

Non
c'è posta per te
di Stefano Del Vecchio e Gianni
Pitrelli
Lettere mai recapitate. O buttate
nella spazzatura. Raccomandate
scomparse. Pacchi irrintracciabili. Tra
appalti esterni e risparmi, si
moltiplicano i disservizi
Siamo sotto le feste, ma se vuoi
mandare un biglietto d'auguri a
qualcuno devi essere fortunato. Devi
riuscire a trovare una buca e devi
incrociare le dita che il postino
passi a ritirarlo. Se il biglietto
lo stai aspettando, invece, devi
sperare che la tua zona sia ancora
servita. E anche augurarti che un
portalettere frustrato non la butti
nella spazzatura. Ma che poi arrivi
in tempo è tutto un altro paio di
maniche. Come ha raccontato in un
articolo sui suoi tre anni italiani
l'inglese Lisa Hilton: "L'anno
scorso, per esempio, ho ricevuto le
cartoline di Natale a Pasqua. Le mie
lamentele si sono scontrate
invariabilmente con un'alzata di
spalle e un rassegnato 'è così'".
La giornalista britannica non è un
caso isolato: le associazioni di
consumatori moltiplicano le
segnalazioni di disservizi di Poste
Italiane: dai pacchi accumulati e
non consegnati, alle raccomandate
che tocca andare a ritirare
all'ufficio postale. Alle Poste,
però, minimizzano: "La consegna
della corrispondenza in Italia dopo
la conclusione del processo della
riorganizzazione del servizio di
recapito e la stabilizzazione di
migliaia di portalettere è oggi
regolare. Isolati casi di ritardo
nella consegna della posta sono
dovuti esclusivamente alle ultime
fasi di conclusione del progetto".
Eppure a volte la realtà sfiora
l'assurdo. Come nel caso, denunciato
dal Movimento difesa del cittadino,
di una signora che aveva spedito
medicinali antimalarici a suore
missionarie di Brescia. Ora saranno
anche scaduti, perché a destinazione
non sono mai arrivati. Il postino si
è scusato così: aveva bussato al
convento, ma nessuno ha risposto. E
poi c'era una signora, felice di
poter rendere la propria casa più
'verde' grazie agli incentivi
energetici. Di cui però non ha visto
traccia, perché la documentazione,
inviata con raccomandata, alla
Agenzia delle entrate di Pescara non
è mai arrivata. Spesso poi, come
racconta un cittadino milanese,
"nessuno suona al citofono per
consegnarmi un pacco, ma lasciano
l'avviso 'destinatario assente',
così sono costretto ad andare a
ritirarlo al deposito".
Eppure quello del recapito di buste,
pacchi e affini è un servizio 'universale',
che le poste dovrebbero garantire a
tutti i cittadini per 365 giorni
l'anno. Anche perché in cambio
ricevono denaro pubblico. Ma forse
Poste Italiane preferisce fare tante
altre cose che rendono di più: fa la
banca, fa la compagnia telefonica,
fa il commerciante. Lo dimostra il
fatto che il 30,8 per cento dei suoi
guadagni proviene dai servizi
finanziari (a fronte di quelli
postali, che si fermano al 2,2). E
in futuro questa forbice è destinata
ad allargarsi, dato che l'azienda
affida ad altre imprese proprio quei
servizi che le danno il nome: dal
2007 a oggi, come si legge da
documenti riservati aziendali, il
bouquet di attività passate di mano
vale oltre 70 milioni. Significa che
vaste aree del territorio vengono
coperte da società terze (come Tnt
Post Italia a Torino, Romana
Recapiti nella capitale e Corel a
Bari). "Poste Italiane, però, si
tiene strette le zone più ricche
delle città, lasciando le aree
periferiche e più difficili da
servire, alle ditte appaltatrici".
Lo racconta un precario di Romana
Recapiti: "A Roma le vie centrali
sono roba loro, mentre a noi toccano
quelle più rognose". E siccome gli
appalti Poste li assegna al ribasso
(l'azienda che offre di meno vince,
a prescindere dalla qualità del
servizio), le ditte appaltatrici
risparmiano sui lavoratori. "Meno
dipendenti esperti, più precari
pagati a cottimo e poco preparati".
Tutto a discapito di mittente e
destinatario. "È ovvio che queste
società saranno interessate al
maggior guadagno possibile, ma non
al miglior servizio possibile", dice
Paolo Martinelli, presidente del
Beuc, coordinamento europeo delle
associazioni di consumatori, "così
si accentua la catena
dell'inefficienza".
Non solo: "Ci sono ben 150 zone del
nostro Paese dove i postini non li
vedono neanche passare", denuncia
Graziano Benedetti, responsabile
Cgil Poste. Senza dimenticare che,
come raccontano quelli di
Altroconsumo, la riorganizzazione
del servizio di recapito ha
significato meno buche delle lettere
e meno giri dei postini per
ritirarle. A Genova, ad esempio,
all'aeroporto c'è più di una dozzina
di cassette stracolme, e alla
stazione ce n'è un'altra ventina.
Colpa dell'effetto imbuto:
diminuiscono i postini, aumentano i
quartieri da coprire. Con risvolti
pazzeschi. C'è il postino comasco,
diciannovenne e precario, che getta
nell'immondizia un intero sacco di
lettere. "Ero troppo stressato
perché non riuscivo a trovare le
case dove recapitare la posta", si è
giustificato. C'è il giovane postino
fiorentino pizzicato dai carabinieri
con 230 lettere non recapitate nel
bagagliaio. Il contratto trimestrale
non gli era stato rinnovato. E poi
c'è un suo collega bresciano che ha
fatto entrambe le cose: imbucava la
posta nei cassonetti. E quando non
la buttava, la teneva in macchina.
Voleva fingersi più veloce nella
consegna, sperando in un'assunzione
a tempo indeterminato.
"Il problema di Poste Italiane è lo
stesso di Trenitalia: latitano i
controlli del rispetto degli
standard qualitativi", commenta
Martinelli: "Mentre per energia e
telecomunicazioni esistono delle
authority che oltre a fissare gli
standard fungono da strumento di
verifica e controllo, per le poste
tutto questo manca. È ancora il
ministero che dovrebbe controllare,
in teoria. Ma in pratica non
avviene". E allora a chi tocca? "Di
lettere che denunciano fatti come
questi i giornali locali sono pieni.
Non li leggono, i sindaci?", chiede
Matteo Salvini, deputato della Lega
Nord: "Dovrebbero essere gli stessi
amministratori locali a tutelare i
propri cittadini, e a fare una
telefonatina come si deve agli
uffici postali". Quindi restano le
volenterose associazioni di
consumatori, che hanno sottoscritto
un accordo per la risoluzione delle
controversie. "Il 98 per cento di
tutte le procedure attivate si è
concluso a favore del cittadino",
annunciava trionfalmente Rosario
Fazio, responsabile marketing di
Poste, a 'Mi manda RaiTre'. Peccato
che questo significhi che in quei
casi le Poste avevano torto. E
peccato che, al di là della magra
consolazione di un risarcimento, il
danno ormai era stato fatto.
Ma in Italia, si sa, le cose si
risolvono solo quando si muove la
politica. È quello che è accaduto in
Lombardia: lì agli inizi dell'anno
la gestione di 75 mila raccomandate
era stato affidata a due società, la
Tnt Milano e l'Act di Carlo
D'Angelo. Quest'ultima è una
cooperativa che definire eclettica è
un eufemismo: si occupa di tutto,
dalla derattizzazione alle bevande
per le mense scolastiche. E i
risultati si sono visti: mentre la
prima non aveva problemi, l'Act non
riusciva a consegnare la
corrispondenza. Tanto che una
pattuglia di deputati della Lega ha
bersagliato il ministro allo
Sviluppo economico Claudio Scajola
di interrogazioni parlamentari a
cadenza settimanale: prima Salvini,
poi Nicola Molteni e infine Paolo
Grimoldi. Alla fine, il consigliere
d'amministrazione di Poste in quota
Pdl, Roberto Colombo, raccoglie la
questione e taglia la testa al toro.
Dopo pochi giorni l'azienda revoca
l'appalto all'Act e si riprende il
servizio. Con grande sollievo dei
cittadini lombardi.
"È mai possibile che tocchi
affidarsi alla buona volontà di
questo o di quel politico, che
agisce su segnalazione della
gente?", si chiede Salvini: "Ci
dovrebbe essere un controllo
interno. Fatti come questi non
dovrebbero ripetersi". Eppure le
prospettive non sono rosee. "La
situazione sta peggiorando",
preannuncia Benedetti, "c'è il
rischio che i problemi di Milano si
replichino altrove". E la Lombardia
minaccia di essere soltanto il
paziente zero di un'epidemia ben più
grave.
Aumenta
il costo della missione italiana
in Afghanistan
Nonostante il testo del
decreto-legge sulla 'Proroga
della partecipazione italiana a
missioni internazionali',
approvato ieri in Consiglio dei
Ministri, verrà reso pubblico
solo il 30 dicembre,
PeaceReporter ha scoperto
che nel 2009 il costo della
missione militare in Afghanistan
subirà un incremento del 43
percento rispetto all'anno
passato.
147
milioni in più. L'anno
passato, per la partecipazione
italiana alla guerra in
Afghanistan, il governo aveva
stanziato 337 milioni di euro (a
cui si sono aggiunti altri 12
milioni di
finanziamento-ponte lo
scorso novembre), il che
significa una spesa mensile di
28 milioni.
Quest'anno, solo per i primi sei
mesi, la cifra stanziata è di
242 milioni di euro, che vuol
dire 40 milioni di euro al mese.
Su scala annuale farebbe 484
milioni: 147 in più rispetto al
2008.
Più
uomini e mezzi. Le
ragioni di questa impennata dei
costi sono l'invio di quattro
caccia-bombardieri Tornado
del 6° stormo 'Diavoli Rossi' di
Ghedi - che da sola costerà in
un anno 52 milioni di euro - e
di altri 500 soldati - il
battaglione Feltre del 7°
reggimento Alpini della brigata
Julia, in partenza per la
provincia 'calda' di Farah.
Uomini e mezzi che, con la
rimozione dei 'caveat'
annunciata da Berlusconi,
parteciperanno attivamente alla
guerra contro i talebani.
29 dicembre
Usa, il muro
che non riesce a dividere
Alessandro
Ursic
Al confine tra due Stati, una
barriera inutile
Tra un
negozio di cianfrusaglie di Washington
Street e una farmacia di Avenida Guerrero ci
sono solo un ponte sul fiume, un cancelletto
e un gettone da 60 centesimi. Ci sarebbero
anche due Paesi con abissali differenze
economiche, culturali e linguistiche, divisi
da un confine di 3.200 chilometri che
comincia, in sostanza, qui. In una città dal
nome coloniale e un'altra chiamata come un
eroe nazionale, le prime di una serie di
sister cities, o pueblas hermanas,
che andando verso ovest caratterizzano il
confine texano tra Usa e Messico. Zone
bilingui, o meglio: molto più ispaniche che
anglofone. Con popolazioni in prima fila
nella questione dell'immigrazione, ma che
costituiscono anche un laboratorio per
l'America del futuro. E che si oppongono
alla costruzione del muro alla frontiera, un
progetto già iniziato dall'amministrazione
Bush e condiviso da molti americani.
Le voci dei
leghisti d'America sono davvero echi
lontani, se ti trovi a Brownsville. Vedi
insegne bilingui, e passanti ispanici nelle
vie con nomi - Adams, Monroe, Jefferson -
che richiamano la storia statunitense. Parli
con gente che non capisce perché gli
americani vedano posti così come i
ground zero dell'immigrazione.
Soprattutto, ti aspetteresti il solito
confine impersonale, in periferia. Invece
sta lì, nel centro storico. Quelle persone
con le borse piene sono messicani che stanno
tornando a casa, cioè in patria, alla fine
di una giornata qualunque di lavoro e di
shopping. Attraversano a piedi il ponte sul
Rio Grande, e in pochi minuti arrivano nel
centro di Matamoros. Così, mentre pensi che
sei negli Usa ma è come se vedessi già il
Messico, capisci troppo tardi che la
barriera che si para improvvisamente davanti
alla tua auto non è fatta per pagare un
pedaggio qualsiasi. "Deve tornare indietro?
Non si preoccupi, succede ogni giorno. Metta
la retro, la facciamo uscire da lì", invita
gentile l'agente di frontiera, sotto un
lampione dove ronzano nugoli di formiche
volanti.
Basterebbero comunque già le libellule
giganti e le palme per ricordarti che qui,
in questo angolo di Stati Uniti vicino
all'Oceano Atlantico, siamo quasi sul
Tropico del Cancro. Città del Messico è
distante quanto Dallas, Washington è a 2.400
chilometri. In campagna elettorale il tema
dell'immigrazione è stato anch'esso lontano,
assente dal confronto tra Barack Obama e
John McCain. Il nuovo presidente, comunque,
si troverà in eredità la prevista
costruzione di una barriera lungo oltre
mille chilometri, un terzo della frontiera.
Il Secure Fence Act del 2006 disponeva il
completamento del piano entro questo
dicembre. All'epoca, in un anno di
rielezione per il Congresso, la riforma del
sistema dell'immigrazione sembrava la
priorità assoluta.
Si
voleva rendere la frontiera più sicura, e al
contempo fornire ai 12 milioni di
clandestini un percorso verso la
cittadinanza. Sullo sfondo c'erano le paure
di un'America che si vedeva invasa da orde
di immigrati messicani, infiltrata da
terroristi stranieri e meta finale della
droga sudamericana. Ma anche cosciente di
non poter vivere senza i latinos
che costruiscono le sue case, cucinano i
suoi pasti, puliscono i suoi appartamenti,
svolgono i lavori più umili nelle sue
fabbriche. Sabotata dai repubblicani più
estremi, la riforma sull'immigrazione è poi
saltata. Ma la costruzione della border
fence è andata avanti. Anche se a
rilento, per problemi economici e tecnici. E
soprattutto, almeno nel Texas, per
l'opposizione della popolazione al confine,
con proprietari di terreni da espropriare e
amministrazioni locali che hanno fatto causa
allo Stato.
In
inglese si dice "Good fences make good
neighbours", ossia "una buona
staccionata fa buono anche il vicino". Ma
che tu sia a Brownsville, McAllen, Eagle
Pass o tutte le altre città con una
puebla hermana di fronte, l'opposizione
al muro è la norma. Le due comunità hanno
rapporti quotidiani, con dinamiche che si
ripetono. I messicani entrano negli Usa per
lavorare, studiare, comprare abbigliamento,
scarpe e chincaglierie varie a buon prezzo,
nelle schiere di negozi tutti uguali dalla
parte Usa. Gli americani passano la
frontiera per fare benzina, comprare
medicine che costano quattro volte di meno,
andare dal dentista per pagare anche meno;
non a caso, le vie messicane alla frontiera
sono una successione di farmacie e cliniche
odontoiatriche. La maggioranza degli
abitanti ha qualche parente nella città
dall'altra parte. Un confine naturale c'è
già: è il Rio Grande, che divide il Texas
dal Messico. Ogni sister city ha
almeno un ponte, per auto e pedoni, che la
collega con l'altra sorella. Le varie
amministrazioni locali hanno progetti di
sviluppo comune. Qui il Nafta, l'accordo di
libero commercio tra Usa, Messico e Canada,
negli ultimi quindici anni ha funzionato
come uno straordinario volano per
l'economia: le città texane al confine hanno
alcuni tra i tassi di crescita più alti di
tutti gli Stati Uniti, e anche dalla parte
messicana il tenore di vita è migliore
rispetto al resto del Paese. Dal 1994 a
oggi, il Messico ha quintuplicato le sue
esportazioni verso gli Usa, e l'industria
alla frontiera è in pieno boom.
In un
ambiente del genere, l'idea di una barriera
di sei metri per tenere fuori "il marcio"
che viene dal Messico non è solo inutile: è
dannosa, e quasi offensiva. "E' un cattivo
messaggio che diamo ai nostri vicini", dice
Charlie Cobster, city manager di
Brownsville, dal suo ufficio con vista sul
ponte. "A cosa serve un muro? Per i
clandestini? Il 99 percento degli illegali è
gente che vuole lavorare, e comunque puoi
scavalcare una fence o passarci
sotto. Per i terroristi? Quelli dell'11
settembre erano entrati dal Canada. Per la
droga? Finché negli Usa ci sarà la domanda,
esisterà anche l'offerta, e la roba arriva
anche per aereo o per nave. Facciamo un muro
in mare e nel cielo?", si chiede, proponendo
invece di potenziare i controlli, con una
migliore tecnologia e più agenti.
Ma un
controllo completo è impossibile, anche dopo
un decennio in cui Washington ha già
investito tanto. Dal 1995 a oggi, il
bilancio della Border Patrol è aumentato di
dieci volte. Il numero di agenti passerà dai
5mila dell'epoca ai 21mila del 2010. Tratti
iper-tecnologici di virtual fence
sono stati progettati, e posticipati per
l'impennata dei costi. Certo, l'afflusso di
immigrati clandestini - molti dei quali,
comunque, rimangono semplicemente negli Usa
oltre la scadenza del visto - è diminuito. A
fine anni Novanta, specie più a ovest,
sembrava davvero un'invasione: nel 1999 la
contea di Cochise (Arizona), grande poco più
della provincia di Siena, effettuava 1.500
arresti di clandestini al giorno.
Oggi, nonostante i maggiori controlli e la
presenza del muro lungo centinaia di
chilometri, in un anno negli Usa vengono
comunque arrestati circa 800mila
clandestini, molti dei quali ci riprovano.
In un rapporto di due anni fa, la Border
Patrol sosteneva di avere il "controllo
operativo" su 449 miglia di confine, meno di
un quarto del totale.
Per
quanto riguarda la droga, basta dare
un'occhiata a quel che (non) succede a
Laredo. La città, quattro ore a nord-ovest
di Brownsville, è il punto d'inizio della
Interstate 35, l'autostrada che
taglia gli Stati Uniti in due, dal Messico
al Canada. Da qui passano il 40 percento
delle esportazioni messicane negli Usa:
circa 13mila camion al giorno, una costante
coda in direzione nord. E anche se i cani
poliziotto annusano qua e là, si può
controllare per bene un flusso di un camion
ogni sette secondi? Non a caso, si calcola
che l'85 percento della droga che entra
negli Usa passi sotto il naso dei doganieri.
Alcuni di loro, in combutta con i
narcotrafficanti, chiudono entrambi gli
occhi. Si fanno dire il numero di targa del
camion, l'ora di arrivo, e lo lasciano
passare. Ne hanno beccati diversi di agenti
corrotti, negli ultimi anni.
Il
confine, insomma, è una zona grigia. Un
posto di passaggio illegale per cose e
persone, dove la corruzione olia gli
ingranaggi del sistema. Chi la denuncia non
è ben accetto. Bill Wisner, un bibliotecario
delLaredo Community College (Lcu),
alcuni anni fa scrisse una lettera a un
giornale, per lamentarsi del malaffare
locale. "Mi tagliarono le gomme dell'auto.
Due volte", racconta. Con il vantaggio di
essere un gringo ormai a suo agio
tra due mondi, anche Keith Bowden è un
attento osservatore del confine. Un
professore di inglese alla Lcu con la
passione della canoa, l'anno scorso è sceso
lungo il Rio Grande per tutti i duemila
chilometri di confine, da El Paso fino alla
foce di Boca Chica. Ne è nato il libro
The Tecate Journals. Un pomeriggio
passato con lui sulla canoa, dalla periferia
al centro di Laredo, è istruttivo. Neanche
il tempo di parcheggiare vicino alla riva,
che arrivano due agenti della Border Patrol.
Non vedono spesso due bianchi sul Rio
Grande, ma capiscono presto che non c'è
niente di losco. Se ne vanno raccomandando
"attenzione, perché oggi ci sono alcune
activities sul fiume". Che ci sarà da
temere? "Niente, dicono sempre così", spiega
Bowden. Le "attività", comunque, ci sono
eccome. Tre ragazzi attraversano il Rio con
l'aiuto dei salvagente, dopo aver portato
dalla parte americana chissà quale carico,
grazie alla protezione dell'impenetrabile
barriera di canne sulla riva. Chissà se li
hanno visti le telecamere della Border
Patrol, montate su antenne alte decine di
metri; in giro, comunque, non si vedono
pattuglie. Gli agenti rispuntano quando
Bowden e il giornalista suo ospite ritornano
sulla terraferma, sotto il ponte pedonale
tra Laredo e la messicana Nuevo Laredo. Un
minuto dopo che se ne sono andati, dal fiume
escono di fretta tre donne, che corrono a
nascondersi dietro i cespugli.
Se delle
persone sono disposte a rischiare l'arresto
entrando da clandestine in pieno giorno,
sotto un ponte cittadino sorvegliato da
agenti e telecamere, figurarsi se non ci
provano nel disabitato deserto dell'Arizona,
anche mettendo in pericolo la loro vita. Ma
in fondo, una vita migliore è l'aspirazione
di chiunque lasci il suo Paese. Finché gli
Usa avranno bisogno di manovalanza a basso
costo, ci saranno sempre
latinos pronti alla fuga oltre
confine. "Il muro? Gli americani non faranno
in tempo a costruirlo, che i messicani
l'avranno già buttato giù", chiosa davanti a
due burritos José, un
messicano-americano negli Usa ormai da
cinquant'anni.
Il
recente calo degli arresti di clandestini,
come la diminuzione delle rimesse verso i
familiari, si spiegano anche con la crisi
economica negli Usa. Ma le differenze tra i
due mondi e i due popoli restano. Lungo la
frontiera, le radio in spagnolo passano
canzoni che parlano di amori e di sogni,
mentre quelle in inglese cantano i solidi
valori americani, Dio e la famiglia. Sono
diverse le due rive del Rio Grande, con
quella messicana magari piena di immondizie
ma almeno usata da delle persone, mentre la
parte Usa è vuota, come se dal fiume non
potesse venire nulla di buono. Sono diversi
i valichi: gli agenti messicani a stento ti
guardano, ma negli Usa un percorso obbligato
ti porta agli sportelli della dogana. Sono
diverse le città: in Messico pub, ristoranti
e prostitute si trovano già a pochi metri
dal confine, le vie sono piene di gente
anche alla sera; dalla parte americana, una
volta chiusi i negozi di frontiera, in giro
non c'è anima viva. Contando anche il fatto
che le le pueblas hermanas
messicane sono anche dieci volte più
popolose delle rispettive sister cities,
l'immagine è quella di un popolo che preme,
si espande, contro un altro che si ritrae. E
ha paura.
Negli
Usa, un Paese in fondo costruito da
immigrati, parlare di questa paura è tabù.
Chi chiede una frontiera più sicura incentra
il suo discorso sull'illegalità dei
clandestini, non sull'essere immigrati in
quanto tali. I politici percepiti come
razzisti perdono più voti di quanti ne
guadagnino. Ma sullo sfondo c'è
l'inquietudine di una nazione - come ha
fatto notare Samuel Huntington nel libro
La Nuova America - che per oltre
duecento anni ha assorbito i nuovi arrivati
in un modello linguistico-culturale
anglosassone. E che nei latinos
vede invece una forza crescente che non si
integra nel modello ma lo trasforma,
portandolo al bilinguismo. Il futuro,
d'altronde, è già nei numeri. Gli ispanici
hanno superato da qualche anno gli
afro-americani, diventando la prima
minoranza etnica negli Usa (sono oltre il 14
percento). Due mesi fa, un rapporto ha
indicato nel 2042 l'anno in cui i bianchi
non saranno più la maggioranza nel Paese.
Facendo
da cicerone a Eagle Pass dal suo enorme Suv,
il sindaco Chad Foster pronuncia la parola
proibita scuotendo la testa: "E' la paura
del browning of America", di un
Paese che da bianco si vede diventare
"marrone". Con una voce da pubblicità della
Marlboro e un cappello texano sempre con sé,
Foster è il leader della Texas Border
Coalition, il gruppo che riunisce le
amministrazioni locali contrarie al muro.
Racconta di aver imparato lo spagnolo "per
autodifesa" ma ormai è bilingue, e usa
parole spagnole come intercalare. "No
señor", dice riferendosi
all'intenzione-imposizione di Washington di
costruire il muro anche nella sua città,
tagliando in due un parco e un campo da
golf. Quando parla della puebla hermana
Piedras Negras ("è qui che sono nati i
nachos"), lo fa sempre al plurale.
"Dico 'noi' perché siamo una cosa sola",
spiega. Ma al di là dei nachos con quejo
- originali o no, buonissimi - di Piedras
Negras, gli americani continuano a guardare
il lessico con diffidenza. Keith Bowden, che
ha bagnato la sua canoa nei fiumi di mezza
America, ricorda bene l'aria più rilassata
al confine con il Canada. Incerto nel
trovarsi davanti una postazione vuota, e
abituato a procedure severe quando rema sul
Rio Grande, al ritorno dell'agente gli
chiese se volesse vedere il passaporto. "Per
fare canoa? Ma sei pazzo?", gli rispose
quello. Poco più avanti, Bowden si imbatté
in un gruppo di giovani che fumavano
marijuana sul fiume, attraversandolo
liberamente. "Non c'è una frontiera lì, è
come stare in mezzo al Kansas. Tutti i
discorsi sulla sicurezza qui non riguardano
il confine, ma con chi confiniamo", dice.
Certo,
nelle città canadesi al confine non ci sono
i cartelli della droga come a Ciudad Juarez
o Nuevo Laredo, dove la lotta al
narcotraffico lanciata dal presidente Felipe
Calderòn ha scatenato una guerra - solo
quest'anno a Juarez sono state uccise 800
persone, su un milione e mezzo di abitanti.
I trafficanti impongono ai tutori
dell'ordine la scelta tra
plata o plomo, una
bustarella per fare il loro gioco o un
proiettile di piombo se si oppongono. La
situazione sembra fuori controllo: "E' un
gran casino, amico", dice un
giovane messicano-americano di El Paso,
all'estremità occidentale del Texas, mentre
attraversa il ponte per Juarez in cerca di
una serata alcolica a basso prezzo. A cento
metri dalla frontiera, all'entrata di una
balera c'è il cartello "No menores, no
drogas, no armas". Le palme e le
libellule di Brownsville sono lontane.
Risalendo il confine, gli alberi sono
diventati cespugli, gli arbusti sono
diventati ciuffi di erba secca. E' un
paesaggio da Non è un paese per vecchi,
non a caso ambientato in queste zone.
Ancora
più in là, prima della California, ci sono
il New Mexico e l'Arizona. E la frontiera
cambia. Dal fiume al deserto. Dai
proprietari texani contro il muro, ai
terreni federali e alle basi militari. Da
ispanici che credono l'immigrazione sia
inevitabile, a ronde di bianchi che aiutano
la Border Patrol ad arrestare i clandestini.
Ma combattono una battaglia già persa, in un
Paese che cambia pelle. Lo capisci già
quando gli agenti alla dogana di Laredo
mostrano di sapere meglio lo spagnolo. E ne
hai la conferma quando ti devi fermare a un
posto di blocco nel vuoto del Texas
occidentale, dove puoi guidare per ore senza
incrociare una macchina. "Passaporto, per
favore... Italy, ok". Quali aghi cercano, in
questo pagliaio? Sembra impossibile che la
Border Patrol trovi davvero immigrati
clandestini, in uno di questi controlli.
Succede mai? "Ogni tanto", risponde con un
sorriso l'agente Gutierrez.
Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi,
circa settecentomila euro al giorno spesi
solo dalle Nazioni Unite. Ma tra i cittadini
della Sierra Leone non se ne è accorto
nessuno
L'unica
cosa che di internazionale ha
l'aeroporto di Freetown è un ridicolo
pulmino che trasporta i passeggeri nei
venti metri che separano l'aeromobile
dall'ingresso. Usciti dal minuscolo
aeroporto, non si viene avvolti dal
tipico caldo umido dei paesi
centrafricani. Di più: la Sierra Leone è
il paese dove piove di più al mondo.
Quattro metri d'acqua all'anno contro i
settanta centimetri italiani. Appena
fuori dall'aeroporto, una strada
sterrata e piena di voragini dovrebbe
portare i viaggiatori e i turisti in
città. Già, i turisti, perché stando ai
cartelloni che si vedono in ogni dove,
il turismo dovrebbe essere nelle
intenzioni del governo una delle
principali fonti di attrazione in questo
paese.
Dopo
pochi metri, Demba, l'autista del
pulmino, non si scompone più che tanto
per il fatto che il motore si sia spento
e non dia più segni di vita nel mezzo di
una pozza d'acqua gigante, rossa come la
terra della Sierra Leone, e parecchio
profonda. Sospira e sorride ai passanti
e ai ciclisti. Nel raggio di un
centinaio di metri, tanto permette lo
sguardo davanti e dietro, di automobili
ferme o mosse ma a spinta ce ne sono
altre quattro.
Sarebbe tutto normale, le strade a
pezzi, la mancanza di strutture, la
mancanza di servizi. In fondo siamo in
Africa, e per giunta in un paese
africano appena uscito da una guerra
devastante. Stanno lì a ricordarcelo in
quell'angolo di aeroporto, appena fuori
dov'è consentito fumare, i mutilati che
chiedono una dignitosa e per nulla
insistente carità che non può ripagare
braccia e gambe che hanno lasciato
all'assurdità di un conflitto durato
oltre dieci anni.
Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone
non fosse stata teatro, oltre che della
guerra, anche della più impegnativa
missione delle Nazioni Unite mai
concepita e realizzata nella storia.
Impegnativa, soprattutto dal punto di
vista economico. Quasi due miliardi di
euro dal 1999 ad oggi, circa
settecentomila euro al giorno spesi solo
dalle Nazioni Unite, senza contare
l'impegno dei singoli paesi, dall'Italia
agli Stati Uniti. E le migliaia di
Organizzazioni non governative, attirate
come api al miele del danaro. Con i loro
migliaia di progetti, uffici, logisti,
esperti e consulenti di questo e di
quello.
Oggi
di quelle Ong non ce ne sono quasi più.
Perché le Nazioni Unite hanno finito la
loro missione, e sono finiti i soldi
pubblici assegnati quasi senza
controlli. Un fiume di denaro mostruoso
che non ha lasciato alcuna traccia. Ma
questo non lo si riesce a vedere subito:
Freetown ci accoglie con
l'accompagnamento di un temporale
impressionante, che riduce la visibilità
a pochi centimetri. Ma qualcosa si
intuisce subito: la missione delle
Nazioni Unite, che tanto danaro è
costata, non ha lasciato nemmeno un
collegamento tra l'aeroporto e la città,
che dev'essere raggiunta in elicottero,
oppure con il servizio di hovercraft che
attraversano il golfo portando i nuovi
arrivati, finalmente, vicini al centro
città.
Freetown, in centro, assomiglia un poco
a New Orleans. Non a quella famosa per
il blues e le passegiate, ma a quella
post alluvione. Le strade sono tutte
disfatte, le case cadenti, la povertà
strutturale non lascia spazio nemmeno
alla fantasia di quei quasi due milioni
di abitanti costretti a vivere in una
città che, nonostante i settecentomila
euro spesi ogni giorno, ancora in gran
parte non ha nemmeno l'elettricità.
Mohammed ha venticinque anni. È lui il
Caronte che ci traghetta verso l'inferno
con cui gli abitanti di Freetown
convivono. "Dietro le colline che
circondano la capitale, a Bumbuna,
dovrebbe presto essere ultimata la
costruzione di una centrale elettrica
cominciata vent'anni fa. Dovrebbe
portare la luce a tutta la città - ci
spiega - ma solo durante e subito dopo
la stagione delle piogge, quando l'acqua
scorre potente. Da quel che dicono chi
l'ha progettata non ha tenuto conto del
fatto che per sei mesi all'anno non
piove. Non ci sono bacini di raccolta. E
dunque se non piove, niente luce". La
centrale intermittente è un'opera
imponente e ovviamente costosissima,
circa duemilacinquecento milioni di
euro, costruita dagli italiani.
Ma
non manca solo la luce, a Freetown manca
anche l'acqua. Nel paese in cui piove di
più al mondo, un milione e mezzo di
persone sono costrette a lavarsi e a
prendere l'acqua per far da mangiare nei
tanti fiumiciattoli che attraversano la
città. Ma non c'è disperazione, né
rabbia in questa miseria. E' al ritmo
del reggae e del calipso che le donne,
coperte di stoffe coloratissime e
sgargianti, e anche gli uomini vanno a
lavare i panni nei rivoli. Quelli più
fortunati, in collina, hanno l'acqua
pulita. Ma non ci sono fogne e
tantomento c'è chi raccoglie la
spazzatura. E a valle, dove vive la
maggior parte delle persone, verso un
mare che potrebbe essere invidiato nelle
più gettonate isole tropicali, i panni
vengono lavati e le pentole riempite in
mezzo al pattume, in quegli stessi
rivoli dove, qualche centinaio di metri
più su, altri hanno gettato gli avanzi
del cibo, l'immondizia di casa e anche
pulito le latrine. Per bere, i ricchi
usano le bibite e l'acqua minerale, che
costa più della cocacola. Gli altri,
comperano l'acqua dai venditori di
strada. Sono studenti, di solito, e
trasportano sulla testa, sgattaiolando
in un traffico di catorci perennemente
congestionato e clacsonante, grandi
cesti di sacchettini da circa mezzo
litro di acqua fresca che viene venduta
per pochi spiccioli.
Proprio vicino al mare c'è uno
"stabilimento" dove l'acqua viene
imbustata. Decine di donne con grandi
mastelli prendono l'acqua che a momenti
alterni sgorga dalle tubature
dell'acquedotto di Freetown e la
filtrano passandola da un mastello ad un
altro, ricoperto da un telo di stoffa
che raccoglie le impurità. Le donne sono
capitanate da Josef, il boss. "Faccio
questo mesiere da dieci anni - racconta
- e la mia acqua è pulita, la compro da
Guma (la società che gestisce
l'acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere
nei sacchetti. Però, anche durante la
stagione delle piogge, l'acqua manca
spesso" aggiunge sorridendo tra il
rassegnato e il furbo. "Ma da quando ci
sono state le elezioni l'acqua c'è
sempre, e così anche l'elettricità, dove
arriva. E riesco a fare più di
quattromila sacchetti al giorno".
Come
Josef, sono in molti a puntare sul
dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma,
il candidato che ha puntato tutto sulla
devastante corruzione del governo che lo
aveva preceduto. Per lui si era
schierata la società civile di Freetown,
a prescindere dai gruppi etnici a cui
apparteneva. "Quelli che c'erano prima
si sono rubati tutto, speriamo che
adesso le cose vadano meglio", conclude
Josef.
Vicino
a Waterloo street (tutte le strade di
Freetown portano nomi molto british)
scorre uno di questi "fiumi" cittadini.
Dalla collina scende ripido, a volte
allo scoperto a volte entro gigantesche
tubature di cemento. Mano a mano che
l'acqua si avvicina al mare, è sempre
più contaminata. Al punto che, dove ci
fermiamo noi, pochi mesi fa la
spazzatura ha creato una vera e propria
diga, che dopo qualche tempo ha ceduto
scaricando sulle poche case e sulle
molte baracche circostanti tutto il suo
peso. Adesso, intorno a noi stanno piano
piano ricostruendo, a colpi di cartone e
di qualche lamiera trovata in giro,
baracche dove vivere. Stride il
contrasto tra le divise dei bambini che
vanno e vengono da scuola, per ognuna
delle quali c'è un colore distintivo, e
lo sporco, il fango, l'odore di malattia
che si respira.
Proprio davanti a noi, una cascatella
dove gli abitanti della zona vengono a
far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda
lungo la main street di questa
improvvisata baraccopoli andando a
raccogliere le deiezioni dei suoi
abitanti e portando il tutto verso
l'oceano, verso altre e se possibile più
misere baracche. Al contrario di quel
che siamo abituati a vedere dalle nostre
parti, a Freetown più ci si avvicina al
mare e più si sprofonda nella miseria.
Ma è
una miseria strana, quasi felice. Spesso
a tempo di musica, certamente molto
colorata, disperante più che disperata.
Colorata come sono i container che fanno
da bar vendendo sacchetti di acqua e
bibite calde, come i vestiti di donne
uomini e bambini, come i sorrisi che ti
accolgono ovunque. Sotto la cascatella,
un gruppo di ragazzini gioca nel
rigagnolo. Ogni tanto, quando
necessario, uno di loro si sottrae al
gioco di chi riesce a saltar l'acqua
senza bagnarsi e in un cantuccio si
mette a far pipì. Che andrà, insieme a
qualche cacca, a valle. Una donna ci
raggiunge e ci racconta di quando la sua
casa è stata spazzata via dalla furia
dell'acqua. "Nessuno ci aiuta. Nessuno
si occupa di noi. Nessuno si preoccupa
del fatto che qui potrebbe essere una
strage, se succede un'altra volta che la
pattumiera formi una diga". Poco dopo
arriva anche un ragazzo. "Sono il
responsabile, qui, sono il capo. Che
volete? Che ci fate? Non si possono fare
fotografie". Ci vuole tutta la pazienza
e la calma di Mohamed, per spiegare al
gruppo di ragazzi che ci circonda che
non siamo nemici. E che non siamo, come
dice lui, "come quelli che negli anni
passati venivano, promettevano tutto,
facevano un sacco di domande, e poi
sparivano". "Quelli" erano quelli delle
Ong. Venivano, studiavano, costruivano
sulla carta i progetti, se li facevano
finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi
e le sere sulla strada che costeggia la
bellissima spiaggia di Freetown, ricca,
fino a che sono state qui le Nazioni
Unite, di ristoranti, night club, bar
gestiti perlopiù da libanesi, e
frequentati da puttane. Noi vogliamo
solo raccontare, spieghiamo. Sperando
che qualcuno legga e veda, e magari
possa fare qualche cosa per loro. O per
tutti gli altri che, come loro, sono
stati presi in giro dagli "aiuti
umanitari" delle grandi agenzie e delle
Ong miliardarie. Ma capiamo in fretta
che è meglio andarsene.
In
riva al mare, dove un tempo c'era il
porto dei pescatori della capitale nella
zona della Kroo bay c'è una immensa
baraccopoli. Arrivandoci, si viene
avvolti da mille profumi: banane mature,
pastella fritta, pesce cucinato su
improvvisate griglie o fritto, ma anche
da mille puzze. Sopra le quali spicca
l'odore di Escherichia coli, un batterio
che, insieme a quello della salmonella e
al vibrione del colera, da queste parti
non se la deve passar male. Le baracche
sono strettissime l'una all'altra. Salvo
nella piazza centrale, dove centinaia di
ragazzi si trovano per giocare e fare
musica. Mentre si disputano il pallone,
il calcio è il gioco nazionale della
Sierra Leone, il tramonto disegna i loro
muscoli rendendo ancor più inverosimile
il contrasto tra il misero e scarso cibo
di cui si nutrono, la sporcizia
contaminante che da tutta la città cola
verso la loro bidonville e i loro fisici
da atleti e da modelle. Tra le baracche,
proprio sopra un rigagnolo di fogna a
cielo aperto, ne salta agli occhi una
che per parete ha un ex sacco di riso
arrivato come aiuto umanitario dall'Iraq
post-Saddam. Poco più avanti, c'è la
casa del dottore. È un medico
tradizionale, Murah, e per arrivarci
bisogna superare la diffidenza degli
abitanti del quartiere e dei suoi
collaboratori. Probabilmente siamo i
primi bianchi, whiteman, ad essersi
spinti fino a casa sua. Prima di essere
ricevuti, facciamo in tempo a
raggiungere la riva del mare. Andandoci,
ci si accorge che gradualmente la terra
su cui camminiamo si trasforma in
spazzatura: una enorme discarica a cielo
aperto per giunta contaminata dai
percolati delle fogne e delle discariche
che stanno più a monte: la fogna della
fogna. Dei maiali si bagnano nell'acqua
salmastra e salmonellosa che, solo un
centinaio di metri più al largo riesce
ancora a sembrare mare. Ma il movimento
che si nota non è quello dei maiali, che
non portano magliette colorate: sono gli
abitanti di Kroo Bay che vengono fin qui
a cercare qualcosa di ancora
utilizzabile o vendibile in mezzo al
liquame.
Nell'oscurità della sua baracca, in una
stanzetta di due metri per due senza
finestre e con le porte chiuse, Murah ci
mostra con orgoglio i suoi diplomi,
rilasciati da diversi ministeri della
Sierra Leone e della Liberia. Dietro di
lui, una raccolta di audiocassette,
stereo portatile e vari strumenti da
"stregone": pezzi di corno, frammenti di
ossa, sacchetti di cuoio dall'aria
antica. Tutti da queste parti ricorrono
alle sue cure, fatte di erbe, cortecce e
infusi vari. Ma soprattutto fatte di
saggi consigli, come bollire l'acqua
prima di usarla per qualsiasi cosa abbia
a che fare col corpo e allontanarsi
dalle "case" per fare pipì. Tutti
ricorrono alle sue cure soprattutto
perché in questo paese nessuno può
curarsi in ospedale dove tutto è a
pagamento, dall'ingresso alle medicine,
che devono essere portate da fuori. "Le
malattie più diffuse - spiega Murah -
sono quelle legate all'intestino e allo
stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma
anche la malaria è un problema". Le
statistiche dicono che quasi trecento
bambini su mille non arrivano a compiere
cinque anni. Ma il sospetto, girando per
la capitale e per la Sierra Leone, è che
le statistiche siano davvero impossibili
da fare, e l'entità del problema sia
decisamente maggiore. "Molta gente muore
per le cose più stupide - dice ancora il
dottore - e le erbe che raccogliamo in
questa zona non sono più efficaci per le
cure. Quando ci sono emergenze
importanti, mando i pazienti negli
ospedali. Ma solo per entrare in
ospedale ci vogliono quindicimila
leoni". Sono tre euro o poco più, ma il
guadagno medio delle famiglie non supera
i tre-quattromila leoni al giorno. Viene
spontaneo chiedersi perché gli abitanti
della Sierra Leone debbano pagare per
essere curati, soprattutto dopo essere
passati dall'ospedale di Emergency, poco
distante dalla capitale, un gioiellino
di efficacia ed efficenza del tutto
gratuito. Anche perché gli ospedali e le
strutture sanitarie sono state pagate
con i soldi delle Nazioni Unite. La
spiegazione ce la fornisce Ibrahim
Korona, studente e tassista: "È la
politica della Banca Mondiale, che
prevede l'autosostentamento delle
strutture. Ma come si può pensare che un
ospedale possa autosostenersi? Il
diritto alla salute non è uno dei
diritti fondamentali dell'uomo?".
Luca Galassi
Reportage sui nuovi skinhead russi
Mosca, 20 febbraio. Provo ad
aprire la mano per stringere
la sua, ma non faccio in
tempo. Un breve contatto e
le sue dita aperte scorrono
sotto il mio avambraccio per
chiudersi quasi all’altezza
del gomito. D’istinto, anche
le mie premono sul suo
gomito, e il gesto è quasi
simultaneo. Metropolitana
Tretiakovskaya, cuore di
Mosca, sette di sera. Come
Sergei, anche gli altri
adolescenti, giunti con
qualche minuto di ritardo
all’appuntamento stabilito,
si presentano a me con lo
stesso rituale saluto, in un
reciproco impugnarsi
l’avambraccio. Hanno il
cranio rasato e
l’abbigliamento conforme ai
dettami della loro
sub-cultura: pantaloni con i
risvolti in fondo, a
mostrare gli anfibi lucidi,
fibbie con svastiche e croci
celtiche, tatuaggi, catenine
di metallo che escono dalle
tasche, piercing. Sono i
giovani esemplari della
nuova generazione russa di
skinhead.
Delitti razziali. ‘Paièhali’,
fa Sergei. ‘Andiamo’, e ci
mettiamo in marcia verso il
luogo dell’‘incontro’. Un
luogo che fino ad ora mi è
stato tenuto segreto. Mentre
seguo i loro passi sulla
neve fresca non posso che
pensare al mio volto. Per
tentare di dissimulare le
mie chiare origini
caucasiche ho provato a
radermi. Ma so che non
basterà certo questo a
mettermi al riparo da
qualche sguardo sospettoso,
se non da eventuali,
spiacevoli sorprese. Nel
solo mese di gennaio,
secondo i dati
dell’organizzazione di
monitoraggio indipendente ‘Sova’,
i delitti a sfondo razziale
in Russia sono stati
tredici. Metà sono stati
commessi a Mosca. Si
ammazzano i ceceni, gli
azeri, i kazaki, i tagiki,
gli armeni, i georgiani. Si
ammazzano i caucasici,
appunto. I ‘culi neri’, come
qui li chiamano quelli che
li disprezzano. Li ammazzano
gli skinhead.
Appunto.
Revival slavo. La sorpresa,
a prima vista, è invece
piacevole: un palazzo
ottocentesco ben curato e
illuminato, di colore giallo
ocra, con gli stucchi
bianchi e i tendoni
amaranto. La scritta rossa
sul cancello recita:
‘Fondazione per la
conservazione della cultura
slava’. E’ uno degli
istituti – mi viene detto –
più onorati e finanziati del
Paese. Specie da quando i
russi, riavutisi dal
collasso economico, dallo
smarrimento sociale e dal
trauma psicologico seguito
alla dissoluzione
dell’impero, si sono
riscoperti russi. L’ascesa
al potere di Putin si è
accompagnata a una nuova
ondata di nazionalismo, e la
retorica anti-occidentale
dell’ex presidente ha
alimentato una frenetica
riscoperta dei simboli,
delle istituzioni e della
cultura slava. In questo
rinascimento identitario è
stata la chiesa ortodossa a
farsi veicolo della
coscienza e dell’orgoglio
nazionale. Infatti: dopo che
il guardarobiere
all’ingresso, incurante
della provenienza e
dell’abbigliamento degli
ospiti, ha raccolto i
giubbotti, vengo introdotto
in un’ampio salone e
presentato a un pope,
un prete ortodosso. Gli otto
ragazzi e le quattro ragazze
skinhead si siedono
attorno a un enorme tavolo
circolare.
La fede che purifica. Padre
Pavel, occhi azzurri e barba
folta, lunga fino al petto,
comincia così il suo
informale sermone:
“Preparatevi a difendere la
vostra madrepatria”. La
predica abbonda di metafore,
riferimenti storici,
richiami al mito. Come un
maestro di scuola media con
i propri allievi, dopo
l’esposizione di ogni
concetto, il religioso fa
una pausa per verificare la
loro attenzione. Li scruta,
uno ad uno, mentre procede
nell’opera di
indottrinamento. “Bisogna
pregare, perché è nella fede
che si trova l’antidoto al
male. La fede può salvarvi
da ogni peccato”. Qualcuno
sghignazza, altri si
lanciano occhiate complici.
I più attenti hanno lo
sguardo sostenuto, le
braccia conserte e i
tatuaggi in bella vista.
“Solo con la preghiera
l’animo si può purificare”.
Pone anche domande, padre
Pavel: “Perché bisogna
difendere la nostra
madrepatria?”. “Per evitare
le invasioni, le aggressioni
che minacciano il Paese”,
gli viene risposto. “Durante
il periodo imperiale –
continua il sacerdote – il
crimine più grave era quello
contro la fede ortodossa.
Sappiate che anche oggi il
nostro Paese sta subendo
un’occupazione. Anche oggi
la fede e la nazione sono
minacciate. E poiché la fede
è lo spirito della nazione,
può essere necessario
difenderla anche con la
spada. Ma se non potete
combattere contro il male,
almeno non dovrete prendervi
parte”.
Ebrei e musulmani. Le
allegorie a volte lasciano
il posto ad allusioni ben
precise, e il ‘male’ prende
progressivamente forma,
incarnandosi non più in un
generico nemico esterno, ma
in qualcosa dalla fisionomia
ben più concreta: “Guardate
i musulmani cos’hanno fatto
ai nostri fratelli,
prigionieri in Afghanistan e
in Cecenia. Come si può
torturare e uccidere in nome
di Dio? Le moschee stanno
spuntando come funghi in
Russia. Se non combattiamo
questa pericolosa tendenza,
un giorno ci sveglieremo e
la Russia sarà musulmana”.
Poi, nuovamente, un appello
alla fede e alla preghiera:
“Solo con l’aiuto della fede
ci si può salvare. Le
preghiere purificano e
difendono l’uomo in
battaglia. Conoscete la
storia di quel soldato russo
che, nella Seconda guerra
mondiale, pregò tutta la
notte e il giorno successivo
riuscì a uccidere in
battaglia diciannove
tedeschi, e senza sprecare
un proiettile?”.
La difesa della patria.
“Padre, ma allora uccidere è
o no peccato?”. “Poiché la
vita non è perfetta – dice
il pope, evitando
sempre di rispondere
direttamente alla domanda –
a volte bisogna impugnare la
spada e punire. Ricordate
però che il miglior modo per
difendere la nostra terra
dai colonizzatori è quella
di purificare le loro anime
con la fede”. “Padre – fa
uno – abbiamo diritto
all’estremismo in casa
nostra?”. “Dato che non è
possibile cacciare
definitivamente gli
scarafaggi di casa – senza
ovviamente citare chi siano
gli scarafaggi – allora è
necessario tenere pulita la
casa. Ricordate anche – a
degna conclusione del
ragionamento – che
l’ebraismo è come il
satanismo. La sopravvivenza
della madrepatria dipende da
voi”. Qualche secondo di
pausa e, prima che il
discorso termini, estraggo
la macchina fotografica
dallo zaino. Improvvisamente
i ragazzi si agitano. Alcuni
si coprono il volto, altri
mi fanno cenno di ‘no’ con
la mano. Il padre continua
imperturbabile a parlare,
mentre mi allontano per
evitare primi piani
indesiderati. Riesco a
cogliere solo alcune
immagini d’insieme.
Wehrmacht originale. Padre
Pavel ha finito. Uno dei
ragazzi, arrivato nel salone
quando l’incontro era già
iniziato da un pezzo, mi si
avvicina: ‘Giurnalist?’. ‘Sì’,
faccio io. In un gesto di
spavalda vanteria si alza la
felpa e mi mostra un
tatuaggio con la bandiera
russa, sotto la quale c’è
scritto ‘russo’ come un
marchio di fabbrica. La
fibbia della cintura è
originale, dice, apparteneva
a un ufficiale della
Wehrmacht, l’esercito
nazista. A ruota, anche gli
altri scoprono il petto, le
braccia, i polpacci per
mostrarmi i loro tatuaggi.
Una ragazza ha la fibbia con
la croce celtica, un’altra
una svastica con decorazioni
tribali sulla gamba. Quello
che si è scoperto per primo
si chiama Igor, ha 28 anni
ed è il capo dei giovani di
Slavianskiy Soyuz
(Unione slava),
l’organizzazione neo-nazista
che mi ha fornito il
contatto con Sergei e
consentito di partecipare
all’incontro con padre Pavel.
“Sarò uno skinhead
fino alla morte”, esclama
Igor, con la voce rauca.
“Sono membro
dell’organizzazione da un
anno circa. Cercavo un
movimento che fosse in grado
di arrestare il declino del
nostro Paese. E l’ho trovato
in Slavianskiy Soyuz”.
Supremazia ariana. Prendete
parte a pestaggi e omicidi
di stranieri? “Io
personalmente non mi batto
più in strada. Ma se vedo
uno straniero che si
comporta male verso un
cittadino russo, allora
certo che difendo il mio
connazionale”. Saprò più
tardi che il suo
predecessore è stato
condannato a dodici anni per
omicidio. Sergei, invece, di
anni ne ha 21. Sa come
imporre il suo credo, basato
su rispetto e onore: “Quando
mi trovo in strada, se uno
non ci sente a parole, uso
le mani. Io, quando un
ceceno o un daghestano dice
a una nostra donna ‘Vieni
qui, bella figa’, mi sento
personalmente insultato.
Così come mi offende vedere
una nostra donna che esce
con un caucasico, quelli
pieni di soldi, coi
macchinoni. Quelli
arroganti. Non considero
russi i loro bambini. Noi
facciamo quello che la
polizia non fa”. “Siamo per
la razza ariana”, lo
interrompe uno, a cui fa eco
una ragazza poco più che
maggiorenne: “Siamo per la
supremazia dei bianchi”. Lo
dice con un sorriso,
spalleggiata dagli altri,
che si mettono in posa per
una foto con il braccio
alzato. Sorridono tutti,
mentre fanno il saluto
fascista. Come se fosse un
gioco. Quale sarà la
reazione di questi
adolescenti alle parole di
padre Pavel? Cosa faranno
una volta che si troveranno
davanti il ‘male’?
L'ideologo. Sono venuto qui
per avere un’idea di chi
fossero i militanti
skinhead di
Slavianskiy Soyuz, due
parole le cui iniziali
formano un inquietante
accostamento. Mi ci ha
mandato il capo del
movimento in persona: giorni
prima aveva accettato
un’intervista dopo che, sul
suo sito, avevo trovato il
suo numero di cellulare. Si
chiama Dimitry Demushkin, e
non immaginavo sarebbe stato
tanto facile contattarlo.
L’idea che mi ero fatto era
di un soggetto che agisce in
totale clandestinità,
ricercato dalla polizia e
perseguitato dalla legge, in
quanto leader di
un’organizzazione che esalta
la superiorità bianca e
incita al razzismo. E che,
per di più, ha visto un
centinaio di suoi membri
incarcerati, 40 dei quali
nella sola Mosca, perché
accusati di svariati omicidi
a sfondo etnico. “Rigettiamo
categoricamente ogni
accusa”, ha esordito quando
ci ha accolto nel suo
ufficio, in un caseggiato
anonimo fuori della metro
Kolomenskaya, poco più a sud
del centro. Il locale è
disadorno, due scrivanie da
un lato, alcuni scatoloni,
pacchi e depliant sparsi qua
e là, un mobile-libreria in
legno nero sul quale
troneggia una collezione di
icone ortodosse. Per rendere
l’ambiente più idoneo
all’occasione, un
collaboratore di Demushkin
tira fuori una bandiera
rossa con la scritta
Slavianskiy Soyuz e
l’appende al muro.
Nazionalsocialismo russo. Il
leader di Ss non
guarda mai negli occhi
quando risponde alle
domande. E’ uno skinhead
anche lei? “Lo sono stato.
Ho fondato io il primo
gruppo organizzato di
skinhead russi, il
Beye Bulldogi (Bulldog
Bianchi), agli inizi degli
anni ’90”. Cosa vuol dire
essere skinhead?
“Partecipare a una
sottocultura di protesta
giovanile che si sta
sviluppando in una forma
molto attiva”. Come è nato
il suo movimento? “Da una
scheggia di Unità
Nazionale Russa
(partito e formazione
paramilitare di estrema
destra al bando, ndr)”.
Ci spiega in cosa consiste,
qual è la sua ideologia,
quanti membri ha? “Non è
possibile fare stime
precise. Anche se i membri
attivi non sono molti, la
nostra capacità di influenza
è abbastanza estesa, anche
tra soggetti eterogenei. Un
gruppo musicale che si
chiama Zyklon B,
per esempio, ha un fan club
di circa un centinaio di
persone. Non sono membri, ma
‘simpatizzano’ per noi. Un
altro gruppo di
simpatizzanti di Ss
è costituita dai capi delle
bande di bikers
(motociclisti, ndr).
In Russia, Ss è il
gruppo nazionalsocialista
più influente. Alcuni membri
del governo e del parlamento
condividono la nostra
ideologia, così come
sportivi, scienziati,
intellettuali. Dal '99 la
nostra posizione è rimasta
intransigente, rigorosa, dal
punto di vista ideologico.
Siamo per la tutela della
lingua, della cultura e
dell’unità del popolo slavo.
Siamo una formazione
nazional-socialista, che ha
profondi legami con la
religione ortodossa. La
finalità della nostra
organizzazione è la
propaganda, con tutti i
mezzi possibili”. Quanti
siete? “Circa cinquemila”.
Quaranta dei quali sono
finiti in carcere. “Quelli
finiti in carcere hanno
agito per conto proprio. Noi
rigettiamo categoricamente
ogni accusa”. Per cosa sono
stati condannati? “Per
estremismo, percosse,
incitamento all'odio etnico,
omicidio, terrorismo e
altro”. Quindi lei non si
sente responsabile della
campagna di odio, dei
pestaggi e degli omicidi
commessi dagli estremisti di
Ss in questi anni?
“No, assolutamente. Chi ha
commesso questi delitti ha
agito non in nome
dell'organizzazione, ma
stravolgendo il suo credo
ideologico. Quando non
possono condannare
l'organizzazione, cercano di
condannare i singoli
membri.”. Che lavoro fa? “Un
po’ di tutto. Organizzo
concerti, festival, corse
motociclistiche, eventi
sportivi. Adesso stiamo
preparando il campionato
mondiale di lotta senza
regole. Mi interessa il
mondo informale, quello che
succede nelle strade. Mi
interssa la cultura
alternativa”.
La denuncia della
Politkovskaya. Mi congedo
con una stretta di mano
neutra, che nulla ha a che
fare con il saluto dei
giovani skinhead
che avrei ‘imparato’ qualche
giorno dopo. In apparenza,
quest’uomo potrebbe essere
un banale impiegato, che
lavora in un ufficio banale
e fa un lavoro banale.
Eppure, sul suo sito,
www.demushkin.com,
fino allo scorso anno
comparivano svastiche, link
a siti di skinhead,
braccia levate nel saluto
romano, e un
manuale dal titolo
'Nazional-socialismo
mistico: 1488 parole'. L’88
è il saluto nazista (Heil
Hitler, essendo la ‘H’
l’ottava lettera
dell’alfabeto), le 14 parole
sono: “Noi dobbiamo
assicurare l’esistenza del
nostro popolo e il futuro
per i bambini bianchi”. Lo
stesso Demushkin fu
arrestato nel 2006 in
relazione a un attentato a
una moschea, dove una bomba
esplose senza provocare
vittime. La sua casa fu
perquisita e alcune bandiere
di Ss sequestrate.
Il 20 agosto 2004,
l’organizzazione
antifascista ‘Movimento
giovanile per i diritti
umani’ ricevette una lettera
che minacciava una “notte
dei lunghi coltelli” per
“Yurov e Alekseeva”, che
sarebbero stati “i prossimi
dopo Girenko”. In allegato,
la foto di un cecchino.
Andrey Yurov era all’epoca
il presidente del Movimento
giovanile per i diritti
umani, Ludmila Alekseeva la
direttrice del Moscow
Helsinki Group, istituzione
nata per opporsi al
neo-nazismo. Nikolay Girenko,
un consulente antifascista
le cui perizie servirono a
incarcerare diversi
skinhead, fu
assassinato il 19 giugno
2004. L’autore della
lettera, secondo il sito
d’informazione russo ‘MosNews’,
era proprio Dimitry
Demushkin. “Slavianskiy
Soyuz – la cui sigla in
russo è Ss –
divulgava sul suo sito che
l’omicidio era preparato da
tempo. Appariva un giovane
vestito con l’uniforme delle
guardie d’assalto
nazionaliste, pistola alla
mano e, sotto, la frase: 'In
Memoriam, Girenko'. I siti
non sono stati chiusi. I
loro proprietari e
moderatori non sono stati
incriminati”. Così scriveva
Anna Politkovskaya, nel suo
Diario russo, il 19
giugno 2004.
Zyklon B. In Russia molte
aggressioni a sfondo
razziale non vengono
denunciate per paura. La
risposta delle autorità è
stata in passato assai
debole, se non del tutto
inefficace, perché la
giustizia penale russa
solitamente classifica tali
episodi come come ‘atti di
vandalismo’, invece di far
riferimento all’articolo 282
del Codice penale, che li
qualifica espressamente come
‘delitti razziali’. Per
qualche oscura associazione
mentale, ripensando
all'intervista a Demushkin
torna alla memoria il nome
del gruppo musicale da lui
citato, ‘Zyklon B’. Solo ora
ricordo perché il nome mi
era in qualche modo
familiare. Solo ora che mi
appare davanti agli occhi
una stanza delle baracche di
Auschwitz, quella adibita a
museo. In un angolo, accanto
alle matasse dei capelli,
alle scarpe, ai vestiti
degli scomparsi, c’era una
catasta di barattoli vuoti.
Contenevano il gas letale
che uccise milioni di
persone. Su ciascuno, la
stessa scritta: ‘Zyklon B’.
23 dicembre
I due conti di Brunetta sulle
donne
Elisabetta Segre
La pensione "anticipata" discrimina
le donne, dice il ministro. Ma oggi per le lavoratrici
non è obbligatorio ritirarsi a 60
anni. Mentre poche godono della pensione di anzianità
Che sulla questione
dell'equiparazione dell'età pensionabile tra uomini e donne Brunetta abbia
ragione? Nella sua
intervista su
Repubblica
del 15 dicembre sosteneva a gran
voce la necessità di intervenire per migliorare le
condizioni della donna lavoratrice
«schiacciata, da una parte, da un lavoro nel quale non può fare
carriera e guadagna meno degli
uomini e, dall'altra, dalle cure familiari:ci sono troppe poche
risorse per gli asili e
discriminazioni nei confronti delle donne che fanno figli. Per forza che
abbiamo il tasso di natalità tra i
più bassi del mondo! Le donne sono discriminate nella loro
carriera professionale: nelle
posizioni apicali o non ci sono o sono troppo poche». Un ministro
femminista verrebbe da dire. Un
ministro che ha ben chiari i problemi delle donne che
partecipano o che vorrebbero
partecipare al mercato del lavoro e che sa quanto sia importante
costruire un sistema di welfare in
grado di sostenerle e quando necessario incentivarle,
eliminando tutte le discriminazioni
di trattamento di cui sono vittime. La differenza dell'età
pensionabile, che costringerebbe le
donne ad andare in pensione prima impedendo loro di fare
carriera e di ottenere un
trattamento pensionistico più generoso, è un tassello di questo disegno
discriminatorio, dice il Ministro,
da cui partire per migliorare la condizione lavorativa di milioni di
donne anche sotto la spinta della
sentenza della Corte di Giustizia Europea.
Ci sono moltissime osservazioni, e
le vedremo brevemente più avanti, che possono essere fatte
e che sono state fatte a questa
posizione. Il fatto
strabiliante e preoccupante allo stesso tempo è che nessuno ha risposto
evidenziando l'unica cosa
veramente pertinente. Sarebbe legittimo etichettare come discriminatoria la
differenza di età pensionabile, solo
se 60 anni fosse l'età di pensionamento obbligatorio. 60 anni
è, però, l'età minima richiesta alle
donne per poter ricevere la pensione di vecchiaia, la donna
però non è assolutamente costretta
ad andare in pensione a 60 anni. Se vuole può rimanere,
anche senza il consenso del datore
di lavoro, fino ai 65 anni. Solo dopo i 65, per le donne così
come per gli uomini, per continuare
a lavorare è necessario disporre del consenso del datore, che
ha eventualmente il diritto di
allontanare il lavoratore senza giusta causa. Questo significa che,
data la legislazione vigente,
affermare che l'età pensionabile differenziata tra uomini e donne sia
discriminatoria non è altro che una
forzatura. Anzi, questa differenziazione, alla luce dello stato
attuale del mercato del lavoro
italiano, ha una sua ratio perequativa. La maggior parte degli
uomini, infatti, iniziando a
lavorare da più giovani, facendo carriera più rapidamente e
guadagnando di più, di fatto
lasciano il mercato del lavoro con la pensione di anzianità prima dei
60 anni. Le donne, che guadagnano
meno e iniziano a lavorare più tardi, difficilmente a 60 anni
soddisfano tali requisiti ed infatti
solo il 17% di esse esce dal mercato del lavoro con la pensione
di anzianità, mentre il restante va
come gli uomini in pensione prima dei 60 anni ma con la
pensione di vecchiaia. Solo
una volta che sia stata fatta chiarezza su questo punto cruciale ha senso far
emergere tutte
le contraddizioni insite nella
posizione del ministro, come è stato fatto dalle diverse voci che
hanno preso parte al dibattito.
Se il ministro ed il suo governo
avessero realmente a cuore la condizione delle donne sul
mercato del lavoro e non solo
questioni di cassa, i recenti provvedimenti di politica economica
sarebbero stati costellati di tutta
una serie di misure, richiamate più volte dallo stesso ministro
come strettamente necessarie, per
facilitare la conciliazione fra lavoro, compiti di cura (che non
riguardano solo i figli ma anche
disabili e anziani) e carriera ed incentivare così l'occupazione
femminile (nel nostro paese tra le
più basse d'Europa). E non parliamo solo degli asili nido, ma
del sostegno alla maternità, che può
avere molteplici forme, e più in generale dei servizi alle
famiglie.
Non solo di queste misure non se n'è
vista nemmeno l'ombra, ma in questi mesi il governo si
direbbe che si sia prodigato per
smantellare sistematicamente, e con la complicità
dell'indifferenza generale, i
piccoli passi avanti fatti in questi anni. É stata abrogata una legge
molto semplice e giusta che impediva
il fenomeno delle dimissioni firmate in bianco al momento
dell'assunzione e utilizzate dal
datore di lavoro per allontanare la lavoratrice qualora fosse
rimasta incinta. Non è stato
finanziato il Piano contro la violenza sulle donne. Sono stati tagliati
pesantemente i servizi sociali
erogati a livello locale che sono quelli che maggiormente
contribuiscono ad alleviare i
compiti di cura a carico delle donne. É stata introdotta, con il
detassamento degli straordinari,
un'ulteriore discriminazione della posizione della donna sul
mercato del lavoro. E questo solo
per citare gli esempi più eclatanti, per un'analisi dettagliata si
rimanda a
"La manovra finanziaria e
le donne". Infine,
anche qualora si ritenesse, erroneamente, la differenza di età pensionabile un
elemento discriminatorio, e
si avesse realmente a cuore l'equità di trattamento tra uomini e donne non si
potrebbe realmente pensare che un
provvedimento che interessa una piccolissima fascia delle
donne (solo il 23% delle donne
italiane tra i 55 e i 64 anni lavora, fonte Eurostat LFS 2007),
riesca a dare una sferzata ad una
situazione ormai incancrenita. Ci si occuperebbe di favorire
l'ingresso delle donne giovani nel
mercato del lavoro, di assicurare loro un trattamento
economico adeguato, e si
appresterebbe un sistema contributivo in grado di garantire loro una
pensione decente (cogliamo
l'occasione per ricordare che ai precari, la cui probabilità di
rimanere precari è man mano che
passano gli anni sempre più alta, i discorsi sulle pensioni fanno
sorridere).
Un'ultima cosa, Brunetta afferma di
«aver fatto due conti» (cito testualmente) dai quali
emergerebbe che, incentrando il
sistema di welfare sul lavoro piuttosto che sulle pensioni si
potrebbero «creare 2,5 milioni di
posti di lavoro». Da semplice dottoranda non sono in grado, a
differenza del Professore, di fare
questi due conti.
Però, limitando il ragionamento alla sola età pensionabile, se il suo
innalzamento avesse, come si
augura il ministro, l'effetto di aumentare il tasso di attività delle donne, a
parità di posti di lavoro
presenti sul mercato, a me verrebbe banalmente da affermare che ad
aumentare sarebbe solo il tasso
disoccupazione.
18 dicembre
BRASILE
«Noi braccianti senza terra
orfani del compagno Lula»
Il più grande movimento sociale brasiliano non
si riconosce più nel primo presidente di sinistra e nel Pt, suo partito di
riferimento. Ma non parla di «tradimento»: rapporti «tesi però fraterni»
Intervista a Neuri Rossetto, della segreteria nazionale dell'Mst. Che reclama
per gli impegni non mantenuti sulla riforma agraria
Lula, il primo presidente di sinistra nella storia
del Brasile? Non ha tenuto fede agli impegni sulla riforma agraria e neanche
sulla protezione ambientale dell'Amazzonia, non è più «il nostro presidente»,
con lui i rapporti dei Senza terra sono «tesi però fraterni». Dilma Rousseff, la
super-ministra che Lula ha incoronato come la sua candidata a succedergli nel
2010? Con l'ex-guerrigliera sarà/sarebbe «anche peggio» perché ormai «è
l'equivalente di José Serra», il governatore di San Paolo (formalmente
social-democratico, sostanzialmente di destra) che nel 2003 contese la
presidenza a Lula e la contenderà a Dilma fra un paio d'anni. Il Partido dos
trabalhadores, il partito della sinistra non-dogmatica nato dal movimento
cattolico-progressista e dal movimento sindacale nell'80? Noi, comed Movimento
dei Senza terra «siamo orfani di uno strumento politico». La chiesa cattolica
brasiliana un tempo famosa per il suo progressismo politico, sociale e anche
teologico? Non c'è più, i vecchi pastori sono morti o andati in pensione e i
nuovi non sono più la stessa cosa, la politica conservatrice di Wojtyla e
Ratzinger «ha avuto successo». I «bio-combustibili» - l'etanolo - che i Sem
terra chiamano più propriamente «agro-combustibili» e altri più crudamente «necro-combustibili»?
E' una questione di modello, ossia di visione della vita, ancor prima che di
benzina (ancorché «verde») contro alimenti: «il modello dell'agro-business
contrapposto al modello agro-familiare».
I giudizi di Neuri Rossetto, uno dei leader dell'Mst, il Movimento dos
trabalhadores rurais sem terra, il più grande, organizzato, radicale e cosciente
dei movimenti sociali dell'America latina, sono netti e senza concessioni al
politically correct (politichese), ma altrettanto articolati.
E' vero che le speranze poste in Lula da Silva dai milioni e milioni di
braccianti senza terra molti dei quali in quell'indimenticabile primo gennaio
del 2003 erano fra le centinaia di migliaia di popolo che si riversarono sulla
Esplanada dos ministerios di Brasilia per presenziare - e partecipare -
all'insediamento nel palazzo di Planalto dell'ex-migrante
nordestino-ex-metalmeccanico-ex-sindacalista, sono andate in buona (o grande)
misura deluse. Nonostante che Lula sia sia dimostrato complessivamente un
eccellente (o un grande) presidente. Contro gufi e corvi delle élite vecchie e
nuove che preconizzavano l'inevitabile fallimento del «brutto rospo barbuto»
chiamato a un compito troppo impegnativo per uno senza uno straccio di laurea,
senza un dito lasciato sotto la pressa di una fabbrica paulista (ciò che nei
party e nei summit non fa una buona impressione) e senza una parola d'inglese
nel suo bagaglio culturale.
Però.
Però, detto quello che c'è da dire, Rossetto e i suoi compagni, nonostante le
delusioni sanno benissimo che Lula è diverso da tutti gli altri 34 presidenti
della repubblica federativa do Brasil venuti prima di lui dal 1889. Diverso e
migliore. In sostanziale continuità con la politica economica
monetarista-liberista di prima ma con un afflato sociale nuovo. Basta pensare al
programma «borsa-famiglia» per i settori più poveri ed emarginati della
popolazione che in Brasile sono decine di milioni.
Come il più noto fra i leader dell'Mst, João Pedro Stédile, Neuri Rossetto, in
Italia per partecipare a una serie di incontri in vista dei 25 anni dell'Mst
(celebrati nel gennaio 2009 nel Rio Grande do Sul alla vigilia del Foro social
mondiale di Belem, nello stato amazzonico del Pará), racchiude nella sua
traiettoria personale e politica la storia del Movimento dei Senza terra per la
riforma agraria, per un modello di sviluppo alternativo, per «un altro mondo
possibile».
Quarantasette anni, nato nel Santa Catarina, lo stato meridionale del Brasile
confinante con il Rio Grande del Sud dove nel 1984 tutto cominciò, una famiglia
partita tre o quattro generazioni fa dal Veneto per andare a tentare la sorte
nel meridione brasiliano, contadini in origine poi divenuti piccoli commercianti
nella città di Quilombo, Neuri ha potuto studiare grazie alla chiesa cattolica.
Andò a scuola nel seminario di Chapecó. Erano gli ultimi anni della lunghissima
dittatura militare e la diocesi della città catarinense era in prima linea nelle
lotte per i diritti dei camponeses e degli indios. Lui non si fece prete - «per
poco», racconta - e dal seminario passò all'occupazione delle terre a fianco dei
preti d'assalto, dei contadini e degli indigeni. Era il maggio 1985 e l'Mst era
nato solo un anno prima nell'alveo del movimento pastorale della Cnbb, la
Conferenza episcopale brasiliana. Quella fu la sua vera università, anche se
prima nel Santa Catarina poi a San Paolo, dove si trasferì nell'87 dopo essere
entrato nella segreteria nazionale, frequentò corsi di pedagogia e scienze
sociali alla Puc, la Pontifícia Universidade Católica della capitale paulista.
L'Mst si appresta a celebrare i suoi primi 25 anni di attività. Tempo di
bilanci. Quali?
Per dirla sinteticamente e per punti: 1) abbiamo insediato sulla terra 350 mila
famiglie, ossia quasi due milioni di braccianti senza terra se si calcola una
famiglia composta in media da 5 persone; 2) siamo riusciti a inserire la riforma
agraria nell'agenda politica nazionale e, soprattutto, fra i debiti pendenti a
livello sociale; abbiamo proposto un modello alternativo a quello
dell'agro-business neo-liberista, centrandolo su alcuni nodi precisi: quello
dell'alimentazione per tutti in un paese in cui c'erano e ci sono fame e
denutrizione di massa, quello di uno sviluppo rispettoso della preservazione
della natura e quello di una struttura economica fondata anziché
sull'esportazione, sull'agricoltura familiare e sulla piccola agro-industria; 4)
avere impostato il problema della riforma agraria non tanto come un progetto a
sé stante ma come un progetto di sviluppo sociale complessivo, l'unico capace di
fermare l'esodo dalle campagne verso le favelas delle città; 5) aver lavorato e
puntato molto sulla crescita politica, culturale e umana delle masse contadine,
E qual è il bilancio dei rapporti fra il presidente Lula e il Movimento dei
Senza terra?
I rapporti fra l'Mst e il presidente Lula sono tesi ma fraterni. Noi non siamo
contenti della politica economica portata avanti da Lula, e neanche della sua
linea sulla riforma agraria. Ma non siamo fra quelli, come molti settori
dell'estrema sinistra dentro e fuori il Pt, che accusano Lula di essere un
traditore o un nemico di classe. Lula ci ha deluso: lui pensa che
l'agro-business sia una strada praticabile e buona per lo sviluppo economico del
paese, ha liberalizzato l'uso degli ogm nelle colture di soja, non ha ridotto
l'allarmante ritmo di disboscamento dell'Amazzonia. Anzi: in Congresso c'è un
progetto di legge che amplia le aree disboscabili... Rispetto alla riforma
agraria è innegabile che Lula qualcosa abbia fatto, come rivendica, ma si è
trattato più di un appoggio a quanto era già stato fatto prima e non invece di
nuovi insediamenti di contadini senza terra. Secondo le stesse cifre ufficiali,
fra il 2003 e il 2007 sono state insediate 450 mila famiglie di cui però 307
mila riguardano l'Amazzonia. Ciò significa in sostanza una regolarizzazione
fondiaria e una colonizzazione agricola, non una riforma agraria. La riforma
agraria, per noi, vuol dire muoversi contro il latifondo improduttivo. E Lula
non vuole scontrarsi con il latifondo.
Nel caso nel 2010 a Lula succedesse Dilma Rousseff, le cose migliorerebbero
nei rapporti fra Mst e il secondo presidente di sinistra?
Dilma sarebbe anche peggio di Lula. Nonostante il suo passato nella guerriglia
contro la dittatura militare non ha la connotazione popolare di Lula, che è
sincera. Dilma rappresenta l'ala tecnocratica, è l'equivalente di José Serra,
che con ogni probabilità sarà il candidato presidenziale del Pdsb, i tucanos
come si chiamano in Brasile i social-democratici, che sono però la vera destra.
L'Mst ha sempre avuto rapporti simbiotici con la chiesa cattolica, che l'ha
tenuto a battesimo nell'84 e sotto la sua ala protettrice in questi 25 anni. Ma
esponenti della Teologia della liberazione come dom Evaristo Arns, arcivescovo
di San Paolo, o dom Helder Camara, arcivescovo di Recife, sono stati mandati in
pensione per limiti di età o sono morti. E' cambiata la chiesa cattolica
brasiliana e sono cambiati i rapporti con l'Mst?
Molto cambiati. Nella Conferenza episcopale non c'è stato un rinnovamento in
linea con il passato. Le eccezioni ormai sono poche, dom Tomás Balduino,
l'ex-responsabile della Commissione pastorale per la terra, dom Pedro Casaldiga,
il vescovo emerito di São Félix de Araguaia, nel Mato Grosso... Purtroppo si
deve dire che l'opera di papi come Wojtyla e Ratzinger ha avuto successo.
Con i media l'Mst ha sempre avuto un rapporto conflittuale. I principali
giornali e network radio-televisivi non parlano mai della sua funzione di
coscientizzazione e democratizzazione di masse popolari sempre emarginate e
abbandonate a se stesse, ma hanno cercato in tutti i modi di criminalizzare il
Movimento presentandolo come violento ed eversivo. E' ancora così?
E' sempre peggio. I grandi media hanno preso il posto dei partiti, che anche in
Brasile sono in profonda crisi, a cominciare dal Pt. Sono i giornali e le tv a
dare la linea contro i movimenti sociali come il nostro e contro la riforma
agraria.
Gli agro-combustibili: un altro punto di dissenso forte fra l'Mst e Lula. Che
dice che le colture della canna da zucchero da cui si ricava l'etanolo e il
bio-fuel non costituiscono più dell'1% delle terre coltivabili del Brasile e
quindi non c'è alcuna contraddizione fra le terre usate per la produzione
alimentare e le terre usate per i prodotti d'esportazione o per l'etanolo...
Sono due modelli antitetici a confronto. Il modello dell'agro-business da
esportazione dominato dalle transnazionali contro il modello agro-familiare e
per la sovranità alimentare. Incompatibili. Adesso ci dicono che non ci sono più
terre improduttive per cui, non volendo toccare il latifondo che è il vero nodo,
non si può più fare la riforma agraria. Ma poi dicono anche che, di fronte ai 7
milioni di ettari coltivati a canna da zucchero di adesso, ci sono 90 milioni di
ettari buoni per la canna e senza contare l'Amazzonia. Allora questa terra c'è o
non c'è? E a cosa deve servire?
Il Movimento dei Senza terra ha avuto fin dal principio il Pt come suo
referente politico privilegiato, anche se non l'unico. E' ancora così dopo sei
anni di un presidente della repubblica «petista» e altrettanti o più di sindaci
e governatori statali del Pt?
Non solo Lula, neanche il Pt è più il ricettore-canalizzatore delle energie
dirette verso la riforma agraria. Noi Senza terra siamo ormai orfani di uno
strumento politico.
L'importante è censurare
Passate le Olimpiadi, Pechino torna a oscurare
Internet come prima. Ed è preoccupata per le agitazioni delle ultime settimane
Scritto da Alessandro Ursic
Dopo
una letterale "tregua olimpica" a cavallo dei Giochi di Pechino, in cui la
censura su alcuni siti di informazione era stata leggermente allentata, la Cina
è tornata a oscurare Internet come ai vecchi tempi. Il buio totale su qualsiasi
menzione del Dalai Lama, di Falun Gong o delle rivolte di piazza Tiananmen era
rimasto immutato, parte del "Great Firewall" cinese. Ma la versione cinese di
siti internazionali, come quelli della Bbc e di Voice of America, erano visibili
negli ultimi mesi con una certa continuità: non più. E forse non è un caso che
la nuova stretta sull'informazione coincida con recenti segnali di crescente
malcontento tra la classe operaia e gli intellettuali, una combinazione che il
Partito comunista teme più di ogni altra cosa.
Alle lamentele della Bbc, Pechino ha risposto senza negare il fatto ma
giustificandolo: la censura si sarebbe resa necessaria perché tali siti parlano
di "due Cine", quella di Pechino e l'isola di Taiwan: un tabù per il Partito,
che considera l'ex Formosa una provincia ribelle non indipendente, contro cui
tiene dispiegate centinaia di missili. Ma mentre i rapporti tra Taiwan e la
"Cina di terraferma" (come viene chiamata nel politically correct locale) si
stanno progressivamente rasserenando - con l'istituzione di voli diretti e la
donazione di due panda a uno zoo dell'isola come gesto distensivo - nelle ultime
settimane Pechino ha avuto altro di cui preoccuparsi.
La crisi economica sta avendo un impatto duro anche qui. Oltre un terzo del
Prodotto interno lordo della Cina si basa sulle esportazioni, in particolare
verso gli Stati Uniti, e si è già registrato un netto calo. Il prossimo anno,
alcune previsioni stimano una crescita del Pil del 6 percento, la più bassa dal
1990: si calcola che il Paese sia "costretto" a crescere almeno del 7-8 percento
l'anno, per mantenere la coesione sociale tanto cara al Partito. Migliaia di
fabbriche che producono per l'export sono state costrette a licenziare, si
calcola che 9 milioni di operai abbiano perso il posto; contemporaneamente,
l'inflazione ha eroso il potere d'acquisto della classe medio-bassa. E le
conseguenze si sono viste nelle ultime settimane: se negli ultimi anni le
rivolte e le proteste popolari nelle campagne erano diventate quotidiane, ora il
malcontento si è esteso anche a città della Cina benestante.
A Chongqing, 9.000 tassisti hanno scioperato contro i concorrenti abusivi e
l'aumento del prezzo del carburante. Nell'Hunan, un centinaio di poliziotti
hanno preso possesso dell'ufficio locale del Partito, chiedendo la
reintroduzione di un bonus salariale tolto dopo le Olimpiadi. Nella stessa
provincia, oltre un migliaio di insegnanti hanno incrociato le braccia sempre
per motivi salariali. Si sono verificate rivolte anche a Guangzhou e Shenzen,
dove una stazione di polizia è stata data alle fiamme. Zhou Tianyong, un
consulente della leadership del Partito, ha previsto "tumulti sociali su larga
scala" il prossimo anno.
Nel 2009 ricorrono tre anniversari delicati per la Cina: il sessantesimo
dell'istituzione della Repubblica popolare, il cinquantesimo di rivolte in Tibet
che portarono all'espulsione del Dalai Lama, e il ventesimo delle rivolte di
piazza Tiananmen. Se il primo anniversario sarà l'occasione per rinfrescare la
propaganda di Stato ricordando i giganteschi passi avanti compiuti, gli altri
due sono a forte rischio di proteste organizzate.
Il timore di Pechino è che le agitazioni dei lavoratori si saldino con le
richieste di maggiori diritti umani da parte degli intellettuali, e la scorsa
settimana - il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo - è stata avanzata una clamorosa richiesta in tale direzione:
303 persone tra ex funzionari e direttori di giornale, avvocati, professori
universitari e artisti hanno firmato lo "Statuto 08", un documento per chiedere
la libertà di pensiero e di associazione politica, un sistema giudiziario
indipendente e libere elezioni. Il nome si ispira allo "Statuto 77", con cui gli
intellettuali cecoslovacchi misero per iscritto richieste simili trentuno anni
fa. Se a lungo termine avrà lo stesso effetto, tenere 250 milioni di internauti
cinesi sotto censura potrebbe non essere sufficiente.
Mosca non abbassa la guardia e accusa: 'Washington pensa a basi in
Asia Centrale'
Mosca mantiene alta l'attenzione e monitora continuamente i
movimenti degli Stati Uniti che, secondo il generale Nikolay Makarov
capo di stato maggiore delle forze armate, si stanno avvicinando
sempre di più al "giardino di casa".
Durante
un discorso all'Accademia di Scienza Militare, Makarov ha detto che
gli Stati Uniti stanno organizzandosi per istallare basi militari in
Kazakhstan e Uzbekistan. La Russia è molto preoccupata per il
dispiegamento di uomini lungo i suoi confini e la continua avanzata
della Nato fino alle porte di casa propria. Dopo la sponsorizzazione
di Washington per l'ingresso di Georgia e Ucraina nel Patto
Atlantico e dopo i negoziati con Praga e Varsavia per lo scudo
spaziale e i missili intercettori, un ulteriore passo della Casa
Bianca, stavolta in Asia Centrale, rischia di peggiorare ancora le
relazioni tra Russia e Stati Uniti. Secondo gli esperti del Cremlino,
l'invio di altri 20 mila soldati Usa in Afghanistan implica
necessariamente l'apertura di nuove basi nei paesi confinanti.
Attualmente l'unica base in Asia Centrale di cui dispongono la Nato
e gli Stati Uniti è quella di Manas in Kyrgyzstan, vicino alla
capitale Bishkek. Solo nel 2008, 120 mila uomini della Coalizione
sono transitati nella base aerea. Il Dipartimento di Stato Usa ha
ufficialmente smentito la dichiarazione di Makarov e il delegato per
l'Europa e l'Eurasia ha espresso sorpresa per le parole del capo di
stato maggiore.
Secondo
il generale Makarov chi crede che l'elezione di Barack Obama possa
modificare la politica estera degli Usa, commette un grosso errore:
"La Nato e gli Stati Uniti stanno lavorando per un dispiegamento di
forze capaci di reagire velocemente, per controllare il potenziale
nucleare della Russia. Il campo di battaglia non è lontano dalle
nostre porte, ma a ridosso dei nostri confini". Le relazioni tra
Washington e Astana si stringono ulteriormente. Già nel 2001 il
Kazakhstan aveva concesso ai jet della Coalizione il transito nel
suo spazio aereo nella guerra all'Afghanistan. In Uzbekistan, fino
al 2005, gli uomini Usa erano presenti nella base Karshi-Khanabad
(conosciuta anche come 2K). Successivamente a un raffreddamento tra
il governo uzbeko e quello statunitense che aveva spinto per aprire
un inchiesta internazionale sulla repressione violenta della grande
dimostrazione di maggio ad Andijan, a fine luglio del 2005 l'Uzbekistan
diede a Washington 180 giorni di tempo per lasciare la base. Adesso,
invece, sembra esserci un cambiamento di direzione nella politica
dell'ex repubblica sovietica, influenzato anche dalla pioggia di
milioni di dollari che potrebbe investire un Paese dalle scarse
risorse economiche.
Sull'altro
fronte, Mosca non sta a guardare e prepara le contromosse: 400
milioni di dollari sono già stati stanziati per la costruzione di
basi in Ossezia del Sud (a Tskhinval e Djava) e in Abkhazia, le due
province separatiste georgiane. Se gli Stati Uniti e la Nato stanno
conducendo una serrata campagna politica (e non solo) per
"circondare" la Russia, anche se gli intenti dichiarati sono ben
altri, il duo Medvedev-Putin sta portando le proprie navi da guerra
sotto il naso degli Usa. Sebbene Putin abbia dichiarato che non è
nei progetti la costruzione di basi in Venezuela o a Cuba, esistono,
tuttavia degli accordi che permettono alle navi russe di fare scalo
e rifornimento nei porti venezuelani. Un accordo simile è in fieri
anche con l'Havana. In un'intervista concessa a un network russo, il
premier Vladimir Putin ha rivelato: "Quando abbiamo annunciato che
le nostre navi da guerra avrebbero condotto delle esercitazioni
congiunte con la marina venezuelana, molte altre nazioni ci hanno
chiesto di fare lo stesso con loro e ci hanno offerto basi e porti".
Se negli ultimi decenni abbiamo assistito a una corsa agli
armamenti, adesso, possiamo dire, si è aperta una nuova era: una
specie di Risiko in cui i due giocatori principali corrono per
mettere piede nei territori più strategici.
Nicola Sessa
Bloccato il progetto di deviazione del fiume McArthur
Gli aborigeni australiani hanno vinto la loro causa contro il
gigante minerario anglo-svizzero Xstrata:
quarto produttore mondiale di rame e di nichel, produce l'otto
percento dello zinco comperato nel mondo ed è inoltre tra i
primi esportatori mondiali di carbone.
 Il
piano aziendale elaborato dalla Xstrata per lo
sfruttamento delle risorse di zinco presenti nel Northern
Territory, prevedeva la deviazione del corso di un fiume per
poter espandere una miniera da cui viene estratto zinco. Alcuni
leader aborigeni hanno pianto di gioia quando è stata annunciata
a decisione della corte federale. La popolazione aborigena aveva
infatti intrapreso una lunga battaglia per contrastare la
decisione governativa relativa alla deviazione del corso
fluviale del McArthur, che sarebbe servita a espandere la
miniera, trasformando il sito per l'estrazione di zinco da
sotterraneo a sito di superficie. Insieme alle organizzazioni
ambientaliste, alcuni gruppi di aborigeni hanno messo in allarme
sui potenziali pericoli derivanti da una deviazione del corso
del fiume: durante la stagione delle piogge infatti, il McArthur,
scorrendo lungo il nuovo percorso, verrebbe contaminato da
infiltrazioni inquinanti provenienti dalla miniera. L'altro capo
di accusa presentato dagli aborigeni riguardava una mancanza nel
processo di approvazione istituzionale del progetto: la corte
federale ha approvato il ricorso, riconoscendo effettivamente un
vizio nel procedimento. Il corso del fiume McArthur è già stato
deviato per più di 5 chilometri e adesso gli aborigeni chiedono
che torni a scorrere lungo il corso originario. Xstrata ha
espresso il proprio disappunto per quanto contenuto nella
sentenza, annunciando che l'azienda probabilmente si vedrà
costretta a chiudere la miniera. Il Consiglio per le Risorse del
Northern Territory ha descritto la sentenza federale come una
grande sconfitta per l'industria mineraria australiana.
Africa in prima fila nel processo lanciato dalla
risoluzione Onu del 2007
Scritto da
Michele Dotti
Togo e Burundi hanno deciso di abolire la pena di morte,
confermando il ruolo centrale dei Paesi del continente
africano nell'approvazione, da parte dell'Assemblea delle
Nazioni Unite, della moratoria contro le esecuzioni
capitali.
Incompatibile
con la giustizia del Paese. La pena di morte in
Togo non viene applicata da almeno 30 anni. Lo scorso 11
dicembre è stata diffusa una nota del governo al termine del
Consiglio dei ministri, che ha approvato la cancellazione
della pena capitale dall'ordinamento giudiziario nazionale
"L'abolizione della pena di morte, considerata come una pena
umiliante e degradante e crudele dalla comunità delle
Nazioni rispettose dei diritti umani, si è imposta alla
coscienza collettiva dei togolesi dopo trent'anni di
moratoria" si legge nella nota diffusa dal Consiglio dei
ministri di Lomé, nella quale la punizione viene giudicata
"irrimediabile" e "incompatibile" con la scelta del Paese di
dotarsi di "una giustizia che limiti gli errori giudiziari,
corregga, educhi e garantisca i diritti inerenti la
persona".
Il
contributo della Comunità di Sant'Egidio. Più
significativa, dal punto di vista politico e simbolico,
l'abolizione della pena capitale da parte del Parlamento di
Bujumbura, che ha approvato a fine novembre il nuovo codice
penale. La novità più importante della riforma è sicuramente
l'abolizione della pena di morte nel Paese e la sua
trasformazione in ergastolo. "Tutti i prigionieri
attualmente in carcere e condannati a morte avranno
commutata la pena in ergastolo." Lo ha reso noto un
comunicato della Comunità di Sant'Egidio, considerando
questo fatto un segno positivo e di speranza per tutta la
regione dei Grandi Laghi, proprio ora che è scossa da un
nuovo conflitto nella Repubblica democratica del Congo.
L'abolizione è avvenuta anche a seguito della partecipazione
del ministro della Giustizia burundese agli Incontri contro
la pena di morte organizzati dalla stessa Comunità di Sant'
Egidio con i ministri della Giustizia africani in questi
anni, di cui l'ultimo il 29 settembre 2008 a Roma.
Recepite le disposizioni del diritto internazionale anche
contro la tortura e lo stupro. Ma vi sono anche altri
elementi significativi che rendono questo voto storico e che
vale la pena di sottolineare. Il nuovo codice, infatti, come
ha spiegato il ministro della Giustizia Didace Kiganahe,
accoglie le disposizioni del diritto internazionale in
materia di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di
guerra, e di reati che fino ad oggi non erano neppure
contemplati come la tortura. Tra le altre novità la
protezione giuridica accordata a donne e bambini contro ogni
tipo di atti di violenza, specialmente domestica: in
particolare il reato di stupro -non specificatamente
menzionato nel vecchio codice- viene punito con una pena
carceraria che va dai 20 anni di reclusione all'ergastolo.
Abolizione globale. Un altro importante
passo verso l'abolizione della pena di morte nel mondo.
Amnesty International sottolinea come l'evoluzione positiva
verso l'abolizione della pena di morte in atto nel mondo da
oltre 30 anni si sia confermata anche nell'ultimo anno.
Secondo Amnesty, dal 1976 ad oggi una media di tre nuovi
Paesi ogni anno ha aggiunto il proprio nome alla lista dei
paesi che hanno abolito la pena di morte. La maggioranza
delle nazioni ha posto termine alla pena capitale nella
legislazione o nella prassi. Ancora nel 1977 erano solo 16 i
paesi che avevano abolito la pena di morte per tutti i
reati, mentre oggi sono 135 i paesi o i territori che hanno
deciso di abolirla per legge o in pratica, cioè oltre i due
terzi degli stati del mondo. I paesi che mantengono in
vigore la pena capitale sono 62 e il numero di quelli in cui
le condanne a morte sono eseguite è ancora più basso, appena
24. L'anno scorso, l'88 percento delle esecuzioni e' stato
registrato in soli cinque paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita,
Pakistan e Stati Uniti. Come negli anni passati, dunque, la
maggior parte delle condanne a morte è stata eseguita in una
manciata di paesi, sempre più isolati e ormai non più in
sintonia con la tendenza mondiale. Secondo i dati di Amnesty
International, il numero delle esecuzioni nel mondo e' sceso
negli ultimi due anni da 2148 a 1252. E il fatto che la
risoluzione dell'ONU dello scorso dicembre per porre fine
all'uso della pena di morte sia stata adottata con una così
chiara maggioranza (104 voti a favore, 54 contrari e 29
astensioni) mostra che l'abolizione globale della pena di
morte è possibile.
MASERATI
Licenziato un Rsu Fiom E in fabbrica è sciopero
Dopo cinque giorni di sciopero contro il licenziamento di
112 interinali, ieri dalla Maserati di Modena è arrivata una
prima «risposta». L'azienda ha comunicato infatti la
sospensione cautelativa di sei giorni al delegato sindacale
Fiom, Eugenio Scognamiglio. La protesta è nuovamente
dilagata e la produzione è stata bloccata quasi interamente
dallo sciopero di moltissimi lavoratori. La segreteria
nazionale Fiom, dopo avere espresso solidarietà e sostegno
al delegato, denuncia «l'ennesimo atto di repressione
compiuto dalla Fiat Maserati». Giorgio Cremaschi, segretario
nazionale Fiom e leader dell'area di sinistra Cgil Rete 28
Aprile, non esita a definire l'accaduto «una rappresaglia
contro gli scioperi interni».
Lo sciopero «a oltranza» in Maserati va avanti da giovedì
scorso, dal giorno seguente alla comunicazione dell'azienda
del mancato rinnovo del contratto per 112 interinali (in
scadenza a fine dicembre). Maserati (che occupa
complessivamente 850 lavoratori circa) non è in crisi, non
c'è cassa integrazione, e nell'apprendere la notizia la
protesta - con presidi ai cancelli dell'azienda, blocco
delle strade circostanti e, due giorni fa, un corteo
cittadino - è scattata spontanea. Ieri, come dicevamo, la
risposta dell'azienda, con la comunicazione a Eugenio
Scognamiglio, delegato Fiom, della sospensione cautelare
motivata con fatti che sarebbero accaduti proprio durante i
giorni della protesta contro il licenziamento dei 112
interinali. Scognamiglio non ha dubbi sul fatto che il
provvedimento non sia che «un'anticamera del licenziamento»,
e ribadisce la sua estraneità ai fatti contestatigli. «Mi
hanno accusato di avere aggredito fisicamente un
sorvegliante durante la mobilitazione, quando nell'ora
indicata non ero presente in azienda, o di avere provocato
danni materiali all'interno dello stabilimento... Tutte cose
non vere», dice. «In questo modo si vuole colpire un
delegato e intimidire tutte le lavoratrici e i lavoratori
che - nel più totale disinteresse dei mezzi d'informazione -
stanno portando avanti una lotta per la difesa dei più
deboli e per affermare concretamente il valore della
solidarietà», si legge nel comunicato della segreteria
nazionale Fiom. Che conclude: «Con questo atto la Fiat
Maserati si assume la responsabilità di inasprire il
conflitto sociale in corso». E oggi a Modena la protesta
continua, con un presidio ai cancelli dell'azienda.
16 dicembre

Da un'inchiesta del Times
Non saranno contenti i sudditi della Regina Elisabetta per quanto
scoperto dal quotidiano The Times: un pò delle tasse pagate dai
contribuenti britannici finiscono nelle tasche dei talebani. Oltre
Manica si parla già di "Taleban Tax". In realtà, se è vero
quanto scritto da Tom Coghlan, non dovrebbero essere contenti neache i
cittadini italiani, francesi e statunitensi.
Finanziare
i taleban. Leggendo i risultati di un'inchiesta del Times,
l'Occidente starebbe finanziando indirettamente la resistenza afghana,
per mezzo di un giro di soldi (moltissimi) utili a garantire il transito
sicuro ai convogli che riforniscono le basi Nato in Afghanistan. Di
mano, in mano questi soldi arrivano ai comandanti talebani. I contratti
di rifornimento carburante, equipaggiamento e alimentare sono detenuti
da multinazionali. Il più delle volte il trasporto viene subappaltato ad
aziende afgane o pachistane. Il rischio quando si attraversa il passo di
Khyber è troppo alto e il tratto di strada che porta da Kabul a
Kandahar è tra i più pericolosi al mondo: gli attacchi e le imboscate
lungo i quasi 500 chilometri di asfalto e sterrato sono all'ordine del
giorno. Diversi titolari delle aziende di trasporto confermano che la
pratica di pagare le bande armate per un trasporto tranquillo sia molto
diffusa: circa il 25 percento delle somme elargite alle agenzie di
sicurezza afgane finiscono nelle casse della resistenza. Considerato che
chi si occupa di organizzare le scorte richiede 1.000 dollari per camion
e che in media ogni convoglio è composto da 40-50 fino a 100 automezzi
pesanti, è facile fare i conti.
Il
padrino Mangal. Ogni agenzia di sicurezza ha il suo
"uomo-tramite", il contatto che negozia il transito. Qualcuna, a quanto
pare, non ne necessita. Forse sarà solo una voce per screditare la
concorrenza, ma sono insistenti le voci che circolano su un'azienda di
trasporti della Valle del Panjshir, nel nord del Paese, secondo cui,
questa, si servirebbe direttamente dei talebani come scorta, senza
"intermediari". Sarebbero gli insorti a sedere a fianco dell'autista del
capo-convoglio ad aprire la pista agli altri e a fare da passaporto
nella provincia di Ghazni. Fino a 14 mesi fa le scorte erano sufficienti
e non c'era bisogno di pagare nessuno. Le cose sono cambiate quando
Mangal Bagh, un capo pashtun delle aree tribali pachistane che vanta il
comando su 120mila uomini armati, ha cominciato a pretendere un "diritto
di transito" per attraversare il passo Khyber. Non pagare vuol dire
subire grandi perdite, come quando il 24 giugno scorso, 50 camion furono
distrutti e sette autisti decapitati sul ciglio della strada.
E la Nato? A quanto pare a Bruxelles non interessa. Il portavoce
dell'Alleanza, James Gater, ha chiaramento detto che non ha importanza
come arrivino le merci nelle basi: "Esistono accordi per i rifornimenti
con due multinazionali europee; sono loro a dover gestire la pratica
come meglio credono".
Karachi
- Kabul - Kandahar. Gli approvvigionamenti per le truppe in
Afghanistan arrivano, per lo più, nel porto pachistano di Karachi da qui
prendono due strade: quella del passo di Khojak, tra Quetta e Chaman,
oppure quella del passo di Khyber. Da quest'ultimo valico di montagna
transita il 70 percento dei rifornimenti Nato, 300 camion al giorno:
facili prede degli uomini di Bagh. Le dimensioni del potere di controllo
esercitato dai talebani è misurabile con il costante aumento di furti e
distruzione di beni destinati alla Nato: 36 cisterne di benzina a marzo,
4 motori di elicotteri ad aprile, 50 camion in giugno. Tra il 7 e l'8
dicembre scorsi 260 tra container e camion sono stati dati alle fiamme
da 200 miliziani che hanno fatto irruzione nel deposito di Peshawar
L'ultimo attacco, sabato 13, sempre a Peshawar: 11 camion e 13 container
incendiati. Il comando Usa, che ha accusato il colpo, ha commentato la
notizia dicendo che "l'attacco ha avuto un'incidenza minima sulle
operazioni in Afghanistan che continueranno a pieno regime". Ma intanto
il Dipartimendo della Difesa Usa sta studiando percorsi alternativi
attraverso Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan e Uzbekistan. Senza quindi
chiedere aiuto alla Russia, con cui la Nato aveva aveva avviato in
primavera un negoziato per aprire una nuova strada di accesso, da nord,
attraverso Kazakhstan e Uzbekistan. Ma la guerra d'estate tra Georgia e
Russia ha cambiato le carte in tavola.
Nicola Sessa
Il presidente Yusuf sfiducia il premier, mentre gli
islamisti guadagnano terreno
scritto da
Matteo Fagotto
Non c'è fine al terremoto politico e militare in cui è
precipitata la Somalia. Come se non bastasse l'avanzata delle
milizie islamiche, che controllano ormai quasi tutto il Paese ad
eccezione delle enclaves di Baidoa e, in parte, di Mogadiscio, oggi
si è consumato forse l'ultimo atto del braccio di ferro all'interno
del governo di transizione (Tfg). Il presidente, Abdullahi Yusuf, ha
infatti sfiduciato il premier Nur Hassan Hussein, definendo
l'esecutivo da lui guidato "corrotto, inefficiente e traditore". Il
tutto mentre gli insorti organizzavano una conferenza stampa a
Mogadiscio per annunciare di non essere disposti a trattare la pace.
Se,
come annunciato dal loro premier Meles Zenawi la settimana scorsa,
le truppe etiopi dovessere lasciare la Somalia nei primi giorni del
2009, per il governo somalo potrebbe essere la fine definitiva.
Incapaci da sempre di trovare un'unità di intenti al proprio
interno, le autorità somale negli ultimi mesi hanno dato numerosi
segnali di una spaccatura interna impossibile da sanare. Hussein ha
già annunciato di non riconoscere la decisione di Yusuf, che per
diventare ufficiale dovrà ricevere l'avallo del Parlamento, dove i
seguaci di presidente e premier si preparano alla battaglia
politica. La guerra, quella vera, la stanno invece vincendo gli
insorti, la cui ala radicale ha oggi annunciato la non disponibilità
a trattare con le autorità. Vedendo il Tfg in rotta, e senza una
forza militare che le possa contrastare una volta partite le truppe
etiopi, le milizie islamiche sentono la vittoria a un passo.
Anche perché, a livello internazionale, non sembra ci sia accordo
nel rimpiazzare le forze etiopi (più di diecimila uomini) con un
contingente dell'Onu. A presidiare le poche zone di Mogadiscio
ancora in mano al Tfg rimarranno quindi i 2.600 soldati dell'Unione
Africana, incapaci di far fronte da soli alla forza degli insorti,
che dopo aver conquistato tutto il sud della Somalia stanno
stringendo la morsa attorno alle due città ancora in mano al
governo. In una situazione del genere, l'Etiopia potrebbe forse
decidere di far rimanere i propri contingenti ancora per qualche
mese, in modo da non lasciare il Tfg e l'inefficiente esercito
somalo al loro destino. Ma, come ha più volte denunciato Zenawi, la
guerra somala sta costando troppo all'Etiopia, lasciata da sola a
svolgere il "lavoro sporco" tra il disenteresse della comunità
internazionale.
Alla
luce degli ultimi avvenimenti, il quadro politico e militare somalo
si è fatto se possibile ancora più confuso. La spaccatura tra
presidente e premier, da sempre in disaccordo su come affrontare il
problema degli insorti, fa da contraltare alle divisioni del campo
islamista, con l'ala più moderata disposta a dare attuazione a un
accordo di pace siglato pochi mesi fa con il governo e quella più
radicale decisa a continuare la lotta armata. Chiamato nel novembre
2007 a sostituire l'allora premier Mohammed Gedi, Hussein non ha mai
legato con il presidente Yusuf, nonostante il carattere molto più
moderato rispetto al suo predecessore. Anche se il Parlamento
dovesse ratificare la scelta del presidente, difficilmente il nuovo
governo riuscirebbe a risolvere i problemi che attanagliano il
Paese. Quello consumatosi oggi potrebbe essere l'ultimo atto di una
telenovela politica a cui gli insorti potrebbero porre fine molto
presto.
Forza impunità
di Paolo Biondani e Marco Damilano
Modificare la Costituzione. Limitare i poteri dei pm. Aumentare il
controllo sul Csm. Regolare le intercettazioni. Così Berlusconi vuole
chiudere la partita con la giustizia e l'informazione
La Corte di Cassazione a Roma
Accomodati sulle poltroncine bianche hanno dialogato per due ore
alla luce del sole, come amano dire, anzi dei riflettori: quelli di
'Porta a Porta'. Da una parte, il ministro della Giustizia del
governo Berlusconi, Angelino Alfano il giovane,
sicuro che lo scontro tra i giudici di Salerno e quelli di Catanzaro
abbia gettato "un'onta di scarsa credibilità sulla magistratura",
rendendo "inevitabile" la riforma della giustizia. Dall'altra parte,
l'ex presidente della Camera Luciano Violante,
d'accordo con il ministro: "I poteri dei pm sono eccessivi, vanno
riportati nella norma". Violante non ha nessun incarico formale nel
partito di Walter Veltroni, non compare neppure tra i 120 nomi della
direzione. Eppure sulla giustizia è lui a dare la linea nel Pd. È
lui l'interlocutore invocato dall'avvocato Niccolò Ghedini,
l'uomo chiave del Pdl, per una riforma della Costituzione da votare
insieme con l'opposizione per chiudere definitivamente i conti con
magistratura e informazione, i contropoteri in uno Stato
democratico.
La grande partita. Il grande gioco. "La grande
occasione", la definisce Carlo Federico Grosso, "per giungere
finalmente laddove, finora, non sono riusciti affondi decisivi". 'La
grande occasione' era anche il titolo del libro di Massimo D'Alema
dedicato alla Bicamerale sulle riforme. Sono passati dieci anni da
quell'esperienza fallimentare, ma da lì si deve ripartire, precisa
lo stesso ex premier: "La riforma della giustizia, unita alle altre
riforme istituzionali, rappresenta il grande patto che la politica
dovrebbe essere in grado di scrivere per migliorare la qualità di
vita dei cittadini".
Una riforma con tre caposaldi, nei piani del
governo: modificare il sistema di nomina del Consiglio superiore
della magistratura, aumentando il numero dei membri politici e
affidandone la nomina al capo dello Stato, che oggi è Giorgio
Napolitano ma domani chissà, e dividerlo in due sezioni, una per la
magistratura inquirente e una per quella requirente; separare le
carriere dei magistrati e ridurre il controllo dei pm sulla polizia
giudiziaria; indebolire, per non dire annullare, il principio
dell'obbligatorietà dell'azione penale, lasciando al governo il
compito di decidere a quali reati gli uffici giudiziari dovranno
dare le priorità. Un pacchetto che, insieme alla legge sulle
intercettazioni discussa alla Camera, con il carcere per i
giornalisti che pubblicano le telefonate e all'idea di istituire una
commissione di inchiesta parlamentare sulla stagione di Mani pulite,
un controprocesso dei politici sui giudici, si presenta come un vero
finale di partita. Con quale posta in gioco?
" C'è un terribile intreccio di progetti micidiali",
lancia l'allarme il procuratore aggiunto di Torino Bruno
Tinti: "La classe dirigente sta cercando la complicità di
una parte dell'opposizione, della magistratura e dello stesso Csm
per far passare riforme esiziali per il sistema democratico. La vera
posta in gioco è l'assoggettamento dei pubblici ministeri al governo
e quindi la tenuta del sistema democratico. La separazione delle
carriere, dei Csm e magari degli ascensori, viene giustificata con
l'esigenza di avere giudici imparziali rispetto ai pm. Ma questa è
una palla macroscopica. Applicando la stessa logica, bisognerebbe
separare tutte le carriere: gip, gup, tribunale, appello,
Cassazione... Invece dei giudici di grado diverso non parla mai
nessuno. Perché l'unico problema di questa classe politica è il pm
che indaga".
Altri due magistrati di generazioni diverse
arrivano alle stesse conclusioni. "C'è una parte della politica,
oggi trasversale, che è indifferente al controllo di legalità",
avverte il procuratore Giancarlo Caselli: "Per i
cittadini il problema è l'interminabile durata dei processi, ma di
questo gran parte della politica non parla. Invece di riformare la
giustizia, si progetta di riformare i magistrati. È in gioco la
qualità della nostra democrazia".
"In uno Stato democratico il controllo di legalità sul potere
politico ed economico è una funzione essenziale", concorda il pm
Giuseppe Cascini, segretario generale dell'Associazione nazionale
magistrati: "Con la crisi il problema è ancora più forte: chi
difende i cittadini dalla criminalità economica? Il ministro
Tremonti annuncia che i banchieri che sbagliano andranno in galera.
Ma alcune leggi del suo governo vanno nella direzione opposta: la
sostanziale abolizione del falso in bilancio, l'abbattimento dei
termini di prescrizione".
Non è solo l'ennesimo capitolo della sfida del Cavaliere
contro la magistratura che terremota la politica italiana da 15
anni. Sul tavolo, questa volta, c'è l'ipotesi di una riforma che
riscriva la Costituzione, più volte annunciata dal ministro Alfano,
l'arma da fine del mondo finora mai usata, su cui scivolò la
Bicamerale presieduta da D'Alema. Per la maggioranza berlusconiana
quello che sta succedendo in questi giorni è il momento giusto tanto
atteso, da cogliere al volo, ora che il Pd è in difficoltà, per via
delle inchieste che lo colpiscono in città simbolo come Firenze e
Napoli, e che la magistratura appare dilaniata dalle guerre
intestine, vedi lo scontro tra Salerno e Catanzaro.
Il partito anti-toghe, dominante in Forza Italia,
quello che parte da Berlusconi e arriva alla coppia Alfano-Ghedini,
procede in apparenza compatto: "Meglio l'accordo con l'opposizione,
ma se non c'è, andiamo avanti lo stesso". Il testo della riforma
costituzionale, annunciato da mesi, potrebbe arrivare giusto in
tempo per la campagna elettorale di primavera, amministrative e
europee: ottimo per mettere in imbarazzo il Pd, che finirebbe
stretto tra la concorrenza di Antonio Di Pietro e le inchieste
giudiziarie nelle città che hanno fatto esplodere la questione
morale anche nel partito di Veltroni. "La nostra disponibilità è
seria", giura il ministro Gianfranco Rotondi: "Per disgrazia del Pd
nella magistratura c'è ancora una componente residuale che fa
politica militante e vive ogni riforma come un'aggressione. È quello
che rende la riforma della giustizia fin troppo tardiva: purtroppo,
temo, non c'è più niente da fare, è quasi impossibile evitare che i
giudici facciano politica. Ma dobbiamo andare avanti senza farci
condizionare. E il Pd deve dirci quale linea intende seguire".
Anche la maggioranza è divisa, però: l'anima
leghista vorrebbe andare avanti più speditamente con il federalismo;
An, per bocca del presidente della Camera Gianfranco Fini, reclama
riforme condivise con il Pd ma senza ultimatum, senza prendere o
lasciare. E dal presidente della commissione Giustizia della Camera
Giulia Bongiorno (An) arriva una pioggia di distinguo: "Sono un
tecnico, non un politico: qualsiasi limitazione all'indipendenza
della magistratura mi terrorizzerebbe. Sono favorevole alla
separazione delle carriere perché avvantaggerebbe la stessa
credibilità dei giudici, ma finché farò politica continuerò a
difendere il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione
penale". Anche sulla legge sulle intercettazioni, di cui è relatrice
a Montecitorio, la Bongiorno ha qualcosa da obiettare: "Mi opporrò a
qualsiasi provvedimento che miri a escludere questo fondamentale
mezzo di prova per la corruzione e gli altri reati contro la
pubblica amministrazione. La maggioranza dei parlamentari di An e
della Lega sono sulla stessa linea, è chiaro che Berlusconi ha una
posizione molto diversa...". E infatti il Cavaliere non è per nulla
soddisfatto del testo che sta uscendo dalla commissione, troppo
morbido, e già annuncia modifiche. Anche se i magistrati in prima
linea denunciano le norme che strozzano i tempi delle
intercettazioni fino a rendere di fatto impossibili le indagini. E
tra le toghe c'è chi punta il dito sulla debolezza del Csm. "Sono
sconvolto dall'atteggiamento che il Consiglio ha tenuto su Salerno e
Catanzaro", attacca il procuratore Tinti: "È passata la linea del
padre che, vedendo i figli che litigano, prende a ceffoni tutti
indistintamente".
Nel Pd attendono le prossime mosse della maggioranza.
"Sono sei mesi che parlano di riforma e non ne abbiamo visto
l'ombra", si dichiara scettico Felice Casson, ex magistrato
impegnato in inchieste delicate, oggi capogruppo del Pd nella
commissione Giustizia del Senato, pronto a fissare alcuni paletti
nella disponibilità al dialogo del Pd: "Dare maggiori poteri alla
polizia giudiziaria significa tagliare le unghie ai pubblici
ministeri. Ci sono magistrati che all'epoca del terrorismo rosso o
nero sono stati messi fuori strada dalle forzature delle varie
polizie, non possiamo accettare che le indagini dipendano dal
governo, di qualsiasi colore esso sia. In Portogallo la riforma ha
trasformato i pm in un corpo chiuso di super-poliziotti che pensano
solo al risultato, esattamente il contrario del garantismo". Casson
rappresenta l'area del Pd che si riconosce nella segreteria Veltroni,
insieme al ministro-ombra Lanfranco Tenaglia: sì al dialogo sulla
giustizia, no a qualsiasi riforma che tocchi la Costituzione. Ma la
geografia interna al partito, al solito, è molto più complicata: c'è
una corrente convinta che bisogna andare molto più rapidamente verso
l'accordo con la destra. "Dobbiamo rompere con il dipietrismo
presente anche tra di noi, riconoscere gli eccessi del
giustizialismo del passato e partecipare alla riforma", si lancia il
deputato del Pd Pierluigi Mantini che in politica ha esordito
proprio come seguace di Di Pietro. Un'ala che dopo i casi di Napoli
e Firenze spinge per uno strappo con la linea tradizionale di
vicinanza alla magistratura. Quella che tuona contro il
"cortocircuito politico-mediatico-giudiziario", come ha fatto in
televisione il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, con insolito
linguaggio berlusconiano, "tipico di chi vuole strumentalmente
delegittimare un'inchiesta", ammette Casson. Quella su cui conta il
ministro Alfano per la sua grande riforma: "L'Udc e D'Alema che si
sono mostrati pronti a una riforma della giustizia perché la
considerano urgente". Ecco raccontato dal titolare di via Arenula il
fronte che potrebbe cogliere la grande occasione: il Pdl, i
centristi di Pier Ferdinando Casini, i dalemiani. Con il solo Di
Pietro a opporsi e la Lega pronta a resuscitare la proposta di far
eleggere i magistrati direttamente dal popolo.
Nel Pd Violante è il battitore libero, il più
esplicito sulla necessità di trovare l'accordo con la maggioranza
berlusconiana. Anche a costo di sfidare l'ira degli ex colleghi.
Perfino Caselli prende le distanze dal suo vecchio amico: "Sono in
magistratura da 40 anni, ho vissuto i tempi della separatezza totale
tra magistratura e forze di polizia. Senza polemica, Violante
dovrebbe ricordare, perché ne faceva parte, il primo pool di giudici
istruttori, che fu creato per combattere le Brigate rosse. Si
indagava insieme alle forze di polizia, mangiando lo stesso pane
amaro, sotto il coordinamento dei magistrati inquirenti. E i
risultati mi sembrano innegabili. Lo stesso metodo di lavoro è
continuato nei pool antimafia e poi con la lotta alla corruzione.
Non pretendo la luna, ma almeno che sia mantenuto l'attuale
equilibrio tra poteri". "Ci sono scelte che si inquadrano in
percorsi personali più o meno discutibili", conclude il pm Cascini,
riferito a Violante:"E c'è un'opposizione che sembra andare a
rimorchio di un'agenda politica dettata dal governo. Manca la
capacità di proporre al Paese un'idea di giustizia alternativa a
quella di Berlusconi".
Ma forse non c'è molta voglia di cercare un'alternativa: allo
scontro finale contro la magistratura buona parte della classe
politica sembra avere un'esigenza in comune, che va oltre
distinzioni ormai datate, destra e sinistra. La chiamavano impunità.
Sos bambini
di Emiliano Fittipaldi
Crescono del 2 per cento l'anno le neoplasie infantili in
Italia. Con picchi spaventosi in prossimità di aree industriali
o inquinate. Colpa di smog e pesticidi. E della contaminazione
della catena alimentare
© Giulio Di Sturco per L'espresso
Nelle Marche tra il 1988 e il 1992 il Registro tumori ha
segnalato 93 bambini malati. Dieci anni dopo, sono diventati
171. Un raddoppio secco. A Parma i casi sono passati da 27 a
53. A Sassari, nello stesso arco di tempo, gli under 14
ammalati di tumore sono triplicati. Il bollettino è
agghiacciante, la fonte autorevole: i numeri che nessuno
vorrebbe leggere li sciorina il rapporto Airtum 2008, il
primo del suo genere, cofirmato dal Centro per la
prevenzione e il controllo delle malattie, dall'Associazione
di ematologia e oncologia pediatrica e dall'Istituto
superiore di sanità. Lo studio evidenzia che nel nostro
Paese, tra il 1988 e il 2002, c'è stato un aumento medio dei
tumori infantili del 2 per cento l'anno. I tumori sono
bastardi, nessuno sa esattamente quale sia la causa. Per
ogni cancro ci sono diversi fattori di rischio possibili, e
tutti lavorano insieme ad avvelenare l'organismo. Così
davanti al trend gli epidemiologi intervistati invitano a
non trarre conclusioni affrettate, ma quasi nessuno nega che
tra i maggiori sospettati ci siano l'inquinamento, i
pesticidi e la contaminazione della catena alimentare. Basta
pensare alla diossina che, attraverso le carni, il latte e
l'acqua, arriva direttamente sulle tavole: se da giorni
l'Europa dà la caccia ai maiali e bovini irlandesi
avvelenati, nei mesi scorsi la sostanza cancerogena ha già
compromesso interi greggi di pecore che pascolavano a
ridosso dell'Ilva di Taranto e migliaia di bufale vicino
Caserta.
Il dottor Gianfranco Scoppa il rapporto sui tumori infantili
non l'ha letto. Ma la sua percezione sull'andamento delle
malattie è addirittura peggiore dei dati pubblicati dall'Airtum.
Il radioterapista, ex oncologo del Pascale, oggi dirige l'Aktis
di Marano, uno dei più grandi centri di radioterapia della
Campania. "Crescono sarcomi, linfomi, leucemie. Vedo entrare
troppi bambini, stiamo diventando una struttura pediatrica",
spiega. A 800 chilometri di distanza, a Mantova, pochi
giorni fa uno studio di una società privata ha messo in
allarme la città e la vicina Cremona: nelle due province la
frequenza di leucemie infantili sarebbe rispettivamente 20 e
dieci volte superiore a quella registrata mediamente in
Lombardia. "I numeri sono abnormi, credo abbiano confuso i
singoli casi con il numero, più alto, dei ricoveri", spiega
Paolo Ricci, epidemiologo dell'Asl mantovana. "Ma in
provincia un dato da approfondire c'è davvero". A
Castiglione delle Stiviere, meno di 20 mila abitanti, negli
ultimi anni sono stati accertati sette casi di leucemie
infantili. "Un fatto anomalo, l'incidenza è rilevante.
Ricordiamoci che si tratta della zona più industrializzata
della provincia, un distretto dove la mortalità rincorre
quella di Brescia". Anche a Lentini, in Sicilia, i bambini
si ammalano con frequenza eccessiva: i tassi del periodo
1999-2003 del registro territoriale di patologia segnano una
media dieci volte superiore rispetto a quella della
provincia di Siracusa. Picchi anomali che hanno convinto la
Procura ad aprire un'indagine per tentare di capirne le
origini.
Di sicuro in Italia il trend è anomalo rispetto al resto dei
paesi industrializzati: doppio rispetto a quello europeo,
addirittura cinque volte più alto rispetto ai tassi
americani. Molti si affrettano a spiegare la tendenza con la
diagnosi precoce e le nuove tecniche che permettono di
cercare le malattie con strumenti più raffinati rispetto al
passato. Ma la risposta, per gli esperti più attenti, è
insoddisfacente: equivarrebbe a sostenere che tedeschi,
francesi e svizzeri (dove l'incidenza è più bassa) sarebbero
meno bravi di noi a individuare il male. Non solo:
l'incremento è troppo rilevante. Entrando nello specifico,
se nel Vecchio Continente i linfomi infantili aumentano con
una media dello 0,9 per cento annuo, in Italia la
percentuale sale al 4,6 per cento. Anche le leucemie
viaggiano a tasso quasi triplo, mentre i tumori del sistema
nervoso centrale crescono del 2 per cento, contro la
riduzione dello 0,1 registrata in Usa. "I dati dei
nostri registri trovano un utile complemento in quelli
raccolti da registri ospedalieri e di mortalità", commenta
secco Corrado Magnani del Centro di prevenzione oncologica
del Piemonte: "I risultati concordano con le indicazioni di
tassi di incidenza relativamente elevati nel panorama
internazionale e indicano un incremento statisticamente
significativo dell'incidenza".
In Italia ogni anno si ammalano circa 1.500 bambini e 800
adolescenti dai 15 ai 19 anni. Soprattutto di leucemia (un
terzo del totale), linfomi, neuroblastomi, sarcomi dei
tessuti molli, tumori ossei e renali. I numeri
assoluti sono bassi, e fortunatamente i tassi di mortalità
diminuiscono grazie all'efficacia delle cure. L'incidenza,
però, sembra destinata a crescere. "Per i bambini le
previsioni non sono rosee", dice l'Airtum: "Le stime,
calcolate utilizzando le informazioni raccolte nelle aree
coperte dai registri e i dati di popolazione Istat, indicano
che ci sarà un aumento dei casi". Se la tendenza resterà
costante, nel periodo 2011-2015 si ammalerà il 18 per cento
di under 14 in più rispetto al quinquennio 2001-2005. Il
fenomeno riguarda sia il Nord che il Sud. Gli epidemiologi
hanno preso in considerazione solo i registri che rilevavano
i tre periodi presi in esame: quello che va dal 1988 al
1992, il periodo 1993-1997 e quello 1998-2002. A Sassari i
bimbi ammalati passano da 12 a 40, a Napoli da 33 a 114. A
Latina si passa da 38 a 52, a Modena, Parma, Ferrara e
Reggio Emilia stesso rialzo, il registro della Romagna ha
raddoppiato i suoi iscritti. Identico trend per l'Alto
Adige, mentre l'aumento è meno preoccupante per il Friuli.
In Liguria e in Piemonte, che può vantare il registro più
antico, l'incidenza è invece stabile, come a Salerno e
Ragusa.
Ma cosa sta succedendo? I medici
dell'ambiente dell'Isde non hanno dubbi, e considerano
l'aumento delle neoplasie dei bambini un indicatore assai
preoccupante. Puntano il dito sull'inquinamento selvaggio,
sui danni provocati dai rifiuti tossici e dall'uso
dissennato di sostanze nocive in agricoltura e nella
produzione dei beni di massa. Gli epidemiologi puri - in
mancanza di evidenze dimostrate da studi scientifici
definitivi - sono tradizionalmente più cauti su cause e
fattori di rischio. Stavolta, però, anche loro non escludono
che l'inquinamento ambientale e lo stile di vita di bambini
e genitori possano avere responsabilità rilevanti sul
fenomeno. Benedetto Terracini è uno dei luminari
dell'epidemiologia dei tumori, e da qualche settimana ha
iniziato un carteggio con alcuni colleghi per cercare di
dare un'interpretazione al rapporto, insieme a indicazioni
operative per possibili misure di salute pubblica. "Non si
può affermare con certezza che l'aumento sia dovuto
all'inquinamento", chiosa, "ma è plausibile che influiscano
fattori esterni a quelli genetici: sono decenni che sappiamo
che le frequenze tumorali sono correlate all'ambiente. I
cinesi che emigrarono in Usa si ammalano oggi esattamente
quanto e come gli americani, proprio come accade ai pugliesi
a Milano e agli italiani partiti per l'Australia. Il lavoro
dell'Airtum è il massimo che si può fare in termini
statistici, ma ora bisogna agire". Terracini dubita che in
tempi brevi gli scienziati potranno dimostrare
definitivamente il coinvolgimento di fattori legati
all'inquinamento. "Ma anche se non si può dire che benzene e
smog fanno venire il cancro agli under 14, si possono
applicare rapidamente politiche precauzionali: non servono
certo altri studi per sostenere che vivere vicino a una
strada a grande traffico non fa bene alla salute. Bisogna
difendere i bambini a priori, senza fare allarmismo usando
un tema delicatissimo come le neoplasie infantili".
Se i 'ragionevoli dubbi' sul rapporto tra inquinanti e
tumori non sono ancora diventati legge scientifica,
serpeggiano con sempre maggior insistenza nelle conclusioni
di autorevoli ricerche internazionali. Nel 2005 un report
dell'ateneo di Birmingham ha evidenziato che i piccoli che
abitano nel raggio di un chilometro da uno snodo di traffico
'importante' hanno un rischio 12 volte più alto di
ammalarsi, mentre due anni fa ricercatori delle università
di Milano e Padova mostrarono un legame tra inquinamento da
diossina prodotto da inceneritori per rifiuti industriali e
urbani e l'insorgenza di sarcomi nella provincia di Venezia.
Anche a Mantova un rapporto dell'Asl (che a breve verrà
pubblicato dall'Istituto superiore di sanità) ha
ufficializzato un nesso tra sarcomi dei tessuti molli e le
sostanze diossino-simili osservate intorno al polo
industriale di Mantova, dove insistono il petrolchimico
dell'Enichem, le Cartiere Burgo, tre centrali
termoelettriche, tre discariche per rifiuti tossici e un
inceneritore per rifiuti industriali e sanitari. Basata sul
contributo di esperti di rilievo come Pieralberto Bertazzi,
Pietro Comba, Paolo Crosignani e il compianto Lorenzo
Tomatis, la ricerca spiega che il rischio più alto che ha la
popolazione residente vicino all'area industriale di
ammalarsi (bambini compresi) è legata probabilmente non solo
alla diossina e ai Pcb, ma anche ad altri inquinanti:
"Sempre comunque di origine industriale". Altre analisi
hanno evidenziato i nessi tra leucemie e campi magnetici. La
faccenda è molto discussa, ma a tutt'oggi, spiega Magnani,
"il dato scientifico non è stato ancora confutato".
Se il rapporto Airtum ha avuto scarsa pubblicità,
gli scienziati non mancano di mettere insieme le indicazioni
che arrivano da questi studi scientifici con le cifre delle
neoplasie infantili in Italia. E non nascondono la loro
preoccupazione. Tutti, dal decano Terracini a
Franco Berrino dell'Istituto dei tumori di Milano,
concordano sul fatto che occorre studiare le sostanze
sospettate sia sul piano epidemiologico (ovvero andare a
vedere come e quando si correlano agli aumenti di
incidenza), sia su quello tossicologico e genetico, per
capire in che modo possono indurre il male. All'indomani del
rapporto Airtum, qualcuno si spinge anche più in là, e
comincia a comporre il puzzle. Come Gemma Gatta,
ricercatrice all'Istituto dei tumori di Milano: "L'aumento
generale c'è di certo. E i fattori di rischio sono numerosi:
radiazioni, farmaci antinfiammatori usati in passato in
Europa, ormoni per l'interruzione della gravidanza. Poi, il
consumo di tabacco e alcol da parte della madre in
gravidanza, il traffico veicolare, le infezioni e la
professione dei genitori". In particolare, l'esperta
sottolinea il rischio di chi vive parte della giornata a
stretto contatto con sostanze cancerogene come benzene e
pesticidi. Ma non è tutto. "Negli ultimi anni le madri
allattano meno al seno, fumano di più, i giovani si
alimentano peggio: bisognerebbe, anche in assenza di studi
definitivi, modificare stili di vita insalubri", chiosa la
studiosa. Pure Luigia Miligi, dell'Istituto per lo studio e
la prevenzione oncologica della Toscana, è cauta su cause e
concause, e preferisce andare al sodo. "Ho mandato delle
mail ai colleghi mettendo l'accento sulla gestione del
rischio.
Ci sono cose che possono essere fatte subito, quasi a costo
zero. Si potrebbe diminuire l'inquinamento indoor delle
scuole evitando l'uso di detersivi con solventi aromatici,
ed eliminando i materiali che rilasciano formaldeide". Anche
il controllo dei residui antiparassitari in agricoltura,
dice la Miligi, dovrebbe essere sistematico: il principio di
precauzione e il diritto alla salute deve essere prioritario
rispetto a qualsiasi altro interesse. "Ma gli allarmi devono
essere gestiti bene. Tre anni fa a Firenze ci fu un picco di
leucemie in una scuola materna: le istituzioni si mossero
all'unisono, in silenzio, per garantire la sicurezza dei
piccoli. Analizzammo ogni rischio, misurammo persino
l'eventuale presenza di radon, un gas radioattivo. Non
trovammo nulla: a volte certi fenomeni sono del tutto
casuali".
IL RACCONTO
Quegli operai
vanto dell'Italia
traditi da silenzio e indifferenza
DAL NOSTRO INVIATO PAOLO
RUMIZ
TRIESTE - "Vivere di cantiere", è scritto sui
murales dedicati al secolo di vita della fabbrica
navale di Monfalcone, fondata nel 1908. Da mesi
tappezzano ogni angolo della città. Segnano l'ultimo
angolo a Nord del Mediterraneo, ieri spazzato dalla
bora sotto le Alpi innevate. Niente ricorda che di
cantiere si può morire. Niente sui Caduti sul
lavoro, precipitati dalle impalcature, ustionati o
bruciati vivi dal 1908 a oggi. Niente, soprattutto,
sulla strage da amianto che fa di Monfalcone
qualcosa di infinitamente peggio di Marghera o della
Thyssen di Torino.
Novecento morti, che nel 2012 saranno mille e nel
2016 millecento. Ne partono al ritmo di venticinque
all'anno, dall'inizio degli anni Settanta, e le
previsioni fino al 2020 sono catastrofiche. Forse la
più orrenda strage aziendale italiana. Certamente la
più sottovalutata.
Ma il peggio non è l'enormità del numero. È
l'enormità del tradimento. L'imbroglio consumato nei
confronti di uomini che hanno fatto il vanto
dell'Italia, uomini segnati da un patriottismo
aziendale unico. Dalmati, friulani, sloveni del
Carso, goriziani, triestini e istriani.
Cinquantamila in un secolo, dei cantieri e
dell'indotto. Ondate di gente che arrivava ai
cancelli in treno, a piedi, in bicicletta.
Un'epopea. Il cantiere ha varato quasi mille navi, e
la nave non è un'automobile: è un oggetto
irripetibile, il riassunto di un'arte. Gli uomini
che l'hanno fatta ne seguono per la vita le rotte
sul mappamondo. La mostrano con orgoglio a figli e
nipoti, la raccontano per lasciare un segno di sé.
"I malati venivano da noi con la foto delle navi
fatte da loro" racconta Valentino Patussi,
dell'Ufficio medicina del lavoro di Trieste,
incaricato delle indagini dalla Procura.
Monfalcone non è Genova né Castellammare. È nata
tutta dai cantieri. Prima del 1908 era solo acque
salmastre e zanzare; poi, con capitale austriaco, è
nata la città. Una "company town" a pieno titolo.
Totale la sua simbiosi col cantiere; e totale, di
conseguenza, il suo strazio e il disincanto di oggi.
Ma poi c'è anche l'enormità del silenzio. Quello di
un'azienda, una provincia, una regione che rimuove i
morti, li ignora persino nelle celebrazioni del
centenario mentre l'allarme serpeggia ovunque, anche
su Internet, con terribili richieste dagli operai di
mezza Italia.
La sottovalutazione e il mancato allarme durano
dagli anni Sessanta e sono continuati anche dopo la
bonifica degli impianti, mentre gli operai del
cantiere e delle ditte in appalto entravano in
agonia senza sapere perché, muti di fronte a quella
parola, "mesotelioma", che li inchiodava dopo
decenni di salute apparente. Oggi si sa che qualcuno
sapeva; era stato informato che l'amianto è una
bestia che non perdona e il mesotelioma, quando lo
scopri, ti ammazza in sei mesi. I polmoni ti
strangolano come una garrota e la diagnosi precoce
serve solo ad avvelenarti il tempo che resta. In
caso di amianto il miglior referto è semplicemente
sapere più tardi possibile.
E così gli uomini che hanno "vissuto di cantiere"
sono morti senza copertura Inail, senza assistenza
legale, senza interesse della politica e persino
della giustizia che per dodici anni ha ricevuto
denunce di morti sospette senza chiudere fino ad ora
nessun processo. Per questo la Procura generale ha
rotto gli indugi e svolto un'indagine-lampo unica in
Italia.
C'è voluto un giudice perché il Friuli-Venezia
Giulia sapesse di questa tragedia, e per far capire
che non affrontare l'emergenza significava
semplicemente non governare. Non si poteva più
ignorare che a Monfalcone e Trieste gli esposti al
rischio sono diecimila, per l'effetto congiunto del
porto e dei cantieri. A livello regionale, il top in
Italia.
Ma se i morti sono un esercito, per i vivi è in atto
un micidiale conto alla rovescia. Un gioco dove la
paura distrugge prima della malattia; una roulette
russa in cui ci si conosce tutti e alla fine ci si
incontra ai funerali. È perfido l'amianto. In greco
vuol dire "il candido", e in una straziante poesia
Massimo Carlotto lo descrive come neve che incanta i
bambini. La mamma sbatteva la tuta del papà per
toglierne la polvere a fine lavoro, i fiocchi
volavano come a Natale e la pestilenza entrava nei
familiari. Ma amianto vuol dire anche
"l'incorruttibile", perché non si consuma mai. Tu
muori, il corpo si dissolve, e le fibre restano lì
per sempre. Qui accade in concentrazioni mostruose,
quasi come nella miniera di Barangero in Piemonte,
dove si consumò la prima strage. Ma sì, dicono
amaramente i superstiti, il cimitero è solo una
discarica autorizzata di amianto. Ora che si è
scavato nella Fincantieri come mai in passato,
l'azienda - inchiodata da prove inconfutabili -
parla di depenalizzare il reato e compensare le
famiglie con un fondo nazionale. Come dire: il costo
è di tutti e la colpa di nessuno. Un classico finale
all'italiana.
Ma chi ha sofferto non ci sta. "Altro che malattia
sociale!", quasi piange Rita Nardi, vedova di
Gualtiero, morto alla vigilia di natale del '98 dopo
mesi da incubo. "Questi li hanno ammazzati come
conigli per un tozzo di pane".
Due morti nel
bergamasco, gli altri episodi a Pavia, Belluno e Amatrice
A fare le spese degli incidenti quasi sempre operai giovanissimi
Lavoro, altra
giornata nera
cinque vittime in tutta Italia
ROMA - E' di cinque morti il bilancio di
un'altra giornata tragica sul fronte degli incidenti sul lavoro. Le
vittime sono quasi sempre giovanissime, mentre la geografia della
tragedia non conosce confini. Si va dalla provincia di Bergamo, a Santa
Giustina, nel bellunese. Da Amatrice, nell'alto Lazio, a Pavia.
Il primo incidente è avvenuto nella notte all'azienda metallurgica "Tenaris
Dalmine" di Dalmine, in Lombardia, dove un operaio di 20 anni, Sergio
Riva, ha perso la vita schiacciato da un cilindro di circa una
tonnellata. Il giovane, da un anno dipendente con contratto interinale,
era entrato in un macchinario che serve per forgiare tubi di grosse
dimensioni per cercare di liberarne uno che si era incastrato, ma è
stato travolto e schiacciato dal pesante cilindro di ferro.
Di primo mattino è morto invece Cesare B., autista 21enne, travolto dal
cassone di un dumper (un grosso camion) mentre era la lavoro all'interno
di una cava di ghiaia a Torretta di Galliavola, in provincia di Pavia.
L'operaio, a quanto pare regolarmente assunto dalla ditta "Sergio Re
Trasporti", stava controllando perché il cassone del suo mezzo non
tornasse in posizione orizzontale quando, per motivi al momento non
chiari, il pianale si è abbassato di colpo schiacciandolo.
Un terzo incidente mortale è avvenuto qualche ora dopo, attorno alle
11.30, in un cantiere della ditta "Beton Srl" a Santa Giustina, nel
bellunese. P. F., operaio di 34 anni, è rimasto schiacciato da una
pesante paratoia d'acciaio utilizzata per contenere il cemento. Anche su
questa vicenda sono in corso gli accertamenti degli investigatori per
verificare l'esatta dinamica dell'incidente e individuare eventuali
responsabilità.
Un quarto operaio è morto e altri due sono rimasti feriti mentre stavano
lavorando in uno scavo fognario ad Amatrice, in provincia di Rieti. I
tre, secondo quanto riferito dai vigili del fuoco, stavano lavorando in
frazione Torrita, quando sarebbero rimasti sepolti nello scavo. Uno dei
due feriti sarebbe in gravi condizioni.
Ancora da ricostruire invece l'esatta dinamica del decesso di un
sommozzatore colto da malore mentre stava lavorando nel fiume Brembo per
conto dell'Enel. L'uomo era immerso all'altezza della diga nei pressi di
San Pellegrino, in provincia di Bergamo, quando si è sentito male. Una
prima ipotesi è che ad essergli fatale sia stata la temperatura
estremamente rigida dell'acqua.
Poteva finire in tragedia infine anche un incidente avvenuto in serata
in un cantiere edile nel centro di Perugia. Un muratore di 43 anni,
originario di Napoli, è rimasto ferito alla testa mentre stava
lavorando. L'uomo è stato ricoverato in ospedale con riserva di
prognosi.
dati del 2008 sono lievemente migliori di quelli del 2007
ma ci vorrà tempo per tornare ai livelli positivi del decennio scorso
Mille e tre morti
dopo la Thyssen
il lavoro in Italia rimane insicuro
Precarietà, mancanza di regole e una
normativa che, dopo il Testo Unico
di Prodi, è rimasta ferma. La Cgil: "Il governo punta a non disturbare
le aziende"
di MASSIMO RAZZI
ROMA - Un anno e 1.003 morti dopo, la
strage della Thyssen resta lì come un atroce segnale piantato sul
mondo del lavoro italiano. Dal rogo del 6 dicembre 2007 che causò la
morte dei sette operai torinesi all'orribile fine (due giorni fa)
del venticinquenne Matteo Bozza, schiacciato da una pressa
nell'azienda cartotecnica di Verona di cui era contitolare, ci sono
mille funerali, mille dolori inestinguibili e l'incapacità
complessiva del Paese di uscire dal tunnel delle morti causate da
lavoro.
Per continuare con i numeri (che, comunque, servono a capire) sarà
bene subito chiarire che il "1003" che oggi scriviamo sulla prima
pagina di Repubblica.it è un dato assolutamente ufficioso frutto
della caparbia volontà di un delegato sindacale toscano, Marco
Bazzoni, che ha tenuto il triste conteggio con i mezzi a sua
disposizione: cioè le notizie che uscivano sui giornali, sui siti
internet, sulle agenzie. Molto più ufficialmente, l'Inail ci dice
che i morti sul lavoro, nel 2007, sono stati 1207 e che il trend del
2008, fortunatamente, risulta in diminuzione.
Ma il dato definitivo dell'anno che si chiude si avrà solo fra
qualche mese, quando la burocrazia avrà finito i suoi conteggi.
Sperabilmente si collocherà di qualche decina di unità al di sotto
di quello dell'anno scorso e ci dirà, appunto, che il trend è
lievemente positivo, ma che non siamo ancora sulla strada giusta. La
strada, infatti, tornerà ad essere quella di un paese civile solo
quando riprenderà l'andamento dei decenni scorsi: dal 1951 al 1960
la media annuale di morti sul lavoro fu di 2.519. Dagli anni '60 in
poi, grazie alla crescita sociale, al cambiamento della struttura
stessa del lavoro in Italia (migrazioni epocali dalle fabbriche ai
servizi), alle battaglie sindacali, alla scoperta della parola
"sicurezza", alla capacità di controllo del movimento operaio, il
dato era sempre sceso: 2.375 morti all'anno tra il 1960 e il 1970;
1909 nel decennio '71-'80, 1.377 tra l'81 e il '90, 1.058 alle
soglie del secondo millennio.
"Da lì in poi - spiega Paola Agnello Modica, segretaria
confederale Cgil con responsabilità, tra l'altro, su salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro - i numeri sono di nuovo saliti".
Motivo? "Ce ne sono diversi: precarietà, lavoro nero, forte e
deregolato utilizzo di lavoratori migranti, sistema di appalti
basato quasi sempre sul prezzo più basso e quasi mai sulla qualità,
manutenzioni insufficienti, scarsa attenzione alla salute e
all'antinfortunistica considerati, in fondo, costi superflui. In
poche parole: un grave regresso culturale in termini di prevenzione
e di attenzione alla sicurezza sul lavoro". Un regresso che, tra
parentesi, costa (calcolo dell'Inail sulle conseguenze della mancata
prevenzione) qualcosa come 45 miliardi di euro pari a tre punti
percentuali di Prodotti Interno Lordo.
Anche gli infortuni non mortali hanno seguito andamenti analoghi:
erano scesi a 711 mila all'anno nel decennio di fine secolo e sono
risaliti a oltre un milione di media nei primi sette anni di questo
millennio.
Insomma, se il trend, negli ultimi due-tre anni, è tornato
lievemente positivo è solo perché fatti gravissimi come quello della
Thyssen, un ritorno di presenza mediatica sullo stillicidio dei
morti giornalieri, l'impegno di tanti delegati sui posti di lavoro e
l'attenzione del governo di centrosinistra, hanno riportato il
problema, se non in primissimo, almeno in primo piano. Qualcosa, in
effetti, si era mosso con la legge delega 123 dell'agosto 2007 e il
successivo decreto legislativo 81 (insieme fanno il Testo Unico
sulla sicurezza) che l'esecutivo di Prodi riuscì ad approvare in
extremis.
Da lì in poi, poco o nulla: il Testo Unico, per avere effetti, aveva
bisogno di 38 decreti e atti attuativi vari: "Il governo - dice
Paola Agnello Modica - non ne ha emanato neanche uno. Non solo -
aggiunge - hanno peggiorato le norme su orari, appalti, precarietà e
vigilanza e hanno rinviato l'applicazione delle novità sulla
valutazione dei rischi nelle aziende e negli appalti. Già che
c'erano hanno anche fermato il divieto di visite preassuntive. Cioè,
il datore di lavoro può far visitare da un medico aziendale una
persona prima dell'assunzione e il risultato, ovviamente, può essere
utilizzato per decidere se prenderla o meno".
Fra i pochi provvedimenti emanati c'è quello, decisamente vessatorio
sul controllo di tossicodipendenza sui lavoratori e una direttiva
agli ispettori del lavoro ai quali è fatto divieto di muoversi o far
partire controlli in base a segnalazioni anonime: "Ce lo vede -
domanda amara Agnello Modica - un operaio che va a denunciare, con
nome e cognome, una grave carenza di sicurezza in un cantiere di
subappalto o in una piccola azienda? Magari un operaio migrante non
in regola?". Tutto questo mentre i grandi Paesi europei nostri
omologhi (Germania, Francia, Spagna) migliorano sensibilmente il
tasso di infortuni ogni 100mila occupati e l'Italia (pur restando
nella media della Ue) si avvicina ai tassi di Paesi teoricamente più
arretrati.
Insomma, secondo il sindacato "si stanno creando tutte le condizioni
perché i rischi per i lavoratori tornino ad aumentare". Il ministro
del Lavoro Maurizio Sacconi ha già avvisato le parti sociali che,
entro metà mese, dovranno superare le attuali differenze di giudizio
sul Testo Unico che la Confindustria avversa in molte sue parti, e
trovare un "avviso comune". Poi, comunque, il governo farà di testa
sua: "Fare di testa loro - spiega ancora Agnello Modica - vuol dire
allegerire le ispezioni, ridurre gli obblighi dei datori di lavoro,
lavorare solo per obiettivi più che per regole. In poche parole:
affidarsi al 'buon cuore' e tornare indietro a un sistema in cui le
aziende non vanno disturbate".
Così, 365 giorni e mille morti dopo la Thyssen i
problemi sono più o meno gli stessi. Oggi è un giorno per ricordare
e provare a muovere qualcosa almeno in termini di attenzione
mediatica. Ma domani e dopodomani, nelle fabbriche e nei cantieri
dove si lavora in nero e i cartellini (con nome, cognome e
indicazione e ruolo nell'appalto della ditta di appartenenza) che
ciascun lavoratore dovrebbe portare indosso, sono ormai quasi
spariti, la battaglia riprenderà. Battaglia per lavorare, ricevere
un qualche stipendio e, ogni giorno, portare a casa la pelle.
10
dicembre
IL COLORE DELLA NUOVA
CASA BIANCA
A sinistra DI OBAMA
I retroscena della nomina di Hillary, il ruolo della
«generazione Clinton», i dilemmi intorno alle forze armate e
all'inevitabile taglio delle spese militari, la spinta che
dovrebbe venire (e probabilmente non verrà) dalla sinistra e dai
movimenti. Una tavola rotonda de «il manifesto» a Washington con
i vertici dell'Institute for Policy Studies
Marco d'Eramo
INVIATO A WASHINGTON
In un grigio primo pomeriggio, il vento soffia freddo sulla 16°
strada che sbocca a sud nei giardini della Casa bianca, in
Pennsylvania avenue. In quest'ampia via, quasi di fronte al
palazzo del Washington Post, ha sede l'Institute for Policy
Studies (Ips), uno dei più importanti centri studi (think tanks,
«serbatoi di pensieri») della sinistra americana. Nella saletta
riunioni con John Feffer, condirettore per la politica estera, e
Marcus Raskin, cofondatore dell'Istituto, parliamo dell'avvio
della nuova amministrazione. La prima domanda è sulla nomina di
Hillary Clinton a ministra degli esteri (segretaria di stato):
lo sport più in voga a Washington è scavare nei retroscena di
questa nomina e capire come mai Hillary ha accettato.
RASKIN: Che altro poteva fare? Ha capito che
non potrà mai più essere presidente. Almeno così ha l'occasione
di dare una sua impronta alla politica mondiale nei prossimi
anni. E se fa un buon lavoro può persino essere candidata alla
vicepresidenza nel 2012. Personalmente pensavo che lei volesse
diventare giudice alla Corte suprema, ma la giurisprudenza
l'annoia.
FEFFER: Barack Obama ha calcolato il proprio
futuro politico. Se si vuole ripresentare fra quattro anni, deve
fare i conti con i Clinton. Il suo obiettivo primario è far sì
che Hillary non sia tanto scontenta da costituire una minaccia
per lui. È anche nel carattere di Obama di unire il partito. E
Hillary, se le gira, può dividere il partito democratico più di
ogni altro. Obama doveva offrirle un posto abbastanza appetitoso
da indurla a cedere il proprio insediamento sul territorio.
Certo ci sarà un problema con Joe Biden che è stato scelto come
vicepresidente proprio per la sua competenza in politica estera.
E poi incombe anche Bill Clinton che - non c'è dubbio - sarà
assai ingombrante.
Obama si è circondato di clintoniani, ha nominato
Hillary segretaria di stato e di fatto ha lasciato entrare Bill:
insomma, non è ostaggio dei Clinton?
FEFFER: Devi fare compromessi se non vuoi spezzare il
partito. I Clinton sono stati al potere per otto anni e il
partito democratico non aveva avuto una simile esperienza di
governo dagli anni '60. Non c'è altro a disposizione che la
generazione Clinton. Della generazione più giovane, più
radicale, ci sarà solo uno spruzzo nell'amministrazione Obama.
Pensa alla politica estera. La scelta di Hillary è stata
determinata in primo luogo da ragioni di politica interna al
partito. Ma una seconda ragione per cui non è stato scelto John
Kerry è che, se lui fosse diventato segretario di stato,
automaticamente presidente della commissione esteri del Senato
sarebbe diventato il nostro amico Russ Feingold, senatore del
Wisconsin, che è troppo radicale, la pensa quasi come noi, e
quindi bisognava trovare il modo di escluderlo da questa
posizione. Vedi come ogni scelta si porta dietro altre scelte.
RASKIN: Bisogna tenere conto dei vari strati
della politica. Non c'è solo il massimo livello. Qui parliamo
non di una decina, ma di 5-8.000 posizioni che cambieranno di
mano. Sono un sacco di posti. Quale politica sarà davvero
attuata e messa in pratica dipende da tutta questa massa di
persone ed è al loro livello che bisognerà misurare l'influenza
della sinistra sulla nuova amministrazione. Ecco perché è una
fase politica interessantissima da osservare, magari non quanto
Berlusconi, ma lo stesso appassionante. E poi, al vertice,
bisogna guardare più da vicino: prendi l'uomo più potente della
nuova amministrazione, il capo dello staff della Casa bianca.
Rahm Emmanuel è amicissimo dei Clinton, ma viene da Chicago,
dove vige una peculiare concezione di cosa è il potere in
politica. Subito dopo la sua nomina, suo padre Benjamin ha
rilasciato un'intervista a un giornale israeliano (Ma'ariv) in
cui diceva: «Certo che mio figlio influenzerà il presidente in
senso pro-israeliano. Perché non dovrebbe? Non è mica un arabo,
non sta andando alla Casa bianca per lavare i pavimenti». La
comunità araba-americana insorge e subito Obama impone a
Emmanuel di scusarsi pubblicamente. Lo fa per chiarire che la
politica estera la decide lui e solo lui.
Tutti dicono che Obama deve fare qualcosa e rapidamente,
visto le attese che ha suscitato.
FEFFER: Certo, e per ciò deve disporre di persone che
sanno come operare nel sistema e conseguire gli obiettivi. A
questo livello le politiche sono relativamente irrilevanti. È la
ragione per cui ha confermato al Pentagono Robert Gates
(ministro uscente dell'amministrazione Bush), non perché è
d'accordo su tutto. Prima della nomina, Gates ha tenuto un
discorso di appoggio alla nuova generazione di armi atomiche,
ben sapendo che Obama è in totale disaccordo. Cioè, Gates,
sapendo di essere candidato alla difesa, quasi deliberatamente
ha tenuto questo discorso, come per dire: accetto il ministero,
ma alle mie condizioni.
C'erano altri candidati con altrettanta esperienza militare e
più consoni con Obama: per esempio, l'ex generale Eric K.
Shinseki (scelto poi come ministro per i veterani, ndr). Se si è
preso Gates, è sempre per la stessa ragione, perché ha bisogno
che le decisioni vengano attuate e non ostacolate. Ricorda
l'errore commesso all'inizio da Clinton, quando cercò d'imporre
ai militari di riconoscere i gay. Il suo errore non fu di agire,
ma di non reagire quando i generali si opposero: lì capirono che
a loro bastava puntare i piedi, capirono che era debole. Obama
non ha esperienza militare, e perciò deve chiarire subito chi
comanda: deve avere qualcuno che gli copre le spalle di fronte
ai generali, qualcuno capace di costruire un'alleanza tattica
con i repubblicani moderati sui tagli alle spese militari. Il
Pentagono sta già spingendo per ottenere un aumento delle spese
militari di 400 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
Nel frattempo il Homeland Security & Defense Business Council,
uno dei collegamenti tra il Pentagono e l'industria bellica, ha
pubblicato un rapporto in cui si dice che le spese militari
vanno non scorciate qua e là, ma decurtate di brutto, e questo
da un punto di vista puramente di business, non di geopolitica.
Alla fine si avrà un compromesso con tagli qua e aumenti di
spesa là, e un risultato totale più o meno uguale.
Ma Obama si è impegnato a restaurare il potere e
l'influenza americana nel mondo. Non sembra un proclama
pacifista.
FEFFER: Se vuole aumentare gli effettivi dell'esercito,
procedere all'escalation in Afghanistan, Obama dovrà trovare
qualcosa da tagliare nella spesa militare. Ha promesso
modernizzazione, quindi dovrà procedere a solo tagli mirati sui
nuovi armamenti, come il nuovo supercaccia F-35 Lightning. Né
potrà tagliare sulle basi militari in patria, perché su di esse
si regge l'economia di intere regioni, in particolar e nel sud.
Dove potrà tagliare in modo deciso sarà sulle basi militari
all'estero, in Germania, Giappone, Italia, persino in Corea del
Sud. Se così, sarà un segno - magari imposto e non voluto, ma
importantissimo - di ridimensionamento del progetto imperiale.
RASKIN: Obama vuole rafforzare l'esercito di
97.000 unità ma il problema è dove troverà i soldi per farlo.
Perché lui è già in debito con Ted Kennedy che lo ha appoggiato
da subito e che prima di morire vuole vedere approvata la
riforma sanitaria che perciò sarà sul tappeto fin da gennaio. Ma
se vuole più truppe in Afghanistan, la riforma sanitaria e gli
investimenti nei lavori pubblici, non può farlo senza un
sostanziale aumento delle tasse.
Nella politica americana però aumentare le tasse è una
bestemmia che si paga con la sconfitta elettorale. E i
responsabili che Obama si è scelto per l'economia non sono certo
campioni di anticonformismo.
RASKIN: La crisi è un'opportunità da non sprecare.
Quando le ricette tradizionali falliscono, quando i luoghi
comuni si mostrano falsi, c'è un'opportunità per fare qualcosa
di nuovo.
FEFFER: Il baricentro si è spostato. Paladini
del liberismo sostengono oggi l'azione statale, conservatori
prendono posizioni progressiste vicine alle nostre: Paul Volcker
(ex governatore della Federal reserve, ndr) si è spostato dalla
destra al centro. È cambiato il contesto ambientale. Oggi tutti
riconoscono l'importanza dell'intervento pubblico. In
discussione è solo la dimensione, la forma di questo interrvento.
Da questo punto di vista Obama è vicino alle posizioni europee,
che non sono straordinarie ma sempre meglio di quelle di Bush.
Quando ci sarà un nuovo G20 ad aprile, ci sarà un'atmosfera
completamente diversa.
Ma quale pressione può esercitare il fronte progressista
su Obama? E come?
FEFFER: Intanto ci sono centinaia di migliaia di
persone a sinistra che hanno speso mesi e mesi a cercar di farlo
eleggere e ora sono sfinite. Quanto ai movimenti, ancora non
sono pronti per uno scontro. Obama è stato assai discreto sui
suoi obiettivi. È stato più esplicito sul riscaldamento globale:
i gruppi ambientalisti sono stati molto soddisfatti del suo
impegno a ridurre le emissioni di anidride carbonica: se
mantiene le promesse, la posizione Usa diventerà migliore di
quella europea. Quindi i verdi sono contenti e non sentono
l'urgenza di spingere a sinistra Obama. E loro sono essenziali
per qualunque pressing. Lo stesso vale naturalmente per i neri e
per altre persone di colore che saranno assai riluttanti a
esercitare una pressione forte su Obama: gli daranno il
beneficio del dubbio. E poi c'è il sindacato che è una forza
declinante nella nostra politica e può avere un impatto su temi
specifici: vedremo come andrà sui due accordi di libero
commercio, quello con la Colombia e quello con la Corea del Sud.
Ma il problema è che non ci sarà più un'amministrazione Bush a
tenere insieme tutti quanti, a cementare una coalizione. La
nuova amministrazione disferà questa coalizione, non perché lo
vorrà - non siamo un bersaglio così importante - ma perché una
parte sarà paga, un'altra riluttante e una terza attenta solo ai
suoi interessi specifici. Sarà arduo mobilitare la gente. Già
adesso il movimento pacifista sta cercando di capire cosa fare,
si chiede: «e adesso»? Credo che il nodo centrale dovrà essere
la spesa militare, per unire politica estera e politica interna,
il portafoglio della gente e la pace. Ma opporsi all'escalation
in Afghanistan sarà difficile.
Insomma, la sinistra è inerme, i verdi sono già
contenti, i neri non si muoveranno neanche a cannonate, i
sindacati sono preoccupati solo dalla loro cucina; e non c'è più
un Bush a tenere insieme la coalizione progressista...
RASKIN: Non sono così pessimista. Ricorda la storia.
Pensiamo al 1959-60: in quel momento i bianchi si sentivano
abbastanza tranquilli rispetto ai neri e l'establishment si
sentiva al sicuro da ogni contestazione. Quando Kennedy si
candidò non si vedeva all'orizzonte un movimento in grado di
premere sulla classe politica. Eppure bastarono quattro
ragazzini di Greensboro (North Carolina) che nel febbraio 1960
andarono a sedersi in una tavola segregata della mensa del
college (solo i bianchi potevano sedervisi, mentre gli studenti
neri dovevano mangiare in piedi, ndr.), perché il movimento dei
diritti civili crescesse a valanga. Oggi noi non sappiamo quel
che succederà, ma è assai probabile che Obama si trovi come
Kennedy quando fu eletto: seduto su un terremoto ancora
impercettibile.
FEFFER: Un altro modo per premere da sinistra è
l'influenza intellettuale. Oggi sono all'ordine del giorno
tematiche che noi abbiamo proposto per anni ma non avevano mai
avuto diritto di cittadinanza nel dibattito politico ufficiale.
Adesso altri le fanno proprie, anche se non ci citano. Magari
non sarà gente di sinistra ad attuare misure di sinistra, ma
l'importante è che i nostri temi siano ora all'ordine del
giorno. Per noi dell'Institute for Policy Studies è un'occasione
irripetibile: potremo diventare nella nuova fase quello che è
stato l'American Enterprise Institute (il più importante think
thank conservatore) per il potere repubblicano. Sarà compito
nostro nutrire di idee questa fase politica.
TerraTerra
Le foreste di Poznan
Elena Gerebizza
«Nessun progetto per la riduzione delle emissioni derivate dal
degrado delle foreste su territori delle comunità indigene
dovrebbe essere approvato senza il consenso previo e informato
delle popolazioni che abitano questi territori». Così si è
espressa Victoria Tauli-Corpuz, del forum permanente dei popoli
indigeni presso le Nazioni unite, in una delle sessioni della
Conferenza sul clima che sta avendo luogo in questi giorni a
Poznan, in Polonia.
La gestione delle foreste e il mantenimento della biodiversità
che contengono è al centro dei negoziati nella seconda settimana
di lavori. Questione controversa, in cui stanno entrando a gamba
tesa il settore privato, in prima linea nel cercare di
garantirsi profitti dal controllo dei territori sconfinati delle
foreste del Sud del mondo, e la Banca Mondiale. L'istituzione
finanziaria di Washington ha da poco finalizzato la propria
iniziativa per le foreste e, tra grandi contestazioni dei popoli
indigeni, delle comunità contadine e della società civile di
tutto il mondo, sta facendo pressione sui governi presenti a
Poznan perché divenga il meccanismo di riferimento per
finanziare il capitolo Redd (sulla riduzione delle emissioni
derivate appunto dal degrado delle foreste) del negoziato.
Un approccio «business as usual» che la Banca ancora una volta
propone, cercando di far rientrare anche le foreste nel mare
magnum del mercato dei crediti di carbonio di cui hanno finora
beneficiato ironicamente la stessa Banca assieme ai grandi
inquinatori privati. Dal 1999 ad oggi, la maggior parte del
portfolio di crediti di carbonio (tra il 75 e l'85%) gestito
dalla Banca Mondiale ha finanziato industrie nel settore
chimico, del ferro, dell'acciaio e del carbone, mentre meno del
10% dei fondi a disposizione è stato investito in progetti di
energie rinnovabili.
Un risultato scoraggiante che non spiega come lo stesso
meccanismo potrebbe portare risultati positivi nel delicato
ambito della gestione delle foreste. Le comunità indigene hanno
già preso le distanze dall'iniziativa della Banca Mondiale, che
è stata disegnata e già inizia ad essere implementata senza
nemmeno aver consultato le popolazioni indigene che da quelle
foreste dipendono, e che in molti paesi sono già state
riconosciute come proprietà comunitaria delle stesse comunità
indigene. La società civile, che oggi manifesterà a Poznan
davanti al centro conferenze dove si svolge in negoziato facendo
la parodia della Banca mondiale, che finanziando grandi centrali
a carbone è tra i principali responsabili della devastazione
ambientale del pianeta, chiede che la Banca rimanga fuori dai
negoziati sul clima, e incoraggia i governi riuniti in Polonia a
istituire un meccanismo indipendente dai banchieri di Washington
che, sotto l'egida della Conferenza delle Parti, e in
consultazione con i popoli indigeni, le comunità locali e la
società civile, metta a disposizione i fondi per gli interventi
necessari per l'adattamento e la mitigazione degli impatti
derivati dal cambiamento climatico. Un budget di migliaia di
miliardi, che i governi devono finanziare secondo responsabilità
comuni ma differenziate e secondo principi di partecipazione,
trasparenza ed equità, perché la comunità internazionale e il
pianeta possano beneficiarne. La società civile ha presentato
oggi un documento che contiene i principi cardine per
l'istituzione di un Fondo Globale sul Clima, con l'obiettivo di
contribuire ai lavori dei governi perché si arrivi a una
proposta condivisa per un meccanismo post-Kyoto entro
l'importante appuntamento del prossimo anno a Copenaghen.
I retroscena del misterioso attacco di Abu Kamal, nel deserto
siriano
Scritto per noi da Angelo
Calianno
27 Ottobre del 2008, nei telegiornali
italiani una notizia di due righe viene letta tra la cronaca estera e la
pagina dei gossip. Un commando di soldati Usa ha varcato il confine
iracheno fino ad arrivare in un villaggio in Siria, uccidendo 8 persone
collegate ad una cellula di Al Qaeda.
Questa
notizia, data alla velocità con cui si lancia la pubblicità, ha molto di
più dietro e stando alle testimonianze, è molto imprecisa. Il villaggio
in questione si chiama Abu Kamal, che proprio un villaggio non è, ma una
piccola cittadina a 10 kilometri dal confine iracheno. Questa vivace
comunità è una delle più grandi in quella zona, ed è forse il posto più
accogliente che abbia mai trovato in Siria. Qui scorre il grande fiume
Eufrate che si snoda dal centro del paese fino ad arrivare in Iraq. 26
ottobre 2008, 4 elicotteri americani entrano nel villaggio di
Al-Sukkariya, che appartiene al distretto di Abu Kamal. Gli eliccoteri
si dirigono verso una casa in costruzione, lanciano qualche razzo, colpi
di mitragliatrice e di fucile semiautomatico. Muoiono gli operai del
palazzo, il custode, sua moglie ed i suoi bambini, 8 persone in tutto.
Ma il raid era davvero diretto a loro?
Il
pentagono parla di successo ma, in realtà, chi ha pronunciato queste
parole si tira indietro nascondendosi con una dichiarazione anonima. Gli
americani cercavano Abu Ghaduya, un trafficante d’armi legato ad Al
qaida che però non era lì. In sostanza, sono stati uccisi 8 civili.
Arrivo a Damasco pochi giorni dopo l’attentato, chiedo ai miei contatti
di raccontarmi la situazione politica ricevendo cenni negativi e
silenziosi: parlare del proprio governo in Syria è punibile col carcere
e severamente proibito. In sede più appartata vengo a sapere che le cose
non stanno poi così male, ma che lo stato si è chiuso troppo
all’occidente aggregandosi più ai paesi arabi. Qualsiasi cosa si
acquisti dall’estero viene tassata per 3 volte il suo prezzo, il sito
che spopola in Europa: Facebook, è censurato e proibito, perché qualche
burlone aveva preso in giro il presidente. Anche se la nuova generazione
Siriana ha trovato modo di eludere il blocco telematico collegandosi dal
Libano o dalla Turchia…illegalmente.
L’attacco
di Abu Kamal porta ancora strascichi di malumore a Damasco, pur non
essendo vicina al luogo del raid, è qui nella capitale che si sono avute
le conseguenze peggiori. Migliaia di persone hanno manifestato di fronte
l’ambasciata americana, così ardentemente che tutte le organizzazioni
Ong, gli istituti di cultura e le scuole di lingua inglese gestiti da
americani hanno dovuto chiudere i battenti fino a nuovo ordine,
l’America è stata ufficialmente accusata di atto terroristico e crimine
di guerra contro lo Stato Siriano. Qualsiasi visto è stato negato agli
statunitensi che si vogliono recare in Siria, fino a nuovo ordine. I
miei 2 amici lavorano…o meglio lavoravano in un istituto di cultura dove
si insegnava informatica ed inglese. Mi raccontano che nel loro gruppo
sessantacinque, tra lavoratori stagionali e impiegati americani, sono
dovuti partire in fretta e furia. E duecento Siriani, tra cui loro due,
hanno perso un buon posto di lavoro; senza parlare di tutti i ragazzi
che hanno perso una possibilità di studiare. Tutto questo perché? “E'
l'ultima follia di Bush” mi dicono sorridendo.
Pochi
giorni prima ad Aleppo, città del nord, un uomo mi aveva fermato per
strada dicendomi: "Hai sentito? Obama è il nuovo presidente Americano,
forse Abu Kamal è stato l’ultimo colpo di Bush, ho molta fiducia in
Obama, perché nessuno può essere peggio di Bush". Quando decido di
partire per Abu Kamal tutti cercano di dissuadermi: "troppo pericoloso;
sei sempre un occidentale". Ma è una battuta al veleno che mi colpisce
più delle altre raccomandazioni: "Stai attento, e se gli americani
uccidono anche te?" Abu Kamal non è nulla di quel che mi aspettavo, una
città viva, allegra con una grande via mercato. La polizia mi offre il
tè, i bambini mi chiedono di essere fotografati, un ragazzo mi
accompagna dietro la sua moto al centro della città, un altro mi urla
"Welcome to my Country". Non si vedono mai occidentali da queste parti e
dopo l’attacco se ne vedranno ancora meno. Qui nessuno può o vuole
parlare dell’accaduto, tra la gente tutto è detto dolorosamente a denti
stretti e con mezze frasi. Chi invece ha preso una posizione certa è il
governo Siriano, che ha defininito l’attacco un errore gravissimo
dell’intelligence dello staff di Bush.
L'Ansa di due righe in Italia qui si
trasforma in gente dal velo nero che porterà il lutto per 3 mesi, di
gente che continua a sorridere perché non riesce a capire, ma dovrà
ricordare quella che è stata ribattezzata l’ultima follia di Bush.
Secondo gli esperti più di duemila persone uccise solo per
avere una ricompensa
Dal 2002 i soldati dell'esercito colombiano hanno compiuto centinaia
di esecuzioni extragiudiziali nei confronti di civili. Purtroppo
questa non è una novità, Peacereporter ne aveva già dato notizia in
uno dei suoi numerosi articoli.
La
novità sta nel fatto che per ogni uccisione l'esecutore intascasse
più o meno 1.300 euro finanziati con i fondi della cooperazione
internazionali. Ed è proprio per questa succosa ricompensa che si è
messo in moto il meccanismo delle esecuzioni. Un meccanismo oliato
nel tempo e redditizio che ha colpito innocenti soprattutto
appartenenti alle classi sociali più indigenti.Oggi poi, dopo il
ritrovamento di centinaia di cadaveri si viene a conoscenza di come
funzionava la trappola: i cadaveri che inizialmente sembravano
essere quelli di guerriglieri delle Farc erano in realtà corpi di
contadini a cui veniva infilata un'uniforme per poi essere uccisi a
sangue freddo.
Si
stima che siano almeno 2.100 le vittime innocenti di questa
trappola. Molte di più di quelle causate dall'Eta (separatisti
baschi) e dall'Ira (organizzazione paramilitare irlandese) in mezzo
secolo di attività. E se si moltiplica il numero dei supposti morti
ammazzati per la cifra finanziata per ogni cadavere si raggiunge una
quota pari a poco meno di 3 milioni di euro. Tutti indistintamente
provenienti dalla cooperazione internazionale. Come dimostra un
documento segreto del ministero della Difesa diffuso da Justicia
para Colombia, un'organizzazione composta da specialisti forensi,
professori di diritto e giuristi europei, che spiega come i fondi
per il pagamento ai soldati "arrivino dallo Stato colombiano e dalla
cooperazione internazionale". Inoltre è stato diffuso il tabellario:
1,7 milioni di euro per un capo guerrigliero, 1.300 per un
guerrigliero semplice. C'è dell'altro. Il documento contraddice
Uribe che dal canto suo ha sempre negato l'esistenza di una politica
"di ricompensa". Ma ormai nessuno più crede alle parole del
presidente. Resta da capire come mai nessuno abbia denunciato questa
terribile situazione che non faltreo che alimentare la guerra fra le
parti gettando ancor di più, se possibile, la Colombia nel baratro
della paura e della violenza.
Alessandro Grandi
Tra le province cadute in mano alla guerriglia anche quella
'italiana' di Herart
I talebani, che solo
un anno fa controllavano il 54 percento del territorio
afgano, oggi ne controllano il 72 percento e
circondano Kabul. Lo certifica il rapporto annuale del
think-tank di politica internazionale
Icos (ex Senlis Council), che fornisce analisi e statistiche
a supporto delle operazioni Nato in Afghanistan.
"In
Afghanistan ormai i talebani guidano il gioco, sia politicamente
che militarmente", ha dichiarato Paul Burton, direttore dell'Icos.
"C'è il reale pericolo che i talebani riconquistino l'intero
Paese".
Il rapporto sottolinea anche come "tre delle quattro vie
d'accesso alla capitale Kabul siano già in mano alla
guerriglia".
Solo nel 7 percento del territorio afgano i talebani hanno una
"scarsa presenza" (non nulla), e si tratta sostanzialmente del
Panjshir (a nord di Kabul), roccaforte dei mujaheddin tagichi, e
delle province settentrionali attorno a Mazar-e-Sharif,
controllate dalle milizie uzbeche del signore della guerra
Rashif Dostum.
Tra le regioni che nell'ultimo anno sono di fatto finite in mano
agli insorti c'è anche la provincia occidentale di Herat, dove
si concentra il grosso del contingente militare italiano.
Oggi il capo del Comando Centrale Usa, il generale David
Petraeus, è a Roma per convincere il governo Bersulconi a
fornire un maggior contributo militare sul fronte di guerra
afgano.
8 dicembre
L'allarme della Fao: 963
milioni di persone soffrono la fame
La
fame avanza inarrestabile, e miete sempre più vittime: oggi nel mondo ci sono
963 milioni di affamati, 40 milioni in più dell'anno scorso e 115 milioni in più
rispetto al biennio 2003-2005. E l'attuale crisi finanziaria potrebbe aggravare
ulteriormente la situazione. A lanciare l'allarme è l'ultimo rapporto Fao sullo
Stato dell'insicurezza alimentare nel mondo (Sofi), che riporta i dati del 2007,
aggiornati dall'agenzia Onu agli ultimi mesi di quest'anno e riportati nella
conferenza stampa di lancio del documento, a testimoniare come la piaga della
fame proceda inarrestabile e a ritmi sostenuti.
La causa dell'impennata è l'aumento dei prezzi delle materie prime - Alla
base del "drammatico quanto rapido" aumento del numero di affamati cronici nei
Paesi del sud del mondo c'è l'impennata dei prezzi delle materie prime agricole,
che ha fatto precipitare nell'insicurezza alimentare milioni di poveri e ridotto
drasticamente la quantità e qualità del cibo a loro disposizione. Nonostante il
calo dei prezzi dall'inizio del 2008, ha spiegato vicedirettore generale della
Fao e curatore del rapporto, Hafez Ghanem, "per milioni di persone nei Paesi in
via di sviluppo riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente
per poter condurre una vita attiva e sana è ancora un sogno lontano".
Maggiori rischi dalla crisi economica - "I problemi strutturali della
fame, come l'accesso alla terra, al credito e all'occupazione, sommati ai prezzi
sostenuti dei generi alimentari (calati del 50 per cento negli ultimi mesi ma
ancora superiori del 20 per cento rispetto al 2006, ndr.) continuano a essere
una spaventosa realtà". E ha avvertito: "Se i prezzi più bassi e la stretta
creditizia associati alla crisi economica costringeranno gli agricoltori a
diminuire le semine, l'anno prossimo potrebbe verificarsi un'altra drammatica
ondata di prezzi alimentari alti".
Aumento dei prezzi occasione di sviluppo - Tuttavia, secondo gli esperti
Fao, l'alto prezzo delle derrate può diventare un'opportunità di sviluppo ed
essere la chiave di volta per uscire dall'impasse e scongiurare l'ulteriore
crescita di povertà prevista dagli economisti. Nel lungo periodo, infatti,
l'aumento del costo del cibo può rappresentare un'occasione di sviluppo per i
milioni di piccoli agricoltori poveri, favorire l'espansione dei mercati
regionali, creare nuovi posti di lavoro e rilanciare in modo sostenibile
l'agricoltura del sud. Da qui, la duplice strategia, coerente e coordinata, su
cui governi, Paesi donatori, Nazioni Unite, ong, società civile e settore
privato devono "immediatamente" convogliare gli sforzi: da una parte rafforzare
il settore agricolo e aiutare i piccoli produttori ad aumentare la produttività
fornendo sementi, fertilizzanti e mangimi per animali, oltre a macchine
agricole, infrastrutture e servizi essenziali. Dall'altra, avviare programmi di
sicurezza e protezione sociale per le categorie più vulnerabili, così da
garantire ai più poveri l'accesso al cibo. Solo così la battaglia per
raggiungere entro il 2015 gli Obiettivi del Millennio non sarà stata vana.
Diouf: serve una risposta urgente - La drammaticità della situazione
richiede, secondo gli esperti Fao, una risposta urgente e concreta. "Le
preoccupazioni della comunità internazionale sono fondate", ha avvertito alla
presentazione del rapporto Sofi il direttore generale della Fao, Jacques Diouf,
"per la prima volta da quando la Fao ha iniziato a monitorare il trend della
malnutrizione nel mondo, il numero degli affamati cronici ha raggiunto il picco
più alto. La Fao stima che, a causa principalmente del brusco aumento del costo
del cibo, questa cifra è aumentata di 75 milioni nel solo 2007" (e di altri 40
milioni nei primi mesi del 2008 ndr.).
4 dicembre
Il leader ribelle Kony non si presenta per siglare la pace,
il governo si interroga sull'opzione militare
scritto da
Matteo Fagotto
Ancora una volta, per l'ennesima volta. Lo scorso fine settimana
il leader dei ribelli ugandesi del Lord's Resistance Army, Joseph
Kony, non si è presentato alla cerimonia per la firma degli accordi
di pace che avrebbero posto fine a 22 anni di guerra tra il gruppo
ribelle e l'esercito ugandese, facendo tornare indietro a mani vuote
non solo la delegazione governativa, ma anche i notabili Acholi che
abitano il nord dell'Uganda, la regione maggiormente devastata dalle
violenze negli ultimi anni. Dopo l'ennesimo fallimento, il governo
di Kampala si chiede se la prosecuzione delle trattative abbia
ancora un senso.
Anche
stavolta, come nelle occasioni precedenti, Kony aveva assicurato,
tramite i suoi intermediari, la sua presenza alla cerimonia, in
programma nella città sudanese di Juba. Ma alla fine, come le volte
precedenti, ha prevalso la paura. Per uscire dal proprio
nascondiglio nella foresta congolese, il leader ribelle ha chiesto
lo stralcio del mandato di cattura per crimini di guerra e contro
l'umanità emesso dalla Corte Penale Internazionale dell'Aja, e che
pende sulla sua testa. Nonostante gli accordi raggiunti in questo
senso con il governo ugandese, infatti, la Cpi, a suo tempo invitata
a investigare sui crimini compiuti dai ribelli proprio da Kampala,
non ha finora accettato di bloccare il procedimento giudiziario nei
confronti di Kony.
Tutto come prima allora? Non proprio. Stavolta, infatti, sarebbe
avvenuto un fatto nuovo: Kony, stando alla sua versione dei fatti,
avrebbe ricevuto un sms sul suo telefonino proveniente da un
ufficiale dell'esercito ugandese, che lo minacciava di morte anche
se avesse siglato la pace con il governo. Una versione a cui Frank
Nyakairu, analista del conflitto ugandese, non crede. "I proclami di
Kony hanno un solo fine. Far tornare a parlare di lui", spiega a
PeaceReporter. "Ogni volta che vede l'attenzione mediatica calare,
Kony se ne esce con qualche novità. Ma dubito delle sue reali
intenzioni di pace".
La
visione di Nyakairu non è isolata. Da più parti ormai si levano voci
che chiedono di risolvere la questione Kony una volta per tutte,
liberando il nord Uganda dal rischio di una nuova guerra. A questo
proposito, il governo ha annunciato che consulterà i leader della
comunità Acholi per decidere il da farsi. Meglio proseguire con le
iniziative di pace, visto che, dopotutto, sugli accordi raggiunti da
entrambe le parti manca solo la firma finale, o scegliere la strada
della guerra? La seconda opzione è difficilmente praticabile,
considerando il fatto che, al momento, gli effettivi del Lra sono
sparsi tra le regioni di confine di Uganda, Congo e Sudan, e che le
azioni militari sono condotte principalmente al di fuori del
territorio ugandese. Lo scorso mese, alcune associazioni locali per
i diritti umani avevano denunciato la morte di più di 200 civili in
poche settimane per mano dei ribelli. Da nazionale, il Lra è
diventato insomma un problema regionale, che richiede la
collaborazione degli stati vicini.
Continua la battaglia dei curdi contro il governo turco per il bacino
idrico di Ilisu. E nella lotta c'entra anche l'Italia
"Tutto è cominciato a Londra, quando ho incontrato gli avvocati del
Kurdish Human Rights Project (Khrp), un'associazione che si occupa
principalmente di tutela legale dei curdi, in primo luogo presso la
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Ho offerto la mia collaborazione,
ma loro mi hanno chiesto subito di mettere la mia professionalità a
disposizione per la vicenda del coinvolgimento della Unicredit nel
finanziamento del progetto per la diga di Ilisu''.
Una
questione di diritti. Questo è il racconto di Luca
Saltalamacchia, avvocato napoletano, e del suo incontro con la causa
curda. "Mi hanno parlato dell'impegno di una serie di associazioni in
Italia che si battevano contro la costruzione della diga di Ilisu",
racconta Saltalamacchia. "Grazie al mio lavoro di avvocato mi chiedevano
di studiare il caso per valutare la possibilità di citare in giudizio la
Unicredit che finanzia un progetto che viola i diritti di migliaia di
persone, almeno come ulteriore strumento di pressione sull'opinione
pubblica".
I media ne parlano poco, ma Ilisu è un dramma per migliaia di persone.
Fin dai tempi di Ataturk, la Turchia ha in cantiere un mega progetto di
dighe che sommergeranno villaggi curdi. Un enorme bacino idrico, che
però sconvolgerà la vita delle comunità locali, dell'ecosistema e dei
rapporti con i paesi confinanti, che finiranno coinvolti dalle scelte
dell'esecutivo di Ankara. Dopo anni, il progetto della diga di Ilisu
sembra pronto a essere realizzato, con il contributo di uno dei più noti
istituti di credito italiano. Ma proprio in Italia i curdi hanno trovato
chi li sostiene nella loro lotta. "Ho preso contatto con attivisti e
associazioni che mi hanno fornito il materiale sul quale lavorare -
continua l'avvocato napoletano - Dal punto di vista tecnico mi sono
interfacciato con attivisti curdi che coordinano la campagna europea
contro la diga, compreso un ingegnere. Messe in ordine le idee, a giugno
di quest'anno, io e l'avvocato Laura Lauriti abbiamo stilato il parere
legale che secondo noi permette di fare causa, in Italia, all'Unicredit".
Ma come? "E questo è un elemento interessante, perché non ci sono
precendenti. E' possibile citare un grande gruppo finanziario che ha
sede in Italia per violazione dei diritti umani commessi anche in una
paese terzo da cittadini italiani ma nessuno fino ad ora l'ha mai fatto.
Sul tema mi sono confrontato con docenti universitari che studiano
questa materia. In pratica, il finanziamento è stato concesso dalla
Bank Austria Creditanstalt, austriaca, ma questo istituto è
controllato da Unicredit. Non abbiamo dovuto, per fortuna, faticare a
dimostrare il legame diretto tra i due istituti, perché in tutta la
documentazione la Unicredit si è sempre definita come la controllante
della banca austriaca".
Una
battaglia dura. Capito che, tecnicamente, è possibile, come vi
siete mossi?
"A luglio abbiamo avuto un primo incontro con alcuni funzionari Unicrdit
e gli abbiamo chiesto ufficialmente di ritirarsi dal finanziamento
dell'affare, altrimenti saremmo andati avanti nella nostra battaglia
legale", racconta Saltalamacchia. "Stabilita la necessità di parlare
della vicenda direttamente con l'amministratore delegato di Unicredit,
Alessandro Profumo, ci è stato fissato un appuntamento per il 23
ottobre, ma è stato annullato pochi giorni prima per le note vicende
della crisi finanziaria mondiale. Ne è stato fissato un altro, per il 4
novembre, ma ancora una volta non siamo stati ricevuti. A quel punto
abbiamo intimato alla Unicredit di ritirarsi dal finanziamento entro il
10 dicembre. E questo è stato il nostro ultimo contatto con loro.
Bisogna distinguere, perché ci sono persone di Unicredit con le quali
siamo in contatto e che seguono la vicenda, ma i vertici no". Perché
proprio il 10 dicembre? "perché è una data simbolica: in primo luogo per
l'anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, in
secondo luogo perché l'8 dicembre scadono i sessanta giorni di tempo
concessi al governo turco dalla tre Agenzie di Credito all'Esportazione,
organi statali di controllo che monitorano gli affari delle loro aziende
con stati esteri, dei tre paesi coinvolti nel finanziamento della diga:
Germania, Svizzera e Austria (come detto in realtà l'Unicredit) per
adeguarsi alle condizioni minime di rispetto dei diritti umani e della
tutela ambiantale e artistica che, fino a oggi, Ankara ha compeltamente
ignorato", risponde l'avvocato.
Un
futuro incerto. Cosa accadrà se, nei prossimi giorni, non
accadrà nulla? "Li citeremo in giudizio, credo presso il tribunale di
Bologna, dove ha sede l'Unicredit", risponde determinatoli legale.
"Abbiamo anche raccolto le testimonianze di una parte dei contadini
curdi coinvolti nel piano di esproprio del governo turco per realizzare
la diga. Che sono i nostri veri clienti finali. In totale saranno
interessate circa 78mila persone, per le quali non è stato ancora
organizzato un piano reale di indennizzi e di ricollocamento, abitativo
e lavorativo. Qui non è tanto in discussione da un punto di vista
giuridico la possibilità di uno stato di espropriare le terre per
un'opera pubblica, questa è una scelta politica, per quanto
contestabile. La nostra battaglia è in merito al fatto che questo
avvenga in violazione di diritti fondamentali della persona, come il
diritto alla proprietà e il diritto a mantenere il proprio stile di
vita. Sarebbe in generale però da discutere tutto il progetto, che non
porterà alcun beneficio alle popolazioni locali. I benefici
dell'operazione non giustificano i costi, umani ed economici, di
un'operazione da 2mila milioni di euro. Il vero motivo, come lo stesso
premier turco Erdogan ha detto, è la battaglia contro i guerriglieri
curdi del Pkk che operano nella zona". Una battaglia, però, che si
combatte sulla pelle di migliaia di contadini indifesi. Avvocato, in
coscienza, pensate di farcela? ''Me lo sono chiesto io e ci siamo
confrontati sulla questione con le associazioni che si battono contro la
diga. In questa vicenda ci sono due aspetti: la causa in sé e la notizia
stessa della causa. Sotto il primo aspetto è una vittoria anche solo
iniziare questa battaglia. Non ci sono precedenti, sembrava impossibile.
E la causa porterà l'attenzione sulla vicenda, rendendo nota la lotta
contro la diga di Ilisu e l'Unicredit subirà delle pressioni. Rispetto
al solo aspetto giudiziario è dura, non ci sono precedenti E' dura,
basti pensare che l'Unicredit si cita in Italia, ma si dovrà applicare
nella causa il diritto turco e le convenzioni internazionali. Ci vuole
un giudice che abbia voglia di capire una materia tanto complessa. Ma se
non si comincia non si creerà mai il clima giusto che serve alle grandi
battaglie per i diritti civili".
Christian Elia
Una Ong denuncia la tragica condizione delle lavoratrici
domestiche straniere in Bahrein
Lo scorso 22 novembre Siti Maemoona, una donna indonesiana di 34 anni,
ex lavoratrice migrante in Bahrein, ha partorito senza sostegno medico
in uno squallido appartamento di Manama, e poche ore dopo è deceduta.
Siti viveva in quel povero appartamento, assieme a diverse donne
filippine clandestine, da due anni. Da quando era fuggita dal suo
sponsor, l'uomo cioè che le aveva permesso di entrare nel paese come
lavoratrice domestica. Sola e senza documenti in un paese straniero, era
rimasta incinta, ma il suo uomo aveva lasciato il paese costringendola a
partorire clandestinamente: una scelta fatale, ma allo stesso tempo
drammaticamente comune nella penisola del Bahrein.
Alla
fine di ottobre 2008 si e svolta la 42ma edizione del comitato per la
Cedaw, la convenzione per l'eliminazione delle discriminazioni verso le
donne. Per l'occasione, tre Ong che si occupano dei problemi delle
lavoratrici straniere in Bahrain hanno pubblicato un rapporto e lanciato
un appello alla monarchia dei Khalifa, affinchè intervengano sulla
legislazione locale che le discrimina gravemente. Nel rapporto si
descrivono le disriminazioni che i lavoratori stranieri, ma in misura
particolare le lavoratrici, subiscono nel paese. Un problema molto
diffuso che si amplifica quando le prestazioni di lavoro si svolgono
entro le mura domestiche. Nell'appello, invece, si chiedono
provvedimenti urgenti soprattutto per quel che riguarda le lavoratrici
straniere in gravidanza e i loro figli. Negli ultimi otto anni, infatti,
le Ong hanno registrato almeno 30 casi come quello di Siti: donne che
per evitare problemi con i datori di lavoro o con gli sponsor hanno
nascosto le gravidanze, partorito in situazioni degradate o anche
soppresso i figli, che in diversi altri casi sono stati affidati agli
orfanotrofi. Le Ong chiedono anche una modifica urgente della legge
sulle adozioni, giacché le norme vigenti le vietano per le coppie non
originarie del Bahrein. Secondo Marietta Dias della Migrant Workers
Protection Society, nel paese ci sono decine di coppie che vorrebbero
adottare uno di quegli orfani, ma non possono farlo perché non sono
originarie del Bahrein. Allo stesso tempo si chiede di garantire un
documenti di identità ai figli abbandonati, per i quali altrimenti non
ci sarebbe altro futuro che la strada. Tutte queste aberrazioni sono
conseguenze di rapporti extra-coniugali o di violenze sessuali, ma
quello che le accomuna è la condizione di ricatto cui sono sottoposte le
lavoratrici domestiche, molto simili a quelle che subiscono le donne
coinvolte nella tratta della prostituzione. Di fatto le lavoratrici
domenstiche che venfono dal sud-est asiatico in Bahrein non ricadono
entro nessuna delle categorie riconosciute di lavoratori e perdipiù sono
soggette alla legge familiare del paese, che ispirandosi alla Shari'a
presuppongono una quasi-immunità per gli uomini a scapito del sesso
debole. Agli abusi e alle violenze si aggiunge dunque anche
l'impossibilità di denunciare quanto si è subito.
I
lavoratori stranieri nel Bahrein sono circa 70mila: provengono
soprattutto da India, Sri Lanka, Indonesia e Filippine. Secondo l'International
Labour Organization, metà di loro sono donne impiegate in contesti
domestici, dove sono particolarmente soggette a sfruttamento e abusi. Le
domestiche straniere non vengono infatti inquadrate nel contratto di
lavoro nazionale, e vengono quindi costrette a orari di lavoro
estenuanti (oltre cento ore a settimana), bassi stipendi e condizioni di
vita povere quando non repressive. Spesso non possono godere di giorni
liberi e hanno delle gravi restrizioni di movimento, dovute anche al
fatto che nella maggioranza dei casi i padroni o gli sponsor ritirano
loro i documenti. Gli stessi padroni e sponsor sono indispensabili per
ottenere il visto, per cui le donne che cercano di sfuggire da
situazioni di schiavità o violenza o di denunciarle rischiano invece di
essere arrestate. Una conseguenza di questa situazione è l'omertà. Le
lavoratrici vittime di violenze sono invisibili e quantificare il
fenomeno è un impresa titanica anche per le Ong locali. Secondo le
statistiche del governo, il 30 3 il 40 percento di tutti i casi di
suicidio registrati negli ospedali psichiatrici del paese, erano
lavoratrici domenstiche straniere.
2 dicembre
Congo, il mondo sta a
guardare
La comunità internazionale impotente di fronte
alla crisi nel Kivu
scritto da Matteo Fagotto
Sono passati tre mesi dallo scoppio della crisi
congolese, ma al Palazzo di Vetro dell'Onu, così come a Bruxelles e all'Unione
Africana, non si trova il bandolo della matassa per sbrogliare una crisi che ha
provocato almeno 250.000 sfollati e migliaia di vittime. Tra mediazioni fallite,
risoluzioni proposte e trattati di pace mai rispettati, la regione orientale del
Kivu rimane alla mercé dei ribelli del generale Laurent Nkunda, oltre che delle
milizie Mayi-Mayi e dei ribelli Hutu ancora presenti in Congo. I due principali
contendenti, Nkunda stesso e il presidente congolese Joseph Kabila, rimangono
fermi sulle loro inconciliabili posizioni.

Nemmeno gli sforzi di Olusegun Obasanjo, ex-presidente nigeriano e inviato
speciale dell'Onu in Congo, hanno sortito l'effetto sperato. Anzi, sabato
scorso, nel corso della sua seconda visita in 15 giorni nel Kivu, Obasanjo
avrebbe avuto un vivacissimo scambio di opinioni con Nkunda, accusandolo del
mancato rispetto della tregua imposta ai suoi uomini dal generale stesso due
settimane fa. Nkunda si sarebbe giustificato sostenendo che la tregua rimane in
vigore nei confronti dell'esercito congolese, ma non delle milizie alleate di
Kinshasa presenti ancora nella regione. Alla fine del vertice, le posizioni non
avrebbero potuto essere più distanti: mentre Obasanjo sottolineava gli sforzi
compiuti verso la pace, Nkunda lanciava una sorta di velato ultimatum a Kabila.
Incontrarsi a un vertice internazionale a breve, oppure subire una nuova
offensiva dei suoi uomini.
Se non altro, il Palazzo di Vetro è riuscito a votare un aumento dei contingenti
della Monuc (la missione Onu in Congo), che passeranno da 17.000 a 20.000. A
Bruxelles, invece, le divisioni interne all'Unione Europea non hanno permesso di
raggiungere neanche un accordo sul possibile invio di una forza di intervento
rapida, caldeggiata da Francia e Belgio ma osteggiata dalla Gran Bretagna e dal
capo della diplomazia europea, Javier Solana. Per ora, la linea della Ue è
quella di limitarsi a generici appelli sul rispetto degli accordi di pace
siglati nel 2007 e nel gennaio 2008, i quali prevedono il disarmo di tutte le
formazioni irregolari presenti nel Kivu. Peccato che entrambi gli accordi si
siano rivelati carta straccia poche settimane dopo la loro firma.
Nella mischia si è gettata anche l'Unione Africana, che ha scelto come mediatore
l'ex-presidente della Tanzania, Benjamin Mpaka. Ma chi si aspettava che gli
sforzi dell'organizzazione continentale potessero sopperire alle deficienze
degli occidentali è rimasto deluso. Finora, neanche Mpaka è riuscito a
raggiungere risultati concreti, frustrato dalle inconciliabili posizioni dei due
contententi: da una parte Nkunda, che invoca un nuovo vertice di pace,
dall'altra Kabila, che chiede il rispetto degli accordi siglati a gennaio. In
mezzo, centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire non solo dalle
violenze commesse dai gruppi armati irregolari, ma anche dagli abusi
dell'esercito, messo in rotta dagli uomini di Nkunda e rifattosi sui civili.
Dopo settimane di intenso interesse mediatico e politico, la crisi del Congo è
lentamente scivolata fuori dalle pagine dei giornali ed è stata dimenticata
dalla politica internazionale, distratta prima dai pirati del Golfo di Aden e
poi dagli attacchi a Mumbay. Incapace di arrivare a conquistare la capitale
Kinshasa, come aveva promesso qualche settimana fa, Nkunda ha però la
possibilità di ritagliarsi un vasto feudo nel Kivu, e di impegnare le truppe
congolesi per un lungo periodo. Alla faccia di un processo di pace che, nell'est
del Congo, non è mai decollato, e di una comunità internazionale troppo
discontinua nei suoi sforzi diplomatici.
Chi non
consuma è un disfattista
Michele Serra
Il governo diffonderà in ogni casa un
opuscolo di rieducazione del consumatore. Per indurlo a spendere di nuovo
Perché il
consumatore non consuma più? Con tutto il bendidio disponibile? Il governo
ha individuato nella scadente qualità del consumatore italiano le radici del
problema. Squattrinato, svogliato, disfattista, sovente di malumore, è
l'anello debole di un sistema perfetto che non merita di essere rovinato
dall'ingratitudine. Allo scopo, il governo diffonderà in ogni casa un
opuscolo di rieducazione del consumatore. Vediamo i punti principali.
Mancanza di soldi È il pretesto al quale il consumatore ricorre più
frequentemente. Tipico degli avari, va affrontato con una radicale
psicoterapia che induca il paziente a riflettere. Al termine del
trattamento, il consumatore sarà ugualmente povero, ma nei primi due giorni
del mese spenderà tutto lo stipendio in puttanate, ricevendo una lettera di
congratulazioni della Confcommercio che lo aiuterà, nei restanti 28 giorni,
ad affrontare la fame, il freddo e l'assedio dei creditori con il sorriso
sulle labbra e la coscienza pulita.
Calendarizzazione Come mai è sempre la quarta settimana del mese quella che
fa segnare il crollo dei consumi? Il problema dipende dalla pessima
programmazione delle famiglie. Il governo suggerisce di spalmare l'indigenza
sull'intero mese, con un sistema a scaglioni: la popolazione verrà divisa in
quattro gruppi, ognuno dei quali dovrà rimanere senza soldi in settimane
diverse. Lo sgradevole effetto 'quarta settimana', continuo pretesto per la
propaganda disfattista dell'opposizione, non avrà più ragione di essere.
Pessimismo Per il governo è proprio questo il problema più grave. Uno che
già è povero, come fa a non capire che il suo umore torvo non fa che
peggiorare la situazione? L'opuscolo del ministero del Welfare, stilato
dagli psicologi del Centro Studi Bicchiere Mezzo Pieno, suggerisce di
formare, sul modello americano, dei gruppi di autocoscienza per debitori
anonimi. Seduti in circolo, leggeranno a turno le rispettive buste-paga,
scoprendone l'evidente lato comico. La lettura dei mutui sarà effettuata da
un animatore.
Panchine La
riqualificazione delle panchine è urgente. Verranno concesse in comodato
gratuito ai senzatetto, che in cambio ne dovranno curare il decoro
ripitturandole ogni primavera. Nei comuni leghisti dovranno ripitturarle
usando la lingua al posto del pennello, troppo costoso. Verranno suddivise
in panchina a una stella, con cacca di piccioni e cani randagi nei dintorni
che mordono il dormiente; a due stelle, senza cacca di piccioni e nelle
vicinanze di cassonetti dei rifiuti per un rapido spuntino; a tre stelle,
con retino per catturare i piccioni e vecchia padella per cucinarli; e
infine categoria lusso, con sistema antincendio per mitigare gli effetti dei
raid nazisti.
Alimentazione Le ricette della nonna aiutano a riconsiderare il valore di
un'alimentazione sobria e sana. Per esempio le croste di pane, se lasciate
in ammollo nel bicchiere della dentiera, al mattino avranno formato un
gustosissimo impasto già premasticato e molto digeribile. Tra le ricette
suggerite dagli chef governativi: i popolarissimi 'macché' della tradizione
napoletana, piatto tipico che deve il suo nome al fatto che se uno chiede
"hai mangiato?", l'altro risponde "macché". La pasta alle erbe, spaghetti
crudi infilzati nelle aiuole dei giardini pubblici per insaporirli. La
saporitissima lepre investita, scrostata dall'asfalto con un raschietto e
servita fredda. Gli involtini alla veterinaria, squisiti bocconi di carne
per cani, ideali per avere un pelo sempre lucido. I deliziosi petti di pollo
scaduti, che non necessitano condimento perché il sapore è già molto
caratterizzato. Infine, come dessert, la raffinata granita della nostalgia,
ottenuta scongelando il freezer e sminuzzando i pezzi di ghiaccio impregnati
degli odori dei cibi dei mesi precedenti.
ll nuovo
"diritto diseguale"
di GIUSEPPE D'AVANZO
L'asimmetria è manifesta. Se partecipo
a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una
guerriglia urbana, anch'io, che pacificamente ho aderito all'iniziativa,
sono responsabile per la polizia di quella guerriglia. Se, al contrario, ho
addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo,
con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più. Anche
se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se
sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può
essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da
altri.
No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo
responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile). Una
fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti
del nuovo "diritto diseguale". A Roma il procuratore generale della
Cassazione definisce "deviata" una cultura poliziesca che, identificando una
persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce "tutti i reati
commessi durante la manifestazione" (è accaduto l'11 marzo 2006 a Milano, in
Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova
diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia
di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge
che - non c'è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella
caserma e "pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione
di "tortura" delle convenzioni internazionali". Ma in Italia quel reato non
c'è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come
"condotte inumane e degradanti". Sono comportamenti "che hanno tradito il
giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta
Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono
stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della
polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere
nella comunità dei cittadini". Epperò, dall'accertamento delle condotte
vessatorie "non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano
necessariamente rispondere tutti gli imputati". Ne risponderanno
individualmente soltanto i responsabili diretti. "Purtroppo la maggior parte
di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni
risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il
limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle
facce, gli aguzzini non sono saltati fuori "per difficoltà oggettive, non
ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia,
originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"".
Non c'è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di
Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C'è
però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una
leale collaborazione nell'accertamento dei fatti, non "spirito di corpo",
non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la
Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto
essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al
contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di
connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come
quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa
testimonianza con l'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la
polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della
sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio
Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo
con l'agenda ragionevolmente proposta dal "Comitato verità e giustizia per
Genova". Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a
tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non
comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con
la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento
discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia:
l'obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici
d'identificazione; l'istituzione di un organismo indipendente cui denunciare
eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti
paesi europei. Si può concordare che "l'esperienza di Genova dimostra che il
nostro paese ne ha bisogno".
Genova:
il palazzo di zucchero, l'ateneo lo paga il doppio
Un palazzo di zucchero, il più goloso degli affari. Perché solo ora
si scopre che l'Università di Genova nel 2001 ha comprato un

edificio pagandolo una cifra insensata: il doppio esatto di quanto
solo sette mesi prima aveva speso l'immobiliare che poi lo ha
rifilato all'ateneo. Stiamo parlando dell'ex Palazzo Eridania che
oggi ospita la facoltà di Scienza della formazione. Dopo sette anni
la procura ha aperto un'inchiesta: il reato ipotizzato è la truffa.
L'ateneo ha pagato 30,8 miliardi di lire, più altri cinque di
ristrutturazione, nel marzo 2001 per un immobilie che a settembre
2000 l'Eridania aveva dato via per 17 miliardi e mezzo. Non solo.
Nella stessa operazione l'università cedette in permuta un palazzo
in una delle aree di maggior pregio di Genova: quattro piani e
novanta vani, valutati 2,4 miliardi di lire. In questo caso, invece,
la stima sarebbe stata fatta al ribasso e l'immobile praticamente
svenduto. Non c'è che dire: le menti di questa compravendita sono
state geniali. Hanno ceduto in saldo e acquistato a peso d'oro,
tanto si trattava di denaro dei cittadini. A beneficiare di questo
spreco di fondi pubblici è stata una misteriosa immobiliare, la Cave
di Yarm. Secondo il "Secolo XIX" risulta intestata a un geometra,
poco noto ma molto attivo in tutte le grandi transazioni condotte
con enti pubblici in quella stagione. Ora c'è da sperare che la
procura capisca cosa è successo: se i vertici dell'ateneo sono stati
collusi o semplicemente stolti. Il rettore dell'epoca era Sandro
Pontremoli. A denunciare invece le anomalie del caso è stato il
successore Gaetano Bignardi. Ma nei conti dell'ateneo adesso si sta
materializzando una voragine, in continua espansione: un buco di
decine di milioni di euro. Legato soprattutto a queste disastrose
attività immobiliari.
L'emigrazione è una piaga storica dell'Italia meridionale.
Sarà forse per questo retaggio culturale che il Consiglio
regionale della Campania ha mantenuto una strana abitudine:
quella del pendolarismo. Oggi 41 consiglieri su 60 abitano
fuori Napoli. A parte i dubbi sulla loro assidua presenza ai
lavori del "parlamento regionale", resta un problema molto
più venale: quello dei rimborsi, che trasforma il fenomeno
della mobilità politica nello scandalo dei "pendolari
d'oro". Almeno 41 fuorisede percepiscono ricchi rimborsi
extra: ogni anno fino a 370 mila euro. I dati di ottobre
2008 sono impressionanti. Il più lontano è Francesco
Brusco, del Mpa di Lombardo: 2978 euro di rimborso mensile.
Dichiara di venire ogni volta da Vibonati, nel cuore del
Cilento, al confine tra Campania, Calabria e Basilicata.
Luca Colasanto del Nuovo Psi ottiene il risarcimento di 2935
euro al mese, dichiarando un tran tran di 296 chilometri tra
casa e pubblico ufficio. Poi ci sono Fernando Errico dell'Udeur
con 2440 euro, Donato Pica del Pd con 2207, Vittorio
Insigne (processato e assolto in primo grado per i rapporti
con i casalesi), ex Udeur ora gruppo misto con 1478. E
Gerardo Rosania di Rifondazione, per esempio, ne ottiene
1068 per non fermarsi a Eboli. Tutto ciò per partecipare a
18 riunioni mensili del consiglio. Dopo le inchieste del
Mattino, la procura di Napoli ha aperto un'indagine: il
reato ipotizzato è truffa. Il governatore Antonio Bassolino
e il presidente Sandra Lonardo Mastella hanno chiesto ai
loro consiglieri di evitare spese inutili in un momento di
recessione. Loro non hanno rimborsi: usano le 30 auto blu
con autista in dotazione alla Regione.
Istat, occupazione in calo. Frenano le grandi imprese
ROMA - Cala l'occupazione a
settembre. Nelle grandi imprese (quelle con 500 e più addetti) l'Istat
registra una diminuzione annua dello 0,2% al lordo della Cig e dello 0,4% al
netto della Cig. Una differenza che si deve al fatto che c'è stato un
aumento tendenziale del ricorso alla cassa integrazione. In termini
congiunturali l'indice, depurato degli effetti della stagionalità, ha
registrato un +0,2% al lordo della Cig e un +0,1% al netto dei dipendenti in
cassa integrazione. Crescono, inoltre, le ore di sciopero.
A settembre l'occupazione delle grandi imprese dell'industria è diminuita
dell'1,8% al netto della cig e dell'1,2% al lordo della cassa, mentre nei
nove mesi il calo è dell'1,2% per entrambe le grandezze. Nel complesso dei
primi nove mesi, rispetto allo stesso periodo del 2007, l'occupazione è
calata nell'industria (-1,2% sia al lordo che al netto della Cig), mentre è
aumentata nei servizi (+0,6% sia al lordo che al netto della Cig).
Guardando ai settori, l'indice dell'occupazione (al lordo della Cig)
registra diminuzioni tendenziali del 3,9% per la produzione di energia
elettrica, gas e acqua, del 3,6% nelle costruzioni. Il settore delle
attività manifatturiere segna un -0,9%: tra i vari comparti, quelli che
registrano i cali più marcati sono le industrie tessili e dell'abbigliamento
(-6,5%), la produzione di macchine e apparecchi meccanici (-4%) e la
fabbricazione di prodotti chimici e fibre sintetiche (-3,2%); gli incrementi
più consistenti invece si hanno nelle industrie delle pelli e calzature
(+3%), nelle industrie della produzione di apparecchi elettrici e di
precisione (+2%) e nelle raffinerie di petrolio (+1,6%). All'interno dei
servizi spiccano gli aumenti nelle altre attività professionali e
imprenditoriali (+5,1%) e nel commercio (+2%); in calo invece in alberghi e
ristoranti (-0,4%), intermediazione monetaria e finanziaria (-1,3%) e
trasporti (-1,1%).
In calo le ore di lavoro: a settembre l'indice delle ore
effettivamente lavorate ha registrato un -0,7% su base mensile e un -0,8% su
base annua, con cali più accentuati per l'industria (-1,6% tendenziale
contro il -0,2% dei servizi).
A settembre 2008 il ricorso alle ore di lavoro straordinario, è stato
pari al 5,5% delle ore ordinarie, con una diminuzione di 0,4 punti
percentuali rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Nelle grandi
imprese dell'industria il ricorso alle ore di lavoro straordinario è
risultato pari al 4,4% con una diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto
allo stesso mese dell'anno precedente. In quelle dei servizi l'incidenza
dello straordinario è stata del 6,2%, con un calo di 0,3 punti percentuali
rispetto a settembre 2007.
L'utilizzo della cassa integrazione a settembre è stato pari a 10,7
ore per mille ore lavorate, con un calo di 0,9 ore ogni mille ore lavorate
in termini congiunturali e un aumento di 3,1 ore ogni mille ore lavorate in
termini tendenziali: nell'industria le ore di cig utilizzate sono state 26,9
per mille ore lavorate e nei servizi 1,3 ore per mille lavorate.
Le ore di sciopero sono state pari a 0,8 per mille ore lavorate, con
un aumento di 0,5 ore per mille ore lavorate (0,6 nell'industria e 0,9 nei
servizi) rispetto a settembre 2007.
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