per capire come le azioni di BpVi siano crollate in pochi mesi da 62,5 euro a dieci centesimi, e poi rastrellate da Fondo Atlante, basta leggere le 25 pagine della relazione depositata il 21 agosto 2015 dall’audit interno a Francesco Iorio, subentrato nel maggio a Samuele Sorato come amministratore delegato e direttore generale. Un documento che la gestione Zonin ha nascosto, ma che oggi è agli atti dell’inchiesta della procura vicentina, con indagati per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza Zonin, Sorato e altri quattro ex manager di BpVi. Il report dimostra che a Vicenza c’era una “banca nella banca”, riservata a un’élite. E i danni ricadono sui piccoli soci.

La banca nella banca. L’analisi dell’audit si concentra sulla concessione di finanziamenti correlati all’acquisto di azioni BpVi. Il ricorso alle “operazioni baciate” comincia “prima del 2008” con “primari clienti storici come i fratelli Ravazzolo, Piergiorgio Cattelan, Ambrogio Dalla Rovere, Francesco Rigon”. Per consolidarsi nel 2009 con operazioni di importo significativo, rivolte a “soci amici” per supportare “esigenze svuota-fondo”. A trattare con i soci sono Sorato e Giustini (anche lui indagato), suo vice e responsabile dei Mercati. Le operazioni baciate o “big ticket”, attivate e chiuse in sei mesi, prevedevano che al socio disposto ad acquistare azioni fosse garantito un compenso pari alla differenza fra dividendo e costo del finanziamento, cui si aggiungeva la plusvalenza ricavata dalla vendita dei titoli. In pratica, guadagnava due volte.

Il "metodo Rizzi". Alle operazioni baciate si aggiungeva il metodo messo in atto da Roberto Rizzi, gestore Private dell’area vicentina: l’erogazione di un finanziamento di importo superiore al valore delle azioni acquistate e un compenso fra 1 e 1,5 percento accreditato al socio direttamente sul conto corrente. L’audit sospetta vi fossero irregolarità nei contratti e nei meccanismi di giroconto.

Le lettere alla direzione. Nella fase iniziale, per i grandi soci il rischio era nullo. Dal 2009 le lettere di impegno al riacquisto o ad altre forme di remunerazione pattuita ammontano a 248,8 milioni di euro. Le prime lettere sono firmate da Sorato in persona. Nel 2011, dopo l’apertura della filiale in piazza Venezia a Roma, il trattamento riservato agli amici veneti viene garantito a nuovi clienti. Riporta l’audit: “Gruppo Degennaro, Bufacchi, Torzilli, Gruppo Marchini”. Quest’ultimo è il gruppo riconducibile ad Alfio Marchini, candidato sindaco a Roma, le cui società hanno ricevuto130 milioni, di cui 75 iscritti come “incagli” e difficili da recuperare. Nel 2012 Banca d’Italia fa una verifica sulla concessione di credito da parte di BpVi, “analizzando i primi 20 soci, chiedendo le proposte di fido ed i movimenti di conto corrente senza formulare rilievi”. Intanto la valanga cresce, per mole e velocità.

Vendi o ti licenzio. Nel 2013 il fenomeno dei finanziamenti in cambio dell’acquisto di azioni assume “maggiore rilevanza per importi e numero di operazioni”, si legge nell’audit. Per ricapitalizzare, la direzione segnala ai capi area la necessità di vendere azioni a chiunque chieda prestiti. E minaccia “il licenziamento in caso di obiettivi mancati”. È il giro di vite. Se i venditori avanzano dubbi, la risposta è che “investitori istituzionali come Fondi Optimum e Athena sono interessati alle nostre azioni”.

Il premio fedeltà. Con gli aumenti di capitale del 2013-2014, gli interessi relativi ai finanziamenti sono compensati con cessione di azioni come “premio fedeltà”. Oppure, se la remunerazione promessa non è raggiunta, la banca compensa il socio con “storni non giustificati”. Un’altra modalità è l’acquisto di azioni per il 50 per cento dell’importo e la sottoscrizione di un time deposit a tassi del 4 percento. Il meccanismo dei “fidi per operazione K” prevede invece vendite di azioni per il 10 per cento del totale del credito concesso. E il 14 ottobre 2014 viene deliberata la “riqualificazione degli impieghi”, per “sostenere i clienti di elevato standing creditizio”. Il prezzo dei titoli varia con la percentuale delle azioni sottoscritte.

Nell’aumento di capitale da 506 milioni del 2013, la vendita di azioni il cui acquisto è correlato ai finanziamenti pesa per 136 milioni. Salgono a 146 milioni su 607 totali nel 2014. Nel biennio 2013-2014 il valore delle azioni acquistate come contropartita di credito concesso ammonta a 506 milioni, tenendo conto delle operazioni sul mercato secondario e di altri finanziamenti a “Bpv Finance (Jupiter, Makalu, Sorgenia), al Gruppo Marchini e al fondo Agris”. Facendo un’analisi sui soci che avevano avuto accesso al credito, l’audit individua altri 481 milioni di azioni acquistate. A conti fatti, sono 941 milioni di azioni vendute come condizione per la concessione di credito. Più della metà - il 54 percento, 505 milioni – è in mano a 50 grandi clienti fra Vicenza e Roma.

Le responsabilità. “L’ideazione e l’esecuzione” delle “operazioni non ammissibili” - scrive l’audit - “sono avvenute ad opera e sotto la regia” di Sorato e Giustini. Le strategie venivano “imposte ai direttori regionali e capi area con pressioni e minacce” relative al “mantenimento di ruolo e posto di lavoro”. Pressioni efficaci, al punto da “dissuadere dal segnalare i comportamenti anomali”. Sorato e Giustini avrebbero “ostacolato con comportamenti dilatori” l’audit. Il report fu trasmesso il 4 settembre 2014 per “ulteriori verifiche”, senza esiti. Il 7 luglio 2015 Giustini avrebbe chiesto “la restituzione di qualsiasi copia del documento” ritenendo “opportuno che non fosse circolarizzato”.

Rete di protezione con ispettori, giudici e Gdf

FRANCO VANNI
VICENZA - Li chiamavano "i pretoriani". E anche se nessuno lo ha mai esplicitato, nei corridoio della Popolare di Vicenza tutti intuivano quale fosse la loro missione: controllare i controllori. Adesso dicono che questa è sempre stata l'idea fissa di Gianni Zonin, presidente della banca dal 1996 allo scorso 23 novembre. E' stato lui, già celebre come re dei vini, a segnare l'ascesa e la caduta di questo istituto, che dal Veneto si è esteso in tutta Italia con 5 mila dipendenti e 482 filiali. Un castello di carte ridotto in cenere, bruciando in pochi mesi 6,2 miliardi di euro e lasciando sul lastrico 118 mila soci che avevano investito i loro risparmi in azioni passate dal valore di 62,5 euro a dieci centesimi. Il 2 giugno le vittime del crac hanno manifestato davanti alla villa di Zonin, chiedendo alla magistratura di sequestrarla. Ma ufficialmente non è più sua, perché si è liberato di ogni proprietà, forse pronto a trascorrere la vecchiaia nei suoi possedimenti esteri. Il crollo è stato rapidissimo mentre le indagini dei pm che lo hanno scalzato dal vertice dell'istituto sono lente, tanto da non prevedere sviluppi prima dell'autunno. Eppure nel corso degli anni i campanelli di allarme sulla solidità della banca, che sponsorizzava squadre sportive e finanziava film da Oscar come la "Grande Bellezza", non sono mancati: dal 2001 al 2014 ci sono stati esposti, ispezioni di Bankitalia e due inchieste della procura che avrebbero dovuto approfondire proprio gli elementi poi rivelatisi determinanti nello sgretolamento del forziere vicentino.

Ad esempio, secondo quanto accertato dalla Bce negli anni passati, la crescita di BpVi che nel ventennio di Zonin ha portato all'acquisizione di Banca Nuova e Cari Prato è stata sostenuta imponendo ai soci l'acquisto di azioni della stessa banca come condizione necessaria per la concessione di prestiti. Una pratica denunciata da gruppi di piccoli risparmiatori già agli esordi della presidenza di Gianni Zonin. "Sin dall'inizio il suo intento era mettere al riparo la Popolare di Vicenza da verifiche e guai giudiziari - dice Renato Bertelle, avvocato di Malo, presidente dell'associazione nazionale azionisti BpVi -. Come lo ha fatto? Con nomine e assunzioni. Ha creato una rete di protezione, per evitare che franasse tutto. Ha cercato di mettere a libro paga quelli che potevano dargli fastidio, o i loro capi. E in molti casi ce l'ha fatta". Non è un caso che fra le prime iniziative del nuovo amministratore delegato Francesco Iorio ci sia stata la sostituzione dei "pretoriani", arruolati ai vertici delle istituzioni che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la banca. Porte girevoli che hanno permesso di passare dai ranghi della magistratura, delle Fiamme Gialle, di Bankitalia a quelli della Popolare.

Le crepe e i guadagni. Le inchieste avviate dalla procura di Vicenza sulla gestione di BpVi fino a oggi sonostate affossate da archiviazioni, prescrizione dei reati e sentenze di non luogo a procedere, arrivate dopo anni dall'apertura dei fascicoli. Un ventennio di occasioni sprecate. "La cosa che fa più male, vedendo i soci che hanno perso tutto, è che già nel 2001 le crepe erano visibili - sottolinea Antonio Tanza, avvocato e vice presidente dell'associazione Adusbef, che prima del 2008 aveva presentato 19 esposti contro gli amministratori vicentini - . E sono quelle stesse crepe che si sono allargate fino a provocare il crac". L'epilogo è stato il salvataggio da parte di Fondo Atlante, costretto a rastrellare per 1,5 miliardi tutte le azioni della banca, dopo il flop della sottoscrizione di capitale. "È assurdo che si sia arrivati a tanto. Le premesse del disastro erano chiare quindici anni fa", conclude Tanza.

L'ispezione di Bankitalia. Nel 2001 Bankitalia dispone un'ispezione sulla Popolare di Vicenza, la prima da quando Zonin è presidente. Al centro degli accertamenti, i criteri con cui la Popolare ha valutato le azioni. Gli ispettori, al lavoro da febbraio a luglio, concludono che il valore di 85.196 lire (44 euro) era "poco oggettivo". E che la banca, nonostante si fosse all'inizio della presidenza Zonin, era già caratterizzata da un "modello gestionale verticistico che limita l'attività del cda". Unico oppositore di Zonin in consiglio di amministrazione è l'avvocato Gianfranco Rigon, che nel 1999 lascia la vicepresidenza. A suo dire, "il ruolo presupponeva sudditanza alla autoritaria e autocratica gestione di Zonin ". Già allora c'è un episodio illuminante, sottolineato dall'avvocato Bertelle: "La storia sembra incredibile, ma è agli atti dell'inchiesta milanese su Antonveneta. Nicola Stabile, che nel 2001 era nel team ispettivo di Bankitalia, riferì di avere ricevuto un invito da Zonin a trascorrere le vacanze in una sua tenuta nel Chianti". Non solo. Luigi Amore, funzionario della Vigilanza di via Nazionale che ha firmato quella verifica, sarà poi chiamato alla Popolare come responsabile dell'Audit. Allo stesso modo Andrea Monorchio, dopo tredici anni come Ragioniere generale dello Stato, sarà nominato nel cda di BpVi fino a divenirne vicepresidente nel 2014. L'uomo che ha arbitrato i bilanci del Paese diventa una sorta di ambasciatore di Zonin nei palazzi romani del potere.

La tenuta trasformata in fortezza: ecco dove si è ritirato Zonin

Affari di famiglia. Le segnalazioni che hanno dato il via all'ispezione della Banca d'Italia finiscono sui tavoli della procura di Vicenza, che nello stesso 2001 apre un'inchiesta. Zonin viene indagato per falso in bilancio. Secondo gli esposti, gli amministratori avrebbero fatto sparire dal rendiconto del 1998 quasi 58 miliardi di lire di minusvalenze, frutto dell'acquisto di derivati. All'attenzione dei pm vicentini vengono portate anche alcune operazioni immobiliari intraprese dalla banca nel 1999 con la società Querciola Srl diretta da Silvano Zonin, fratello di Gianni. L'istituto avrebbe pagato affitti per un valore eccessivo, con danno per i soci. L'allora procuratore capo, Antonio Fojadelli, avoca a sé il fascicolo. Esperto in criminalità organizzata - aveva guidato le inchieste sulla mala del Brenta - chiede l'archiviazione. Il gip Cecilia Carreri respinge la richiesta e ordina l'imputazione coatta per Zonin. Ma nel 2005 la giudice viene travolta da uno scandalo dai contorni oscuri, nato dalla pubblicazione di una sua foto sul giornale locale. Per Zonin la vicenda si chiude con una sentenza di non luogo a procedere. Fojadelli nel 2011 lascia la magistratura e tre anni dopo Zonin lo chiama nel cda della Nord Est Merchant, detenuta da BpVi. Direttamente dalla guardia di finanza arriva invece Giuseppe Ferrante, ex capo del nucleo di polizia Tributaria di Vicenza, già dal 2006 responsabile della direzione Antiriciclaggio della banca. Anche l'avvocato Massimo Pecori, figlio di uno dei pm di punta della procura cittadina, ottiene incarichi per l'istituto. Ma, come spiega lui stesso, la Popolare "ha centinaia di legali sotto contratto". L'istituto di Zonin infatti è il simbolo stesso della ricchezza in un NordEst che all'epoca non conosce crisi.

Gli esposti del 2008. Adusbef il 18 marzo 2008 segnala a Bankitalia e alla procura di Vicenza "il ricorso illegittimo da parte della Popolare al prestito obbligazionario subordinato per reperire 220 milioni dei complessivi 950 di rafforzamento patrimoniale" e denuncia "il valore inverosimile della quotazione azionaria". Per la prima volta, si fa riferimento a "metodi estorsivi per diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi", ipotesi alla base delle attuali inchieste aperte dopo il crollo. Nel 2008 il procuratore di Vicenza è Ivano Nelson Salvarani. L'inchiesta viene affidata al pm Angela Barbaglio, che il 15 aprile 2009 chiede archiviazione, "non ravvisando credibili ipotesi di reato". Il 21 aprile l'ufficio del gip di Vicenza chiude il fascicolo senza nemmeno comunicarlo ad Adusbef. Intanto, Zonin rafforza la fortezza attorno alla banca, continuando ad arruolare magistrati e uomini di vertice delle istituzioni bancarie. Già alla fine del 2008 arriva Mario Sommella, assunto come addetto della Segreteria generale dell'istituto, lo stesso ruolo che aveva ricoperto in Banca d'Italia.

Le porte girevoli. Luigi Amore e Mario Sommella non sono gli unici uomini di vertice di Bankitalia ad approdare a Vicenza. Nel 2013 Zonin ingaggia alle relazioni istituzionali di BpVi Gianandrea Falchi. Già membro della segreteria quando governatore era Mario Draghi, aveva condotto una seconda ispezione sulla Popolare di Vicenza, i cui risultati costituiscono la spina dorsale dell'attuale inchiesta della procura di Vicenza sulla gestione Zonin. Nel dicembre 2012 la verifica si conclude con un verdetto "parzialmente sfavorevole" e senza sanzioni. Come "ambiti di sofferenza" viene indicata la valutazione dei cespiti ricevuti a garanzia dei crediti. Quello che la verifica non mette in luce fino in fondo è il cuore del problema: il meccanismo della concessione di finanziamenti in cambio dell'acquisto di azioni della banca, che sarà reso esplicito solo quindici mesi dopo dall'intervento della Bce, con i conti ormai irrimediabilmente compromessi.

Nel 2012 Zonin appare ancora forte, come il gruppo che guida. Da un anno il prezzo delle azioni è fissato a 62,5 euro e il numero dei soci (che nel 2008 erano 60mila) lievita. È in quei mesi che il cda di Banca Nuova istituto con 100 sportelli in Sicilia, creato nel 2000 a Palermo da BpVi - nomina come consigliere indipendente Manuela Romei Pasetti, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, competente sul territorio di Vicenza. "Zonin, come sempre nella sua vita, ha fatto le cose in grande anche quando si è trattato di comporre i cda di fondazioni e controllate - dice l'avvocato Bertelle - verso la fine della sua avventura in banca, aveva così tanto potere da portarsi in casa prefetti e diplomatici". Il prefetto è Sergio Porena, rappresentante degli Interni a Vicenza fra il 1989 e il 1991, e già probiviro di BpVi. Zonin gli apre le porte del cda della Fondazione Roi, di cui lui stesso è presidente. Il diplomatico è Sergio Vento, già ambasciatore a Parigi, ingaggiato da Zonin come vice presidente di Nord Est Merchant Due, società di risparmio gestito di BpVi. Nulla di straordinario. In centri di provincia come Vicenza, Arezzo, Treviso, Chieti, Ancona, Ferrara gli istituti locali erano il cuore della ricchezza e del potere, elargivano finanziamenti, incarichi e offrivano prestigiose poltrone. In ogni città si è ripetuto un copione simile, con controllori incapaci di riconoscere i segnali del crollo.

E adesso il prezzo di quella grande illusione lo pagano migliaia di risparmiatori. Senza che nessuno si ponga il problema di cambiare le regole e creare meccanismi più efficaci di vigilanza. Una settimana fa, durante la visita di Sergio Mattarella ad Asiago, un gruppo di azionisti della Popolare di Vicenza, una rappresentanza dei tanti che hanno visto il valore dei loro investimenti passare da 62,5 euro ad azione a soli dieci centesimi, gli ha consegnato un appello: "Siamo stati educati a rimboccarci le maniche e lavorare ancora di più per ricostruire

quanto abbiamo perduto, ma non vogliamo sentire denigrare o irridere la nostra operosità. Vogliamo giustizia, vogliamo che i responsabili di questo tracollo siano messi di fronte alle proprie responsabilità".

Vittime e movente ci sono, ora tocca ai colpevoli

di GIANLUCA DI FEO

ROMA -Si conoscono le vittime. Sono gran parte dei 118 mila soci che in Veneto, ma anche in Toscana, Friuli e Lombardia, che hanno visto crollare il valore delle azioni da 62,5. Le indagini hanno ipotizzato pure il movente: garantire un sistema di potere, sostenendo gli amici con varie forme di finanziamento. Mancano però i responsabili. A sette mesi dalle dimissioni forzate di Gianni Zonin, arbitro dell'ascesa e caduta dell'istituto, l'inchiesta penale è ancora in alto mare. Tra carenza di organici nella procura e difficoltà tecniche nella ricostruzione delle operazioni, non si annunciano sviluppi prima dell'autunno.

Zonin ha ceduto tutti i suoi beni e si è rinchiuso nella villa fortezza friulana, con proprietà di famiglia all'estero per un eventuale esilio futuro. E l'ira di chi ha perso i risparmi continua a crescere. «L'unica magra consolazione – ha dichiarato il viceministro all'Economia Enrico Zanetti - è che appena il Fondo Atlante avrà fatto pulizia di questo cda incapace di voltare pagina, partiranno al 100% tutte le azioni di responsabilità che, con grave danno reputazionale per la banca, la città e più in generale il sistema Paese, ancora non sono partite».

Sulla scia dell'inchiesta di Repubblica sulle “porte girevoli” che hanno trasformato gli ispettori di Bankitalia e gli investigatori incaricati di fare luce sulla banca in suoi dirigenti, Zanetti sottolinea: «Come si fa a dire ai Veneti che i controlli sono stati sicuramente adeguati e sufficienti? Per questo noi diciamo no ad accuse a scatola chiusa alle nostre istituzioni di vigilanza, ma anche no ad assoluzioni a scatola chiusa e riteniamo importante una commissione che aiuti a capire cosa non ha funzionato e se ci sono delle colpe individuali».

Le associazioni di consumatori Adusbef e Federconsumatori si sono rivolte invece al Ministro della Giustizia Orlando, al presidente della Repubblica e del Csm Mattarella, al vice presidente Legnini ed a tutti i membri del Csm, al presidente dell'Anm Davigo, all'Autorità Anticorruzione di Cantone, al premier Renzi e al ministro Padoan. Chiedono «di intervenire per ripristinare i diritti e la legalità violata, essendo intollerabile che i protagonisti di un crac annunciato, che in Veneto ha prodotto un buco di 18,9 miliardi di euro, siano ancora a piede libero».

Nelle inchieste sui crac dell'ultimo ventennio, la prigione non si è mai rivelata un deterrente efficace. La detenzione di Calisto Tanzi non ha impedito che altri imprenditori senza scrupoli manovrassero società e banche ai danni dei soci e degli investitori. Quello che continua a mancare nel nostro paese è un meccanismo di controllo efficace che tuteli i risparmiatori. E una giustizia celere che colpisca i patrimoni di chi ha lucrato senza mai dovere rendere conto delle proprie responsabilità.

 

Se le rovine vanno in rovina

Il nuovo direttore, Gabriel Zuchtriegel, spiega che non un centesimo dei 38 milioni destinati a Paestum può essere usato rimuovere la strada, perché le varie tabelle del finanziamento, nei capitoli di spesa, non lo prevedono….

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”

La comprereste per mezzo milione di euro una casa diroccata impossibile da restaurare perché costruita sopra l' anfiteatro di un celeberrimo sito archeologico e quindi stracarica di vincoli? Eppure così c' è scritto, sul cartello: «Vendesi». A chi, se potrebbe comprarla solo lo Stato? «Compriamola!», direte voi. No: anche se a Paestum stanno arrivando (era ora!) 38 milioni di euro, per quella casa non si può spendere un solo cent. Non è previsto dai «capitoli di spesa» burocratici.

Per capire cosa faccia quella catapecchia proprio là, sopra l' antico anfiteatro, occorre tornare al 1829 quando l' ingegnere Raffaele Petrilli, sciaguratamente incaricato di costruire la «Tirrena inferiore» da Salerno verso le Calabrie, pensò bene di tagliare in due le rovine di Paestum, demolire la Porta Aurea, segare a metà l' anfiteatro e il Foro per non disturbare con la nuova arteria, si disse, un signorotto della zona che aveva la tenuta lì.

Risultato: salvata la parte ad ovest, tutta la parte est dell' area archeologica è stata via via sommersa da casette e casone, ville e villini, trattorie e gelaterie, pizzerie e botteghe di cianfrusaglie. Tempietti di plastica, terracotta, metallo, tempietti da attaccare con la calamita al frigo, tempietti nelle sfere di vetro che se le giri cade la neve…

Altri tempi? Per niente! Era passato oltre mezzo secolo, quando fu fatta quella strada criminale, dal 1776 in cui Alphonse de Sade aveva lanciato la sua invettiva contro chi amministrava le rovine di Pompei: «Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». C' era già la consapevolezza che i siti archeologici andavano rispettati. Tanto è vero che il barbaro Raffaele «Attila» Petrilli finì sotto inchiesta.

Uno Stato serio, ormai alla vigilia del duecentesimo anniversario (mancano una dozzina di anni) dell' osceno stupro cementizio, requisirebbe una volta per tutte l' arteria, che oggi appartiene al Comune e non accoglie più (ovvio…) il traffico della «Statale 18».

E rileverebbe a prezzo sensato (guai se accettasse le estorsioni di questo o quel privato) il rudere che dicevamo più altri pezzi di terra, costruiti o no, per ricomporre quanto più è possibile dell' unitarietà dell' antica Paestum. Cosa prevista, tra parentesi, dallo Studio di fattibilità firmato anni fa da Ottavia Voza e Fondazione Paestum.

Macché. Dopo lo spreco in passato di milioni di euro (due per il sottopasso pedonale della stazione con sedia mobile per i disabili subito arrugginita, tre per i due parcheggi e Visitor center in cartongesso e subito devastati, per non dire dei soldi buttati per un marciapiede in teak: manco si trattasse di una barca a vela) sono ora in arrivo 38 milioni di euro. Per la precisione: 20 dal ministero dei Beni culturali di Dario Franceschini (onore al merito) e 18 di «Pon», fondi strutturali europei.

Ossigeno. Ma… Al suo arrivo, mesi fa, il nuovo direttore Gabriel Zuchtriegel, archeologo, 34 anni, tedesco ma da molti anni in Italia, si era trovato in una situazione da mani nei capelli. Manutenzione ridotta al minimo. Non un cartello tra gli scavi che fosse leggibile e in condizioni decenti.

Non una bacheca del primo piano del museo che non avesse le lampadine bruciate, coi turisti che accendevano la pila del telefonino per vedere i pezzi. Non una tenda che non fosse lurida. Non una moquette decorosa: era squarciata perfino quella nella stanza della meravigliosa Tomba del Tuffatore. Ciliegina sulla torta: il crollo del controsoffitto della sezione romana, all' ultimo piano, venuto giù aprendo uno squarcio di due metri per sette, con conseguente chiusura di tutta la sezione. Da avvampare di vergogna davanti a ogni turista. Pochi rispetto al valore del sito: 132.032 visitatori paganti nel 2014 contro i 157.747 del 1996.

Estraneo al temperamento bellicoso di altri svevi, Gabriel Zuchtriegel dice di aver scelto di fare un passo alla volta. La moquette. Le tende. Le lampadine. I controsoffitti. Il dialogo diretto coi dipendenti: «Ho cercato di parlare a tutti, uno ad uno». Inutile partire senza soldi. O tappare un buco mentre se ne aprivano altri. Meglio individuare le soluzioni e tenersi pronti per dare a tutto, finalmente, una sistemata.

Nel frattempo, «spendendo solo duemila euro», ha fatto sfalciare l' erba e mettere in sicurezza i cavi elettrici sparpagliati ovunque e a Pasqua ha aperto (prima volta) il Tempio di Nettuno. Migliaia e migliaia di turisti. Trionfale.

Adesso, i lavori partono sul serio. Dal restauro della sala del Tuffatore (sponsor quel Vannulo che passa per un «mozzarellaro umanista» e fa sentire Mozart alla bufale ed è ricambiato con mozzarelle squisite) a tutto il resto.

A partire dal Museo e dalle rovine dell' impianto Cirio che sono qualche centinaio di metri più in là dove stava il «tempio di Santa Venera». Stabilimento che aumenterà finalmente gli spazi espositivi permettendo di vedere stabilmente i pezzi conservati nei depositi, alcuni dei quali straordinari, esposti per la prima volta da metà aprile ma solo al venerdì e per pochi fortunati.

Resta, per chi ama Paestum, quel cruccio: perché non si comincia a rimuovere pezzo a pezzo quello stradone indecente per ricomporre quanto più si può dell' antica città a partire dall' Anfiteatro mozzato dall' ingegnere vandalo? Passi per il dubbio se rimettere o no in piedi monumenti abbattuti da un terremoto nel IV secolo a.C. come il Tempio G a Selinunte. Ma se Antonio Cederna battagliò per rimuovere la via dell' Impero voluta da Mussolini per far rivivere i Fori, perché non rimuovere la «Statale 18» e far rivivere l' anfiteatro?

Niente da fare: dei soldi in arrivo, spiega il direttore, non un centesimo può essere usato per comprare quella stamberga o rimuovere la strada. Perché? Perché le varie tabelle del finanziamento, nei capitoli di spesa, non lo prevedono. Non puoi comprare una matita, sancisce la burocrazia, se devi comprare penne. Sarà, ma sapete quante pagine ha Google su Paestum solo in tedesco?

Mezzo milione. Più mezzo milione in francese e mezzo milione in spagnolo e mezzo milione in inglese e così via. Ve l' immaginate l' impatto mondiale di una rinascita dell' Anfiteatro e del Foro? O il figurone che farebbe un mecenate se comprasse quella catapecchia e la donasse allo Stato per farci ciò che va fatto? Insomma: se non ora, quando?

 

Crack Banca Etruria

Fabio Tonacci per “la Repubblica”

Mentre l’Etruria sprofondava nell’abisso del fallimento, e le obbligazioni in mano a migliaia di risparmiatori diventavano cenere, un piccolo istituto controllato dai vip dell’alta finanza, il Credito Fondiario spa, faceva l’affare del decennio. Ha comprato più di trecento milioni di euro di crediti vantati dalla Popolare aretina al prezzo “di saldo” di 49 milioni. Con l’autorizzazione della Banca d’Italia, emessa poco prima che l’Etruria venisse dichiarata insolvente dal Tribunale fallimentare di Arezzo.

Un’operazione fatta con tempistica e criteri quantomeno singolari, che hanno spinto il pool di magistrati guidati da Roberto Rossi a disporre alcuni accertamenti per ricostruirne i passaggi. La storia dell’affare di Fonspa è riassunta nella relazione finale del commissario liquidatore Giuseppe Santoni, inserita negli atti dell’indagine per bancarotta fraudolenta.

Torniamo dunque al novembre di un anno fa. Al comando della vecchia Etruria ci sono da qualche mese i due commissari inviati da Palazzo Koch, Sora e Pironti, i quali stanno toccando con mano il disastro dei conti già segnalato nelle relazioni ispettive di Bankitalia.

Il portafoglio dei crediti in sofferenza (cioè difficili da recuperare) ammonta a 1,9 miliardi, e per qualcuno sono una torta da mordere prima che la procedura di fallimento - a quel punto assai probabile - congeli il patrimonio. Si è fatto avanti il fondo Algebris di Davide Serra, l’imprenditore vicino al premier Matteo Renzi, ma non si è concluso niente. Sul tavolo c’è anche offerta del Credito Fondiario, che secondo alcune fonti finanziarie era stata presentata ai vecchi manager quando l’Etruria non era in amministrazione controllata.

Fonspa è un salotto esclusivo. È controllato dalla Tages Holding di Panfilo Tarantelli, manager del colosso finanziario americano Citigroup. Ai vertici del gruppo ci sono, o sono passati, Piero Gnudi (ex presidente Enel, ora commissario dell’Ilva), l’ex Bce Lorenzo Bini Smaghi e Jean Baptiste de Franssu, presidente dello Ior. Tra i soci, Alessandro Benetton, la famiglia De Agostini e Umberto Quadrino, ex Fiat e ora presidente di Edison.

«Il 16 novembre — scrive Santoni — la banca perfezionava la cessione di un portafoglio di crediti a Sallustio srl, società veicolo di Credito Fondiario: 1.860 posizioni cedute per un valore di 302 milioni, riferiti per due terzi a esposizioni chirografarie (cioè senza nessuna garanzia reale o personale, ndr) e un terzo a esposizioni con garanzia ipotecaria. Il corrispettivo è di 49,2 milioni ». Un sesto del valore. Con quale criterio sono stati scelti i crediti? Difficile pensare che Fonspa abbia acquistato quelli impossibili da recuperare, e comunque Santoni non lo specifica.

L’operazione si conclude con un tempismo perfetto: sei giorni prima del decreto Salva-Banche. «Era condizionata — sottolinea però Santoni — all’ottenimento della autorizzazione della Banca d’Italia». Anche quella arriva in extremis, pochi giorni prima della sentenza di fallimento dell’11 febbraio 2016.

 

Dall'Arabia Saudita all'Angola, che affare gli Stati canaglia

I rapporti economici dell’Italia con i regimi peggiori del mondo sono in crescita da un anno. Compresa la vendita di armi

DI EMANUELA SCRIDEL

I rapporti economici e politici fra l’Italia e numerosi paesi i cui regimi sono classificati fra i peggiori al mondo si sono moltiplicati negli ultimi anni, in particolare nel 2015. Oltre all’Egitto, sono Stati repressivi e non democratici Angola,Iran, Arabia Saudita,Turkmenistan eKazakistan. Fra 6 e 7 oscilla infatti il punteggio assegnato a questi paesi daFreedom House : più alto è il punteggio (e sette è il massimo) peggiore è il regime e massima la violazione dei diritti umani.

Come per l’Egitto, dal 2014 vi è stato un intensificarsi dei rapporti economici anche con l’Angola, oggi terzo partner commerciale sub-sahariano dell’Italia con una presenza italiana caratterizzata principalmente da Eni e Inalca-Cremonini. Ma è sul settore militare che l’Italia intende puntare. E infatti, nel 2014, il tour promozionale dell’industria bellica denominato “Sistema paese in movimento” guarda all’Angola: un giro d’affari potenzialmente miliardario che può coinvolgere Fincantieri, Selex ES, Oto Melara e molte altre imprese e che pare stia iniziando a dare i suoi frutti. È dello scorso gennaio il contratto di Finmeccanica e Selex in Angola per forniture militari per più di 300 milioni di euro.

Ma chi è il presidente angolano con il quale facciamo accordi?José Eduardo dos Santos è salito al potere con una serie di brogli elettorali nel 1992 e oggi, dopo alterne vicende, è ancora in carica. Insieme alla sua famiglia detiene le maggiori ricchezze del Paese. Il suo operato è stato condannato da molti organismi internazionali che si battono per la difesa dei diritti umani: l’Angola è classificata oggi come “dittatura” sia dal Democracy Index dell’“Economist” sia da Freedom House. Jose Filomeno, il figlio del presidente, soprannominato “il Principe”, è attualmente capo del Fondo sovrano nazionale. In Angola è considerato più importante del padre a livello politico, e insieme agli altri membri della famiglia si spartisce tutti i settori chiave dell’economia. Sua sorella, Isabel, è considerata dalla rivista “Forbes” la donna più ricca dell’Angola. Nel contempo il reddito medio angolano si aggira intorno ai 1.600 euro l’anno.

Dall’Africa al Medio Oriente il passo è breve e i flussi di denaro non conoscono confini. I noti accordi tra imprese e istituzioni italiane e iraniane - stipulati nel corso della recente visita del presidente Hassan Rouhani in Italia - valgono 17 miliardi di dollari. Una lista di 24 accordi destinati ad aumentare. Dai trasporti alla ingegneristica, passando per la cantieristica e la raffinazione.

Può darsi, che come afferma Rouhani, a seguito dei recenti risultati elettorali nella Repubblica Islamica dell’Iran si respiri «un’atmosfera nuova». Ma secondo quanto riportato da diversi osservatori internazionali, fra cui Nessuno Tocchi Caino, nei due anni di presidenza di Rouhani sono stati giustiziati 2.277 detenuti. Oltre al fatto che le esecuzioni di minorenni sono continuate nel 2015, fatto che pone l’Iran in aperta violazione del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che ha però ratificato.

Peggio ancora la situazione in Arabia Saudita dove il numero di esecuzioni ha raggiunto il suo livello più alto degli ultimi cinque anni: nel 2015 sono state almeno 102, contro 78 del 2013. Sotto il comando della dinastia saudita è fatta rispettare rigorosamente la legge della dottrina wahhabita, un’interpretazione fondamentalista del Corano. Molte libertà fondamentali proprie della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non esistono. Ciononostante, come spiega la nota economica della Farnesina del gennaio 2016, «le relazioni economiche italo-saudite vivono un momento decisamente favorevole e strategico per i nostri interessi nazionali. Il Regno è infatti largamente disponibile a intensificare le relazioni economiche con l’Italia, che gode di un’immagine complessivamente positiva, e a sviluppare iniziative economiche e finanziarie di comune interesse». Per valore complessivo dell’interscambio con l’Arabia Saudita, l’Italia figura nel 2014 come undicesimo partner commerciale del regno a livello mondiale e come il terzo tra i paesi della Ue.

Gli ultimi due anni hanno visto il consolidarsi anche dei rapporti fra l’Italia e due delle cosiddette repubbliche ex sovietiche, a tutti gli effetti regimi dittatoriali: ilTurkmenistan e il Kazakistan. Il “Democracy Index” dell’Economist annovera da diversi anni il Turkmenistan tra i regimi più autoritari del mondo: sia il Dipartimento di Stato degli Usa sia numerose organizzazioni umanitarie denunciano da tempo le reiterate violazioni dei diritti umani. Nel 2014 Renzi è il primo capo di governo occidentale a recarsi nel Paese centroasiatico. Una visita sfociata nell’accordo siglato dall’Eniper la gestione e l’uso di idrocarburi in Turkmenistan.

Ancora una volta a completare il quadro dei rapporti economici fra i due paesi vi è il business delle armi: in pochi anni è stata autorizzata l’esportazione di un arsenale dall’Italia verso il Turkmenistan che nell’insieme vale quasi 370 milioni di euro.

Quelli fra Italia e Kazakistan sono invece rapporti di lunga data, per nulla scalfiti dal caso Shalabayeva. Il Kazakistanpossiede risorse naturali in grandissima quantità. Occupa il dodicesimo posto nel mondo per riserve di petrolio ed il quattordicesimo per quelle di gas. Inoltre è il primo Paese al mondo per la produzione di uranio. A ciò si aggiunge, negli ultimi vent’anni, un tasso di crescita medio annuo tra i più dinamici, pari a circa l’8 per cento. Dal punto di vista della forma di governo, sebbene si autodefinisca una Repubblica presidenziale, il Kazakistan è un regime dispotico. Il presidente Nursultan Nazarbaev, in carica dal 1991, gode di un potere praticamente assoluto. Nell’aprile del 2015 si è fatto legittimare da elezioni farsa con il 97,8 per cento dei voti: una consultazione condannata dalla Osce come particolarmente carente nel rispetto degli standard internazionali di democrazia.

Nonostante questo, i rapporti fra Italia e Kazakistan sono andati intensificandosi, come dimostrano i risultati del business forum italo-kazako svoltosi a Milano nel giugno 2015, in cui i due Paesi hanno firmato accordi commerciali per un valore di 500 milioni di dollari. L’Italia è oggi al terzo posto tra i partner commerciali del Kazakistan, dopo Russia e Cina, e tra i principali investitori europei. Roma continua inoltre ad essere uno dei principali fornitori di armamenti leggeri al Kazakistan: destinate alle Forze Armate, hanno un valore stimato poco al di sotto del milione di euro. È peraltro di qualche mese fa la ratifica dell’accordo tra i governi italiano e kazako sulla cooperazione militare, grazie al quale si promuove l’esportazione e l’importazione di materiale della difesa nei settori aeronautico, navale militare e l’approvvigionamento di armamenti..

Fonte: L'Espresso

 

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