Non c'è posta per te

di Stefano Del Vecchio e Gianni Pitrelli
Lettere mai recapitate. O buttate nella spazzatura. Raccomandate scomparse. Pacchi irrintracciabili. Tra appalti esterni e risparmi, si moltiplicano i disservizi
 
 
Siamo sotto le feste, ma se vuoi mandare un biglietto d'auguri a qualcuno devi essere fortunato. Devi riuscire a trovare una buca e devi incrociare le dita che il postino passi a ritirarlo. Se il biglietto lo stai aspettando, invece, devi sperare che la tua zona sia ancora servita. E anche augurarti che un portalettere frustrato non la butti nella spazzatura. Ma che poi arrivi in tempo è tutto un altro paio di maniche. Come ha raccontato in un articolo sui suoi tre anni italiani l'inglese Lisa Hilton: "L'anno scorso, per esempio, ho ricevuto le cartoline di Natale a Pasqua. Le mie lamentele si sono scontrate invariabilmente con un'alzata di spalle e un rassegnato 'è così'".

La giornalista britannica non è un caso isolato: le associazioni di consumatori moltiplicano le segnalazioni di disservizi di Poste Italiane: dai pacchi accumulati e non consegnati, alle raccomandate che tocca andare a ritirare all'ufficio postale. Alle Poste, però, minimizzano: "La consegna della corrispondenza in Italia dopo la conclusione del processo della riorganizzazione del servizio di recapito e la stabilizzazione di migliaia di portalettere è oggi regolare. Isolati casi di ritardo nella consegna della posta sono dovuti esclusivamente alle ultime fasi di conclusione del progetto".

Eppure a volte la realtà sfiora l'assurdo. Come nel caso, denunciato dal Movimento difesa del cittadino, di una signora che aveva spedito medicinali antimalarici a suore missionarie di Brescia. Ora saranno anche scaduti, perché a destinazione non sono mai arrivati. Il postino si è scusato così: aveva bussato al convento, ma nessuno ha risposto. E poi c'era una signora, felice di poter rendere la propria casa più 'verde' grazie agli incentivi energetici. Di cui però non ha visto traccia, perché la documentazione, inviata con raccomandata, alla Agenzia delle entrate di Pescara non è mai arrivata. Spesso poi, come racconta un cittadino milanese, "nessuno suona al citofono per consegnarmi un pacco, ma lasciano l'avviso 'destinatario assente', così sono costretto ad andare a ritirarlo al deposito".
Eppure quello del recapito di buste, pacchi e affini è un servizio 'universale', che le poste dovrebbero garantire a tutti i cittadini per 365 giorni l'anno. Anche perché in cambio ricevono denaro pubblico. Ma forse Poste Italiane preferisce fare tante altre cose che rendono di più: fa la banca, fa la compagnia telefonica, fa il commerciante. Lo dimostra il fatto che il 30,8 per cento dei suoi guadagni proviene dai servizi finanziari (a fronte di quelli postali, che si fermano al 2,2). E in futuro questa forbice è destinata ad allargarsi, dato che l'azienda affida ad altre imprese proprio quei servizi che le danno il nome: dal 2007 a oggi, come si legge da documenti riservati aziendali, il bouquet di attività passate di mano vale oltre 70 milioni. Significa che vaste aree del territorio vengono coperte da società terze (come Tnt Post Italia a Torino, Romana Recapiti nella capitale e Corel a Bari). "Poste Italiane, però, si tiene strette le zone più ricche delle città, lasciando le aree periferiche e più difficili da servire, alle ditte appaltatrici". Lo racconta un precario di Romana Recapiti: "A Roma le vie centrali sono roba loro, mentre a noi toccano quelle più rognose". E siccome gli appalti Poste li assegna al ribasso (l'azienda che offre di meno vince, a prescindere dalla qualità del servizio), le ditte appaltatrici risparmiano sui lavoratori. "Meno dipendenti esperti, più precari pagati a cottimo e poco preparati". Tutto a discapito di mittente e destinatario. "È ovvio che queste società saranno interessate al maggior guadagno possibile, ma non al miglior servizio possibile", dice Paolo Martinelli, presidente del Beuc, coordinamento europeo delle associazioni di consumatori, "così si accentua la catena dell'inefficienza".

Non solo: "Ci sono ben 150 zone del nostro Paese dove i postini non li vedono neanche passare", denuncia Graziano Benedetti, responsabile Cgil Poste. Senza dimenticare che, come raccontano quelli di Altroconsumo, la riorganizzazione del servizio di recapito ha significato meno buche delle lettere e meno giri dei postini per ritirarle. A Genova, ad esempio, all'aeroporto c'è più di una dozzina di cassette stracolme, e alla stazione ce n'è un'altra ventina. Colpa dell'effetto imbuto: diminuiscono i postini, aumentano i quartieri da coprire. Con risvolti pazzeschi. C'è il postino comasco, diciannovenne e precario, che getta nell'immondizia un intero sacco di lettere. "Ero troppo stressato perché non riuscivo a trovare le case dove recapitare la posta", si è giustificato. C'è il giovane postino fiorentino pizzicato dai carabinieri con 230 lettere non recapitate nel bagagliaio. Il contratto trimestrale non gli era stato rinnovato. E poi c'è un suo collega bresciano che ha fatto entrambe le cose: imbucava la posta nei cassonetti. E quando non la buttava, la teneva in macchina. Voleva fingersi più veloce nella consegna, sperando in un'assunzione a tempo indeterminato.

"Il problema di Poste Italiane è lo stesso di Trenitalia: latitano i controlli del rispetto degli standard qualitativi", commenta Martinelli: "Mentre per energia e telecomunicazioni esistono delle authority che oltre a fissare gli standard fungono da strumento di verifica e controllo, per le poste tutto questo manca. È ancora il ministero che dovrebbe controllare, in teoria. Ma in pratica non avviene". E allora a chi tocca? "Di lettere che denunciano fatti come questi i giornali locali sono pieni. Non li leggono, i sindaci?", chiede Matteo Salvini, deputato della Lega Nord: "Dovrebbero essere gli stessi amministratori locali a tutelare i propri cittadini, e a fare una telefonatina come si deve agli uffici postali". Quindi restano le volenterose associazioni di consumatori, che hanno sottoscritto un accordo per la risoluzione delle controversie. "Il 98 per cento di tutte le procedure attivate si è concluso a favore del cittadino", annunciava trionfalmente Rosario Fazio, responsabile marketing di Poste, a 'Mi manda RaiTre'. Peccato che questo significhi che in quei casi le Poste avevano torto. E peccato che, al di là della magra consolazione di un risarcimento, il danno ormai era stato fatto.

Ma in Italia, si sa, le cose si risolvono solo quando si muove la politica. È quello che è accaduto in Lombardia: lì agli inizi dell'anno la gestione di 75 mila raccomandate era stato affidata a due società, la Tnt Milano e l'Act di Carlo D'Angelo. Quest'ultima è una cooperativa che definire eclettica è un eufemismo: si occupa di tutto, dalla derattizzazione alle bevande per le mense scolastiche. E i risultati si sono visti: mentre la prima non aveva problemi, l'Act non riusciva a consegnare la corrispondenza. Tanto che una pattuglia di deputati della Lega ha bersagliato il ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola di interrogazioni parlamentari a cadenza settimanale: prima Salvini, poi Nicola Molteni e infine Paolo Grimoldi. Alla fine, il consigliere d'amministrazione di Poste in quota Pdl, Roberto Colombo, raccoglie la questione e taglia la testa al toro. Dopo pochi giorni l'azienda revoca l'appalto all'Act e si riprende il servizio. Con grande sollievo dei cittadini lombardi.

"È mai possibile che tocchi affidarsi alla buona volontà di questo o di quel politico, che agisce su segnalazione della gente?", si chiede Salvini: "Ci dovrebbe essere un controllo interno. Fatti come questi non dovrebbero ripetersi". Eppure le prospettive non sono rosee. "La situazione sta peggiorando", preannuncia Benedetti, "c'è il rischio che i problemi di Milano si replichino altrove". E la Lombardia minaccia di essere soltanto il paziente zero di un'epidemia ben più grave.
 
 
 
 
 

 
Aumenta il costo della missione italiana in Afghanistan
Nonostante il testo del decreto-legge sulla 'Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali', approvato ieri in Consiglio dei Ministri, verrà reso pubblico solo il 30 dicembre, PeaceReporter ha scoperto che nel 2009 il costo della missione militare in Afghanistan subirà un incremento del 43 percento rispetto all'anno passato.

147 milioni in più. L'anno passato, per la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan, il governo aveva stanziato 337 milioni di euro (a cui si sono aggiunti altri 12 milioni di finanziamento-ponte lo scorso novembre), il che significa una spesa mensile di 28 milioni.
Quest'anno, solo per i primi sei mesi, la cifra stanziata è di 242 milioni di euro, che vuol dire 40 milioni di euro al mese. Su scala annuale farebbe 484 milioni: 147 in più rispetto al 2008.

Più uomini e mezzi. Le ragioni di questa impennata dei costi sono l'invio di quattro caccia-bombardieri Tornado del 6° stormo 'Diavoli Rossi' di Ghedi - che da sola costerà in un anno 52 milioni di euro - e di altri 500 soldati - il battaglione Feltre del 7° reggimento Alpini della brigata Julia, in partenza per la provincia 'calda' di Farah. Uomini e mezzi che, con la rimozione dei 'caveat' annunciata da Berlusconi, parteciperanno attivamente alla guerra contro i talebani.

 

29 dicembre

Usa, il muro che non riesce a dividere

Alessandro Ursic
 
Al confine tra due Stati, una barriera inutile
 
Tra un negozio di cianfrusaglie di Washington Street e una farmacia di Avenida Guerrero ci sono solo un ponte sul fiume, un cancelletto e un gettone da 60 centesimi. Ci sarebbero anche due Paesi con abissali differenze economiche, culturali e linguistiche, divisi da un confine di 3.200 chilometri che comincia, in sostanza, qui. In una città dal nome coloniale e un'altra chiamata come un eroe nazionale, le prime di una serie di sister cities, o pueblas hermanas, che andando verso ovest caratterizzano il confine texano tra Usa e Messico. Zone bilingui, o meglio: molto più ispaniche che anglofone. Con popolazioni in prima fila nella questione dell'immigrazione, ma che costituiscono anche un laboratorio per l'America del futuro. E che si oppongono alla costruzione del muro alla frontiera, un progetto già iniziato dall'amministrazione Bush e condiviso da molti americani.

Le voci dei leghisti d'America sono davvero echi lontani, se ti trovi a Brownsville. Vedi insegne bilingui, e passanti ispanici nelle vie con nomi - Adams, Monroe, Jefferson - che richiamano la storia statunitense. Parli con gente che non capisce perché gli americani vedano posti così come i ground zero dell'immigrazione. Soprattutto, ti aspetteresti il solito confine impersonale, in periferia. Invece sta lì, nel centro storico. Quelle persone con le borse piene sono messicani che stanno tornando a casa, cioè in patria, alla fine di una giornata qualunque di lavoro e di shopping. Attraversano a piedi il ponte sul Rio Grande, e in pochi minuti arrivano nel centro di Matamoros. Così, mentre pensi che sei negli Usa ma è come se vedessi già il Messico, capisci troppo tardi che la barriera che si para improvvisamente davanti alla tua auto non è fatta per pagare un pedaggio qualsiasi. "Deve tornare indietro? Non si preoccupi, succede ogni giorno. Metta la retro, la facciamo uscire da lì", invita gentile l'agente di frontiera, sotto un lampione dove ronzano nugoli di formiche volanti.

Basterebbero comunque già le libellule giganti e le palme per ricordarti che qui, in questo angolo di Stati Uniti vicino all'Oceano Atlantico, siamo quasi sul Tropico del Cancro. Città del Messico è distante quanto Dallas, Washington è a 2.400 chilometri. In campagna elettorale il tema dell'immigrazione è stato anch'esso lontano, assente dal confronto tra Barack Obama e John McCain. Il nuovo presidente, comunque, si troverà in eredità la prevista costruzione di una barriera lungo oltre mille chilometri, un terzo della frontiera. Il Secure Fence Act del 2006 disponeva il completamento del piano entro questo dicembre. All'epoca, in un anno di rielezione per il Congresso, la riforma del sistema dell'immigrazione sembrava la priorità assoluta.

Si voleva rendere la frontiera più sicura, e al contempo fornire ai 12 milioni di clandestini un percorso verso la cittadinanza. Sullo sfondo c'erano le paure di un'America che si vedeva invasa da orde di immigrati messicani, infiltrata da terroristi stranieri e meta finale della droga sudamericana. Ma anche cosciente di non poter vivere senza i latinos che costruiscono le sue case, cucinano i suoi pasti, puliscono i suoi appartamenti, svolgono i lavori più umili nelle sue fabbriche. Sabotata dai repubblicani più estremi, la riforma sull'immigrazione è poi saltata. Ma la costruzione della border fence è andata avanti. Anche se a rilento, per problemi economici e tecnici. E soprattutto, almeno nel Texas, per l'opposizione della popolazione al confine, con proprietari di terreni da espropriare e amministrazioni locali che hanno fatto causa allo Stato.

 In inglese si dice "Good fences make good neighbours", ossia "una buona staccionata fa buono anche il vicino". Ma che tu sia a Brownsville, McAllen, Eagle Pass o tutte le altre città con una puebla hermana di fronte, l'opposizione al muro è la norma. Le due comunità hanno rapporti quotidiani, con dinamiche che si ripetono. I messicani entrano negli Usa per lavorare, studiare, comprare abbigliamento, scarpe e chincaglierie varie a buon prezzo, nelle schiere di negozi tutti uguali dalla parte Usa. Gli americani passano la frontiera per fare benzina, comprare medicine che costano quattro volte di meno, andare dal dentista per pagare anche meno; non a caso, le vie messicane alla frontiera sono una successione di farmacie e cliniche odontoiatriche. La maggioranza degli abitanti ha qualche parente nella città dall'altra parte. Un confine naturale c'è già: è il Rio Grande, che divide il Texas dal Messico. Ogni sister city ha almeno un ponte, per auto e pedoni, che la collega con l'altra sorella. Le varie amministrazioni locali hanno progetti di sviluppo comune. Qui il Nafta, l'accordo di libero commercio tra Usa, Messico e Canada, negli ultimi quindici anni ha funzionato come uno straordinario volano per l'economia: le città texane al confine hanno alcuni tra i tassi di crescita più alti di tutti gli Stati Uniti, e anche dalla parte messicana il tenore di vita è migliore rispetto al resto del Paese. Dal 1994 a oggi, il Messico ha quintuplicato le sue esportazioni verso gli Usa, e l'industria alla frontiera è in pieno boom.

In un ambiente del genere, l'idea di una barriera di sei metri per tenere fuori "il marcio" che viene dal Messico non è solo inutile: è dannosa, e quasi offensiva. "E' un cattivo messaggio che diamo ai nostri vicini", dice Charlie Cobster, city manager di Brownsville, dal suo ufficio con vista sul ponte. "A cosa serve un muro? Per i clandestini? Il 99 percento degli illegali è gente che vuole lavorare, e comunque puoi scavalcare una fence o passarci sotto. Per i terroristi? Quelli dell'11 settembre erano entrati dal Canada. Per la droga? Finché negli Usa ci sarà la domanda, esisterà anche l'offerta, e la roba arriva anche per aereo o per nave. Facciamo un muro in mare e nel cielo?", si chiede, proponendo invece di potenziare i controlli, con una migliore tecnologia e più agenti.

Ma un controllo completo è impossibile, anche dopo un decennio in cui Washington ha già investito tanto. Dal 1995 a oggi, il bilancio della Border Patrol è aumentato di dieci volte. Il numero di agenti passerà dai 5mila dell'epoca ai 21mila del 2010. Tratti iper-tecnologici di virtual fence sono stati progettati, e posticipati per l'impennata dei costi. Certo, l'afflusso di immigrati clandestini - molti dei quali, comunque, rimangono semplicemente negli Usa oltre la scadenza del visto - è diminuito. A fine anni Novanta, specie più a ovest, sembrava davvero un'invasione: nel 1999 la contea di Cochise (Arizona), grande poco più della provincia di Siena, effettuava 1.500 arresti di clandestini al giorno. Oggi, nonostante i maggiori controlli e la presenza del muro lungo centinaia di chilometri, in un anno negli Usa vengono comunque arrestati circa 800mila clandestini, molti dei quali ci riprovano. In un rapporto di due anni fa, la Border Patrol sosteneva di avere il "controllo operativo" su 449 miglia di confine, meno di un quarto del totale.

Per quanto riguarda la droga, basta dare un'occhiata a quel che (non) succede a Laredo. La città, quattro ore a nord-ovest di Brownsville, è il punto d'inizio della Interstate 35, l'autostrada che taglia gli Stati Uniti in due, dal Messico al Canada. Da qui passano il 40 percento delle esportazioni messicane negli Usa: circa 13mila camion al giorno, una costante coda in direzione nord. E anche se i cani poliziotto annusano qua e là, si può controllare per bene un flusso di un camion ogni sette secondi? Non a caso, si calcola che l'85 percento della droga che entra negli Usa passi sotto il naso dei doganieri. Alcuni di loro, in combutta con i narcotrafficanti, chiudono entrambi gli occhi. Si fanno dire il numero di targa del camion, l'ora di arrivo, e lo lasciano passare. Ne hanno beccati diversi di agenti corrotti, negli ultimi anni.

Il confine, insomma, è una zona grigia. Un posto di passaggio illegale per cose e persone, dove la corruzione olia gli ingranaggi del sistema. Chi la denuncia non è ben accetto. Bill Wisner, un bibliotecario delLaredo Community College (Lcu), alcuni anni fa scrisse una lettera a un giornale, per lamentarsi del malaffare locale. "Mi tagliarono le gomme dell'auto. Due volte", racconta. Con il vantaggio di essere un gringo ormai a suo agio tra due mondi, anche Keith Bowden è un attento osservatore del confine. Un professore di inglese alla Lcu con la passione della canoa, l'anno scorso è sceso lungo il Rio Grande per tutti i duemila chilometri di confine, da El Paso fino alla foce di Boca Chica. Ne è nato il libro The Tecate Journals. Un pomeriggio passato con lui sulla canoa, dalla periferia al centro di Laredo, è istruttivo. Neanche il tempo di parcheggiare vicino alla riva, che arrivano due agenti della Border Patrol. Non vedono spesso due bianchi sul Rio Grande, ma capiscono presto che non c'è niente di losco. Se ne vanno raccomandando "attenzione, perché oggi ci sono alcune activities sul fiume". Che ci sarà da temere? "Niente, dicono sempre così", spiega Bowden. Le "attività", comunque, ci sono eccome. Tre ragazzi attraversano il Rio con l'aiuto dei salvagente, dopo aver portato dalla parte americana chissà quale carico, grazie alla protezione dell'impenetrabile barriera di canne sulla riva. Chissà se li hanno visti le telecamere della Border Patrol, montate su antenne alte decine di metri; in giro, comunque, non si vedono pattuglie. Gli agenti rispuntano quando Bowden e il giornalista suo ospite ritornano sulla terraferma, sotto il ponte pedonale tra Laredo e la messicana Nuevo Laredo. Un minuto dopo che se ne sono andati, dal fiume escono di fretta tre donne, che corrono a nascondersi dietro i cespugli.

Se delle persone sono disposte a rischiare l'arresto entrando da clandestine in pieno giorno, sotto un ponte cittadino sorvegliato da agenti e telecamere, figurarsi se non ci provano nel disabitato deserto dell'Arizona, anche mettendo in pericolo la loro vita. Ma in fondo, una vita migliore è l'aspirazione di chiunque lasci il suo Paese. Finché gli Usa avranno bisogno di manovalanza a basso costo, ci saranno sempre
latinos pronti alla fuga oltre confine. "Il muro? Gli americani non faranno in tempo a costruirlo, che i messicani l'avranno già buttato giù", chiosa davanti a due burritos José, un messicano-americano negli Usa ormai da cinquant'anni.

Il recente calo degli arresti di clandestini, come la diminuzione delle rimesse verso i familiari, si spiegano anche con la crisi economica negli Usa. Ma le differenze tra i due mondi e i due popoli restano. Lungo la frontiera, le radio in spagnolo passano canzoni che parlano di amori e di sogni, mentre quelle in inglese cantano i solidi valori americani, Dio e la famiglia. Sono diverse le due rive del Rio Grande, con quella messicana magari piena di immondizie ma almeno usata da delle persone, mentre la parte Usa è vuota, come se dal fiume non potesse venire nulla di buono. Sono diversi i valichi: gli agenti messicani a stento ti guardano, ma negli Usa un percorso obbligato ti porta agli sportelli della dogana. Sono diverse le città: in Messico pub, ristoranti e prostitute si trovano già a pochi metri dal confine, le vie sono piene di gente anche alla sera; dalla parte americana, una volta chiusi i negozi di frontiera, in giro non c'è anima viva. Contando anche il fatto che le le pueblas hermanas messicane sono anche dieci volte più popolose delle rispettive sister cities, l'immagine è quella di un popolo che preme, si espande, contro un altro che si ritrae. E ha paura.

Negli Usa, un Paese in fondo costruito da immigrati, parlare di questa paura è tabù. Chi chiede una frontiera più sicura incentra il suo discorso sull'illegalità dei clandestini, non sull'essere immigrati in quanto tali. I politici percepiti come razzisti perdono più voti di quanti ne guadagnino. Ma sullo sfondo c'è l'inquietudine di una nazione - come ha fatto notare Samuel Huntington nel libro La Nuova America - che per oltre duecento anni ha assorbito i nuovi arrivati in un modello linguistico-culturale anglosassone. E che nei latinos vede invece una forza crescente che non si integra nel modello ma lo trasforma, portandolo al bilinguismo. Il futuro, d'altronde, è già nei numeri. Gli ispanici hanno superato da qualche anno gli afro-americani, diventando la prima minoranza etnica negli Usa (sono oltre il 14 percento). Due mesi fa, un rapporto ha indicato nel 2042 l'anno in cui i bianchi non saranno più la maggioranza nel Paese.

Facendo da cicerone a Eagle Pass dal suo enorme Suv, il sindaco Chad Foster pronuncia la parola proibita scuotendo la testa: "E' la paura del browning of America", di un Paese che da bianco si vede diventare "marrone". Con una voce da pubblicità della Marlboro e un cappello texano sempre con sé, Foster è il leader della Texas Border Coalition, il gruppo che riunisce le amministrazioni locali contrarie al muro. Racconta di aver imparato lo spagnolo "per autodifesa" ma ormai è bilingue, e usa parole spagnole come intercalare. "No señor", dice riferendosi all'intenzione-imposizione di Washington di costruire il muro anche nella sua città, tagliando in due un parco e un campo da golf. Quando parla della puebla hermana Piedras Negras ("è qui che sono nati i nachos"), lo fa sempre al plurale. "Dico 'noi' perché siamo una cosa sola", spiega. Ma al di là dei nachos con quejo - originali o no, buonissimi - di Piedras Negras, gli americani continuano a guardare il lessico con diffidenza. Keith Bowden, che ha bagnato la sua canoa nei fiumi di mezza America, ricorda bene l'aria più rilassata al confine con il Canada. Incerto nel trovarsi davanti una postazione vuota, e abituato a procedure severe quando rema sul Rio Grande, al ritorno dell'agente gli chiese se volesse vedere il passaporto. "Per fare canoa? Ma sei pazzo?", gli rispose quello. Poco più avanti, Bowden si imbatté in un gruppo di giovani che fumavano marijuana sul fiume, attraversandolo liberamente. "Non c'è una frontiera lì, è come stare in mezzo al Kansas. Tutti i discorsi sulla sicurezza qui non riguardano il confine, ma con chi confiniamo", dice.

Certo, nelle città canadesi al confine non ci sono i cartelli della droga come a Ciudad Juarez o Nuevo Laredo, dove la lotta al narcotraffico lanciata dal presidente Felipe Calderòn ha scatenato una guerra - solo quest'anno a Juarez sono state uccise 800 persone, su un milione e mezzo di abitanti. I trafficanti impongono ai tutori dell'ordine la scelta tra
plata o plomo, una bustarella per fare il loro gioco o un proiettile di piombo se si oppongono. La situazione sembra fuori controllo: "E' un gran casino, amico", dice un giovane messicano-americano di El Paso, all'estremità occidentale del Texas, mentre attraversa il ponte per Juarez in cerca di una serata alcolica a basso prezzo. A cento metri dalla frontiera, all'entrata di una balera c'è il cartello "No menores, no drogas, no armas". Le palme e le libellule di Brownsville sono lontane. Risalendo il confine, gli alberi sono diventati cespugli, gli arbusti sono diventati ciuffi di erba secca. E' un paesaggio da Non è un paese per vecchi, non a caso ambientato in queste zone.

Ancora più in là, prima della California, ci sono il New Mexico e l'Arizona. E la frontiera cambia. Dal fiume al deserto. Dai proprietari texani contro il muro, ai terreni federali e alle basi militari. Da ispanici che credono l'immigrazione sia inevitabile, a ronde di bianchi che aiutano la Border Patrol ad arrestare i clandestini. Ma combattono una battaglia già persa, in un Paese che cambia pelle. Lo capisci già quando gli agenti alla dogana di Laredo mostrano di sapere meglio lo spagnolo. E ne hai la conferma quando ti devi fermare a un posto di blocco nel vuoto del Texas occidentale, dove puoi guidare per ore senza incrociare una macchina. "Passaporto, per favore... Italy, ok". Quali aghi cercano, in questo pagliaio? Sembra impossibile che la Border Patrol trovi davvero immigrati clandestini, in uno di questi controlli. Succede mai? "Ogni tanto", risponde con un sorriso l'agente Gutierrez.

 


Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi, circa settecentomila euro al giorno spesi solo dalle Nazioni Unite. Ma tra i cittadini della Sierra Leone non se ne è accorto nessuno

L'unica cosa che di internazionale ha l'aeroporto di Freetown è un ridicolo pulmino che trasporta i passeggeri nei venti metri che separano l'aeromobile dall'ingresso. Usciti dal minuscolo aeroporto, non si viene avvolti dal tipico caldo umido dei paesi centrafricani. Di più: la Sierra Leone è il paese dove piove di più al mondo. Quattro metri d'acqua all'anno contro i settanta centimetri italiani. Appena fuori dall'aeroporto, una strada sterrata e piena di voragini dovrebbe portare i viaggiatori e i turisti in città. Già, i turisti, perché stando ai cartelloni che si vedono in ogni dove, il turismo dovrebbe essere nelle intenzioni del governo una delle principali fonti di attrazione in questo paese.

Dopo pochi metri, Demba, l'autista del pulmino, non si scompone più che tanto per il fatto che il motore si sia spento e non dia più segni di vita nel mezzo di una pozza d'acqua gigante, rossa come la terra della Sierra Leone, e parecchio profonda. Sospira e sorride ai passanti e ai ciclisti. Nel raggio di un centinaio di metri, tanto permette lo sguardo davanti e dietro, di automobili ferme o mosse ma a spinta ce ne sono altre quattro.

Sarebbe tutto normale, le strade a pezzi, la mancanza di strutture, la mancanza di servizi. In fondo siamo in Africa, e per giunta in un paese africano appena uscito da una guerra devastante. Stanno lì a ricordarcelo in quell'angolo di aeroporto, appena fuori dov'è consentito fumare, i mutilati che chiedono una dignitosa e per nulla insistente carità che non può ripagare braccia e gambe che hanno lasciato all'assurdità di un conflitto durato oltre dieci anni.

Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone non fosse stata teatro, oltre che della guerra, anche della più impegnativa missione delle Nazioni Unite mai concepita e realizzata nella storia. Impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico. Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi, circa settecentomila euro al giorno spesi solo dalle Nazioni Unite, senza contare l'impegno dei singoli paesi, dall'Italia agli Stati Uniti. E le migliaia di Organizzazioni non governative, attirate come api al miele del danaro. Con i loro migliaia di progetti, uffici, logisti, esperti e consulenti di questo e di quello.

Oggi di quelle Ong non ce ne sono quasi più. Perché le Nazioni Unite hanno finito la loro missione, e sono finiti i soldi pubblici assegnati quasi senza controlli. Un fiume di denaro mostruoso che non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo non lo si riesce a vedere subito: Freetown ci accoglie con l'accompagnamento di un temporale impressionante, che riduce la visibilità a pochi centimetri. Ma qualcosa si intuisce subito: la missione delle Nazioni Unite, che tanto danaro è costata, non ha lasciato nemmeno un collegamento tra l'aeroporto e la città, che dev'essere raggiunta in elicottero, oppure con il servizio di hovercraft che attraversano il golfo portando i nuovi arrivati, finalmente, vicini al centro città.

Freetown, in centro, assomiglia un poco a New Orleans. Non a quella famosa per il blues e le passegiate, ma a quella post alluvione. Le strade sono tutte disfatte, le case cadenti, la povertà strutturale non lascia spazio nemmeno alla fantasia di quei quasi due milioni di abitanti costretti a vivere in una città che, nonostante i settecentomila euro spesi ogni giorno, ancora in gran parte non ha nemmeno l'elettricità.

Mohammed ha venticinque anni. È lui il Caronte che ci traghetta verso l'inferno con cui gli abitanti di Freetown convivono. "Dietro le colline che circondano la capitale, a Bumbuna, dovrebbe presto essere ultimata la costruzione di una centrale elettrica cominciata vent'anni fa. Dovrebbe portare la luce a tutta la città - ci spiega - ma solo durante e subito dopo la stagione delle piogge, quando l'acqua scorre potente. Da quel che dicono chi l'ha progettata non ha tenuto conto del fatto che per sei mesi all'anno non piove. Non ci sono bacini di raccolta. E dunque se non piove, niente luce". La centrale intermittente è un'opera imponente e ovviamente costosissima, circa duemilacinquecento milioni di euro, costruita dagli italiani.

Ma non manca solo la luce, a Freetown manca anche l'acqua. Nel paese in cui piove di più al mondo, un milione e mezzo di persone sono costrette a lavarsi e a prendere l'acqua per far da mangiare nei tanti fiumiciattoli che attraversano la città. Ma non c'è disperazione, né rabbia in questa miseria. E' al ritmo del reggae e del calipso che le donne, coperte di stoffe coloratissime e sgargianti, e anche gli uomini vanno a lavare i panni nei rivoli. Quelli più fortunati, in collina, hanno l'acqua pulita. Ma non ci sono fogne e tantomento c'è chi raccoglie la spazzatura. E a valle, dove vive la maggior parte delle persone, verso un mare che potrebbe essere invidiato nelle più gettonate isole tropicali, i panni vengono lavati e le pentole riempite in mezzo al pattume, in quegli stessi rivoli dove, qualche centinaio di metri più su, altri hanno gettato gli avanzi del cibo, l'immondizia di casa e anche pulito le latrine. Per bere, i ricchi usano le bibite e l'acqua minerale, che costa più della cocacola. Gli altri, comperano l'acqua dai venditori di strada. Sono studenti, di solito, e trasportano sulla testa, sgattaiolando in un traffico di catorci perennemente congestionato e clacsonante, grandi cesti di sacchettini da circa mezzo litro di acqua fresca che viene venduta per pochi spiccioli.

Proprio vicino al mare c'è uno "stabilimento" dove l'acqua viene imbustata. Decine di donne con grandi mastelli prendono l'acqua che a momenti alterni sgorga dalle tubature dell'acquedotto di Freetown e la filtrano passandola da un mastello ad un altro, ricoperto da un telo di stoffa che raccoglie le impurità. Le donne sono capitanate da Josef, il boss. "Faccio questo mesiere da dieci anni - racconta - e la mia acqua è pulita, la compro da Guma (la società che gestisce l'acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere nei sacchetti. Però, anche durante la stagione delle piogge, l'acqua manca spesso" aggiunge sorridendo tra il rassegnato e il furbo. "Ma da quando ci sono state le elezioni l'acqua c'è sempre, e così anche l'elettricità, dove arriva. E riesco a fare più di quattromila sacchetti al giorno".

Come Josef, sono in molti a puntare sul dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma, il candidato che ha puntato tutto sulla devastante corruzione del governo che lo aveva preceduto. Per lui si era schierata la società civile di Freetown, a prescindere dai gruppi etnici a cui apparteneva. "Quelli che c'erano prima si sono rubati tutto, speriamo che adesso le cose vadano meglio", conclude Josef.

 Vicino a Waterloo street (tutte le strade di Freetown portano nomi molto british) scorre uno di questi "fiumi" cittadini. Dalla collina scende ripido, a volte allo scoperto a volte entro gigantesche tubature di cemento. Mano a mano che l'acqua si avvicina al mare, è sempre più contaminata. Al punto che, dove ci fermiamo noi, pochi mesi fa la spazzatura ha creato una vera e propria diga, che dopo qualche tempo ha ceduto scaricando sulle poche case e sulle molte baracche circostanti tutto il suo peso. Adesso, intorno a noi stanno piano piano ricostruendo, a colpi di cartone e di qualche lamiera trovata in giro, baracche dove vivere. Stride il contrasto tra le divise dei bambini che vanno e vengono da scuola, per ognuna delle quali c'è un colore distintivo, e lo sporco, il fango, l'odore di malattia che si respira.

Proprio davanti a noi, una cascatella dove gli abitanti della zona vengono a far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda lungo la main street di questa improvvisata baraccopoli andando a raccogliere le deiezioni dei suoi abitanti e portando il tutto verso l'oceano, verso altre e se possibile più misere baracche. Al contrario di quel che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, a Freetown più ci si avvicina al mare e più si sprofonda nella miseria.

Ma è una miseria strana, quasi felice. Spesso a tempo di musica, certamente molto colorata, disperante più che disperata. Colorata come sono i container che fanno da bar vendendo sacchetti di acqua e bibite calde, come i vestiti di donne uomini e bambini, come i sorrisi che ti accolgono ovunque. Sotto la cascatella, un gruppo di ragazzini gioca nel rigagnolo. Ogni tanto, quando necessario, uno di loro si sottrae al gioco di chi riesce a saltar l'acqua senza bagnarsi e in un cantuccio si mette a far pipì. Che andrà, insieme a qualche cacca, a valle. Una donna ci raggiunge e ci racconta di quando la sua casa è stata spazzata via dalla furia dell'acqua. "Nessuno ci aiuta. Nessuno si occupa di noi. Nessuno si preoccupa del fatto che qui potrebbe essere una strage, se succede un'altra volta che la pattumiera formi una diga". Poco dopo arriva anche un ragazzo. "Sono il responsabile, qui, sono il capo. Che volete? Che ci fate? Non si possono fare fotografie". Ci vuole tutta la pazienza e la calma di Mohamed, per spiegare al gruppo di ragazzi che ci circonda che non siamo nemici. E che non siamo, come dice lui, "come quelli che negli anni passati venivano, promettevano tutto, facevano un sacco di domande, e poi sparivano". "Quelli" erano quelli delle Ong. Venivano, studiavano, costruivano sulla carta i progetti, se li facevano finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi e le sere sulla strada che costeggia la bellissima spiaggia di Freetown, ricca, fino a che sono state qui le Nazioni Unite, di ristoranti, night club, bar gestiti perlopiù da libanesi, e frequentati da puttane. Noi vogliamo solo raccontare, spieghiamo. Sperando che qualcuno legga e veda, e magari possa fare qualche cosa per loro. O per tutti gli altri che, come loro, sono stati presi in giro dagli "aiuti umanitari" delle grandi agenzie e delle Ong miliardarie. Ma capiamo in fretta che è meglio andarsene.

In riva al mare, dove un tempo c'era il porto dei pescatori della capitale nella zona della Kroo bay c'è una immensa baraccopoli. Arrivandoci, si viene avvolti da mille profumi: banane mature, pastella fritta, pesce cucinato su improvvisate griglie o fritto, ma anche da mille puzze. Sopra le quali spicca l'odore di Escherichia coli, un batterio che, insieme a quello della salmonella e al vibrione del colera, da queste parti non se la deve passar male. Le baracche sono strettissime l'una all'altra. Salvo nella piazza centrale, dove centinaia di ragazzi si trovano per giocare e fare musica. Mentre si disputano il pallone, il calcio è il gioco nazionale della Sierra Leone, il tramonto disegna i loro muscoli rendendo ancor più inverosimile il contrasto tra il misero e scarso cibo di cui si nutrono, la sporcizia contaminante che da tutta la città cola verso la loro bidonville e i loro fisici da atleti e da modelle. Tra le baracche, proprio sopra un rigagnolo di fogna a cielo aperto, ne salta agli occhi una che per parete ha un ex sacco di riso arrivato come aiuto umanitario dall'Iraq post-Saddam. Poco più avanti, c'è la casa del dottore. È un medico tradizionale, Murah, e per arrivarci bisogna superare la diffidenza degli abitanti del quartiere e dei suoi collaboratori. Probabilmente siamo i primi bianchi, whiteman, ad essersi spinti fino a casa sua. Prima di essere ricevuti, facciamo in tempo a raggiungere la riva del mare. Andandoci, ci si accorge che gradualmente la terra su cui camminiamo si trasforma in spazzatura: una enorme discarica a cielo aperto per giunta contaminata dai percolati delle fogne e delle discariche che stanno più a monte: la fogna della fogna. Dei maiali si bagnano nell'acqua salmastra e salmonellosa che, solo un centinaio di metri più al largo riesce ancora a sembrare mare. Ma il movimento che si nota non è quello dei maiali, che non portano magliette colorate: sono gli abitanti di Kroo Bay che vengono fin qui a cercare qualcosa di ancora utilizzabile o vendibile in mezzo al liquame.

Nell'oscurità della sua baracca, in una stanzetta di due metri per due senza finestre e con le porte chiuse, Murah ci mostra con orgoglio i suoi diplomi, rilasciati da diversi ministeri della Sierra Leone e della Liberia. Dietro di lui, una raccolta di audiocassette, stereo portatile e vari strumenti da "stregone": pezzi di corno, frammenti di ossa, sacchetti di cuoio dall'aria antica. Tutti da queste parti ricorrono alle sue cure, fatte di erbe, cortecce e infusi vari. Ma soprattutto fatte di saggi consigli, come bollire l'acqua prima di usarla per qualsiasi cosa abbia a che fare col corpo e allontanarsi dalle "case" per fare pipì. Tutti ricorrono alle sue cure soprattutto perché in questo paese nessuno può curarsi in ospedale dove tutto è a pagamento, dall'ingresso alle medicine, che devono essere portate da fuori. "Le malattie più diffuse - spiega Murah - sono quelle legate all'intestino e allo stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma anche la malaria è un problema". Le statistiche dicono che quasi trecento bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Ma il sospetto, girando per la capitale e per la Sierra Leone, è che le statistiche siano davvero impossibili da fare, e l'entità del problema sia decisamente maggiore. "Molta gente muore per le cose più stupide - dice ancora il dottore - e le erbe che raccogliamo in questa zona non sono più efficaci per le cure. Quando ci sono emergenze importanti, mando i pazienti negli ospedali. Ma solo per entrare in ospedale ci vogliono quindicimila leoni". Sono tre euro o poco più, ma il guadagno medio delle famiglie non supera i tre-quattromila leoni al giorno. Viene spontaneo chiedersi perché gli abitanti della Sierra Leone debbano pagare per essere curati, soprattutto dopo essere passati dall'ospedale di Emergency, poco distante dalla capitale, un gioiellino di efficacia ed efficenza del tutto gratuito. Anche perché gli ospedali e le strutture sanitarie sono state pagate con i soldi delle Nazioni Unite. La spiegazione ce la fornisce Ibrahim Korona, studente e tassista: "È la politica della Banca Mondiale, che prevede l'autosostentamento delle strutture. Ma come si può pensare che un ospedale possa autosostenersi? Il diritto alla salute non è uno dei diritti fondamentali dell'uomo?".

 

Luca Galassi
Reportage sui nuovi skinhead russi

 
Mosca, 20 febbraio. Provo ad aprire la mano per stringere la sua, ma non faccio in tempo. Un breve contatto e le sue dita aperte scorrono sotto il mio avambraccio per chiudersi quasi all’altezza del gomito. D’istinto, anche le mie premono sul suo gomito, e il gesto è quasi simultaneo. Metropolitana Tretiakovskaya, cuore di Mosca, sette di sera. Come Sergei, anche gli altri adolescenti, giunti con qualche minuto di ritardo all’appuntamento stabilito, si presentano a me con lo stesso rituale saluto, in un reciproco impugnarsi l’avambraccio. Hanno il cranio rasato e l’abbigliamento conforme ai dettami della loro sub-cultura: pantaloni con i risvolti in fondo, a mostrare gli anfibi lucidi, fibbie con svastiche e croci celtiche, tatuaggi, catenine di metallo che escono dalle tasche, piercing. Sono i giovani esemplari della nuova generazione russa di skinhead.

 
Delitti razziali. ‘Paièhali’, fa Sergei. ‘Andiamo’, e ci mettiamo in marcia verso il luogo dell’‘incontro’. Un luogo che fino ad ora mi è stato tenuto segreto. Mentre seguo i loro passi sulla neve fresca non posso che pensare al mio volto. Per tentare di dissimulare le mie chiare origini caucasiche ho provato a radermi. Ma so che non basterà certo questo a mettermi al riparo da qualche sguardo sospettoso, se non da eventuali, spiacevoli sorprese. Nel solo mese di gennaio, secondo i dati dell’organizzazione di monitoraggio indipendente ‘Sova’, i delitti a sfondo razziale in Russia sono stati tredici. Metà sono stati commessi a Mosca. Si ammazzano i ceceni, gli azeri, i kazaki, i tagiki, gli armeni, i georgiani. Si ammazzano i caucasici, appunto. I ‘culi neri’, come qui li chiamano quelli che li disprezzano. Li ammazzano gli skinhead. Appunto.

 
Revival slavo. La sorpresa, a prima vista, è invece piacevole: un palazzo ottocentesco ben curato e illuminato, di colore giallo ocra, con gli stucchi bianchi e i tendoni amaranto. La scritta rossa sul cancello recita: ‘Fondazione per la conservazione della cultura slava’. E’ uno degli istituti – mi viene detto – più onorati e finanziati del Paese. Specie da quando i russi, riavutisi dal collasso economico, dallo smarrimento sociale e dal trauma psicologico seguito alla dissoluzione dell’impero, si sono riscoperti russi. L’ascesa al potere di Putin si è accompagnata a una nuova ondata di nazionalismo, e la retorica anti-occidentale dell’ex presidente ha alimentato una frenetica riscoperta dei simboli, delle istituzioni e della cultura slava. In questo rinascimento identitario è stata la chiesa ortodossa a farsi veicolo della coscienza e dell’orgoglio nazionale. Infatti: dopo che il guardarobiere all’ingresso, incurante della provenienza e dell’abbigliamento degli ospiti, ha raccolto i giubbotti, vengo introdotto in un’ampio salone e presentato a un pope, un prete ortodosso. Gli otto ragazzi e le quattro ragazze skinhead si siedono attorno a un enorme tavolo circolare.

 
La fede che purifica. Padre Pavel, occhi azzurri e barba folta, lunga fino al petto, comincia così il suo informale sermone: “Preparatevi a difendere la vostra madrepatria”. La predica abbonda di metafore, riferimenti storici, richiami al mito. Come un maestro di scuola media con i propri allievi, dopo l’esposizione di ogni concetto, il religioso fa una pausa per verificare la loro attenzione. Li scruta, uno ad uno, mentre procede nell’opera di indottrinamento. “Bisogna pregare, perché è nella fede che si trova l’antidoto al male. La fede può salvarvi da ogni peccato”. Qualcuno sghignazza, altri si lanciano occhiate complici. I più attenti hanno lo sguardo sostenuto, le braccia conserte e i tatuaggi in bella vista. “Solo con la preghiera l’animo si può purificare”. Pone anche domande, padre Pavel: “Perché bisogna difendere la nostra madrepatria?”. “Per evitare le invasioni, le aggressioni che minacciano il Paese”, gli viene risposto. “Durante il periodo imperiale – continua il sacerdote – il crimine più grave era quello contro la fede ortodossa. Sappiate che anche oggi il nostro Paese sta subendo un’occupazione. Anche oggi la fede e la nazione sono minacciate. E poiché la fede è lo spirito della nazione, può essere necessario difenderla anche con la spada. Ma se non potete combattere contro il male, almeno non dovrete prendervi parte”.
Ebrei e musulmani. Le allegorie a volte lasciano il posto ad allusioni ben precise, e il ‘male’ prende progressivamente forma, incarnandosi non più in un generico nemico esterno, ma in qualcosa dalla fisionomia ben più concreta: “Guardate i musulmani cos’hanno fatto ai nostri fratelli, prigionieri in Afghanistan e in Cecenia. Come si può torturare e uccidere in nome di Dio? Le moschee stanno spuntando come funghi in Russia. Se non combattiamo questa pericolosa tendenza, un giorno ci sveglieremo e la Russia sarà musulmana”. Poi, nuovamente, un appello alla fede e alla preghiera: “Solo con l’aiuto della fede ci si può salvare. Le preghiere purificano e difendono l’uomo in battaglia. Conoscete la storia di quel soldato russo che, nella Seconda guerra mondiale, pregò tutta la notte e il giorno successivo riuscì a uccidere in battaglia diciannove tedeschi, e senza sprecare un proiettile?”.
La difesa della patria. “Padre, ma allora uccidere è o no peccato?”. “Poiché la vita non è perfetta – dice il pope, evitando sempre di rispondere direttamente alla domanda – a volte bisogna impugnare la spada e punire. Ricordate però che il miglior modo per difendere la nostra terra dai colonizzatori è quella di purificare le loro anime con la fede”. “Padre – fa uno – abbiamo diritto all’estremismo in casa nostra?”. “Dato che non è possibile cacciare definitivamente gli scarafaggi di casa – senza ovviamente citare chi siano gli scarafaggi – allora è necessario tenere pulita la casa. Ricordate anche – a degna conclusione del ragionamento – che l’ebraismo è come il satanismo. La sopravvivenza della madrepatria dipende da voi”. Qualche secondo di pausa e, prima che il discorso termini, estraggo la macchina fotografica dallo zaino. Improvvisamente i ragazzi si agitano. Alcuni si coprono il volto, altri mi fanno cenno di ‘no’ con la mano. Il padre continua imperturbabile a parlare, mentre mi allontano per evitare primi piani indesiderati. Riesco a cogliere solo alcune immagini d’insieme.
Wehrmacht originale. Padre Pavel ha finito. Uno dei ragazzi, arrivato nel salone quando l’incontro era già iniziato da un pezzo, mi si avvicina: ‘Giurnalist?’. ‘Sì’, faccio io. In un gesto di spavalda vanteria si alza la felpa e mi mostra un tatuaggio con la bandiera russa, sotto la quale c’è scritto ‘russo’ come un marchio di fabbrica. La fibbia della cintura è originale, dice, apparteneva a un ufficiale della Wehrmacht, l’esercito nazista. A ruota, anche gli altri scoprono il petto, le braccia, i polpacci per mostrarmi i loro tatuaggi. Una ragazza ha la fibbia con la croce celtica, un’altra una svastica con decorazioni tribali sulla gamba. Quello che si è scoperto per primo si chiama Igor, ha 28 anni ed è il capo dei giovani di Slavianskiy Soyuz (Unione slava), l’organizzazione neo-nazista che mi ha fornito il contatto con Sergei e consentito di partecipare all’incontro con padre Pavel. “Sarò uno skinhead fino alla morte”, esclama Igor, con la voce rauca. “Sono membro dell’organizzazione da un anno circa. Cercavo un movimento che fosse in grado di arrestare il declino del nostro Paese. E l’ho trovato in Slavianskiy Soyuz”.
Supremazia ariana. Prendete parte a pestaggi e omicidi di stranieri? “Io personalmente non mi batto più in strada. Ma se vedo uno straniero che si comporta male verso un cittadino russo, allora certo che difendo il mio connazionale”. Saprò più tardi che il suo predecessore è stato condannato a dodici anni per omicidio. Sergei, invece, di anni ne ha 21. Sa come imporre il suo credo, basato su rispetto e onore: “Quando mi trovo in strada, se uno non ci sente a parole, uso le mani. Io, quando un ceceno o un daghestano dice a una nostra donna ‘Vieni qui, bella figa’, mi sento personalmente insultato. Così come mi offende vedere una nostra donna che esce con un caucasico, quelli pieni di soldi, coi macchinoni. Quelli arroganti. Non considero russi i loro bambini. Noi facciamo quello che la polizia non fa”. “Siamo per la razza ariana”, lo interrompe uno, a cui fa eco una ragazza poco più che maggiorenne: “Siamo per la supremazia dei bianchi”. Lo dice con un sorriso, spalleggiata dagli altri, che si mettono in posa per una foto con il braccio alzato. Sorridono tutti, mentre fanno il saluto fascista. Come se fosse un gioco. Quale sarà la reazione di questi adolescenti alle parole di padre Pavel? Cosa faranno una volta che si troveranno davanti il ‘male’?

 
L'ideologo. Sono venuto qui per avere un’idea di chi fossero i militanti skinhead di Slavianskiy Soyuz, due parole le cui iniziali formano un inquietante accostamento. Mi ci ha mandato il capo del movimento in persona: giorni prima aveva accettato un’intervista dopo che, sul suo sito, avevo trovato il suo numero di cellulare. Si chiama Dimitry Demushkin, e non immaginavo sarebbe stato tanto facile contattarlo. L’idea che mi ero fatto era di un soggetto che agisce in totale clandestinità, ricercato dalla polizia e perseguitato dalla legge, in quanto leader di un’organizzazione che esalta la superiorità bianca e incita al razzismo. E che, per di più, ha visto un centinaio di suoi membri incarcerati, 40 dei quali nella sola Mosca, perché accusati di svariati omicidi a sfondo etnico. “Rigettiamo categoricamente ogni accusa”, ha esordito quando ci ha accolto nel suo ufficio, in un caseggiato anonimo fuori della metro Kolomenskaya, poco più a sud del centro. Il locale è disadorno, due scrivanie da un lato, alcuni scatoloni, pacchi e depliant sparsi qua e là, un mobile-libreria in legno nero sul quale troneggia una collezione di icone ortodosse. Per rendere l’ambiente più idoneo all’occasione, un collaboratore di Demushkin tira fuori una bandiera rossa con la scritta Slavianskiy Soyuz e l’appende al muro.
Nazionalsocialismo russo. Il leader di Ss non guarda mai negli occhi quando risponde alle domande. E’ uno skinhead anche lei? “Lo sono stato. Ho fondato io il primo gruppo organizzato di skinhead russi, il Beye Bulldogi (Bulldog Bianchi), agli inizi degli anni ’90”. Cosa vuol dire essere skinhead? “Partecipare a una sottocultura di protesta giovanile che si sta sviluppando in una forma molto attiva”. Come è nato il suo movimento? “Da una scheggia di Unità Nazionale Russa (partito e formazione paramilitare di estrema destra al bando, ndr)”. Ci spiega in cosa consiste, qual è la sua ideologia, quanti membri ha? “Non è possibile fare stime precise. Anche se i membri attivi non sono molti, la nostra capacità di influenza è abbastanza estesa, anche tra soggetti eterogenei. Un gruppo musicale che si chiama Zyklon B, per esempio, ha un fan club di circa un centinaio di persone. Non sono membri, ma ‘simpatizzano’ per noi. Un altro gruppo di simpatizzanti di Ss è costituita dai capi delle bande di bikers (motociclisti, ndr). In Russia, Ss è il gruppo nazionalsocialista più influente. Alcuni membri del governo e del parlamento condividono la nostra ideologia, così come sportivi, scienziati, intellettuali. Dal '99 la nostra posizione è rimasta intransigente, rigorosa, dal punto di vista ideologico. Siamo per la tutela della lingua, della cultura e dell’unità del popolo slavo. Siamo una formazione nazional-socialista, che ha profondi legami con la religione ortodossa. La finalità della nostra organizzazione è la propaganda, con tutti i mezzi possibili”. Quanti siete? “Circa cinquemila”. Quaranta dei quali sono finiti in carcere. “Quelli finiti in carcere hanno agito per conto proprio. Noi rigettiamo categoricamente ogni accusa”. Per cosa sono stati condannati? “Per estremismo, percosse, incitamento all'odio etnico, omicidio, terrorismo e altro”. Quindi lei non si sente responsabile della campagna di odio, dei pestaggi e degli omicidi commessi dagli estremisti di Ss in questi anni? “No, assolutamente. Chi ha commesso questi delitti ha agito non in nome dell'organizzazione, ma stravolgendo il suo credo ideologico. Quando non possono condannare l'organizzazione, cercano di condannare i singoli membri.”. Che lavoro fa? “Un po’ di tutto. Organizzo concerti, festival, corse motociclistiche, eventi sportivi. Adesso stiamo preparando il campionato mondiale di lotta senza regole. Mi interessa il mondo informale, quello che succede nelle strade. Mi interssa la cultura alternativa”.
La denuncia della Politkovskaya. Mi congedo con una stretta di mano neutra, che nulla ha a che fare con il saluto dei giovani skinhead che avrei ‘imparato’ qualche giorno dopo. In apparenza, quest’uomo potrebbe essere un banale impiegato, che lavora in un ufficio banale e fa un lavoro banale. Eppure, sul suo sito, www.demushkin.com, fino allo scorso anno comparivano svastiche, link a siti di skinhead, braccia levate nel saluto romano, e un manuale dal titolo 'Nazional-socialismo mistico: 1488 parole'. L’88 è il saluto nazista (Heil Hitler, essendo la ‘H’ l’ottava lettera dell’alfabeto), le 14 parole sono: “Noi dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e il futuro per i bambini bianchi”. Lo stesso Demushkin fu arrestato nel 2006 in relazione a un attentato a una moschea, dove una bomba esplose senza provocare vittime. La sua casa fu perquisita e alcune bandiere di Ss sequestrate. Il 20 agosto 2004, l’organizzazione antifascista ‘Movimento giovanile per i diritti umani’ ricevette una lettera che minacciava una “notte dei lunghi coltelli” per “Yurov e Alekseeva”, che sarebbero stati “i prossimi dopo Girenko”. In allegato, la foto di un cecchino. Andrey Yurov era all’epoca il presidente del Movimento giovanile per i diritti umani, Ludmila Alekseeva la direttrice del Moscow Helsinki Group, istituzione nata per opporsi al neo-nazismo. Nikolay Girenko, un consulente antifascista le cui perizie servirono a incarcerare diversi skinhead, fu assassinato il 19 giugno 2004. L’autore della lettera, secondo il sito d’informazione russo ‘MosNews’, era proprio Dimitry Demushkin. “Slavianskiy Soyuz – la cui sigla in russo è Ss – divulgava sul suo sito che l’omicidio era preparato da tempo. Appariva un giovane vestito con l’uniforme delle guardie d’assalto nazionaliste, pistola alla mano e, sotto, la frase: 'In Memoriam, Girenko'. I siti non sono stati chiusi. I loro proprietari e moderatori non sono stati incriminati”. Così scriveva Anna Politkovskaya, nel suo Diario russo, il 19 giugno 2004.
 
Zyklon B. In Russia molte aggressioni a sfondo razziale non vengono denunciate per paura. La risposta delle autorità è stata in passato assai debole, se non del tutto inefficace, perché la giustizia penale russa solitamente classifica tali episodi come come ‘atti di vandalismo’, invece di far riferimento all’articolo 282 del Codice penale, che li qualifica espressamente come ‘delitti razziali’. Per qualche oscura associazione mentale, ripensando all'intervista a Demushkin torna alla memoria il nome del gruppo musicale da lui citato, ‘Zyklon B’. Solo ora ricordo perché il nome mi era in qualche modo familiare. Solo ora che mi appare davanti agli occhi una stanza delle baracche di Auschwitz, quella adibita a museo. In un angolo, accanto alle matasse dei capelli, alle scarpe, ai vestiti degli scomparsi, c’era una catasta di barattoli vuoti. Contenevano il gas letale che uccise milioni di persone. Su ciascuno, la stessa scritta: ‘Zyklon B’.

 

23 dicembre

I due conti di Brunetta sulle donne
Elisabetta Segre
La pensione "anticipata" discrimina le donne, dice il ministro. Ma oggi per le lavoratrici non è obbligatorio ritirarsi a 60 anni. Mentre poche godono della pensione di anzianità Che sulla questione dell'equiparazione dell'età pensionabile tra uomini e donne Brunetta abbia ragione? Nella sua intervista su Repubblica del 15 dicembre sosteneva a gran voce la necessità di intervenire per migliorare le condizioni della donna lavoratrice «schiacciata, da una parte, da un lavoro nel quale non può fare carriera e guadagna meno degli uomini e, dall'altra, dalle cure familiari:ci sono troppe poche risorse per gli asili e discriminazioni nei confronti delle donne che fanno figli. Per forza che abbiamo il tasso di natalità tra i più bassi del mondo! Le donne sono discriminate nella loro carriera professionale: nelle posizioni apicali o non ci sono o sono troppo poche». Un ministro femminista verrebbe da dire. Un ministro che ha ben chiari i problemi delle donne che partecipano o che vorrebbero partecipare al mercato del lavoro e che sa quanto sia importante costruire un sistema di welfare in grado di sostenerle e quando necessario incentivarle, eliminando tutte le discriminazioni di trattamento di cui sono vittime. La differenza dell'età pensionabile, che costringerebbe le donne ad andare in pensione prima impedendo loro di fare carriera e di ottenere un trattamento pensionistico più generoso, è un tassello di questo disegno discriminatorio, dice il Ministro, da cui partire per migliorare la condizione lavorativa di milioni di donne anche sotto la spinta della sentenza della Corte di Giustizia Europea.

Ci sono moltissime osservazioni, e le vedremo brevemente più avanti, che possono essere fatte e che sono state fatte a questa posizione. Il fatto strabiliante e preoccupante allo stesso tempo è che nessuno ha risposto evidenziando l'unica cosa veramente pertinente. Sarebbe legittimo etichettare come discriminatoria la differenza di età pensionabile, solo se 60 anni fosse l'età di pensionamento obbligatorio. 60 anni è, però, l'età minima richiesta alle donne per poter ricevere la pensione di vecchiaia, la donna però non è assolutamente costretta ad andare in pensione a 60 anni. Se vuole può rimanere, anche senza il consenso del datore di lavoro, fino ai 65 anni. Solo dopo i 65, per le donne così come per gli uomini, per continuare a lavorare è necessario disporre del consenso del datore, che ha eventualmente il diritto di allontanare il lavoratore senza giusta causa. Questo significa che, data la legislazione vigente, affermare che l'età pensionabile differenziata tra uomini e donne sia discriminatoria non è altro che una forzatura. Anzi, questa differenziazione, alla luce dello stato attuale del mercato del lavoro italiano, ha una sua ratio perequativa. La maggior parte degli uomini, infatti, iniziando a lavorare da più giovani, facendo carriera più rapidamente e
guadagnando di più, di fatto lasciano il mercato del lavoro con la pensione di anzianità prima dei 60 anni. Le donne, che guadagnano meno e iniziano a lavorare più tardi, difficilmente a 60 anni soddisfano tali requisiti ed infatti solo il 17% di esse esce dal mercato del lavoro con la pensione di anzianità, mentre il restante va come gli uomini in pensione prima dei 60 anni ma con la pensione di vecchiaia.  Solo una volta che sia stata fatta chiarezza su questo punto cruciale ha senso far emergere tutte
le contraddizioni insite nella posizione del ministro, come è stato fatto dalle diverse voci che hanno preso parte al dibattito.
Se il ministro ed il suo governo avessero realmente a cuore la condizione delle donne sul mercato del lavoro e non solo questioni di cassa, i recenti provvedimenti di politica economica sarebbero stati costellati di tutta una serie di misure, richiamate più volte dallo stesso ministro come strettamente necessarie, per facilitare la conciliazione fra lavoro, compiti di cura (che non
riguardano solo i figli ma anche disabili e anziani) e carriera ed incentivare così l'occupazione femminile (nel nostro paese tra le più basse d'Europa). E non parliamo solo degli asili nido, ma del sostegno alla maternità, che può avere molteplici forme, e più in generale dei servizi alle famiglie.
Non solo di queste misure non se n'è vista nemmeno l'ombra, ma in questi mesi il governo si direbbe che si sia prodigato per smantellare sistematicamente, e con la complicità dell'indifferenza generale, i piccoli passi avanti fatti in questi anni. É stata abrogata una legge molto semplice e giusta che impediva il fenomeno delle dimissioni firmate in bianco al momento
dell'assunzione e utilizzate dal datore di lavoro per allontanare la lavoratrice qualora fosse rimasta incinta. Non è stato finanziato il Piano contro la violenza sulle donne. Sono stati tagliati pesantemente i servizi sociali erogati a livello locale che sono quelli che maggiormente contribuiscono ad alleviare i compiti di cura a carico delle donne. É stata introdotta, con il detassamento degli straordinari, un'ulteriore discriminazione della posizione della donna sul mercato del lavoro. E questo solo per citare gli esempi più eclatanti, per un'analisi dettagliata si rimanda a "La manovra finanziaria e le donne".  Infine, anche qualora si ritenesse, erroneamente, la differenza di età pensionabile un elemento discriminatorio, e si avesse realmente a cuore l'equità di trattamento tra uomini e donne non si potrebbe realmente pensare che un provvedimento che interessa una piccolissima fascia delle donne (solo il 23% delle donne italiane tra i 55 e i 64 anni lavora, fonte Eurostat LFS 2007), riesca a dare una sferzata ad una situazione ormai incancrenita. Ci si occuperebbe di favorire l'ingresso delle donne giovani nel mercato del lavoro, di assicurare loro un trattamento economico adeguato, e si appresterebbe un sistema contributivo in grado di garantire loro una
pensione decente (cogliamo l'occasione per ricordare che ai precari, la cui probabilità di rimanere precari è man mano che passano gli anni sempre più alta, i discorsi sulle pensioni fanno sorridere).
Un'ultima cosa, Brunetta afferma di «aver fatto due conti» (cito testualmente) dai quali emergerebbe che, incentrando il sistema di welfare sul lavoro piuttosto che sulle pensioni si potrebbero «creare 2,5 milioni di posti di lavoro». Da semplice dottoranda non sono in grado, a differenza del Professore, di fare questi due conti. Però, limitando il ragionamento alla sola età pensionabile, se il suo innalzamento avesse, come si augura il ministro, l'effetto di aumentare il tasso di attività delle donne, a parità di posti di lavoro presenti sul mercato, a me verrebbe banalmente da affermare che ad aumentare sarebbe solo il tasso disoccupazione.

18 dicembre

BRASILE

«Noi braccianti senza terra orfani del compagno Lula»

Il più grande movimento sociale brasiliano non si riconosce più nel primo presidente di sinistra e nel Pt, suo partito di riferimento. Ma non parla di «tradimento»: rapporti «tesi però fraterni» Intervista a Neuri Rossetto, della segreteria nazionale dell'Mst. Che reclama per gli impegni non mantenuti sulla riforma agraria

Lula, il primo presidente di sinistra nella storia del Brasile? Non ha tenuto fede agli impegni sulla riforma agraria e neanche sulla protezione ambientale dell'Amazzonia, non è più «il nostro presidente», con lui i rapporti dei Senza terra sono «tesi però fraterni». Dilma Rousseff, la super-ministra che Lula ha incoronato come la sua candidata a succedergli nel 2010? Con l'ex-guerrigliera sarà/sarebbe «anche peggio» perché ormai «è l'equivalente di José Serra», il governatore di San Paolo (formalmente social-democratico, sostanzialmente di destra) che nel 2003 contese la presidenza a Lula e la contenderà a Dilma fra un paio d'anni. Il Partido dos trabalhadores, il partito della sinistra non-dogmatica nato dal movimento cattolico-progressista e dal movimento sindacale nell'80? Noi, comed Movimento dei Senza terra «siamo orfani di uno strumento politico». La chiesa cattolica brasiliana un tempo famosa per il suo progressismo politico, sociale e anche teologico? Non c'è più, i vecchi pastori sono morti o andati in pensione e i nuovi non sono più la stessa cosa, la politica conservatrice di Wojtyla e Ratzinger «ha avuto successo». I «bio-combustibili» - l'etanolo - che i Sem terra chiamano più propriamente «agro-combustibili» e altri più crudamente «necro-combustibili»? E' una questione di modello, ossia di visione della vita, ancor prima che di benzina (ancorché «verde») contro alimenti: «il modello dell'agro-business contrapposto al modello agro-familiare».
I giudizi di Neuri Rossetto, uno dei leader dell'Mst, il Movimento dos trabalhadores rurais sem terra, il più grande, organizzato, radicale e cosciente dei movimenti sociali dell'America latina, sono netti e senza concessioni al politically correct (politichese), ma altrettanto articolati.
E' vero che le speranze poste in Lula da Silva dai milioni e milioni di braccianti senza terra molti dei quali in quell'indimenticabile primo gennaio del 2003 erano fra le centinaia di migliaia di popolo che si riversarono sulla Esplanada dos ministerios di Brasilia per presenziare - e partecipare - all'insediamento nel palazzo di Planalto dell'ex-migrante nordestino-ex-metalmeccanico-ex-sindacalista, sono andate in buona (o grande) misura deluse. Nonostante che Lula sia sia dimostrato complessivamente un eccellente (o un grande) presidente. Contro gufi e corvi delle élite vecchie e nuove che preconizzavano l'inevitabile fallimento del «brutto rospo barbuto» chiamato a un compito troppo impegnativo per uno senza uno straccio di laurea, senza un dito lasciato sotto la pressa di una fabbrica paulista (ciò che nei party e nei summit non fa una buona impressione) e senza una parola d'inglese nel suo bagaglio culturale.
Però.
Però, detto quello che c'è da dire, Rossetto e i suoi compagni, nonostante le delusioni sanno benissimo che Lula è diverso da tutti gli altri 34 presidenti della repubblica federativa do Brasil venuti prima di lui dal 1889. Diverso e migliore. In sostanziale continuità con la politica economica monetarista-liberista di prima ma con un afflato sociale nuovo. Basta pensare al programma «borsa-famiglia» per i settori più poveri ed emarginati della popolazione che in Brasile sono decine di milioni.
Come il più noto fra i leader dell'Mst, João Pedro Stédile, Neuri Rossetto, in Italia per partecipare a una serie di incontri in vista dei 25 anni dell'Mst (celebrati nel gennaio 2009 nel Rio Grande do Sul alla vigilia del Foro social mondiale di Belem, nello stato amazzonico del Pará), racchiude nella sua traiettoria personale e politica la storia del Movimento dei Senza terra per la riforma agraria, per un modello di sviluppo alternativo, per «un altro mondo possibile».
Quarantasette anni, nato nel Santa Catarina, lo stato meridionale del Brasile confinante con il Rio Grande del Sud dove nel 1984 tutto cominciò, una famiglia partita tre o quattro generazioni fa dal Veneto per andare a tentare la sorte nel meridione brasiliano, contadini in origine poi divenuti piccoli commercianti nella città di Quilombo, Neuri ha potuto studiare grazie alla chiesa cattolica. Andò a scuola nel seminario di Chapecó. Erano gli ultimi anni della lunghissima dittatura militare e la diocesi della città catarinense era in prima linea nelle lotte per i diritti dei camponeses e degli indios. Lui non si fece prete - «per poco», racconta - e dal seminario passò all'occupazione delle terre a fianco dei preti d'assalto, dei contadini e degli indigeni. Era il maggio 1985 e l'Mst era nato solo un anno prima nell'alveo del movimento pastorale della Cnbb, la Conferenza episcopale brasiliana. Quella fu la sua vera università, anche se prima nel Santa Catarina poi a San Paolo, dove si trasferì nell'87 dopo essere entrato nella segreteria nazionale, frequentò corsi di pedagogia e scienze sociali alla Puc, la Pontifícia Universidade Católica della capitale paulista.
L'Mst si appresta a celebrare i suoi primi 25 anni di attività. Tempo di bilanci. Quali?
Per dirla sinteticamente e per punti: 1) abbiamo insediato sulla terra 350 mila famiglie, ossia quasi due milioni di braccianti senza terra se si calcola una famiglia composta in media da 5 persone; 2) siamo riusciti a inserire la riforma agraria nell'agenda politica nazionale e, soprattutto, fra i debiti pendenti a livello sociale; abbiamo proposto un modello alternativo a quello dell'agro-business neo-liberista, centrandolo su alcuni nodi precisi: quello dell'alimentazione per tutti in un paese in cui c'erano e ci sono fame e denutrizione di massa, quello di uno sviluppo rispettoso della preservazione della natura e quello di una struttura economica fondata anziché sull'esportazione, sull'agricoltura familiare e sulla piccola agro-industria; 4) avere impostato il problema della riforma agraria non tanto come un progetto a sé stante ma come un progetto di sviluppo sociale complessivo, l'unico capace di fermare l'esodo dalle campagne verso le favelas delle città; 5) aver lavorato e puntato molto sulla crescita politica, culturale e umana delle masse contadine,
E qual è il bilancio dei rapporti fra il presidente Lula e il Movimento dei Senza terra?
I rapporti fra l'Mst e il presidente Lula sono tesi ma fraterni. Noi non siamo contenti della politica economica portata avanti da Lula, e neanche della sua linea sulla riforma agraria. Ma non siamo fra quelli, come molti settori dell'estrema sinistra dentro e fuori il Pt, che accusano Lula di essere un traditore o un nemico di classe. Lula ci ha deluso: lui pensa che l'agro-business sia una strada praticabile e buona per lo sviluppo economico del paese, ha liberalizzato l'uso degli ogm nelle colture di soja, non ha ridotto l'allarmante ritmo di disboscamento dell'Amazzonia. Anzi: in Congresso c'è un progetto di legge che amplia le aree disboscabili... Rispetto alla riforma agraria è innegabile che Lula qualcosa abbia fatto, come rivendica, ma si è trattato più di un appoggio a quanto era già stato fatto prima e non invece di nuovi insediamenti di contadini senza terra. Secondo le stesse cifre ufficiali, fra il 2003 e il 2007 sono state insediate 450 mila famiglie di cui però 307 mila riguardano l'Amazzonia. Ciò significa in sostanza una regolarizzazione fondiaria e una colonizzazione agricola, non una riforma agraria. La riforma agraria, per noi, vuol dire muoversi contro il latifondo improduttivo. E Lula non vuole scontrarsi con il latifondo.
Nel caso nel 2010 a Lula succedesse Dilma Rousseff, le cose migliorerebbero nei rapporti fra Mst e il secondo presidente di sinistra?
Dilma sarebbe anche peggio di Lula. Nonostante il suo passato nella guerriglia contro la dittatura militare non ha la connotazione popolare di Lula, che è sincera. Dilma rappresenta l'ala tecnocratica, è l'equivalente di José Serra, che con ogni probabilità sarà il candidato presidenziale del Pdsb, i tucanos come si chiamano in Brasile i social-democratici, che sono però la vera destra.
L'Mst ha sempre avuto rapporti simbiotici con la chiesa cattolica, che l'ha tenuto a battesimo nell'84 e sotto la sua ala protettrice in questi 25 anni. Ma esponenti della Teologia della liberazione come dom Evaristo Arns, arcivescovo di San Paolo, o dom Helder Camara, arcivescovo di Recife, sono stati mandati in pensione per limiti di età o sono morti. E' cambiata la chiesa cattolica brasiliana e sono cambiati i rapporti con l'Mst?
Molto cambiati. Nella Conferenza episcopale non c'è stato un rinnovamento in linea con il passato. Le eccezioni ormai sono poche, dom Tomás Balduino, l'ex-responsabile della Commissione pastorale per la terra, dom Pedro Casaldiga, il vescovo emerito di São Félix de Araguaia, nel Mato Grosso... Purtroppo si deve dire che l'opera di papi come Wojtyla e Ratzinger ha avuto successo.
Con i media l'Mst ha sempre avuto un rapporto conflittuale. I principali giornali e network radio-televisivi non parlano mai della sua funzione di coscientizzazione e democratizzazione di masse popolari sempre emarginate e abbandonate a se stesse, ma hanno cercato in tutti i modi di criminalizzare il Movimento presentandolo come violento ed eversivo. E' ancora così?
E' sempre peggio. I grandi media hanno preso il posto dei partiti, che anche in Brasile sono in profonda crisi, a cominciare dal Pt. Sono i giornali e le tv a dare la linea contro i movimenti sociali come il nostro e contro la riforma agraria.
Gli agro-combustibili: un altro punto di dissenso forte fra l'Mst e Lula. Che dice che le colture della canna da zucchero da cui si ricava l'etanolo e il bio-fuel non costituiscono più dell'1% delle terre coltivabili del Brasile e quindi non c'è alcuna contraddizione fra le terre usate per la produzione alimentare e le terre usate per i prodotti d'esportazione o per l'etanolo...
Sono due modelli antitetici a confronto. Il modello dell'agro-business da esportazione dominato dalle transnazionali contro il modello agro-familiare e per la sovranità alimentare. Incompatibili. Adesso ci dicono che non ci sono più terre improduttive per cui, non volendo toccare il latifondo che è il vero nodo, non si può più fare la riforma agraria. Ma poi dicono anche che, di fronte ai 7 milioni di ettari coltivati a canna da zucchero di adesso, ci sono 90 milioni di ettari buoni per la canna e senza contare l'Amazzonia. Allora questa terra c'è o non c'è? E a cosa deve servire?
Il Movimento dei Senza terra ha avuto fin dal principio il Pt come suo referente politico privilegiato, anche se non l'unico. E' ancora così dopo sei anni di un presidente della repubblica «petista» e altrettanti o più di sindaci e governatori statali del Pt?
Non solo Lula, neanche il Pt è più il ricettore-canalizzatore delle energie dirette verso la riforma agraria. Noi Senza terra siamo ormai orfani di uno strumento politico.

 

L'importante è censurare

Passate le Olimpiadi, Pechino torna a oscurare Internet come prima. Ed è preoccupata per le agitazioni delle ultime settimane

Scritto da Alessandro Ursic

Dopo una letterale "tregua olimpica" a cavallo dei Giochi di Pechino, in cui la censura su alcuni siti di informazione era stata leggermente allentata, la Cina è tornata a oscurare Internet come ai vecchi tempi. Il buio totale su qualsiasi menzione del Dalai Lama, di Falun Gong o delle rivolte di piazza Tiananmen era rimasto immutato, parte del "Great Firewall" cinese. Ma la versione cinese di siti internazionali, come quelli della Bbc e di Voice of America, erano visibili negli ultimi mesi con una certa continuità: non più. E forse non è un caso che la nuova stretta sull'informazione coincida con recenti segnali di crescente malcontento tra la classe operaia e gli intellettuali, una combinazione che il Partito comunista teme più di ogni altra cosa.

Alle lamentele della Bbc, Pechino ha risposto senza negare il fatto ma giustificandolo: la censura si sarebbe resa necessaria perché tali siti parlano di "due Cine", quella di Pechino e l'isola di Taiwan: un tabù per il Partito, che considera l'ex Formosa una provincia ribelle non indipendente, contro cui tiene dispiegate centinaia di missili. Ma mentre i rapporti tra Taiwan e la "Cina di terraferma" (come viene chiamata nel politically correct locale) si stanno progressivamente rasserenando - con l'istituzione di voli diretti e la donazione di due panda a uno zoo dell'isola come gesto distensivo - nelle ultime settimane Pechino ha avuto altro di cui preoccuparsi.

La crisi economica sta avendo un impatto duro anche qui. Oltre un terzo del Prodotto interno lordo della Cina si basa sulle esportazioni, in particolare verso gli Stati Uniti, e si è già registrato un netto calo. Il prossimo anno, alcune previsioni stimano una crescita del Pil del 6 percento, la più bassa dal 1990: si calcola che il Paese sia "costretto" a crescere almeno del 7-8 percento l'anno, per mantenere la coesione sociale tanto cara al Partito. Migliaia di fabbriche che producono per l'export sono state costrette a licenziare, si calcola che 9 milioni di operai abbiano perso il posto; contemporaneamente, l'inflazione ha eroso il potere d'acquisto della classe medio-bassa. E le conseguenze si sono viste nelle ultime settimane: se negli ultimi anni le rivolte e le proteste popolari nelle campagne erano diventate quotidiane, ora il malcontento si è esteso anche a città della Cina benestante.

A Chongqing, 9.000 tassisti hanno scioperato contro i concorrenti abusivi e l'aumento del prezzo del carburante. Nell'Hunan, un centinaio di poliziotti hanno preso possesso dell'ufficio locale del Partito, chiedendo la reintroduzione di un bonus salariale tolto dopo le Olimpiadi. Nella stessa provincia, oltre un migliaio di insegnanti hanno incrociato le braccia sempre per motivi salariali. Si sono verificate rivolte anche a Guangzhou e Shenzen, dove una stazione di polizia è stata data alle fiamme. Zhou Tianyong, un consulente della leadership del Partito, ha previsto "tumulti sociali su larga scala" il prossimo anno.

Nel 2009 ricorrono tre anniversari delicati per la Cina: il sessantesimo dell'istituzione della Repubblica popolare, il cinquantesimo di rivolte in Tibet che portarono all'espulsione del Dalai Lama, e il ventesimo delle rivolte di piazza Tiananmen. Se il primo anniversario sarà l'occasione per rinfrescare la propaganda di Stato ricordando i giganteschi passi avanti compiuti, gli altri due sono a forte rischio di proteste organizzate.

Il timore di Pechino è che le agitazioni dei lavoratori si saldino con le richieste di maggiori diritti umani da parte degli intellettuali, e la scorsa settimana - il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo - è stata avanzata una clamorosa richiesta in tale direzione: 303 persone tra ex funzionari e direttori di giornale, avvocati, professori universitari e artisti hanno firmato lo "Statuto 08", un documento per chiedere la libertà di pensiero e di associazione politica, un sistema giudiziario indipendente e libere elezioni. Il nome si ispira allo "Statuto 77", con cui gli intellettuali cecoslovacchi misero per iscritto richieste simili trentuno anni fa. Se a lungo termine avrà lo stesso effetto, tenere 250 milioni di internauti cinesi sotto censura potrebbe non essere sufficiente.

 

 

Mosca non abbassa la guardia e accusa: 'Washington pensa a basi in Asia Centrale'
Mosca mantiene alta l'attenzione e monitora continuamente i movimenti degli Stati Uniti che, secondo il generale Nikolay Makarov capo di stato maggiore delle forze armate, si stanno avvicinando sempre di più al "giardino di casa".

Durante un discorso all'Accademia di Scienza Militare, Makarov ha detto che gli Stati Uniti stanno organizzandosi per istallare basi militari in Kazakhstan e Uzbekistan. La Russia è molto preoccupata per il dispiegamento di uomini lungo i suoi confini e la continua avanzata della Nato fino alle porte di casa propria. Dopo la sponsorizzazione di Washington per l'ingresso di Georgia e Ucraina nel Patto Atlantico e dopo i negoziati con Praga e Varsavia per lo scudo spaziale e i missili intercettori, un ulteriore passo della Casa Bianca, stavolta in Asia Centrale, rischia di peggiorare ancora le relazioni tra Russia e Stati Uniti. Secondo gli esperti del Cremlino, l'invio di altri 20 mila soldati Usa in Afghanistan implica necessariamente l'apertura di nuove basi nei paesi confinanti. Attualmente l'unica base in Asia Centrale di cui dispongono la Nato e gli Stati Uniti è quella di Manas in Kyrgyzstan, vicino alla capitale Bishkek. Solo nel 2008, 120 mila uomini della Coalizione sono transitati nella base aerea. Il Dipartimento di Stato Usa ha ufficialmente smentito la dichiarazione di Makarov e il delegato per l'Europa e l'Eurasia ha espresso sorpresa per le parole del capo di stato maggiore.

Secondo il generale Makarov chi crede che l'elezione di Barack Obama possa modificare la politica estera degli Usa, commette un grosso errore: "La Nato e gli Stati Uniti stanno lavorando per un dispiegamento di forze capaci di reagire velocemente, per controllare il potenziale nucleare della Russia. Il campo di battaglia non è lontano dalle nostre porte, ma a ridosso dei nostri confini". Le relazioni tra Washington e Astana si stringono ulteriormente. Già nel 2001 il Kazakhstan aveva concesso ai jet della Coalizione il transito nel suo spazio aereo nella guerra all'Afghanistan. In Uzbekistan, fino al 2005, gli uomini Usa erano presenti nella base Karshi-Khanabad (conosciuta anche come 2K). Successivamente a un raffreddamento tra il governo uzbeko e quello statunitense che aveva spinto per aprire un inchiesta internazionale sulla repressione violenta della grande dimostrazione di maggio ad Andijan, a fine luglio del 2005 l'Uzbekistan diede a Washington 180 giorni di tempo per lasciare la base. Adesso, invece, sembra esserci un cambiamento di direzione nella politica dell'ex repubblica sovietica, influenzato anche dalla pioggia di milioni di dollari che potrebbe investire un Paese dalle scarse risorse economiche.

Sull'altro fronte, Mosca non sta a guardare e prepara le contromosse: 400 milioni di dollari sono già stati stanziati per la costruzione di basi in Ossezia del Sud (a Tskhinval e Djava) e in Abkhazia, le due province separatiste georgiane. Se gli Stati Uniti e la Nato stanno conducendo una serrata campagna politica (e non solo) per "circondare" la Russia, anche se gli intenti dichiarati sono ben altri, il duo Medvedev-Putin sta portando le proprie navi da guerra sotto il naso degli Usa. Sebbene Putin abbia dichiarato che non è nei progetti la costruzione di basi in Venezuela o a Cuba, esistono, tuttavia degli accordi che permettono alle navi russe di fare scalo e rifornimento nei porti venezuelani. Un accordo simile è in fieri anche con l'Havana. In un'intervista concessa a un network russo, il premier Vladimir Putin ha rivelato: "Quando abbiamo annunciato che le nostre navi da guerra avrebbero condotto delle esercitazioni congiunte con la marina venezuelana, molte altre nazioni ci hanno chiesto di fare lo stesso con loro e ci hanno offerto basi e porti".

Se negli ultimi decenni abbiamo assistito a una corsa agli armamenti, adesso, possiamo dire, si è aperta una nuova era: una specie di Risiko in cui i due giocatori principali corrono per mettere piede nei territori più strategici.      

Nicola Sessa

  

Bloccato il progetto di deviazione del fiume McArthur
Gli aborigeni australiani hanno vinto la loro causa contro il gigante minerario anglo-svizzero Xstrata: quarto produttore mondiale di rame e di nichel, produce l'otto percento dello zinco comperato nel mondo ed è inoltre tra i primi esportatori mondiali di carbone.

Il piano aziendale elaborato dalla Xstrata per lo sfruttamento delle risorse di zinco presenti nel Northern Territory, prevedeva la deviazione del corso di un fiume per poter espandere una miniera da cui viene estratto zinco. Alcuni leader aborigeni hanno pianto di gioia quando è stata annunciata a decisione della corte federale. La popolazione aborigena aveva infatti intrapreso una lunga battaglia per contrastare la decisione governativa relativa alla deviazione del corso fluviale del McArthur, che sarebbe servita a espandere la miniera, trasformando il sito per l'estrazione di zinco da sotterraneo a sito di superficie. Insieme alle organizzazioni ambientaliste, alcuni gruppi di aborigeni hanno messo in allarme sui potenziali pericoli derivanti da una deviazione del corso del fiume: durante la stagione delle piogge infatti, il McArthur, scorrendo lungo il nuovo percorso, verrebbe contaminato da infiltrazioni inquinanti provenienti dalla miniera. L'altro capo di accusa presentato dagli aborigeni riguardava una mancanza nel processo di approvazione istituzionale del progetto: la corte federale ha approvato il ricorso, riconoscendo effettivamente un vizio nel procedimento. Il corso del fiume McArthur è già stato deviato per più di 5 chilometri e adesso gli aborigeni chiedono che torni a scorrere lungo il corso originario. Xstrata ha espresso il proprio disappunto per quanto contenuto nella sentenza, annunciando che l'azienda probabilmente si vedrà costretta a chiudere la miniera. Il Consiglio per le Risorse del Northern Territory ha descritto la sentenza federale come una grande sconfitta per l'industria mineraria australiana.

  

Africa in prima fila nel processo lanciato dalla risoluzione Onu del 2007

Scritto  da
Michele Dotti

Togo e Burundi hanno deciso di abolire la pena di morte, confermando il ruolo centrale dei Paesi del continente africano nell'approvazione, da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite, della moratoria contro le esecuzioni capitali.

Assemblea OnuIncompatibile con la giustizia del Paese. La pena di morte in Togo non viene applicata da almeno 30 anni. Lo scorso 11 dicembre è stata diffusa una nota del governo al termine del Consiglio dei ministri, che ha approvato la cancellazione della pena capitale dall'ordinamento giudiziario nazionale "L'abolizione della pena di morte, considerata come una pena umiliante e degradante e crudele dalla comunità delle Nazioni rispettose dei diritti umani, si è imposta alla coscienza collettiva dei togolesi dopo trent'anni di moratoria" si legge nella nota diffusa dal Consiglio dei ministri di Lomé, nella quale la punizione viene giudicata "irrimediabile" e "incompatibile" con la scelta del Paese di dotarsi di "una giustizia che limiti gli errori giudiziari, corregga, educhi e garantisca i diritti inerenti la persona".

Il presidente del Burundi, NkurunzizaIl contributo della Comunità di Sant'Egidio. Più significativa, dal punto di vista politico e simbolico, l'abolizione della pena capitale da parte del Parlamento di Bujumbura, che ha approvato a fine novembre il nuovo codice penale. La novità più importante della riforma è sicuramente l'abolizione della pena di morte nel Paese e la sua trasformazione in ergastolo. "Tutti i prigionieri attualmente in carcere e condannati a morte avranno commutata la pena in ergastolo." Lo ha reso noto un comunicato della Comunità di Sant'Egidio, considerando questo fatto un segno positivo e di speranza per tutta la regione dei Grandi Laghi, proprio ora che è scossa da un nuovo conflitto nella Repubblica democratica del Congo. L'abolizione è avvenuta anche a seguito della partecipazione del ministro della Giustizia burundese agli Incontri contro la pena di morte organizzati dalla stessa Comunità di Sant' Egidio con i ministri della Giustizia africani in questi anni, di cui l'ultimo il 29 settembre 2008 a Roma.
Recepite le disposizioni del diritto internazionale anche contro la tortura e lo stupro. Ma vi sono anche altri elementi significativi che rendono questo voto storico e che vale la pena di sottolineare. Il nuovo codice, infatti, come ha spiegato il ministro della Giustizia Didace Kiganahe, accoglie le disposizioni del diritto internazionale in materia di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, e di reati che fino ad oggi non erano neppure contemplati come la tortura. Tra le altre novità la protezione giuridica accordata a donne e bambini contro ogni tipo di atti di violenza, specialmente domestica: in particolare il reato di stupro -non specificatamente menzionato nel vecchio codice- viene punito con una pena carceraria che va dai 20 anni di reclusione all'ergastolo.

Abolizione globale. Un altro importante passo verso l'abolizione della pena di morte nel mondo. Amnesty International sottolinea come l'evoluzione positiva verso l'abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre 30 anni si sia confermata anche nell'ultimo anno. Secondo Amnesty, dal 1976 ad oggi una media di tre nuovi Paesi ogni anno ha aggiunto il proprio nome alla lista dei paesi che hanno abolito la pena di morte. La maggioranza delle nazioni ha posto termine alla pena capitale nella legislazione o nella prassi. Ancora nel 1977 erano solo 16 i paesi che avevano abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre oggi sono 135 i paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica, cioè oltre i due terzi degli stati del mondo. I paesi che mantengono in vigore la pena capitale sono 62 e il numero di quelli in cui le condanne a morte sono eseguite è ancora più basso, appena 24. L'anno scorso, l'88 percento delle esecuzioni e' stato registrato in soli cinque paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Stati Uniti. Come negli anni passati, dunque, la maggior parte delle condanne a morte è stata eseguita in una manciata di paesi, sempre più isolati e ormai non più in sintonia con la tendenza mondiale. Secondo i dati di Amnesty International, il numero delle esecuzioni nel mondo e' sceso negli ultimi due anni da 2148 a 1252. E il fatto che la risoluzione dell'ONU dello scorso dicembre per porre fine all'uso della pena di morte sia stata adottata con una così chiara maggioranza (104 voti a favore, 54 contrari e 29 astensioni) mostra che l'abolizione globale della pena di morte è possibile.

  

MASERATI
Licenziato un Rsu Fiom E in fabbrica è sciopero
Dopo cinque giorni di sciopero contro il licenziamento di 112 interinali, ieri dalla Maserati di Modena è arrivata una prima «risposta». L'azienda ha comunicato infatti la sospensione cautelativa di sei giorni al delegato sindacale Fiom, Eugenio Scognamiglio. La protesta è nuovamente dilagata e la produzione è stata bloccata quasi interamente dallo sciopero di moltissimi lavoratori. La segreteria nazionale Fiom, dopo avere espresso solidarietà e sostegno al delegato, denuncia «l'ennesimo atto di repressione compiuto dalla Fiat Maserati». Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom e leader dell'area di sinistra Cgil Rete 28 Aprile, non esita a definire l'accaduto «una rappresaglia contro gli scioperi interni».
Lo sciopero «a oltranza» in Maserati va avanti da giovedì scorso, dal giorno seguente alla comunicazione dell'azienda del mancato rinnovo del contratto per 112 interinali (in scadenza a fine dicembre). Maserati (che occupa complessivamente 850 lavoratori circa) non è in crisi, non c'è cassa integrazione, e nell'apprendere la notizia la protesta - con presidi ai cancelli dell'azienda, blocco delle strade circostanti e, due giorni fa, un corteo cittadino - è scattata spontanea. Ieri, come dicevamo, la risposta dell'azienda, con la comunicazione a Eugenio Scognamiglio, delegato Fiom, della sospensione cautelare motivata con fatti che sarebbero accaduti proprio durante i giorni della protesta contro il licenziamento dei 112 interinali. Scognamiglio non ha dubbi sul fatto che il provvedimento non sia che «un'anticamera del licenziamento», e ribadisce la sua estraneità ai fatti contestatigli. «Mi hanno accusato di avere aggredito fisicamente un sorvegliante durante la mobilitazione, quando nell'ora indicata non ero presente in azienda, o di avere provocato danni materiali all'interno dello stabilimento... Tutte cose non vere», dice. «In questo modo si vuole colpire un delegato e intimidire tutte le lavoratrici e i lavoratori che - nel più totale disinteresse dei mezzi d'informazione - stanno portando avanti una lotta per la difesa dei più deboli e per affermare concretamente il valore della solidarietà», si legge nel comunicato della segreteria nazionale Fiom. Che conclude: «Con questo atto la Fiat Maserati si assume la responsabilità di inasprire il conflitto sociale in corso». E oggi a Modena la protesta continua, con un presidio ai cancelli dell'azienda.

 

16 dicembre


 
Da un'inchiesta del Times
Non saranno contenti i sudditi della Regina Elisabetta per quanto scoperto dal quotidiano The Times: un pò delle tasse pagate dai contribuenti britannici finiscono nelle tasche dei talebani. Oltre Manica si parla già di "Taleban Tax". In realtà, se è vero quanto scritto da Tom Coghlan, non dovrebbero essere contenti neache i cittadini italiani, francesi e statunitensi. 

Il deposito di PeshawarFinanziare i taleban. Leggendo i risultati di un'inchiesta del Times, l'Occidente starebbe finanziando indirettamente la resistenza afghana, per mezzo di un giro di soldi (moltissimi) utili a garantire il transito sicuro ai convogli che riforniscono le basi Nato in Afghanistan. Di mano, in mano questi soldi arrivano ai comandanti talebani. I contratti di rifornimento carburante, equipaggiamento e alimentare sono detenuti da multinazionali. Il più delle volte il trasporto viene subappaltato ad aziende afgane o pachistane. Il rischio quando si attraversa il passo di Khyber è troppo alto e il tratto di strada  che porta da Kabul a Kandahar è tra i più pericolosi al mondo: gli attacchi e le imboscate lungo i quasi 500 chilometri di asfalto e sterrato sono all'ordine del giorno. Diversi titolari delle aziende di trasporto confermano che la pratica di pagare le bande armate per un trasporto tranquillo sia molto diffusa: circa il 25 percento delle somme elargite alle agenzie di sicurezza afgane finiscono nelle casse della resistenza. Considerato che chi si occupa di organizzare le scorte richiede 1.000 dollari per camion e che in media ogni convoglio è composto da 40-50 fino a 100 automezzi pesanti, è facile fare i conti.

Mangal BaghIl padrino Mangal. Ogni agenzia di sicurezza ha il suo "uomo-tramite", il contatto che negozia il transito. Qualcuna, a quanto pare, non ne necessita. Forse sarà solo una voce per screditare la concorrenza, ma sono insistenti le voci che circolano su un'azienda di trasporti della Valle del Panjshir, nel nord del Paese, secondo cui, questa, si servirebbe direttamente dei talebani come scorta, senza "intermediari". Sarebbero gli insorti a sedere a fianco dell'autista del capo-convoglio ad aprire la pista agli altri e a fare da passaporto nella provincia di Ghazni. Fino a 14 mesi fa le scorte erano sufficienti e non c'era bisogno di pagare nessuno. Le cose sono cambiate quando Mangal Bagh, un capo pashtun delle aree tribali pachistane che vanta il comando su 120mila uomini armati, ha cominciato a pretendere un "diritto di transito" per attraversare il passo Khyber. Non pagare vuol dire subire grandi perdite, come quando il 24 giugno scorso, 50 camion furono distrutti e sette autisti decapitati sul ciglio della strada. 
E la Nato? A quanto pare a Bruxelles non interessa. Il portavoce dell'Alleanza, James Gater, ha chiaramento detto che non ha importanza come arrivino le merci nelle basi: "Esistono accordi per i rifornimenti con due multinazionali europee; sono loro a dover gestire la pratica come meglio credono". 

Karachi - Kabul - Kandahar. Gli approvvigionamenti per le truppe in Afghanistan arrivano, per lo più, nel porto pachistano di Karachi da qui prendono due strade: quella del passo di Khojak, tra Quetta e Chaman, oppure quella del passo di Khyber. Da quest'ultimo valico di montagna transita il 70 percento dei rifornimenti Nato, 300 camion al giorno: facili prede degli uomini di Bagh. Le dimensioni del potere di controllo esercitato dai talebani è misurabile con il costante aumento di furti e distruzione di beni destinati alla Nato: 36 cisterne di benzina a marzo, 4 motori di elicotteri ad aprile, 50 camion in giugno. Tra il 7 e l'8 dicembre scorsi 260 tra container e camion sono stati dati alle fiamme da 200 miliziani che hanno fatto irruzione nel deposito di Peshawar L'ultimo attacco, sabato 13, sempre a Peshawar: 11 camion e 13 container incendiati. Il comando Usa, che ha accusato il colpo, ha commentato la notizia dicendo che "l'attacco ha avuto un'incidenza minima sulle operazioni in Afghanistan che continueranno a pieno regime". Ma intanto il Dipartimendo della Difesa Usa sta studiando percorsi alternativi attraverso Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan e Uzbekistan. Senza quindi chiedere aiuto alla Russia, con cui la Nato aveva aveva avviato in primavera un negoziato per aprire una nuova strada di accesso, da nord, attraverso Kazakhstan e Uzbekistan. Ma la guerra d'estate tra Georgia e Russia ha cambiato le carte in tavola.

Nicola Sessa
 
Il presidente Yusuf sfiducia il premier, mentre gli islamisti guadagnano terreno

scritto da
Matteo Fagotto

Non c'è fine al terremoto politico e militare in cui è precipitata la Somalia. Come se non bastasse l'avanzata delle milizie islamiche, che controllano ormai quasi tutto il Paese ad eccezione delle enclaves di Baidoa e, in parte, di Mogadiscio, oggi si è consumato forse l'ultimo atto del braccio di ferro all'interno del governo di transizione (Tfg). Il presidente, Abdullahi Yusuf, ha infatti sfiduciato il premier Nur Hassan Hussein, definendo l'esecutivo da lui guidato "corrotto, inefficiente e traditore". Il tutto mentre gli insorti organizzavano una conferenza stampa a Mogadiscio per annunciare di non essere disposti a trattare la pace.

Il premier Nur Hassan HusseinSe, come annunciato dal loro premier Meles Zenawi la settimana scorsa, le truppe etiopi dovessere lasciare la Somalia nei primi giorni del 2009, per il governo somalo potrebbe essere la fine definitiva. Incapaci da sempre di trovare un'unità di intenti al proprio interno, le autorità somale negli ultimi mesi hanno dato numerosi segnali di una spaccatura interna impossibile da sanare. Hussein ha già annunciato di non riconoscere la decisione di Yusuf, che per diventare ufficiale dovrà ricevere l'avallo del Parlamento, dove i seguaci di presidente e premier si preparano alla battaglia politica. La guerra, quella vera, la stanno invece vincendo gli insorti, la cui ala radicale ha oggi annunciato la non disponibilità a trattare con le autorità. Vedendo il Tfg in rotta, e senza una forza militare che le possa contrastare una volta partite le truppe etiopi, le milizie islamiche sentono la vittoria a un passo.

Anche perché, a livello internazionale, non sembra ci sia accordo nel rimpiazzare le forze etiopi (più di diecimila uomini) con un contingente dell'Onu. A presidiare le poche zone di Mogadiscio ancora in mano al Tfg rimarranno quindi i 2.600 soldati dell'Unione Africana, incapaci di far fronte da soli alla forza degli insorti, che dopo aver conquistato tutto il sud della Somalia stanno stringendo la morsa attorno alle due città ancora in mano al governo. In una situazione del genere, l'Etiopia potrebbe forse decidere di far rimanere i propri contingenti ancora per qualche mese, in modo da non lasciare il Tfg e l'inefficiente esercito somalo al loro destino. Ma, come ha più volte denunciato Zenawi, la guerra somala sta costando troppo all'Etiopia, lasciata da sola a svolgere il "lavoro sporco" tra il disenteresse della comunità internazionale.

La conferenza stampa degli insorti a MogadiscioAlla luce degli ultimi avvenimenti, il quadro politico e militare somalo si è fatto se possibile ancora più confuso. La spaccatura tra presidente e premier, da sempre in disaccordo su come affrontare il problema degli insorti, fa da contraltare alle divisioni del campo islamista, con l'ala più moderata disposta a dare attuazione a un accordo di pace siglato pochi mesi fa con il governo e quella più radicale decisa a continuare la lotta armata. Chiamato nel novembre 2007 a sostituire l'allora premier Mohammed Gedi, Hussein non ha mai legato con il presidente Yusuf, nonostante il carattere molto più moderato rispetto al suo predecessore. Anche se il Parlamento dovesse ratificare la scelta del presidente, difficilmente il nuovo governo riuscirebbe a risolvere i problemi che attanagliano il Paese. Quello consumatosi oggi potrebbe essere l'ultimo atto di una telenovela politica a cui gli insorti potrebbero porre fine molto presto.

 

Forza impunità

di Paolo Biondani e Marco Damilano
Modificare la Costituzione. Limitare i poteri dei pm. Aumentare il controllo sul Csm. Regolare le intercettazioni. Così Berlusconi vuole chiudere la partita con la giustizia e l'informazione
 
La Corte di Cassazione a Roma
Accomodati sulle poltroncine bianche hanno dialogato per due ore alla luce del sole, come amano dire, anzi dei riflettori: quelli di 'Porta a Porta'. Da una parte, il ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Angelino Alfano il giovane, sicuro che lo scontro tra i giudici di Salerno e quelli di Catanzaro abbia gettato "un'onta di scarsa credibilità sulla magistratura", rendendo "inevitabile" la riforma della giustizia. Dall'altra parte, l'ex presidente della Camera Luciano Violante, d'accordo con il ministro: "I poteri dei pm sono eccessivi, vanno riportati nella norma". Violante non ha nessun incarico formale nel partito di Walter Veltroni, non compare neppure tra i 120 nomi della direzione. Eppure sulla giustizia è lui a dare la linea nel Pd. È lui l'interlocutore invocato dall'avvocato Niccolò Ghedini, l'uomo chiave del Pdl, per una riforma della Costituzione da votare insieme con l'opposizione per chiudere definitivamente i conti con magistratura e informazione, i contropoteri in uno Stato democratico.

La grande partita. Il grande gioco. "La grande occasione", la definisce Carlo Federico Grosso, "per giungere finalmente laddove, finora, non sono riusciti affondi decisivi". 'La grande occasione' era anche il titolo del libro di Massimo D'Alema dedicato alla Bicamerale sulle riforme. Sono passati dieci anni da quell'esperienza fallimentare, ma da lì si deve ripartire, precisa lo stesso ex premier: "La riforma della giustizia, unita alle altre riforme istituzionali, rappresenta il grande patto che la politica dovrebbe essere in grado di scrivere per migliorare la qualità di vita dei cittadini".

Una riforma con tre caposaldi, nei piani del governo: modificare il sistema di nomina del Consiglio superiore della magistratura, aumentando il numero dei membri politici e affidandone la nomina al capo dello Stato, che oggi è Giorgio Napolitano ma domani chissà, e dividerlo in due sezioni, una per la magistratura inquirente e una per quella requirente; separare le carriere dei magistrati e ridurre il controllo dei pm sulla polizia giudiziaria; indebolire, per non dire annullare, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, lasciando al governo il compito di decidere a quali reati gli uffici giudiziari dovranno dare le priorità. Un pacchetto che, insieme alla legge sulle intercettazioni discussa alla Camera, con il carcere per i giornalisti che pubblicano le telefonate e all'idea di istituire una commissione di inchiesta parlamentare sulla stagione di Mani pulite, un controprocesso dei politici sui giudici, si presenta come un vero finale di partita. Con quale posta in gioco?
 
"C'è un terribile intreccio di progetti micidiali", lancia l'allarme il procuratore aggiunto di Torino Bruno Tinti: "La classe dirigente sta cercando la complicità di una parte dell'opposizione, della magistratura e dello stesso Csm per far passare riforme esiziali per il sistema democratico. La vera posta in gioco è l'assoggettamento dei pubblici ministeri al governo e quindi la tenuta del sistema democratico. La separazione delle carriere, dei Csm e magari degli ascensori, viene giustificata con l'esigenza di avere giudici imparziali rispetto ai pm. Ma questa è una palla macroscopica. Applicando la stessa logica, bisognerebbe separare tutte le carriere: gip, gup, tribunale, appello, Cassazione... Invece dei giudici di grado diverso non parla mai nessuno. Perché l'unico problema di questa classe politica è il pm che indaga".

Altri due magistrati di generazioni diverse arrivano alle stesse conclusioni. "C'è una parte della politica, oggi trasversale, che è indifferente al controllo di legalità", avverte il procuratore Giancarlo Caselli: "Per i cittadini il problema è l'interminabile durata dei processi, ma di questo gran parte della politica non parla. Invece di riformare la giustizia, si progetta di riformare i magistrati. È in gioco la qualità della nostra democrazia".

"In uno Stato democratico il controllo di legalità sul potere politico ed economico è una funzione essenziale", concorda il pm Giuseppe Cascini, segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati: "Con la crisi il problema è ancora più forte: chi difende i cittadini dalla criminalità economica? Il ministro Tremonti annuncia che i banchieri che sbagliano andranno in galera. Ma alcune leggi del suo governo vanno nella direzione opposta: la sostanziale abolizione del falso in bilancio, l'abbattimento dei termini di prescrizione".

 
 
Silvio Berlusconi
Non è solo l'ennesimo capitolo della sfida del Cavaliere contro la magistratura che terremota la politica italiana da 15 anni. Sul tavolo, questa volta, c'è l'ipotesi di una riforma che riscriva la Costituzione, più volte annunciata dal ministro Alfano, l'arma da fine del mondo finora mai usata, su cui scivolò la Bicamerale presieduta da D'Alema. Per la maggioranza berlusconiana quello che sta succedendo in questi giorni è il momento giusto tanto atteso, da cogliere al volo, ora che il Pd è in difficoltà, per via delle inchieste che lo colpiscono in città simbolo come Firenze e Napoli, e che la magistratura appare dilaniata dalle guerre intestine, vedi lo scontro tra Salerno e Catanzaro.

Il partito anti-toghe, dominante in Forza Italia, quello che parte da Berlusconi e arriva alla coppia Alfano-Ghedini, procede in apparenza compatto: "Meglio l'accordo con l'opposizione, ma se non c'è, andiamo avanti lo stesso". Il testo della riforma costituzionale, annunciato da mesi, potrebbe arrivare giusto in tempo per la campagna elettorale di primavera, amministrative e europee: ottimo per mettere in imbarazzo il Pd, che finirebbe stretto tra la concorrenza di Antonio Di Pietro e le inchieste giudiziarie nelle città che hanno fatto esplodere la questione morale anche nel partito di Veltroni. "La nostra disponibilità è seria", giura il ministro Gianfranco Rotondi: "Per disgrazia del Pd nella magistratura c'è ancora una componente residuale che fa politica militante e vive ogni riforma come un'aggressione. È quello che rende la riforma della giustizia fin troppo tardiva: purtroppo, temo, non c'è più niente da fare, è quasi impossibile evitare che i giudici facciano politica. Ma dobbiamo andare avanti senza farci condizionare. E il Pd deve dirci quale linea intende seguire".

 
 
Angelino Alfano
Anche la maggioranza è divisa, però: l'anima leghista vorrebbe andare avanti più speditamente con il federalismo; An, per bocca del presidente della Camera Gianfranco Fini, reclama riforme condivise con il Pd ma senza ultimatum, senza prendere o lasciare. E dal presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno (An) arriva una pioggia di distinguo: "Sono un tecnico, non un politico: qualsiasi limitazione all'indipendenza della magistratura mi terrorizzerebbe. Sono favorevole alla separazione delle carriere perché avvantaggerebbe la stessa credibilità dei giudici, ma finché farò politica continuerò a difendere il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale". Anche sulla legge sulle intercettazioni, di cui è relatrice a Montecitorio, la Bongiorno ha qualcosa da obiettare: "Mi opporrò a qualsiasi provvedimento che miri a escludere questo fondamentale mezzo di prova per la corruzione e gli altri reati contro la pubblica amministrazione. La maggioranza dei parlamentari di An e della Lega sono sulla stessa linea, è chiaro che Berlusconi ha una posizione molto diversa...". E infatti il Cavaliere non è per nulla soddisfatto del testo che sta uscendo dalla commissione, troppo morbido, e già annuncia modifiche. Anche se i magistrati in prima linea denunciano le norme che strozzano i tempi delle intercettazioni fino a rendere di fatto impossibili le indagini. E tra le toghe c'è chi punta il dito sulla debolezza del Csm. "Sono sconvolto dall'atteggiamento che il Consiglio ha tenuto su Salerno e Catanzaro", attacca il procuratore Tinti: "È passata la linea del padre che, vedendo i figli che litigano, prende a ceffoni tutti indistintamente".

Nel Pd attendono le prossime mosse della maggioranza. "Sono sei mesi che parlano di riforma e non ne abbiamo visto l'ombra", si dichiara scettico Felice Casson, ex magistrato impegnato in inchieste delicate, oggi capogruppo del Pd nella commissione Giustizia del Senato, pronto a fissare alcuni paletti nella disponibilità al dialogo del Pd: "Dare maggiori poteri alla polizia giudiziaria significa tagliare le unghie ai pubblici ministeri. Ci sono magistrati che all'epoca del terrorismo rosso o nero sono stati messi fuori strada dalle forzature delle varie polizie, non possiamo accettare che le indagini dipendano dal governo, di qualsiasi colore esso sia. In Portogallo la riforma ha trasformato i pm in un corpo chiuso di super-poliziotti che pensano solo al risultato, esattamente il contrario del garantismo". Casson rappresenta l'area del Pd che si riconosce nella segreteria Veltroni, insieme al ministro-ombra Lanfranco Tenaglia: sì al dialogo sulla giustizia, no a qualsiasi riforma che tocchi la Costituzione. Ma la geografia interna al partito, al solito, è molto più complicata: c'è una corrente convinta che bisogna andare molto più rapidamente verso l'accordo con la destra. "Dobbiamo rompere con il dipietrismo presente anche tra di noi, riconoscere gli eccessi del giustizialismo del passato e partecipare alla riforma", si lancia il deputato del Pd Pierluigi Mantini che in politica ha esordito proprio come seguace di Di Pietro. Un'ala che dopo i casi di Napoli e Firenze spinge per uno strappo con la linea tradizionale di vicinanza alla magistratura. Quella che tuona contro il "cortocircuito politico-mediatico-giudiziario", come ha fatto in televisione il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, con insolito linguaggio berlusconiano, "tipico di chi vuole strumentalmente delegittimare un'inchiesta", ammette Casson. Quella su cui conta il ministro Alfano per la sua grande riforma: "L'Udc e D'Alema che si sono mostrati pronti a una riforma della giustizia perché la considerano urgente". Ecco raccontato dal titolare di via Arenula il fronte che potrebbe cogliere la grande occasione: il Pdl, i centristi di Pier Ferdinando Casini, i dalemiani. Con il solo Di Pietro a opporsi e la Lega pronta a resuscitare la proposta di far eleggere i magistrati direttamente dal popolo.

Nel Pd Violante è il battitore libero, il più esplicito sulla necessità di trovare l'accordo con la maggioranza berlusconiana. Anche a costo di sfidare l'ira degli ex colleghi. Perfino Caselli prende le distanze dal suo vecchio amico: "Sono in magistratura da 40 anni, ho vissuto i tempi della separatezza totale tra magistratura e forze di polizia. Senza polemica, Violante dovrebbe ricordare, perché ne faceva parte, il primo pool di giudici istruttori, che fu creato per combattere le Brigate rosse. Si indagava insieme alle forze di polizia, mangiando lo stesso pane amaro, sotto il coordinamento dei magistrati inquirenti. E i risultati mi sembrano innegabili. Lo stesso metodo di lavoro è continuato nei pool antimafia e poi con la lotta alla corruzione. Non pretendo la luna, ma almeno che sia mantenuto l'attuale equilibrio tra poteri". "Ci sono scelte che si inquadrano in percorsi personali più o meno discutibili", conclude il pm Cascini, riferito a Violante:"E c'è un'opposizione che sembra andare a rimorchio di un'agenda politica dettata dal governo. Manca la capacità di proporre al Paese un'idea di giustizia alternativa a quella di Berlusconi".

Ma forse non c'è molta voglia di cercare un'alternativa: allo scontro finale contro la magistratura buona parte della classe politica sembra avere un'esigenza in comune, che va oltre distinzioni ormai datate, destra e sinistra. La chiamavano impunità.
 

Sos bambini

di Emiliano Fittipaldi
Crescono del 2 per cento l'anno le neoplasie infantili in Italia. Con picchi spaventosi in prossimità di aree industriali o inquinate. Colpa di smog e pesticidi. E della contaminazione della catena alimentare
 
 
© Giulio Di Sturco per L'espresso
Nelle Marche tra il 1988 e il 1992 il Registro tumori ha segnalato 93 bambini malati. Dieci anni dopo, sono diventati 171. Un raddoppio secco. A Parma i casi sono passati da 27 a 53. A Sassari, nello stesso arco di tempo, gli under 14 ammalati di tumore sono triplicati. Il bollettino è agghiacciante, la fonte autorevole: i numeri che nessuno vorrebbe leggere li sciorina il rapporto Airtum 2008, il primo del suo genere, cofirmato dal Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, dall'Associazione di ematologia e oncologia pediatrica e dall'Istituto superiore di sanità. Lo studio evidenzia che nel nostro Paese, tra il 1988 e il 2002, c'è stato un aumento medio dei tumori infantili del 2 per cento l'anno. I tumori sono bastardi, nessuno sa esattamente quale sia la causa. Per ogni cancro ci sono diversi fattori di rischio possibili, e tutti lavorano insieme ad avvelenare l'organismo. Così davanti al trend gli epidemiologi intervistati invitano a non trarre conclusioni affrettate, ma quasi nessuno nega che tra i maggiori sospettati ci siano l'inquinamento, i pesticidi e la contaminazione della catena alimentare. Basta pensare alla diossina che, attraverso le carni, il latte e l'acqua, arriva direttamente sulle tavole: se da giorni l'Europa dà la caccia ai maiali e bovini irlandesi avvelenati, nei mesi scorsi la sostanza cancerogena ha già compromesso interi greggi di pecore che pascolavano a ridosso dell'Ilva di Taranto e migliaia di bufale vicino Caserta.

Il dottor Gianfranco Scoppa il rapporto sui tumori infantili non l'ha letto. Ma la sua percezione sull'andamento delle malattie è addirittura peggiore dei dati pubblicati dall'Airtum. Il radioterapista, ex oncologo del Pascale, oggi dirige l'Aktis di Marano, uno dei più grandi centri di radioterapia della Campania. "Crescono sarcomi, linfomi, leucemie. Vedo entrare troppi bambini, stiamo diventando una struttura pediatrica", spiega. A 800 chilometri di distanza, a Mantova, pochi giorni fa uno studio di una società privata ha messo in allarme la città e la vicina Cremona: nelle due province la frequenza di leucemie infantili sarebbe rispettivamente 20 e dieci volte superiore a quella registrata mediamente in Lombardia. "I numeri sono abnormi, credo abbiano confuso i singoli casi con il numero, più alto, dei ricoveri", spiega Paolo Ricci, epidemiologo dell'Asl mantovana. "Ma in provincia un dato da approfondire c'è davvero". A Castiglione delle Stiviere, meno di 20 mila abitanti, negli ultimi anni sono stati accertati sette casi di leucemie infantili. "Un fatto anomalo, l'incidenza è rilevante. Ricordiamoci che si tratta della zona più industrializzata della provincia, un distretto dove la mortalità rincorre quella di Brescia". Anche a Lentini, in Sicilia, i bambini si ammalano con frequenza eccessiva: i tassi del periodo 1999-2003 del registro territoriale di patologia segnano una media dieci volte superiore rispetto a quella della provincia di Siracusa. Picchi anomali che hanno convinto la Procura ad aprire un'indagine per tentare di capirne le origini.

Di sicuro in Italia il trend è anomalo rispetto al resto dei paesi industrializzati: doppio rispetto a quello europeo, addirittura cinque volte più alto rispetto ai tassi americani. Molti si affrettano a spiegare la tendenza con la diagnosi precoce e le nuove tecniche che permettono di cercare le malattie con strumenti più raffinati rispetto al passato. Ma la risposta, per gli esperti più attenti, è insoddisfacente: equivarrebbe a sostenere che tedeschi, francesi e svizzeri (dove l'incidenza è più bassa) sarebbero meno bravi di noi a individuare il male. Non solo: l'incremento è troppo rilevante. Entrando nello specifico, se nel Vecchio Continente i linfomi infantili aumentano con una media dello 0,9 per cento annuo, in Italia la percentuale sale al 4,6 per cento. Anche le leucemie viaggiano a tasso quasi triplo, mentre i tumori del sistema nervoso centrale crescono del 2 per cento, contro la riduzione dello 0,1 registrata in Usa. "I dati dei nostri registri trovano un utile complemento in quelli raccolti da registri ospedalieri e di mortalità", commenta secco Corrado Magnani del Centro di prevenzione oncologica del Piemonte: "I risultati concordano con le indicazioni di tassi di incidenza relativamente elevati nel panorama internazionale e indicano un incremento statisticamente significativo dell'incidenza".

 
 
In Italia ogni anno si ammalano circa 1.500 bambini e 800 adolescenti dai 15 ai 19 anni. Soprattutto di leucemia (un terzo del totale), linfomi, neuroblastomi, sarcomi dei tessuti molli, tumori ossei e renali
. I numeri assoluti sono bassi, e fortunatamente i tassi di mortalità diminuiscono grazie all'efficacia delle cure. L'incidenza, però, sembra destinata a crescere. "Per i bambini le previsioni non sono rosee", dice l'Airtum: "Le stime, calcolate utilizzando le informazioni raccolte nelle aree coperte dai registri e i dati di popolazione Istat, indicano che ci sarà un aumento dei casi". Se la tendenza resterà costante, nel periodo 2011-2015 si ammalerà il 18 per cento di under 14 in più rispetto al quinquennio 2001-2005. Il fenomeno riguarda sia il Nord che il Sud. Gli epidemiologi hanno preso in considerazione solo i registri che rilevavano i tre periodi presi in esame: quello che va dal 1988 al 1992, il periodo 1993-1997 e quello 1998-2002. A Sassari i bimbi ammalati passano da 12 a 40, a Napoli da 33 a 114. A Latina si passa da 38 a 52, a Modena, Parma, Ferrara e Reggio Emilia stesso rialzo, il registro della Romagna ha raddoppiato i suoi iscritti. Identico trend per l'Alto Adige, mentre l'aumento è meno preoccupante per il Friuli. In Liguria e in Piemonte, che può vantare il registro più antico, l'incidenza è invece stabile, come a Salerno e Ragusa.

Ma cosa sta succedendo? I medici dell'ambiente dell'Isde non hanno dubbi, e considerano l'aumento delle neoplasie dei bambini un indicatore assai preoccupante. Puntano il dito sull'inquinamento selvaggio, sui danni provocati dai rifiuti tossici e dall'uso dissennato di sostanze nocive in agricoltura e nella produzione dei beni di massa. Gli epidemiologi puri - in mancanza di evidenze dimostrate da studi scientifici definitivi - sono tradizionalmente più cauti su cause e fattori di rischio. Stavolta, però, anche loro non escludono che l'inquinamento ambientale e lo stile di vita di bambini e genitori possano avere responsabilità rilevanti sul fenomeno. Benedetto Terracini è uno dei luminari dell'epidemiologia dei tumori, e da qualche settimana ha iniziato un carteggio con alcuni colleghi per cercare di dare un'interpretazione al rapporto, insieme a indicazioni operative per possibili misure di salute pubblica. "Non si può affermare con certezza che l'aumento sia dovuto all'inquinamento", chiosa, "ma è plausibile che influiscano fattori esterni a quelli genetici: sono decenni che sappiamo che le frequenze tumorali sono correlate all'ambiente. I cinesi che emigrarono in Usa si ammalano oggi esattamente quanto e come gli americani, proprio come accade ai pugliesi a Milano e agli italiani partiti per l'Australia. Il lavoro dell'Airtum è il massimo che si può fare in termini statistici, ma ora bisogna agire". Terracini dubita che in tempi brevi gli scienziati potranno dimostrare definitivamente il coinvolgimento di fattori legati all'inquinamento. "Ma anche se non si può dire che benzene e smog fanno venire il cancro agli under 14, si possono applicare rapidamente politiche precauzionali: non servono certo altri studi per sostenere che vivere vicino a una strada a grande traffico non fa bene alla salute. Bisogna difendere i bambini a priori, senza fare allarmismo usando un tema delicatissimo come le neoplasie infantili".

Se i 'ragionevoli dubbi' sul rapporto tra inquinanti e tumori non sono ancora diventati legge scientifica, serpeggiano con sempre maggior insistenza nelle conclusioni di autorevoli ricerche internazionali. Nel 2005 un report dell'ateneo di Birmingham ha evidenziato che i piccoli che abitano nel raggio di un chilometro da uno snodo di traffico 'importante' hanno un rischio 12 volte più alto di ammalarsi, mentre due anni fa ricercatori delle università di Milano e Padova mostrarono un legame tra inquinamento da diossina prodotto da inceneritori per rifiuti industriali e urbani e l'insorgenza di sarcomi nella provincia di Venezia. Anche a Mantova un rapporto dell'Asl (che a breve verrà pubblicato dall'Istituto superiore di sanità) ha ufficializzato un nesso tra sarcomi dei tessuti molli e le sostanze diossino-simili osservate intorno al polo industriale di Mantova, dove insistono il petrolchimico dell'Enichem, le Cartiere Burgo, tre centrali termoelettriche, tre discariche per rifiuti tossici e un inceneritore per rifiuti industriali e sanitari. Basata sul contributo di esperti di rilievo come Pieralberto Bertazzi, Pietro Comba, Paolo Crosignani e il compianto Lorenzo Tomatis, la ricerca spiega che il rischio più alto che ha la popolazione residente vicino all'area industriale di ammalarsi (bambini compresi) è legata probabilmente non solo alla diossina e ai Pcb, ma anche ad altri inquinanti: "Sempre comunque di origine industriale". Altre analisi hanno evidenziato i nessi tra leucemie e campi magnetici. La faccenda è molto discussa, ma a tutt'oggi, spiega Magnani, "il dato scientifico non è stato ancora confutato".

Se il rapporto Airtum ha avuto scarsa pubblicità, gli scienziati non mancano di mettere insieme le indicazioni che arrivano da questi studi scientifici con le cifre delle neoplasie infantili in Italia. E non nascondono la loro preoccupazione. Tutti, dal decano Terracini a Franco Berrino dell'Istituto dei tumori di Milano, concordano sul fatto che occorre studiare le sostanze sospettate sia sul piano epidemiologico (ovvero andare a vedere come e quando si correlano agli aumenti di incidenza), sia su quello tossicologico e genetico, per capire in che modo possono indurre il male. All'indomani del rapporto Airtum, qualcuno si spinge anche più in là, e comincia a comporre il puzzle. Come Gemma Gatta, ricercatrice all'Istituto dei tumori di Milano: "L'aumento generale c'è di certo. E i fattori di rischio sono numerosi: radiazioni, farmaci antinfiammatori usati in passato in Europa, ormoni per l'interruzione della gravidanza. Poi, il consumo di tabacco e alcol da parte della madre in gravidanza, il traffico veicolare, le infezioni e la professione dei genitori". In particolare, l'esperta sottolinea il rischio di chi vive parte della giornata a stretto contatto con sostanze cancerogene come benzene e pesticidi. Ma non è tutto. "Negli ultimi anni le madri allattano meno al seno, fumano di più, i giovani si alimentano peggio: bisognerebbe, anche in assenza di studi definitivi, modificare stili di vita insalubri", chiosa la studiosa. Pure Luigia Miligi, dell'Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica della Toscana, è cauta su cause e concause, e preferisce andare al sodo. "Ho mandato delle mail ai colleghi mettendo l'accento sulla gestione del rischio.

Ci sono cose che possono essere fatte subito, quasi a costo zero. Si potrebbe diminuire l'inquinamento indoor delle scuole evitando l'uso di detersivi con solventi aromatici, ed eliminando i materiali che rilasciano formaldeide". Anche il controllo dei residui antiparassitari in agricoltura, dice la Miligi, dovrebbe essere sistematico: il principio di precauzione e il diritto alla salute deve essere prioritario rispetto a qualsiasi altro interesse. "Ma gli allarmi devono essere gestiti bene. Tre anni fa a Firenze ci fu un picco di leucemie in una scuola materna: le istituzioni si mossero all'unisono, in silenzio, per garantire la sicurezza dei piccoli. Analizzammo ogni rischio, misurammo persino l'eventuale presenza di radon, un gas radioattivo. Non trovammo nulla: a volte certi fenomeni sono del tutto casuali".

 

IL RACCONTO

Quegli operai vanto dell'Italia
traditi da silenzio e indifferenza

DAL NOSTRO INVIATO PAOLO RUMIZ


 
Quegli operai vanto dell'Italia traditi da silenzio e indifferenza


TRIESTE
- "Vivere di cantiere", è scritto sui murales dedicati al secolo di vita della fabbrica navale di Monfalcone, fondata nel 1908. Da mesi tappezzano ogni angolo della città. Segnano l'ultimo angolo a Nord del Mediterraneo, ieri spazzato dalla bora sotto le Alpi innevate. Niente ricorda che di cantiere si può morire. Niente sui Caduti sul lavoro, precipitati dalle impalcature, ustionati o bruciati vivi dal 1908 a oggi. Niente, soprattutto, sulla strage da amianto che fa di Monfalcone qualcosa di infinitamente peggio di Marghera o della Thyssen di Torino.

Novecento morti, che nel 2012 saranno mille e nel 2016 millecento. Ne partono al ritmo di venticinque all'anno, dall'inizio degli anni Settanta, e le previsioni fino al 2020 sono catastrofiche. Forse la più orrenda strage aziendale italiana. Certamente la più sottovalutata.

Ma il peggio non è l'enormità del numero. È l'enormità del tradimento. L'imbroglio consumato nei confronti di uomini che hanno fatto il vanto dell'Italia, uomini segnati da un patriottismo aziendale unico. Dalmati, friulani, sloveni del Carso, goriziani, triestini e istriani. Cinquantamila in un secolo, dei cantieri e dell'indotto. Ondate di gente che arrivava ai cancelli in treno, a piedi, in bicicletta. Un'epopea. Il cantiere ha varato quasi mille navi, e la nave non è un'automobile: è un oggetto irripetibile, il riassunto di un'arte. Gli uomini che l'hanno fatta ne seguono per la vita le rotte sul mappamondo. La mostrano con orgoglio a figli e nipoti, la raccontano per lasciare un segno di sé. "I malati venivano da noi con la foto delle navi fatte da loro" racconta Valentino Patussi, dell'Ufficio medicina del lavoro di Trieste, incaricato delle indagini dalla Procura.

Monfalcone non è Genova né Castellammare. È nata tutta dai cantieri. Prima del 1908 era solo acque salmastre e zanzare; poi, con capitale austriaco, è nata la città. Una "company town" a pieno titolo. Totale la sua simbiosi col cantiere; e totale, di conseguenza, il suo strazio e il disincanto di oggi. Ma poi c'è anche l'enormità del silenzio. Quello di un'azienda, una provincia, una regione che rimuove i morti, li ignora persino nelle celebrazioni del centenario mentre l'allarme serpeggia ovunque, anche su Internet, con terribili richieste dagli operai di mezza Italia.

La sottovalutazione e il mancato allarme durano dagli anni Sessanta e sono continuati anche dopo la bonifica degli impianti, mentre gli operai del cantiere e delle ditte in appalto entravano in agonia senza sapere perché, muti di fronte a quella parola, "mesotelioma", che li inchiodava dopo decenni di salute apparente. Oggi si sa che qualcuno sapeva; era stato informato che l'amianto è una bestia che non perdona e il mesotelioma, quando lo scopri, ti ammazza in sei mesi. I polmoni ti strangolano come una garrota e la diagnosi precoce serve solo ad avvelenarti il tempo che resta. In caso di amianto il miglior referto è semplicemente sapere più tardi possibile.

E così gli uomini che hanno "vissuto di cantiere" sono morti senza copertura Inail, senza assistenza legale, senza interesse della politica e persino della giustizia che per dodici anni ha ricevuto denunce di morti sospette senza chiudere fino ad ora nessun processo. Per questo la Procura generale ha rotto gli indugi e svolto un'indagine-lampo unica in Italia.

C'è voluto un giudice perché il Friuli-Venezia Giulia sapesse di questa tragedia, e per far capire che non affrontare l'emergenza significava semplicemente non governare. Non si poteva più ignorare che a Monfalcone e Trieste gli esposti al rischio sono diecimila, per l'effetto congiunto del porto e dei cantieri. A livello regionale, il top in Italia.

Ma se i morti sono un esercito, per i vivi è in atto un micidiale conto alla rovescia. Un gioco dove la paura distrugge prima della malattia; una roulette russa in cui ci si conosce tutti e alla fine ci si incontra ai funerali. È perfido l'amianto. In greco vuol dire "il candido", e in una straziante poesia Massimo Carlotto lo descrive come neve che incanta i bambini. La mamma sbatteva la tuta del papà per toglierne la polvere a fine lavoro, i fiocchi volavano come a Natale e la pestilenza entrava nei familiari. Ma amianto vuol dire anche "l'incorruttibile", perché non si consuma mai. Tu muori, il corpo si dissolve, e le fibre restano lì per sempre. Qui accade in concentrazioni mostruose, quasi come nella miniera di Barangero in Piemonte, dove si consumò la prima strage. Ma sì, dicono amaramente i superstiti, il cimitero è solo una discarica autorizzata di amianto. Ora che si è scavato nella Fincantieri come mai in passato, l'azienda - inchiodata da prove inconfutabili - parla di depenalizzare il reato e compensare le famiglie con un fondo nazionale. Come dire: il costo è di tutti e la colpa di nessuno. Un classico finale all'italiana.
Ma chi ha sofferto non ci sta. "Altro che malattia sociale!", quasi piange Rita Nardi, vedova di Gualtiero, morto alla vigilia di natale del '98 dopo mesi da incubo. "Questi li hanno ammazzati come conigli per un tozzo di pane".
 

 

Due morti nel bergamasco, gli altri episodi a Pavia, Belluno e Amatrice
A fare le spese degli incidenti quasi sempre operai giovanissimi

Lavoro, altra giornata nera
cinque vittime in tutta Italia

Lavoro, altra giornata nera cinque vittime in tutta Italia
ROMA - E' di cinque morti il bilancio di un'altra giornata tragica sul fronte degli incidenti sul lavoro. Le vittime sono quasi sempre giovanissime, mentre la geografia della tragedia non conosce confini. Si va dalla provincia di Bergamo, a Santa Giustina, nel bellunese. Da Amatrice, nell'alto Lazio, a Pavia.

Il primo incidente è avvenuto nella notte all'azienda metallurgica "Tenaris Dalmine" di Dalmine, in Lombardia, dove un operaio di 20 anni, Sergio Riva, ha perso la vita schiacciato da un cilindro di circa una tonnellata. Il giovane, da un anno dipendente con contratto interinale, era entrato in un macchinario che serve per forgiare tubi di grosse dimensioni per cercare di liberarne uno che si era incastrato, ma è stato travolto e schiacciato dal pesante cilindro di ferro.

Di primo mattino è morto invece Cesare B., autista 21enne, travolto dal cassone di un dumper (un grosso camion) mentre era la lavoro all'interno di una cava di ghiaia a Torretta di Galliavola, in provincia di Pavia.
L'operaio, a quanto pare regolarmente assunto dalla ditta "Sergio Re Trasporti", stava controllando perché il cassone del suo mezzo non tornasse in posizione orizzontale quando, per motivi al momento non chiari, il pianale si è abbassato di colpo schiacciandolo.

Un terzo incidente mortale è avvenuto qualche ora dopo, attorno alle 11.30, in un cantiere della ditta "Beton Srl" a Santa Giustina, nel bellunese. P. F., operaio di 34 anni, è rimasto schiacciato da una pesante paratoia d'acciaio utilizzata per contenere il cemento. Anche su questa vicenda sono in corso gli accertamenti degli investigatori per verificare l'esatta dinamica dell'incidente e individuare eventuali responsabilità.

Un quarto operaio è morto e altri due sono rimasti feriti mentre stavano lavorando in uno scavo fognario ad Amatrice, in provincia di Rieti. I tre, secondo quanto riferito dai vigili del fuoco, stavano lavorando in frazione Torrita, quando sarebbero rimasti sepolti nello scavo. Uno dei due feriti sarebbe in gravi condizioni.


Ancora da ricostruire invece l'esatta dinamica del decesso di un sommozzatore colto da malore mentre stava lavorando nel fiume Brembo per conto dell'Enel. L'uomo era immerso all'altezza della diga nei pressi di San Pellegrino, in provincia di Bergamo, quando si è sentito male. Una prima ipotesi è che ad essergli fatale sia stata la temperatura estremamente rigida dell'acqua.

Poteva finire in tragedia infine anche un incidente avvenuto in serata in un cantiere edile nel centro di Perugia. Un muratore di 43 anni, originario di Napoli, è rimasto ferito alla testa mentre stava lavorando. L'uomo è stato ricoverato in ospedale con riserva di prognosi.

 dati del 2008 sono lievemente migliori di quelli del 2007
ma ci vorrà tempo per tornare ai livelli positivi del decennio scorso

 

Mille e tre morti dopo la Thyssen
il lavoro in Italia rimane insicuro

Precarietà, mancanza di regole e una normativa che, dopo il Testo Unico
di Prodi, è rimasta ferma. La Cgil: "Il governo punta a non disturbare le aziende"
di MASSIMO RAZZI

Mille e tre morti dopo la Thyssen il lavoro in Italia rimane insicuro

Torino, il murales che ricorda la tragedia della Thyssen

ROMA - Un anno e 1.003 morti dopo, la strage della Thyssen resta lì come un atroce segnale piantato sul mondo del lavoro italiano. Dal rogo del 6 dicembre 2007 che causò la morte dei sette operai torinesi all'orribile fine (due giorni fa) del venticinquenne Matteo Bozza, schiacciato da una pressa nell'azienda cartotecnica di Verona di cui era contitolare, ci sono mille funerali, mille dolori inestinguibili e l'incapacità complessiva del Paese di uscire dal tunnel delle morti causate da lavoro.

Per continuare con i numeri (che, comunque, servono a capire) sarà bene subito chiarire che il "1003" che oggi scriviamo sulla prima pagina di Repubblica.it è un dato assolutamente ufficioso frutto della caparbia volontà di un delegato sindacale toscano, Marco Bazzoni, che ha tenuto il triste conteggio con i mezzi a sua disposizione: cioè le notizie che uscivano sui giornali, sui siti internet, sulle agenzie. Molto più ufficialmente, l'Inail ci dice che i morti sul lavoro, nel 2007, sono stati 1207 e che il trend del 2008, fortunatamente, risulta in diminuzione.

Ma il dato definitivo dell'anno che si chiude si avrà solo fra qualche mese, quando la burocrazia avrà finito i suoi conteggi. Sperabilmente si collocherà di qualche decina di unità al di sotto di quello dell'anno scorso e ci dirà, appunto, che il trend è lievemente positivo, ma che non siamo ancora sulla strada giusta. La strada, infatti, tornerà ad essere quella di un paese civile solo quando riprenderà l'andamento dei decenni scorsi: dal 1951 al 1960 la media annuale di morti sul lavoro fu di 2.519. Dagli anni '60 in poi, grazie alla crescita sociale, al cambiamento della struttura stessa del lavoro in Italia (migrazioni epocali dalle fabbriche ai servizi), alle battaglie sindacali, alla scoperta della parola "sicurezza", alla capacità di controllo del movimento operaio, il dato era sempre sceso: 2.375 morti all'anno tra il 1960 e il 1970; 1909 nel decennio '71-'80, 1.377 tra l'81 e il '90, 1.058 alle soglie del secondo millennio.

"Da lì in poi - spiega Paola Agnello Modica, segretaria confederale Cgil con responsabilità, tra l'altro, su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro - i numeri sono di nuovo saliti". Motivo? "Ce ne sono diversi: precarietà, lavoro nero, forte e deregolato utilizzo di lavoratori migranti, sistema di appalti basato quasi sempre sul prezzo più basso e quasi mai sulla qualità, manutenzioni insufficienti, scarsa attenzione alla salute e all'antinfortunistica considerati, in fondo, costi superflui. In poche parole: un grave regresso culturale in termini di prevenzione e di attenzione alla sicurezza sul lavoro". Un regresso che, tra parentesi, costa (calcolo dell'Inail sulle conseguenze della mancata prevenzione) qualcosa come 45 miliardi di euro pari a tre punti percentuali di Prodotti Interno Lordo.

Anche gli infortuni non mortali hanno seguito andamenti analoghi: erano scesi a 711 mila all'anno nel decennio di fine secolo e sono risaliti a oltre un milione di media nei primi sette anni di questo millennio.

Insomma, se il trend, negli ultimi due-tre anni, è tornato lievemente positivo è solo perché fatti gravissimi come quello della Thyssen, un ritorno di presenza mediatica sullo stillicidio dei morti giornalieri, l'impegno di tanti delegati sui posti di lavoro e l'attenzione del governo di centrosinistra, hanno riportato il problema, se non in primissimo, almeno in primo piano. Qualcosa, in effetti, si era mosso con la legge delega 123 dell'agosto 2007 e il successivo decreto legislativo 81 (insieme fanno il Testo Unico sulla sicurezza) che l'esecutivo di Prodi riuscì ad approvare in extremis.

Da lì in poi, poco o nulla: il Testo Unico, per avere effetti, aveva bisogno di 38 decreti e atti attuativi vari: "Il governo - dice Paola Agnello Modica - non ne ha emanato neanche uno. Non solo - aggiunge - hanno peggiorato le norme su orari, appalti, precarietà e vigilanza e hanno rinviato l'applicazione delle novità sulla valutazione dei rischi nelle aziende e negli appalti. Già che c'erano hanno anche fermato il divieto di visite preassuntive. Cioè, il datore di lavoro può far visitare da un medico aziendale una persona prima dell'assunzione e il risultato, ovviamente, può essere utilizzato per decidere se prenderla o meno".

Fra i pochi provvedimenti emanati c'è quello, decisamente vessatorio sul controllo di tossicodipendenza sui lavoratori e una direttiva agli ispettori del lavoro ai quali è fatto divieto di muoversi o far partire controlli in base a segnalazioni anonime: "Ce lo vede - domanda amara Agnello Modica - un operaio che va a denunciare, con nome e cognome, una grave carenza di sicurezza in un cantiere di subappalto o in una piccola azienda? Magari un operaio migrante non in regola?". Tutto questo mentre i grandi Paesi europei nostri omologhi (Germania, Francia, Spagna) migliorano sensibilmente il tasso di infortuni ogni 100mila occupati e l'Italia (pur restando nella media della Ue) si avvicina ai tassi di Paesi teoricamente più arretrati.

Insomma, secondo il sindacato "si stanno creando tutte le condizioni perché i rischi per i lavoratori tornino ad aumentare". Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha già avvisato le parti sociali che, entro metà mese, dovranno superare le attuali differenze di giudizio sul Testo Unico che la Confindustria avversa in molte sue parti, e trovare un "avviso comune". Poi, comunque, il governo farà di testa sua: "Fare di testa loro - spiega ancora Agnello Modica - vuol dire allegerire le ispezioni, ridurre gli obblighi dei datori di lavoro, lavorare solo per obiettivi più che per regole. In poche parole: affidarsi al 'buon cuore' e tornare indietro a un sistema in cui le aziende non vanno disturbate".

Così, 365 giorni e mille morti dopo la Thyssen i problemi sono più o meno gli stessi. Oggi è un giorno per ricordare e provare a muovere qualcosa almeno in termini di attenzione mediatica. Ma domani e dopodomani, nelle fabbriche e nei cantieri dove si lavora in nero e i cartellini (con nome, cognome e indicazione e ruolo nell'appalto della ditta di appartenenza) che ciascun lavoratore dovrebbe portare indosso, sono ormai quasi spariti, la battaglia riprenderà. Battaglia per lavorare, ricevere un qualche stipendio e, ogni giorno, portare a casa la pelle.
 

 10 dicembre
 

IL COLORE DELLA NUOVA CASA BIANCA
A sinistra DI OBAMA
I retroscena della nomina di Hillary, il ruolo della «generazione Clinton», i dilemmi intorno alle forze armate e all'inevitabile taglio delle spese militari, la spinta che dovrebbe venire (e probabilmente non verrà) dalla sinistra e dai movimenti. Una tavola rotonda de «il manifesto» a Washington con i vertici dell'Institute for Policy Studies
Marco d'Eramo
INVIATO A WASHINGTON

 
In un grigio primo pomeriggio, il vento soffia freddo sulla 16° strada che sbocca a sud nei giardini della Casa bianca, in Pennsylvania avenue. In quest'ampia via, quasi di fronte al palazzo del Washington Post, ha sede l'Institute for Policy Studies (Ips), uno dei più importanti centri studi (think tanks, «serbatoi di pensieri») della sinistra americana. Nella saletta riunioni con John Feffer, condirettore per la politica estera, e Marcus Raskin, cofondatore dell'Istituto, parliamo dell'avvio della nuova amministrazione. La prima domanda è sulla nomina di Hillary Clinton a ministra degli esteri (segretaria di stato): lo sport più in voga a Washington è scavare nei retroscena di questa nomina e capire come mai Hillary ha accettato.
RASKIN: Che altro poteva fare? Ha capito che non potrà mai più essere presidente. Almeno così ha l'occasione di dare una sua impronta alla politica mondiale nei prossimi anni. E se fa un buon lavoro può persino essere candidata alla vicepresidenza nel 2012. Personalmente pensavo che lei volesse diventare giudice alla Corte suprema, ma la giurisprudenza l'annoia.
FEFFER: Barack Obama ha calcolato il proprio futuro politico. Se si vuole ripresentare fra quattro anni, deve fare i conti con i Clinton. Il suo obiettivo primario è far sì che Hillary non sia tanto scontenta da costituire una minaccia per lui. È anche nel carattere di Obama di unire il partito. E Hillary, se le gira, può dividere il partito democratico più di ogni altro. Obama doveva offrirle un posto abbastanza appetitoso da indurla a cedere il proprio insediamento sul territorio. Certo ci sarà un problema con Joe Biden che è stato scelto come vicepresidente proprio per la sua competenza in politica estera. E poi incombe anche Bill Clinton che - non c'è dubbio - sarà assai ingombrante.

Obama si è circondato di clintoniani, ha nominato Hillary segretaria di stato e di fatto ha lasciato entrare Bill: insomma, non è ostaggio dei Clinton?
FEFFER:
Devi fare compromessi se non vuoi spezzare il partito. I Clinton sono stati al potere per otto anni e il partito democratico non aveva avuto una simile esperienza di governo dagli anni '60. Non c'è altro a disposizione che la generazione Clinton. Della generazione più giovane, più radicale, ci sarà solo uno spruzzo nell'amministrazione Obama. Pensa alla politica estera. La scelta di Hillary è stata determinata in primo luogo da ragioni di politica interna al partito. Ma una seconda ragione per cui non è stato scelto John Kerry è che, se lui fosse diventato segretario di stato, automaticamente presidente della commissione esteri del Senato sarebbe diventato il nostro amico Russ Feingold, senatore del Wisconsin, che è troppo radicale, la pensa quasi come noi, e quindi bisognava trovare il modo di escluderlo da questa posizione. Vedi come ogni scelta si porta dietro altre scelte.
RASKIN: Bisogna tenere conto dei vari strati della politica. Non c'è solo il massimo livello. Qui parliamo non di una decina, ma di 5-8.000 posizioni che cambieranno di mano. Sono un sacco di posti. Quale politica sarà davvero attuata e messa in pratica dipende da tutta questa massa di persone ed è al loro livello che bisognerà misurare l'influenza della sinistra sulla nuova amministrazione. Ecco perché è una fase politica interessantissima da osservare, magari non quanto Berlusconi, ma lo stesso appassionante. E poi, al vertice, bisogna guardare più da vicino: prendi l'uomo più potente della nuova amministrazione, il capo dello staff della Casa bianca. Rahm Emmanuel è amicissimo dei Clinton, ma viene da Chicago, dove vige una peculiare concezione di cosa è il potere in politica. Subito dopo la sua nomina, suo padre Benjamin ha rilasciato un'intervista a un giornale israeliano (Ma'ariv) in cui diceva: «Certo che mio figlio influenzerà il presidente in senso pro-israeliano. Perché non dovrebbe? Non è mica un arabo, non sta andando alla Casa bianca per lavare i pavimenti». La comunità araba-americana insorge e subito Obama impone a Emmanuel di scusarsi pubblicamente. Lo fa per chiarire che la politica estera la decide lui e solo lui.

Tutti dicono che Obama deve fare qualcosa e rapidamente, visto le attese che ha suscitato.
FEFFER:
Certo, e per ciò deve disporre di persone che sanno come operare nel sistema e conseguire gli obiettivi. A questo livello le politiche sono relativamente irrilevanti. È la ragione per cui ha confermato al Pentagono Robert Gates (ministro uscente dell'amministrazione Bush), non perché è d'accordo su tutto. Prima della nomina, Gates ha tenuto un discorso di appoggio alla nuova generazione di armi atomiche, ben sapendo che Obama è in totale disaccordo. Cioè, Gates, sapendo di essere candidato alla difesa, quasi deliberatamente ha tenuto questo discorso, come per dire: accetto il ministero, ma alle mie condizioni.
C'erano altri candidati con altrettanta esperienza militare e più consoni con Obama: per esempio, l'ex generale Eric K. Shinseki (scelto poi come ministro per i veterani, ndr). Se si è preso Gates, è sempre per la stessa ragione, perché ha bisogno che le decisioni vengano attuate e non ostacolate. Ricorda l'errore commesso all'inizio da Clinton, quando cercò d'imporre ai militari di riconoscere i gay. Il suo errore non fu di agire, ma di non reagire quando i generali si opposero: lì capirono che a loro bastava puntare i piedi, capirono che era debole. Obama non ha esperienza militare, e perciò deve chiarire subito chi comanda: deve avere qualcuno che gli copre le spalle di fronte ai generali, qualcuno capace di costruire un'alleanza tattica con i repubblicani moderati sui tagli alle spese militari. Il Pentagono sta già spingendo per ottenere un aumento delle spese militari di 400 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Nel frattempo il Homeland Security & Defense Business Council, uno dei collegamenti tra il Pentagono e l'industria bellica, ha pubblicato un rapporto in cui si dice che le spese militari vanno non scorciate qua e là, ma decurtate di brutto, e questo da un punto di vista puramente di business, non di geopolitica. Alla fine si avrà un compromesso con tagli qua e aumenti di spesa là, e un risultato totale più o meno uguale.

Ma Obama si è impegnato a restaurare il potere e l'influenza americana nel mondo. Non sembra un proclama pacifista.
FEFFER:
Se vuole aumentare gli effettivi dell'esercito, procedere all'escalation in Afghanistan, Obama dovrà trovare qualcosa da tagliare nella spesa militare. Ha promesso modernizzazione, quindi dovrà procedere a solo tagli mirati sui nuovi armamenti, come il nuovo supercaccia F-35 Lightning. Né potrà tagliare sulle basi militari in patria, perché su di esse si regge l'economia di intere regioni, in particolar e nel sud. Dove potrà tagliare in modo deciso sarà sulle basi militari all'estero, in Germania, Giappone, Italia, persino in Corea del Sud. Se così, sarà un segno - magari imposto e non voluto, ma importantissimo - di ridimensionamento del progetto imperiale.
RASKIN: Obama vuole rafforzare l'esercito di 97.000 unità ma il problema è dove troverà i soldi per farlo. Perché lui è già in debito con Ted Kennedy che lo ha appoggiato da subito e che prima di morire vuole vedere approvata la riforma sanitaria che perciò sarà sul tappeto fin da gennaio. Ma se vuole più truppe in Afghanistan, la riforma sanitaria e gli investimenti nei lavori pubblici, non può farlo senza un sostanziale aumento delle tasse.

Nella politica americana però aumentare le tasse è una bestemmia che si paga con la sconfitta elettorale. E i responsabili che Obama si è scelto per l'economia non sono certo campioni di anticonformismo.
RASKIN:
La crisi è un'opportunità da non sprecare. Quando le ricette tradizionali falliscono, quando i luoghi comuni si mostrano falsi, c'è un'opportunità per fare qualcosa di nuovo.
FEFFER: Il baricentro si è spostato. Paladini del liberismo sostengono oggi l'azione statale, conservatori prendono posizioni progressiste vicine alle nostre: Paul Volcker (ex governatore della Federal reserve, ndr) si è spostato dalla destra al centro. È cambiato il contesto ambientale. Oggi tutti riconoscono l'importanza dell'intervento pubblico. In discussione è solo la dimensione, la forma di questo interrvento. Da questo punto di vista Obama è vicino alle posizioni europee, che non sono straordinarie ma sempre meglio di quelle di Bush. Quando ci sarà un nuovo G20 ad aprile, ci sarà un'atmosfera completamente diversa.

Ma quale pressione può esercitare il fronte progressista su Obama? E come?
FEFFER
: Intanto ci sono centinaia di migliaia di persone a sinistra che hanno speso mesi e mesi a cercar di farlo eleggere e ora sono sfinite. Quanto ai movimenti, ancora non sono pronti per uno scontro. Obama è stato assai discreto sui suoi obiettivi. È stato più esplicito sul riscaldamento globale: i gruppi ambientalisti sono stati molto soddisfatti del suo impegno a ridurre le emissioni di anidride carbonica: se mantiene le promesse, la posizione Usa diventerà migliore di quella europea. Quindi i verdi sono contenti e non sentono l'urgenza di spingere a sinistra Obama. E loro sono essenziali per qualunque pressing. Lo stesso vale naturalmente per i neri e per altre persone di colore che saranno assai riluttanti a esercitare una pressione forte su Obama: gli daranno il beneficio del dubbio. E poi c'è il sindacato che è una forza declinante nella nostra politica e può avere un impatto su temi specifici: vedremo come andrà sui due accordi di libero commercio, quello con la Colombia e quello con la Corea del Sud.
Ma il problema è che non ci sarà più un'amministrazione Bush a tenere insieme tutti quanti, a cementare una coalizione. La nuova amministrazione disferà questa coalizione, non perché lo vorrà - non siamo un bersaglio così importante - ma perché una parte sarà paga, un'altra riluttante e una terza attenta solo ai suoi interessi specifici. Sarà arduo mobilitare la gente. Già adesso il movimento pacifista sta cercando di capire cosa fare, si chiede: «e adesso»? Credo che il nodo centrale dovrà essere la spesa militare, per unire politica estera e politica interna, il portafoglio della gente e la pace. Ma opporsi all'escalation in Afghanistan sarà difficile.

Insomma, la sinistra è inerme, i verdi sono già contenti, i neri non si muoveranno neanche a cannonate, i sindacati sono preoccupati solo dalla loro cucina; e non c'è più un Bush a tenere insieme la coalizione progressista...
RASKIN:
Non sono così pessimista. Ricorda la storia. Pensiamo al 1959-60: in quel momento i bianchi si sentivano abbastanza tranquilli rispetto ai neri e l'establishment si sentiva al sicuro da ogni contestazione. Quando Kennedy si candidò non si vedeva all'orizzonte un movimento in grado di premere sulla classe politica. Eppure bastarono quattro ragazzini di Greensboro (North Carolina) che nel febbraio 1960 andarono a sedersi in una tavola segregata della mensa del college (solo i bianchi potevano sedervisi, mentre gli studenti neri dovevano mangiare in piedi, ndr.), perché il movimento dei diritti civili crescesse a valanga. Oggi noi non sappiamo quel che succederà, ma è assai probabile che Obama si trovi come Kennedy quando fu eletto: seduto su un terremoto ancora impercettibile.
FEFFER: Un altro modo per premere da sinistra è l'influenza intellettuale. Oggi sono all'ordine del giorno tematiche che noi abbiamo proposto per anni ma non avevano mai avuto diritto di cittadinanza nel dibattito politico ufficiale. Adesso altri le fanno proprie, anche se non ci citano. Magari non sarà gente di sinistra ad attuare misure di sinistra, ma l'importante è che i nostri temi siano ora all'ordine del giorno. Per noi dell'Institute for Policy Studies è un'occasione irripetibile: potremo diventare nella nuova fase quello che è stato l'American Enterprise Institute (il più importante think thank conservatore) per il potere repubblicano. Sarà compito nostro nutrire di idee questa fase politica.

 
TerraTerra
Le foreste di Poznan
Elena Gerebizza

 
«Nessun progetto per la riduzione delle emissioni derivate dal degrado delle foreste su territori delle comunità indigene dovrebbe essere approvato senza il consenso previo e informato delle popolazioni che abitano questi territori». Così si è espressa Victoria Tauli-Corpuz, del forum permanente dei popoli indigeni presso le Nazioni unite, in una delle sessioni della Conferenza sul clima che sta avendo luogo in questi giorni a Poznan, in Polonia.
La gestione delle foreste e il mantenimento della biodiversità che contengono è al centro dei negoziati nella seconda settimana di lavori. Questione controversa, in cui stanno entrando a gamba tesa il settore privato, in prima linea nel cercare di garantirsi profitti dal controllo dei territori sconfinati delle foreste del Sud del mondo, e la Banca Mondiale. L'istituzione finanziaria di Washington ha da poco finalizzato la propria iniziativa per le foreste e, tra grandi contestazioni dei popoli indigeni, delle comunità contadine e della società civile di tutto il mondo, sta facendo pressione sui governi presenti a Poznan perché divenga il meccanismo di riferimento per finanziare il capitolo Redd (sulla riduzione delle emissioni derivate appunto dal degrado delle foreste) del negoziato.
Un approccio «business as usual» che la Banca ancora una volta propone, cercando di far rientrare anche le foreste nel mare magnum del mercato dei crediti di carbonio di cui hanno finora beneficiato ironicamente la stessa Banca assieme ai grandi inquinatori privati. Dal 1999 ad oggi, la maggior parte del portfolio di crediti di carbonio (tra il 75 e l'85%) gestito dalla Banca Mondiale ha finanziato industrie nel settore chimico, del ferro, dell'acciaio e del carbone, mentre meno del 10% dei fondi a disposizione è stato investito in progetti di energie rinnovabili.
Un risultato scoraggiante che non spiega come lo stesso meccanismo potrebbe portare risultati positivi nel delicato ambito della gestione delle foreste. Le comunità indigene hanno già preso le distanze dall'iniziativa della Banca Mondiale, che è stata disegnata e già inizia ad essere implementata senza nemmeno aver consultato le popolazioni indigene che da quelle foreste dipendono, e che in molti paesi sono già state riconosciute come proprietà comunitaria delle stesse comunità indigene. La società civile, che oggi manifesterà a Poznan davanti al centro conferenze dove si svolge in negoziato facendo la parodia della Banca mondiale, che finanziando grandi centrali a carbone è tra i principali responsabili della devastazione ambientale del pianeta, chiede che la Banca rimanga fuori dai negoziati sul clima, e incoraggia i governi riuniti in Polonia a istituire un meccanismo indipendente dai banchieri di Washington che, sotto l'egida della Conferenza delle Parti, e in consultazione con i popoli indigeni, le comunità locali e la società civile, metta a disposizione i fondi per gli interventi necessari per l'adattamento e la mitigazione degli impatti derivati dal cambiamento climatico. Un budget di migliaia di miliardi, che i governi devono finanziare secondo responsabilità comuni ma differenziate e secondo principi di partecipazione, trasparenza ed equità, perché la comunità internazionale e il pianeta possano beneficiarne. La società civile ha presentato oggi un documento che contiene i principi cardine per l'istituzione di un Fondo Globale sul Clima, con l'obiettivo di contribuire ai lavori dei governi perché si arrivi a una proposta condivisa per un meccanismo post-Kyoto entro l'importante appuntamento del prossimo anno a Copenaghen.

 

 


 
I retroscena del misterioso attacco di Abu Kamal, nel deserto siriano
 

Scritto per noi da Angelo Calianno

27 Ottobre del 2008, nei telegiornali italiani una notizia di due righe viene letta tra la cronaca estera e la pagina dei gossip. Un commando di soldati Usa ha varcato il confine iracheno fino ad arrivare in un villaggio in Siria, uccidendo 8 persone collegate ad una cellula di Al Qaeda.

Questa notizia, data alla velocità con cui si lancia la pubblicità, ha molto di più dietro e stando alle testimonianze, è molto imprecisa. Il villaggio in questione si chiama Abu Kamal, che proprio un villaggio non è, ma una piccola cittadina a 10 kilometri dal confine iracheno. Questa vivace comunità è una delle più grandi in quella zona, ed è forse il posto più accogliente che abbia mai trovato in Siria. Qui scorre il grande fiume Eufrate che si snoda dal centro del paese fino ad arrivare in Iraq. 26 ottobre 2008, 4 elicotteri americani entrano nel villaggio di Al-Sukkariya, che appartiene al distretto di Abu Kamal. Gli eliccoteri si dirigono verso una casa in costruzione, lanciano qualche razzo, colpi di mitragliatrice e di fucile semiautomatico. Muoiono gli operai del palazzo, il custode, sua moglie ed i suoi bambini, 8 persone in tutto. Ma il raid era davvero diretto a loro?

Il pentagono parla di successo ma, in realtà, chi ha pronunciato queste parole si tira indietro nascondendosi con una dichiarazione anonima. Gli americani cercavano Abu Ghaduya, un trafficante d’armi legato ad Al qaida che però non era lì. In sostanza, sono stati uccisi 8 civili. Arrivo a Damasco pochi giorni dopo l’attentato, chiedo ai miei contatti di raccontarmi la situazione politica ricevendo cenni negativi e silenziosi: parlare del proprio governo in Syria è punibile col carcere e severamente proibito. In sede più appartata vengo a sapere che le cose non stanno poi così male, ma che lo stato si è chiuso troppo all’occidente aggregandosi più ai paesi arabi. Qualsiasi cosa si acquisti dall’estero viene tassata per 3 volte il suo prezzo, il sito che spopola in Europa: Facebook, è censurato e proibito, perché qualche burlone aveva preso in giro il presidente. Anche se la nuova generazione Siriana ha trovato modo di eludere il blocco telematico collegandosi dal Libano o dalla Turchia…illegalmente.

Foto di Angelo CaliannoL’attacco di Abu Kamal porta ancora strascichi di malumore a Damasco, pur non essendo vicina al luogo del raid, è qui nella capitale che si sono avute le conseguenze peggiori. Migliaia di persone hanno manifestato di fronte l’ambasciata americana, così ardentemente che tutte le organizzazioni Ong, gli istituti di cultura e le scuole di lingua inglese gestiti da americani hanno dovuto chiudere i battenti fino a nuovo ordine, l’America è stata ufficialmente accusata di atto terroristico e crimine di guerra contro lo Stato Siriano. Qualsiasi visto è stato negato agli statunitensi che si vogliono recare in Siria, fino a nuovo ordine. I miei 2 amici lavorano…o meglio lavoravano in un istituto di cultura dove si insegnava informatica ed inglese. Mi raccontano che nel loro gruppo sessantacinque, tra lavoratori stagionali e impiegati americani, sono dovuti partire in fretta e furia. E duecento Siriani, tra cui loro due, hanno perso un buon posto di lavoro; senza parlare di tutti i ragazzi che hanno perso una possibilità di studiare. Tutto questo perché? “E' l'ultima follia di Bush” mi dicono sorridendo.

Foto di Angelo CaliannoPochi giorni prima ad Aleppo, città del nord, un uomo mi aveva fermato per strada dicendomi: "Hai sentito? Obama è il nuovo presidente Americano, forse Abu Kamal è stato l’ultimo colpo di Bush, ho molta fiducia in Obama, perché nessuno può essere peggio di Bush". Quando decido di partire per Abu Kamal tutti cercano di dissuadermi: "troppo pericoloso; sei sempre un occidentale". Ma è una battuta al veleno che mi colpisce più delle altre raccomandazioni: "Stai attento, e se gli americani uccidono anche te?" Abu Kamal non è nulla di quel che mi aspettavo, una città viva, allegra con una grande via mercato. La polizia mi offre il tè, i bambini mi chiedono di essere fotografati, un ragazzo mi accompagna dietro la sua moto al centro della città, un altro mi urla "Welcome to my Country". Non si vedono mai occidentali da queste parti e dopo l’attacco se ne vedranno ancora meno. Qui nessuno può o vuole parlare dell’accaduto, tra la gente tutto è detto dolorosamente a denti stretti e con mezze frasi. Chi invece ha preso una posizione certa è il governo Siriano, che ha defininito l’attacco un errore gravissimo dell’intelligence dello staff di Bush.

L'Ansa di due righe in Italia qui si trasforma in gente dal velo nero che porterà il lutto per 3 mesi, di gente che continua a sorridere perché non riesce a capire, ma dovrà ricordare quella che è stata ribattezzata l’ultima follia di Bush.

 

Secondo gli esperti più di duemila persone uccise solo per avere una ricompensa
Dal 2002 i soldati dell'esercito colombiano hanno compiuto centinaia di esecuzioni extragiudiziali nei confronti di civili. Purtroppo questa non è una novità, Peacereporter ne aveva già dato notizia in uno dei suoi numerosi articoli.

La novità sta nel fatto che per ogni uccisione l'esecutore intascasse più o meno 1.300 euro finanziati con i fondi della cooperazione internazionali. Ed è proprio per questa succosa ricompensa che si è messo in moto il meccanismo delle esecuzioni. Un meccanismo oliato nel tempo e redditizio che ha colpito innocenti soprattutto appartenenti alle classi sociali più indigenti.Oggi poi, dopo il ritrovamento di centinaia di cadaveri si viene a conoscenza di come funzionava la trappola: i cadaveri che inizialmente sembravano essere quelli di guerriglieri delle Farc erano in realtà corpi di contadini a cui veniva infilata un'uniforme per poi essere uccisi a sangue freddo.

Si stima che siano almeno 2.100 le vittime innocenti di questa trappola. Molte di più di quelle causate dall'Eta (separatisti baschi) e dall'Ira (organizzazione paramilitare irlandese) in mezzo secolo di attività. E se si moltiplica il numero dei supposti morti ammazzati per la cifra finanziata per ogni cadavere si raggiunge una quota pari a poco meno di 3 milioni di euro. Tutti indistintamente provenienti dalla cooperazione internazionale. Come dimostra un documento segreto del ministero della Difesa diffuso da Justicia para Colombia, un'organizzazione composta da specialisti forensi, professori di diritto e giuristi europei, che spiega come i fondi per il pagamento ai soldati "arrivino dallo Stato colombiano e dalla cooperazione internazionale". Inoltre è stato diffuso il tabellario: 1,7 milioni di euro per un capo guerrigliero, 1.300 per un guerrigliero semplice. C'è dell'altro. Il documento contraddice Uribe che dal canto suo ha sempre negato l'esistenza di una politica "di ricompensa". Ma ormai nessuno più crede alle parole del presidente. Resta da capire come mai nessuno abbia denunciato questa terribile situazione che non faltreo che alimentare la guerra fra le parti gettando ancor di più, se possibile, la Colombia nel baratro della paura e della violenza.

Alessandro Grandi 

Tra le province cadute in mano alla guerriglia anche quella 'italiana' di Herart
I talebani, che solo un anno fa controllavano il 54 percento del territorio afgano, oggi ne controllano il 72 percento e circondano Kabul. Lo certifica il rapporto annuale del think-tank di politica internazionale Icos (ex Senlis Council), che fornisce analisi e statistiche a supporto delle operazioni Nato in Afghanistan.

Mappa Icos"In Afghanistan ormai i talebani guidano il gioco, sia politicamente che militarmente", ha dichiarato Paul Burton, direttore dell'Icos. "C'è il reale pericolo che i talebani riconquistino l'intero Paese".
Il rapporto sottolinea anche come "tre delle quattro vie d'accesso alla capitale Kabul siano già in mano alla guerriglia".
Solo nel 7 percento del territorio afgano i talebani hanno una "scarsa presenza" (non nulla), e si tratta sostanzialmente del Panjshir (a nord di Kabul), roccaforte dei mujaheddin tagichi, e delle province settentrionali attorno a Mazar-e-Sharif, controllate dalle milizie uzbeche del signore della guerra Rashif Dostum.
Tra le regioni che nell'ultimo anno sono di fatto finite in mano agli insorti c'è anche la provincia occidentale di Herat, dove si concentra il grosso del contingente militare italiano.
Oggi il capo del Comando Centrale Usa, il generale David Petraeus, è a Roma per convincere il governo Bersulconi a fornire un maggior contributo militare sul fronte di guerra afgano.

 

8 dicembre

 

L'allarme della Fao: 963 milioni di persone soffrono la fame

La fame avanza inarrestabile, e miete sempre più vittime: oggi nel mondo ci sono 963 milioni di affamati, 40 milioni in più dell'anno scorso e 115 milioni in più rispetto al biennio 2003-2005. E l'attuale crisi finanziaria potrebbe aggravare ulteriormente la situazione. A lanciare l'allarme è l'ultimo rapporto Fao sullo Stato dell'insicurezza alimentare nel mondo (Sofi), che riporta i dati del 2007, aggiornati dall'agenzia Onu agli ultimi mesi di quest'anno e riportati nella conferenza stampa di lancio del documento, a testimoniare come la piaga della fame proceda inarrestabile e a ritmi sostenuti.

La causa dell'impennata è l'aumento dei prezzi delle materie prime - Alla base del "drammatico quanto rapido" aumento del numero di affamati cronici nei Paesi del sud del mondo c'è l'impennata dei prezzi delle materie prime agricole, che ha fatto precipitare nell'insicurezza alimentare milioni di poveri e ridotto drasticamente la quantità e qualità del cibo a loro disposizione. Nonostante il calo dei prezzi dall'inizio del 2008, ha spiegato vicedirettore generale della Fao e curatore del rapporto, Hafez Ghanem, "per milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente per poter condurre una vita attiva e sana è ancora un sogno lontano".

Maggiori rischi dalla crisi economica - "I problemi strutturali della fame, come l'accesso alla terra, al credito e all'occupazione, sommati ai prezzi sostenuti dei generi alimentari (calati del 50 per cento negli ultimi mesi ma ancora superiori del 20 per cento rispetto al 2006, ndr.) continuano a essere una spaventosa realtà". E ha avvertito: "Se i prezzi più bassi e la stretta creditizia associati alla crisi economica costringeranno gli agricoltori a diminuire le semine, l'anno prossimo potrebbe verificarsi un'altra drammatica ondata di prezzi alimentari alti".

Aumento dei prezzi occasione di sviluppo - Tuttavia, secondo gli esperti Fao, l'alto prezzo delle derrate può diventare un'opportunità di sviluppo ed essere la chiave di volta per uscire dall'impasse e scongiurare l'ulteriore crescita di povertà prevista dagli economisti. Nel lungo periodo, infatti, l'aumento del costo del cibo può rappresentare un'occasione di sviluppo per i milioni di piccoli agricoltori poveri, favorire l'espansione dei mercati regionali, creare nuovi posti di lavoro e rilanciare in modo sostenibile l'agricoltura del sud. Da qui, la duplice strategia, coerente e coordinata, su cui governi, Paesi donatori, Nazioni Unite, ong, società civile e settore privato devono "immediatamente" convogliare gli sforzi: da una parte rafforzare il settore agricolo e aiutare i piccoli produttori ad aumentare la produttività fornendo sementi, fertilizzanti e mangimi per animali, oltre a macchine agricole, infrastrutture e servizi essenziali. Dall'altra, avviare programmi di sicurezza e protezione sociale per le categorie più vulnerabili, così da garantire ai più poveri l'accesso al cibo. Solo così la battaglia per raggiungere entro il 2015 gli Obiettivi del Millennio non sarà stata vana.

Diouf: serve una risposta urgente - La drammaticità della situazione richiede, secondo gli esperti Fao, una risposta urgente e concreta. "Le preoccupazioni della comunità internazionale sono fondate", ha avvertito alla presentazione del rapporto Sofi il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, "per la prima volta da quando la Fao ha iniziato a monitorare il trend della malnutrizione nel mondo, il numero degli affamati cronici ha raggiunto il picco più alto. La Fao stima che, a causa principalmente del brusco aumento del costo del cibo, questa cifra è aumentata di 75 milioni nel solo 2007" (e di altri 40 milioni nei primi mesi del 2008 ndr.).

 

4 dicembre
 

Il leader ribelle Kony non si presenta per siglare la pace, il governo si interroga sull'opzione militare

scritto da
Matteo Fagotto

Ancora una volta, per l'ennesima volta. Lo scorso fine settimana il leader dei ribelli ugandesi del Lord's Resistance Army, Joseph Kony, non si è presentato alla cerimonia per la firma degli accordi di pace che avrebbero posto fine a 22 anni di guerra tra il gruppo ribelle e l'esercito ugandese, facendo tornare indietro a mani vuote non solo la delegazione governativa, ma anche i notabili Acholi che abitano il nord dell'Uganda, la regione maggiormente devastata dalle violenze negli ultimi anni. Dopo l'ennesimo fallimento, il governo di Kampala si chiede se la prosecuzione delle trattative abbia ancora un senso.

Joseph KonyAnche stavolta, come nelle occasioni precedenti, Kony aveva assicurato, tramite i suoi intermediari, la sua presenza alla cerimonia, in programma nella città sudanese di Juba. Ma alla fine, come le volte precedenti, ha prevalso la paura. Per uscire dal proprio nascondiglio nella foresta congolese, il leader ribelle ha chiesto lo stralcio del mandato di cattura per crimini di guerra e contro l'umanità emesso dalla Corte Penale Internazionale dell'Aja, e che pende sulla sua testa. Nonostante gli accordi raggiunti in questo senso con il governo ugandese, infatti, la Cpi, a suo tempo invitata a investigare sui crimini compiuti dai ribelli proprio da Kampala, non ha finora accettato di bloccare il procedimento giudiziario nei confronti di Kony.

Tutto come prima allora? Non proprio. Stavolta, infatti, sarebbe avvenuto un fatto nuovo: Kony, stando alla sua versione dei fatti, avrebbe ricevuto un sms sul suo telefonino proveniente da un ufficiale dell'esercito ugandese, che lo minacciava di morte anche se avesse siglato la pace con il governo. Una versione a cui Frank Nyakairu, analista del conflitto ugandese, non crede. "I proclami di Kony hanno un solo fine. Far tornare a parlare di lui", spiega a PeaceReporter. "Ogni volta che vede l'attenzione mediatica calare, Kony se ne esce con qualche novità. Ma dubito delle sue reali intenzioni di pace".

Bambini soldato del LraLa visione di Nyakairu non è isolata. Da più parti ormai si levano voci che chiedono di risolvere la questione Kony una volta per tutte, liberando il nord Uganda dal rischio di una nuova guerra. A questo proposito, il governo ha annunciato che consulterà i leader della comunità Acholi per decidere il da farsi. Meglio proseguire con le iniziative di pace, visto che, dopotutto, sugli accordi raggiunti da entrambe le parti manca solo la firma finale, o scegliere la strada della guerra? La seconda opzione è difficilmente praticabile, considerando il fatto che, al momento, gli effettivi del Lra sono sparsi tra le regioni di confine di Uganda, Congo e Sudan, e che le azioni militari sono condotte principalmente al di fuori del territorio ugandese. Lo scorso mese, alcune associazioni locali per i diritti umani avevano denunciato la morte di più di 200 civili in poche settimane per mano dei ribelli. Da nazionale, il Lra è diventato insomma un problema regionale, che richiede la collaborazione degli stati vicini.

 

 
Continua la battaglia dei curdi contro il governo turco per il bacino idrico di Ilisu. E nella lotta c'entra anche l'Italia
"Tutto è cominciato a Londra, quando ho incontrato gli avvocati del Kurdish Human Rights Project (Khrp), un'associazione che si occupa principalmente di tutela legale dei curdi, in primo luogo presso la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Ho offerto la mia collaborazione, ma loro mi hanno chiesto subito di mettere la mia professionalità a disposizione per la vicenda del coinvolgimento della Unicredit nel finanziamento del progetto per la diga di Ilisu''.

dimostranti contro la diga di ilisuUna questione di diritti. Questo è il racconto di Luca Saltalamacchia, avvocato napoletano, e del suo incontro con la causa curda. "Mi hanno parlato dell'impegno di una serie di associazioni in Italia che si battevano contro la costruzione della diga di Ilisu", racconta Saltalamacchia. "Grazie al mio lavoro di avvocato mi chiedevano di studiare il caso per valutare la possibilità di citare in giudizio la Unicredit che finanzia un progetto che viola i diritti di migliaia di persone, almeno come ulteriore strumento di pressione sull'opinione pubblica".
I media ne parlano poco, ma Ilisu è un dramma per migliaia di persone. Fin dai tempi di Ataturk, la Turchia ha in cantiere un mega progetto di dighe che sommergeranno villaggi curdi. Un enorme bacino idrico, che però sconvolgerà la vita delle comunità locali, dell'ecosistema e dei rapporti con i paesi confinanti, che finiranno coinvolti dalle scelte dell'esecutivo di Ankara. Dopo anni, il progetto della diga di Ilisu sembra pronto a essere realizzato, con il contributo di uno dei più noti istituti di credito italiano. Ma proprio in Italia i curdi hanno trovato chi li sostiene nella loro lotta. "Ho preso contatto con attivisti e associazioni che mi hanno fornito il materiale sul quale lavorare - continua l'avvocato napoletano - Dal punto di vista tecnico mi sono interfacciato con attivisti curdi che coordinano la campagna europea contro la diga, compreso un ingegnere. Messe in ordine le idee, a giugno di quest'anno, io e l'avvocato Laura Lauriti abbiamo stilato il parere legale che secondo noi permette di fare causa, in Italia, all'Unicredit". Ma come? "E questo è un elemento interessante, perché non ci sono precendenti. E' possibile citare un grande gruppo finanziario che ha sede in Italia per violazione dei diritti umani commessi anche in una paese terzo da cittadini italiani ma nessuno fino ad ora l'ha mai fatto. Sul tema mi sono confrontato con docenti universitari che studiano questa materia. In pratica, il finanziamento è stato concesso dalla Bank Austria Creditanstalt, austriaca, ma questo istituto è controllato da Unicredit. Non abbiamo dovuto, per fortuna, faticare a dimostrare il legame diretto tra i due istituti, perché in tutta la documentazione la Unicredit si è sempre definita come la controllante della banca austriaca".

la mappa del bacino idrico del governo turcoUna battaglia dura. Capito che, tecnicamente, è possibile, come vi siete mossi?
"A luglio abbiamo avuto un primo incontro con alcuni funzionari Unicrdit e gli abbiamo chiesto ufficialmente di ritirarsi dal finanziamento dell'affare, altrimenti saremmo andati avanti nella nostra battaglia legale", racconta Saltalamacchia. "Stabilita la necessità di parlare della vicenda direttamente con l'amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ci è stato fissato un appuntamento per il 23 ottobre, ma è stato annullato pochi giorni prima per le note vicende della crisi finanziaria mondiale. Ne è stato fissato un altro, per il 4 novembre, ma ancora una volta non siamo stati ricevuti. A quel punto abbiamo intimato alla Unicredit di ritirarsi dal finanziamento entro il 10 dicembre. E questo è stato il nostro ultimo contatto con loro. Bisogna distinguere, perché ci sono persone di Unicredit con le quali siamo in contatto e che seguono la vicenda, ma i vertici no". Perché proprio il 10 dicembre? "perché è una data simbolica: in primo luogo per l'anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, in secondo luogo perché l'8 dicembre scadono i sessanta giorni di tempo concessi al governo turco dalla tre Agenzie di Credito all'Esportazione, organi statali di controllo che monitorano gli affari delle loro aziende con stati esteri, dei tre paesi coinvolti nel finanziamento della diga: Germania, Svizzera e Austria (come detto in realtà l'Unicredit) per adeguarsi alle condizioni minime di rispetto dei diritti umani e della tutela ambiantale e artistica che, fino a oggi, Ankara ha compeltamente ignorato", risponde l'avvocato.

profumo, amministratore delegato di unicreditUn futuro incerto. Cosa accadrà se, nei prossimi giorni, non accadrà nulla? "Li citeremo in giudizio, credo presso il tribunale di Bologna, dove ha sede l'Unicredit", risponde determinatoli legale. "Abbiamo anche raccolto le testimonianze di una parte dei contadini curdi coinvolti nel piano di esproprio del governo turco per realizzare la diga. Che sono i nostri veri clienti finali. In totale saranno interessate circa 78mila persone, per le quali non è stato ancora organizzato un piano reale di indennizzi e di ricollocamento, abitativo e lavorativo. Qui non è tanto in discussione da un punto di vista giuridico la possibilità di uno stato di espropriare le terre per un'opera pubblica, questa è una scelta politica, per quanto contestabile. La nostra battaglia è in merito al fatto che questo avvenga in violazione di diritti fondamentali della persona, come il diritto alla proprietà e il diritto a mantenere il proprio stile di vita. Sarebbe in generale però da discutere tutto il progetto, che non porterà alcun beneficio alle popolazioni locali. I benefici dell'operazione non giustificano i costi, umani ed economici, di un'operazione da 2mila milioni di euro. Il vero motivo, come lo stesso premier turco Erdogan ha detto, è la battaglia contro i guerriglieri curdi del Pkk che operano nella zona". Una battaglia, però, che si combatte sulla pelle di migliaia di contadini indifesi. Avvocato, in coscienza, pensate di farcela? ''Me lo sono chiesto io e ci siamo confrontati sulla questione con le associazioni che si battono contro la diga. In questa vicenda ci sono due aspetti: la causa in sé e la notizia stessa della causa. Sotto il primo aspetto è una vittoria anche solo iniziare questa battaglia. Non ci sono precedenti, sembrava impossibile. E la causa porterà l'attenzione sulla vicenda, rendendo nota la lotta contro la diga di Ilisu e l'Unicredit subirà delle pressioni. Rispetto al solo aspetto giudiziario è dura, non ci sono precedenti E' dura, basti pensare che l'Unicredit si cita in Italia, ma si dovrà applicare nella causa il diritto turco e le convenzioni internazionali. Ci vuole un giudice che abbia voglia di capire una materia tanto complessa. Ma se non si comincia non si creerà mai il clima giusto che serve alle grandi battaglie per i diritti civili". 

Christian Elia
 

 
Una Ong denuncia la tragica condizione delle lavoratrici domestiche straniere in Bahrein
 Lo scorso 22 novembre Siti Maemoona, una donna indonesiana di 34 anni, ex lavoratrice migrante in Bahrein, ha partorito senza sostegno medico in uno squallido appartamento di Manama, e poche ore dopo è deceduta. Siti viveva in quel povero appartamento, assieme a diverse donne filippine clandestine, da due anni. Da quando era fuggita dal suo sponsor, l'uomo cioè che le aveva permesso di entrare nel paese come lavoratrice domestica. Sola e senza documenti in un paese straniero, era rimasta incinta, ma il suo uomo aveva lasciato il paese costringendola a partorire clandestinamente: una scelta fatale, ma allo stesso tempo drammaticamente comune nella penisola del Bahrein.

Alla fine di ottobre 2008 si e svolta la 42ma edizione del comitato per la Cedaw, la convenzione per l'eliminazione delle discriminazioni verso le donne. Per l'occasione, tre Ong che si occupano dei problemi delle lavoratrici straniere in Bahrain hanno pubblicato un rapporto e lanciato un appello alla monarchia dei Khalifa, affinchè intervengano sulla legislazione locale che le discrimina gravemente. Nel rapporto si descrivono le disriminazioni che i lavoratori stranieri, ma in misura particolare le lavoratrici, subiscono nel paese. Un problema molto diffuso che si amplifica quando le prestazioni di lavoro si svolgono entro le mura domestiche. Nell'appello, invece, si chiedono provvedimenti urgenti soprattutto per quel che riguarda le lavoratrici straniere in gravidanza e i loro figli. Negli ultimi otto anni, infatti, le Ong hanno registrato almeno 30 casi come quello di Siti: donne che per evitare problemi con i datori di lavoro o con gli sponsor hanno nascosto le gravidanze, partorito in situazioni degradate o anche soppresso i figli, che in diversi altri casi sono stati affidati agli orfanotrofi. Le Ong chiedono anche una modifica urgente della legge sulle adozioni, giacché le norme vigenti le vietano per le coppie non originarie del Bahrein. Secondo Marietta Dias della Migrant Workers Protection Society, nel paese ci sono decine di coppie che vorrebbero adottare uno di quegli orfani, ma non possono farlo perché non sono originarie del Bahrein. Allo stesso tempo si chiede di garantire un documenti di identità ai figli abbandonati, per i quali altrimenti non ci sarebbe altro futuro che la strada. Tutte queste aberrazioni sono conseguenze di rapporti extra-coniugali o di violenze sessuali, ma quello che le accomuna è la condizione di ricatto cui sono sottoposte le lavoratrici domestiche, molto simili a quelle che subiscono le donne coinvolte nella tratta della prostituzione. Di fatto le lavoratrici domenstiche che venfono dal sud-est asiatico in Bahrein non ricadono entro nessuna delle categorie riconosciute di lavoratori e perdipiù sono soggette alla legge familiare del paese, che ispirandosi alla Shari'a presuppongono una quasi-immunità per gli uomini a scapito del sesso debole. Agli abusi e alle violenze si aggiunge dunque anche l'impossibilità di denunciare quanto si è subito.

I lavoratori stranieri nel Bahrein sono circa 70mila: provengono soprattutto da India, Sri Lanka, Indonesia e Filippine. Secondo l'International Labour Organization, metà di loro sono donne impiegate in contesti domestici, dove sono particolarmente soggette a sfruttamento e abusi. Le domestiche straniere non vengono infatti inquadrate nel contratto di lavoro nazionale, e vengono quindi costrette a orari di lavoro estenuanti (oltre cento ore a settimana), bassi stipendi e condizioni di vita povere quando non repressive. Spesso non possono godere di giorni liberi e hanno delle gravi restrizioni di movimento, dovute anche al fatto che nella maggioranza dei casi i padroni o gli sponsor ritirano loro i documenti. Gli stessi padroni e sponsor sono indispensabili per ottenere il visto, per cui le donne che cercano di sfuggire da situazioni di schiavità o violenza o di denunciarle rischiano invece di essere arrestate. Una conseguenza di questa situazione è l'omertà. Le lavoratrici vittime di violenze sono invisibili e quantificare il fenomeno è un impresa titanica anche per le Ong locali. Secondo le statistiche del governo, il 30 3 il 40 percento di tutti i casi di suicidio registrati negli ospedali psichiatrici del paese, erano lavoratrici domenstiche straniere.

Naoki Tomasini

 

2 dicembre

 

Congo, il mondo sta a guardare

La comunità internazionale impotente di fronte alla crisi nel Kivu

scritto da Matteo Fagotto

Sono passati tre mesi dallo scoppio della crisi congolese, ma al Palazzo di Vetro dell'Onu, così come a Bruxelles e all'Unione Africana, non si trova il bandolo della matassa per sbrogliare una crisi che ha provocato almeno 250.000 sfollati e migliaia di vittime. Tra mediazioni fallite, risoluzioni proposte e trattati di pace mai rispettati, la regione orientale del Kivu rimane alla mercé dei ribelli del generale Laurent Nkunda, oltre che delle milizie Mayi-Mayi e dei ribelli Hutu ancora presenti in Congo. I due principali contendenti, Nkunda stesso e il presidente congolese Joseph Kabila, rimangono fermi sulle loro inconciliabili posizioni.

Nemmeno gli sforzi di Olusegun Obasanjo, ex-presidente nigeriano e inviato speciale dell'Onu in Congo, hanno sortito l'effetto sperato. Anzi, sabato scorso, nel corso della sua seconda visita in 15 giorni nel Kivu, Obasanjo avrebbe avuto un vivacissimo scambio di opinioni con Nkunda, accusandolo del mancato rispetto della tregua imposta ai suoi uomini dal generale stesso due settimane fa. Nkunda si sarebbe giustificato sostenendo che la tregua rimane in vigore nei confronti dell'esercito congolese, ma non delle milizie alleate di Kinshasa presenti ancora nella regione. Alla fine del vertice, le posizioni non avrebbero potuto essere più distanti: mentre Obasanjo sottolineava gli sforzi compiuti verso la pace, Nkunda lanciava una sorta di velato ultimatum a Kabila. Incontrarsi a un vertice internazionale a breve, oppure subire una nuova offensiva dei suoi uomini.

Se non altro, il Palazzo di Vetro è riuscito a votare un aumento dei contingenti della Monuc (la missione Onu in Congo), che passeranno da 17.000 a 20.000. A Bruxelles, invece, le divisioni interne all'Unione Europea non hanno permesso di raggiungere neanche un accordo sul possibile invio di una forza di intervento rapida, caldeggiata da Francia e Belgio ma osteggiata dalla Gran Bretagna e dal capo della diplomazia europea, Javier Solana. Per ora, la linea della Ue è quella di limitarsi a generici appelli sul rispetto degli accordi di pace siglati nel 2007 e nel gennaio 2008, i quali prevedono il disarmo di tutte le formazioni irregolari presenti nel Kivu. Peccato che entrambi gli accordi si siano rivelati carta straccia poche settimane dopo la loro firma.

Nella mischia si è gettata anche l'Unione Africana, che ha scelto come mediatore l'ex-presidente della Tanzania, Benjamin Mpaka. Ma chi si aspettava che gli sforzi dell'organizzazione continentale potessero sopperire alle deficienze degli occidentali è rimasto deluso. Finora, neanche Mpaka è riuscito a raggiungere risultati concreti, frustrato dalle inconciliabili posizioni dei due contententi: da una parte Nkunda, che invoca un nuovo vertice di pace, dall'altra Kabila, che chiede il rispetto degli accordi siglati a gennaio. In mezzo, centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire non solo dalle violenze commesse dai gruppi armati irregolari, ma anche dagli abusi dell'esercito, messo in rotta dagli uomini di Nkunda e rifattosi sui civili.

Dopo settimane di intenso interesse mediatico e politico, la crisi del Congo è lentamente scivolata fuori dalle pagine dei giornali ed è stata dimenticata dalla politica internazionale, distratta prima dai pirati del Golfo di Aden e poi dagli attacchi a Mumbay. Incapace di arrivare a conquistare la capitale Kinshasa, come aveva promesso qualche settimana fa, Nkunda ha però la possibilità di ritagliarsi un vasto feudo nel Kivu, e di impegnare le truppe congolesi per un lungo periodo. Alla faccia di un processo di pace che, nell'est del Congo, non è mai decollato, e di una comunità internazionale troppo discontinua nei suoi sforzi diplomatici.

 

Chi non consuma è un disfattista

Michele Serra
Il governo diffonderà in ogni casa un opuscolo di rieducazione del consumatore. Per indurlo a spendere di nuovo
 
Perché il consumatore non consuma più? Con tutto il bendidio disponibile? Il governo ha individuato nella scadente qualità del consumatore italiano le radici del problema. Squattrinato, svogliato, disfattista, sovente di malumore, è l'anello debole di un sistema perfetto che non merita di essere rovinato dall'ingratitudine. Allo scopo, il governo diffonderà in ogni casa un opuscolo di rieducazione del consumatore. Vediamo i punti principali.

Mancanza di soldi È il pretesto al quale il consumatore ricorre più frequentemente. Tipico degli avari, va affrontato con una radicale psicoterapia che induca il paziente a riflettere. Al termine del trattamento, il consumatore sarà ugualmente povero, ma nei primi due giorni del mese spenderà tutto lo stipendio in puttanate, ricevendo una lettera di congratulazioni della Confcommercio che lo aiuterà, nei restanti 28 giorni, ad affrontare la fame, il freddo e l'assedio dei creditori con il sorriso sulle labbra e la coscienza pulita.

Calendarizzazione Come mai è sempre la quarta settimana del mese quella che fa segnare il crollo dei consumi? Il problema dipende dalla pessima programmazione delle famiglie. Il governo suggerisce di spalmare l'indigenza sull'intero mese, con un sistema a scaglioni: la popolazione verrà divisa in quattro gruppi, ognuno dei quali dovrà rimanere senza soldi in settimane diverse. Lo sgradevole effetto 'quarta settimana', continuo pretesto per la propaganda disfattista dell'opposizione, non avrà più ragione di essere.

Pessimismo Per il governo è proprio questo il problema più grave. Uno che già è povero, come fa a non capire che il suo umore torvo non fa che peggiorare la situazione? L'opuscolo del ministero del Welfare, stilato dagli psicologi del Centro Studi Bicchiere Mezzo Pieno, suggerisce di formare, sul modello americano, dei gruppi di autocoscienza per debitori anonimi. Seduti in circolo, leggeranno a turno le rispettive buste-paga, scoprendone l'evidente lato comico. La lettura dei mutui sarà effettuata da un animatore. 


Panchine La riqualificazione delle panchine è urgente. Verranno concesse in comodato gratuito ai senzatetto, che in cambio ne dovranno curare il decoro ripitturandole ogni primavera. Nei comuni leghisti dovranno ripitturarle usando la lingua al posto del pennello, troppo costoso. Verranno suddivise in panchina a una stella, con cacca di piccioni e cani randagi nei dintorni che mordono il dormiente; a due stelle, senza cacca di piccioni e nelle vicinanze di cassonetti dei rifiuti per un rapido spuntino; a tre stelle, con retino per catturare i piccioni e vecchia padella per cucinarli; e infine categoria lusso, con sistema antincendio per mitigare gli effetti dei raid nazisti.

Alimentazione Le ricette della nonna aiutano a riconsiderare il valore di un'alimentazione sobria e sana. Per esempio le croste di pane, se lasciate in ammollo nel bicchiere della dentiera, al mattino avranno formato un gustosissimo impasto già premasticato e molto digeribile. Tra le ricette suggerite dagli chef governativi: i popolarissimi 'macché' della tradizione napoletana, piatto tipico che deve il suo nome al fatto che se uno chiede "hai mangiato?", l'altro risponde "macché". La pasta alle erbe, spaghetti crudi infilzati nelle aiuole dei giardini pubblici per insaporirli. La saporitissima lepre investita, scrostata dall'asfalto con un raschietto e servita fredda. Gli involtini alla veterinaria, squisiti bocconi di carne per cani, ideali per avere un pelo sempre lucido. I deliziosi petti di pollo scaduti, che non necessitano condimento perché il sapore è già molto caratterizzato. Infine, come dessert, la raffinata granita della nostalgia, ottenuta scongelando il freezer e sminuzzando i pezzi di ghiaccio impregnati degli odori dei cibi dei mesi precedenti.

 

ll nuovo "diritto diseguale"

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'asimmetria è manifesta. Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch'io, che pacificamente ho aderito all'iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia. Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più. Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri.

No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile). Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale". A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce "deviata" una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce "tutti i reati commessi durante la manifestazione" (è accaduto l'11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c'è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e "pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali". Ma in Italia quel reato non c'è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come "condotte inumane e degradanti". Sono comportamenti "che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini". Epperò, dall'accertamento delle condotte vessatorie "non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati". Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti. "Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori "per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"".

Non c'è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C'è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell'accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l'agenda ragionevolmente proposta dal "Comitato verità e giustizia per Genova". Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l'obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d'identificazione; l'istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei. Si può concordare che "l'esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno".
 

 

Genova: il palazzo di zucchero, l'ateneo lo paga il doppio

Un palazzo di zucchero, il più goloso degli affari. Perché solo ora si scopre che l'Università di Genova nel 2001 ha comprato un Universit_genovasprec edificio pagandolo una cifra insensata: il doppio esatto di quanto solo sette mesi prima aveva speso l'immobiliare che poi lo ha rifilato all'ateneo. Stiamo parlando dell'ex Palazzo Eridania che oggi ospita la facoltà di Scienza della formazione. Dopo sette anni  la procura ha aperto un'inchiesta: il reato ipotizzato è la truffa. L'ateneo ha pagato 30,8 miliardi di lire, più altri cinque di ristrutturazione, nel marzo 2001 per un immobilie che a settembre 2000 l'Eridania aveva dato via per 17 miliardi e mezzo. Non solo. Nella stessa operazione l'università cedette in permuta un palazzo in una delle aree di maggior pregio di Genova: quattro piani e novanta vani, valutati 2,4 miliardi di lire. In questo caso, invece, la stima sarebbe stata fatta al ribasso e l'immobile praticamente svenduto. Non c'è che dire: le menti di questa compravendita sono state geniali. Hanno ceduto in saldo e acquistato a peso d'oro, tanto si trattava di denaro dei cittadini. A beneficiare di questo spreco di fondi pubblici è stata una misteriosa immobiliare, la Cave di Yarm. Secondo il "Secolo XIX" risulta intestata a un geometra, poco noto ma molto attivo in tutte le grandi transazioni condotte con enti pubblici in quella stagione. Ora c'è da sperare che la procura capisca cosa è successo: se i vertici dell'ateneo sono stati collusi o semplicemente stolti. Il rettore dell'epoca era Sandro Pontremoli. A denunciare invece le anomalie del caso è stato il successore Gaetano Bignardi. Ma nei conti dell'ateneo adesso si sta materializzando una voragine, in continua espansione: un buco di decine di milioni di euro. Legato soprattutto a queste disastrose attività immobiliari.

 

I pendolari d'oro della Regione Campania: anche 3000 euro al mese di rimborsi

Sadramastella150 L'emigrazione è una piaga storica dell'Italia meridionale. Sarà forse per questo retaggio culturale che il Consiglio regionale della Campania ha mantenuto una strana abitudine: quella del pendolarismo. Oggi 41 consiglieri su 60 abitano fuori Napoli. A parte i dubbi sulla loro assidua presenza ai lavori del "parlamento regionale", resta un problema molto più venale: quello dei rimborsi, che trasforma il fenomeno della mobilità politica nello scandalo dei "pendolari d'oro". Almeno 41 fuorisede percepiscono ricchi rimborsi extra: ogni anno fino a 370 mila euro. I dati di ottobre 2008 sono impressionanti. Il più lontano è Francesco  Brusco, del Mpa di Lombardo: 2978 euro di rimborso mensile. Dichiara di venire ogni volta da Vibonati, nel cuore del Cilento, al confine tra Campania, Calabria e Basilicata. Luca Colasanto del Nuovo Psi ottiene il risarcimento di 2935 euro al mese, dichiarando un tran tran di 296 chilometri tra casa e pubblico ufficio. Poi ci sono Fernando Errico dell'Udeur con 2440 euro, Donato Pica del Pd con 2207,  Vittorio Insigne (processato e assolto in primo grado per i rapporti con i casalesi), ex Udeur ora gruppo misto con 1478. E  Gerardo Rosania di Rifondazione, per esempio, ne ottiene 1068 per non fermarsi a Eboli. Tutto ciò per partecipare a 18 riunioni mensili del consiglio. Dopo le inchieste del Mattino, la  procura di Napoli ha aperto un'indagine: il reato ipotizzato è truffa. Il governatore Antonio Bassolino e il  presidente Sandra Lonardo Mastella hanno chiesto ai loro consiglieri di evitare spese inutili in un momento di recessione. Loro non hanno rimborsi: usano le 30 auto blu con autista in dotazione alla Regione.

 

Istat, occupazione in calo. Frenano le grandi imprese

Crescono le ore di sciopero, cala il ricorso allo straordinario

Istat, occupazione in calo Frenano le grandi imprese
ROMA - Cala l'occupazione a settembre. Nelle grandi imprese (quelle con 500 e più addetti) l'Istat registra una diminuzione annua dello 0,2% al lordo della Cig e dello 0,4% al netto della Cig. Una differenza che si deve al fatto che c'è stato un aumento tendenziale del ricorso alla cassa integrazione. In termini congiunturali l'indice, depurato degli effetti della stagionalità, ha registrato un +0,2% al lordo della Cig e un +0,1% al netto dei dipendenti in cassa integrazione. Crescono, inoltre, le ore di sciopero.

A settembre l'occupazione delle grandi imprese dell'industria è diminuita dell'1,8% al netto della cig e dell'1,2% al lordo della cassa, mentre nei nove mesi il calo è dell'1,2% per entrambe le grandezze. Nel complesso dei primi nove mesi, rispetto allo stesso periodo del 2007, l'occupazione è calata nell'industria (-1,2% sia al lordo che al netto della Cig), mentre è aumentata nei servizi (+0,6% sia al lordo che al netto della Cig).

Guardando ai settori, l'indice dell'occupazione (al lordo della Cig) registra diminuzioni tendenziali del 3,9% per la produzione di energia elettrica, gas e acqua, del 3,6% nelle costruzioni. Il settore delle attività manifatturiere segna un -0,9%: tra i vari comparti, quelli che registrano i cali più marcati sono le industrie tessili e dell'abbigliamento (-6,5%), la produzione di macchine e apparecchi meccanici (-4%) e la fabbricazione di prodotti chimici e fibre sintetiche (-3,2%); gli incrementi più consistenti invece si hanno nelle industrie delle pelli e calzature (+3%), nelle industrie della produzione di apparecchi elettrici e di precisione (+2%) e nelle raffinerie di petrolio (+1,6%). All'interno dei servizi spiccano gli aumenti nelle altre attività professionali e imprenditoriali (+5,1%) e nel commercio (+2%); in calo invece in alberghi e ristoranti (-0,4%), intermediazione monetaria e finanziaria (-1,3%) e trasporti (-1,1%).


In calo le ore di lavoro: a settembre l'indice delle ore effettivamente lavorate ha registrato un -0,7% su base mensile e un -0,8% su base annua, con cali più accentuati per l'industria (-1,6% tendenziale contro il -0,2% dei servizi).

A settembre 2008 il ricorso alle ore di lavoro straordinario, è stato pari al 5,5% delle ore ordinarie, con una diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Nelle grandi imprese dell'industria il ricorso alle ore di lavoro straordinario è risultato pari al 4,4% con una diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. In quelle dei servizi l'incidenza dello straordinario è stata del 6,2%, con un calo di 0,3 punti percentuali rispetto a settembre 2007.

L'utilizzo della cassa integrazione a settembre è stato pari a 10,7 ore per mille ore lavorate, con un calo di 0,9 ore ogni mille ore lavorate in termini congiunturali e un aumento di 3,1 ore ogni mille ore lavorate in termini tendenziali: nell'industria le ore di cig utilizzate sono state 26,9 per mille ore lavorate e nei servizi 1,3 ore per mille lavorate.

Le ore di sciopero sono state pari a 0,8 per mille ore lavorate, con un aumento di 0,5 ore per mille ore lavorate (0,6 nell'industria e 0,9 nei servizi) rispetto a settembre 2007.

 

 

 

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