28 dicembre
IL
COMMENTO
Il manuale dell'ipocrisia
e il garantismo da salotto
di CURZIO MALTESE
Il garantismo da salotto che imperversa da un
decennio non si smentisce mai.
Presenti in massa in Parlamento quando si tratta di
garantire l'impunità ai ricchi, i garantisti
all'italiana di destra e sinistra disertano da anni
i dibattiti su amnistia e indulto destinati ai
poveracci che affollano le patrie galere. Ieri si è
toccato il record della vergogna.
Alla seduta straordinaria della Camera si sono
presentati soltanto 93 dei 205 firmatari della
richiesta, più un'altra trentina di non firmatari.
Visto il deserto, il presidente Casini ha archiviato
la pratica e rinviato tutto al 10 gennaio, dopo le
feste.
Qualche suicidio in cella in più non guasterà le
vacanze di Natale alla Vanzina degli onorevoli
deputati, fra sciate, cotechini, lenticchie e botti
di fine anno. E' l'ultimo capitolo di un lungo
manuale dell'ipocrisia scritto in questi anni dalla
politica sul tema delle carceri.
Cinque anni fa si erano levati tutti ad applaudire
commossi l'appello di Giovanni Paolo II al
Parlamento per alleviare la pena supplementare e
barbara inflitta a migliaia di detenuti, ormai
stipati in carceri di livello boliviano. Passata la
festa e gabbato il Santo Padre, sono trascorsi
cinque anni, con cinque Pasque, Natali, Capodanni,
Epifanie e soprattutto carnevali, senza mai trovare
la data giusta per approvare il provvedimento.
In compenso, fra Cirami, Cirielli, depenalizzazioni
varie e riforme di giustizia ad hoc, il Parlamento
ha approvato la più gigantesca amnistia di classe,
come si sarebbe detto una volta, della storia della
repubblica.
Una pioggia di un milione e mezzo di prescrizioni a
portata di mano dei clienti più ricchi, l'impunità
di fatto per chiunque possa permettersi uno o più
buoni avvocati, dai mafiosi ai bancarottieri fino ai
presidenti del consiglio, ministri e onorevoli
presenti e passati.
Le
carceri italiane nel frattempo si gonfiano di
stracci e dolore.
Basterebbe un indulto e perfino quello che si chiama
indultino per ristabilire condizioni di vita
decenti. Oltre il 60 per cento dei detenuti, 23 mila
persone, deve scontare un residuo di pena inferiore
ai tre anni. In quali condizioni?
Il quadro fornito da Patrizio Gonella, presidente
dell'associazione Antigone, è da denuncia ad Amnesty
International: "A Verona vivono tre detenuti in
celle pensate per uno; a Piacenza vive più del
doppio dei detenuti che il carcere potrebbe
ospitare, in una struttura con i muri crepati e dove
regolarmente piove all'interno; all'Ucciardone di
Palermo più di cento detenuti di troppo vivono in
celle fatiscenti dove la luce del sole penetra
scarsamente; a Bari abbiamo celle di 18 metri quadri
che ospitano ognuna sei detenuti, quasi sempre
chiusi dentro per venti ore al giorno: togliendo
bagno, letti e mobili, resta circa un metro quadro a
disposizione di ciascun detenuto; al Poggioreale di
Napoli si sta in cella quasi tutto il giorno, gli
spazi comuni sono quasi nulli, si vive fino a 18
persone insieme, dividendosi l'unico bagno e l'unico
tavolo disponibili; a Rebibbia vive circa il doppio
dei detenuti che il carcere potrebbe ospitare; a Le
Vallette di Torino ci sono 600 detenuti in più".
In teoria non vi sarebbe bisogno di ripercorrere
l'inferno carcerario perché, sempre in teoria,
esiste da anni in Parlamento una larga maggioranza
bipartisan favorevole a risolvere la questione con
gli strumenti dell'amnistia o dell'indulto, che non
cancella il reato. In pratica però il garantismo da
salotto continua a eclissarsi al momento di
decidere.
Quello di ieri è stato l'ultimo episodio e il più
avvilente. Quasi peggiore del fatto è stata poi
l'inevitabile coda polemica, un altro squarcio
dell'Italia dei furbetti. Un gruppo di parlamentari
di sinistra, ormai liberati dall'odiosa autocritica,
ha addossato la colpa del fallimento a Casini per
aver convocato la seduta il mattino seguente un
giorno festivo.
Il presidente della Camera ha avuto buon gioco a
rispondere che gli altri italiani erano già al
lavoro e quindi forse potevano mettere la sveglia
anche i parlamentari meglio pagati d'Europa. Il
ministro Castelli si è vergognato per gli altri,
com'è costume nazionale, e ha additato il cinismo
dei "pifferai" prima firmatari e poi assenti.
Qualcuno a questo punto dovrà vergognarsi per
Castelli, che non era presente alla seduta. In
fondo, oltre a essere un militante leghista, rimane
pur sempre il ministro della Giustizia, per quanto
si possa capire e condividere la sua stessa
incredulità.
Si resta perplessi di fronte alle parole di Marco
Pannella: "Alla fine i presenti non erano pochi".
Torna l'antico dubbio, c'è o ci fa? Non si capisce
insomma se l'anziano leader radicale ci creda ancora
o usi gli strumenti del glorioso passato,
dall'auto-convocazione ai refendum, soltanto per
sopravvivere sulla scena, senza calcolare gli
effetti catastrofici che producono alla causa. Ai
suoi nuovi compagni, i socialisti di Boselli, va
invece riconosciuto la coerenza e l'onestà di
essersi presentati al gran completo, unico gruppo
con i verdi.
Il solo commento serio è venuto da dietro le sbarre
di Rebibbia, dove il comitato dei detenuti ha fatto
sapere di non essere deluso perché, alla lettera,
"non ci aspettavamo nulla". Qualcuno ha aggiunto di
non aspettarsi nulla neppure dalla convocazione di
gennaio, che slitterà a febbraio, poi a marzo,
aprile.
Figurarsi se questa politica
trova il coraggio di prendere una decisione prima
delle elezioni. Il problema delle carceri è
destinato ad aggiungersi alla spaventosa eredità che
il governo Berlusconi lascerà al Paese. Dopo aver
amorevolmente abolito le tasse sull'eredità di
famiglia.
Le associazioni: su prezzi e
tariffe aumenti fino a 1000 euro
Il Tesoro minimizza: "I settori controllati in linea con
l'inflazione"
Carovita,
allarme dei consumatori
"Un'altra stangata nel 2006"
di LUCIO CILLIS
ROMA - Il Tesoro minimizza. E parla di "tariffe in linea
con l'inflazione". Ma le polemiche sulla corsa dei prezzi nel
nostro Paese vengono rilanciate dai dati delle associazioni dei
consumatori, che parlano di una "ennesima stangata in arrivo
sulle famiglie".
Il Tesoro ieri ha affidato la difesa dei dati pubblicati nel
"quaderno" mensile ad una nota ufficiale: "Gli andamenti delle
tariffe dei settori a regime controllato sono in linea con
l'evoluzione dell'indice generale dei prezzi" ha spiegato il
dipartimento del ministero dell'Economia, mentre "gli andamenti
dei prezzi dei beni dei settori liberalizzati (ovvero dei
settori in passato sottoposti a regime controllato) rispecchiano
i dati Istat e sono riconducibili alla fortissima dinamica dei
prezzi del greggio".
Ma i consumatori replicano con durezza, a poche ore dalla
decisione dell'Authority per l'Energia sulle nuove tariffe in
vigore dal gennaio. L'Adiconsum vede il 2006 come un anno tra i
più difficili, su cui peserà "un aggravio di 600-800 euro per i
monoreddito e di 1000-1200 euro per i bireddito".
L'associazione vicina alla Cisl, più in generale, contesta al
governo la mancanza di una "politica di calmierazione" dei
prezzi. I dati del Tesoro - secondo cui le tariffe di beni e
servizi liberalizzati sono saliti per il paniere dell'intera
collettività del 5,4% e del 2,4% per beni e servizi
liberalizzati a fronte di un'inflazione del 2,2% - sono quindi
un autogol: "Infatti - secondo Adiconsum - risparmiare sulle
tariffe è molto più difficile che sul carrello della spesa. È
importate - conclude l'Adiconsum - che il governo assuma
provvedimenti di calmierazione, sulla benzina, sugli oneri
impropri dell'energia elettrica, sulla rendita nel settore del
gas, e vigili con adeguati controlli sulle tariffe assicurative
e sui costi bancari".
E di "stangata dietro l'angolo"
parla l'Intesaconsumatori. Che ha fatto un po' di conti sulle
spese in arrivo al giro di boa del 2006: "Il prossimo anno le
famiglie italiane si troveranno a dover sborsare 1.100 euro in
più in seguito ai rincari di prezzi e tariffe".
Qualche esempio: la bolletta del gas salirà di 165 euro, quella
della luce di 38 euro, mentre il riscaldamento subirà un
incremento di 155 euro. Per il pieno dell'auto, invece, gli
italiani pagheranno 165 euro in più sul 2005; per i servizi
bancari e la tariffe ferroviarie 42 euro in più per ognuna delle
due voci. Più contenuti i rincari di Rc Auto e i pedaggi (26 e
24 euro in più).
"A questi aumenti si aggiungono - secondo l'Intesa - le ricadute
dei maggiori costi dell'energia dei processi industriali e dei
trasporti commerciali sui prodotti di largo consumo: +4% per gli
alimentari e +0,7% sugli altri beni non alimentari". In pratica
per i generi alimentari i rincari saranno di 216 euro a
famiglia.
Dal fronte politico reazioni stizzite della maggioranza (Forza
Italia parla infatti di "dati strumentalizzati dalla sinistra")
e attacchi frontali alla politica dell'esecutivo dal
centrosinistra. Raffaele Morese, presidente di Confservizi,
sottolinea, infine, il rischio di una nuova ondata di rincari:
"Chi si meraviglia della crescita delle tariffe nel 2005, deve
sapere che nel 2006 può andare peggio. Per evitarlo occorrerebbe
una strategia di concertazione che, oggi - accusa Morese - non
c'è".
Il presidente di Confeservizi suggerisce una concertazione
"fondata su tre linee: fissare un incremento entro l'inflazione
prevista per il 2006, concordare un price-cap e intervenire
fiscalmente nei settori influenzati da fattori esogeni, come il
prezzo dei prodotti energetici acquistati all'estero".
Tre cadaveri che camminano
di Eugenio Benetazzo
autore del libro: "Duri
e Puri: aspettando un nuovo 1929"
Il disco (in vinile) più
venduto di tutti i tempi è stato Thriller di Michael
Jackson, il cui video (scenografia e comparse) della
canzone a quei tempi costò uno sproposito: la evergreen
annunciava il ritorno dei morti viventi (gli zombies)
con la camminata insensata dei cadaveri. Beh, a mio
avviso quel vecchio pezzo musicale sarebbe l?ideale come
jingle d'attesa per il numero verde di tre aziende
italiane di cui tutti sembrano essere usciti pazzi per
comprarne le obbligazioni!!!
Enel, Telecom e Fiat,
tre cadaveri che camminano, il loro outlook di mercato a
mio avviso non è molto confortante.
Enel ha il monopolio sulla distribuzione di energia
elettrica per gli usi residenziali (da sottolineare come
in Italia si paghino le tariffe più elevate di tutta
Europa) ancora fino a dicembre 2005: successivamente
avverrà un processo di liberalizzazione che consentirà
di allacciarsi virtualmente al fornitore con le tariffe
più convenienti (lo stesso avvenne quando decadde il
monopolio di Telecom).
Perciò l'azienda elettrica
italiana si trova in una situazione di mercato da cui
può solo perdere nei prossimi anni (tra l'altro
scordatevi i mega dividendi non appena il Ministero del
Tesoro avrà ceduto interamente al mercato le sue quote
residue): forse anche per questo motivo gli analisti di
Dresner Bank hanno abbassato il rating a "reduce"
(ridurre) sul titolo con un target price a 6,0 euro.
Su Telecom invece non c'è molto da dire: ha dovuto
lanciare un offerta di pubblico acquisto su TIM per
pagare i debiti consolidati del gruppo attraverso i
proventi d?oro del gestore di telefonia mobile,
ugualmente lo stesso che fece Vodafone United Kingdom
nei confronti di Omnitel Pronto Italia.
Il futuro è nella telefonia mobile e nei servizi a banda
larga (leggasi ADSL): il mercato del VOIP sarà la nuova
torta da spartirsi nei prossimi cinque anni.
Il VOIP (acronimo di Voice Over Internet Protocol)
rappresenta la nuova frontiera della telefonia fissa
ovvero poter telefonare utilizzando una connessione a
banda larga a costi pari a zero oppure pari ad un
ventesimo rispetto alle vecchie tariffe telefoniche
tradizionali.
Se ci aggiungiamo il fatto che in alcune aree urbane il
servizio di unbundling (l'acquisto dell'ultimo miglio
del doppino telefonico da parte del nuovo gestore
telefonico da voi prescelto, liberandovi definitivamente
dal canone Telecom) è già attivo, le valutazioni sulle
potenzialità di questo titolo e sui suoi debiti
pregressi non sono molto incoraggianti.
Riguardo infine a Fiat,
beh che dire: se Parmalat aveva un debito pari al suo
fatturato, Fiat ha debiti pari a dieci volte il suo
fatturato, come ricorda scherzosamente Beppe Grillo.
L'azienda ha sempre potuto contare su interventi di
sostegno con capitale a fondo perduto, sempre e solo
durante governi di centro sinistra.
Se General Motors in Marzo 2005 decise di pagare una
super multa per sciogliere gli accordi infragruppo ci
sarà un motivo: ha preferito spendere dieci e subito,
piuttosto che rischiare di spenderne cento tra qualche
anno, le auto Fiat si vendono poco e sono troppo costose
per il livello di qualità che offrono.
Tra poco arriveranno le automobili cinesi e le
conseguenze non tarderanno ad arrivare: proprio come
hanno fatto le giapponesi in dieci anni acquistando
quote di mercato a scapito dei produttori europei, così
allo stesso modo faranno le cinesi, ma con conseguenze
ancora più pesanti.
In quanto l'automobile cinese non compete sulle
prestazioni ma solo sul costo, e con lo spettro della
depressione in tutta Europa, la sfida sembra già vinta
ancor prima che inizi.
Ma se va avanti così prima
o poi qualcosa avverrà naturalmente a svegliare la gente
normale, gli italiani che finora si sono sentiti presi
per i fondelli da una vita, gli italiani stanchi ormai
di tutto, quelli che non hanno più nulla da perdere, se
non la propria vita fisica.
L'altra vita, quella della speranza di fare per i loro
figli, alcuni l'hanno persa da un pezzo e altri la
perderanno, perché sanno che il futuro dei loro figli è
ormai tristemente compromesso.
Mi dispiace tuttavia pensare come la
Teoria Finanziaria
del Titanic
considerando la corsa alla sottoscrizione di corporate
bond di Enel, Telecom, Fiat & Company dimostri ancora
una volta come il parco buoi risparmiatori non abbia
ancora imparato la lezione dopo le mazzate ricevute in
passato con i vari crack scandalo degli ultimi anni e
periodi recenti.
Nessuno, infatti, tiene in considerazione il rischio
(quasi certo) che si assumono sottoscrivendo queste
obbligazioni aziendali (corporate bond) in quanto
l?aumento dei tassi di interesse, che in America ormai
si è già manifestato, presto arriverà anche in Europa
con conseguenze negative sul valore degli stessi
investimenti obbligazionari: per come la vedo io,
l’influenza dei polli era già arrivata da un pezzo in
Italia, ma non sui banchi dei supermercati, quanto
piuttosto sugli sportelli e filiali degli istituti di
credito.
ESTERI
IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE DI NUOVO
SOTTO ACCUSA LE FORZE DELL’ORDINE
Video a New
Orleans,dieci agenti sparano a un nero col coltello
«Era pericoloso, ci minacciava». Alcuni
testimoni confermano, altri smentiscono
di Maurizio Molinari
 |
Nel video
amatoriale i poliziotti circondano
con le pistole l'uomo di colore
LE IMMAGINI |
NEW YORK. Più di
dieci agenti di polizia si avvicinano ad un uomo
armato di coltello, lo circondano puntandogli
contro le pistole di ordinanza e lui
indietreggia, gli gettano contro spray accecante
e lui si protegge il volto velocemente con la
maglietta, stringono ancora di più il cerchio ma
lui non getta il coltello ed è allora che un
agente sentendosi minacciato apre il fuoco,
seguito da tutti gli altri. La morte di un
afroamericano di 38 anni in un parcheggio sulla
St Charles Avenue di New Orleans, famosa per
ospitare ogni anno le parate del Martedì Grasso,
è stata ripresa attimo per attimo con un video
amatoriale girato da un palazzo adiacente e le
immagini da 24 ore rimbalzano da un network tv
all'altro riproponendo la violenza degli agenti
di polizia.
Proprio a New
Orleans la scorsa settimana un altro video aveva
ripreso il pestaggio a sangue di un uomo
afroamericano lungo la Bourbon Street da parte
di un gruppo di agenti che allora si erano
difesi affermando che si trattava di «un ubriaco
che disturbava la quiete pubblica». Ed anche
ieri il portavoce del locale Dipartimento di
polizia ha precisato che erano state prese tutte
le «possibili precauzioni» per evitare il
peggio. La polemica nasce dal fatto che le
immagini descrivono una situazione
apparentemente molto facile da controllare
perché l'uomo alza le braccia, nega di avere
armi da fuoco ed indietreggia in continuazione,
fino al punto da essere completamente
circondato.
Ma la
ricostruzione degli agenti è differente: «Aveva
un coltello in mano, si è rifiutato di posarlo a
terra, non ha voluto fermarsi, continuava a
sfuggire e quando gli è stato gettato dello
spray al pepe si è difeso, quando un agente si è
sentito minacciato dal coltello non ha potuto
fare altro che usare la forza letale». Le
testimonianze raccolte non aiutano a chiarire la
dinamica di cosa è avvenuto. L'avvocato Robert
Jenkins, che stava uscendo dal ristorante quanto
ha visto la scena, parla di un evento che si è
sviluppato «molto lentamente con l'individuo che
aveva il coltello che aveva un atteggiamento
molto aggressivo» mentre Try Brokaw,
proprietario di un bar nella zona, assicura che
il giovane «non sembrava in grado di fare del
male a nessuno».
Phin Percy, il
ragazzo autore del video, assicura che i
poliziotti hanno tentato di convincere l'uomo a
gettare il coltello per tre minuti, dopo i quali
hanno fatto fuoco, lasciando sul terreno almeno
dieci bossoli prima dell'arrivo di numerose
altre pattuglie. La sovrapposizione fra questo
episodio e quanto avvenuto a Burbon Street
ripropone i dubbi sulla preparazione della
polizia di New Orleans, ricostituita in fretta
dopo l'uragano Katrina allorché molti agenti
gettarono la divisa e si diedero alla fuga. Ma
c'è anche una dimensione nazionale della
polemica sull'etica di chi veste la divisa blu
in quanto a inizio mese il Dipartimento di
polizia di San Francisco è stato obbligato a
prendere provvedimenti contro una ventina di
poliziotti che avevano realizzato in proprio -e
messo su Internet - dei video nei quali si
facevano beffa di cittadini afroamericani,
ispanici, asiatici, gay e transessuali.
Gli autori si
giustificarono affermando di aver realizzato i
filmati amatoriali per «vederli assieme durante
i party di fine anno» ma alcune immagini erano
tutt'altro che allegre come nel caso in cui si
vede una macchina della polizia che travolge una
donna afroamericana mentre i poliziotti bianchi
che sono alla guida ridono divertiti.
La
stampa Usa ignora la notizia
Non
trova risalto sui quotidiani
americani la notizia che oggi tiene
banco in Italia, documentata da un
video amatoriale, sull'uomo
afroamericano abbattuto da un gruppo
di poliziotti a New Orleans.
In Usa
l'episodio è relegato a brevi
trafiletti, per lo più d'agenzia,
nelle pagine interne. Così è per il
«Washington Post»,
che ritrascrive un'agenzia dell'Associated
Press, mentre per il «New
York Times» e il «Los
Angeles Times» il fatto non
esiste. Su «Usa Today»
si è arrivati già alla conclusione:
aprire il fuoco era «inevitabile»
secondo la polizia di New Orleans.
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22 dicembre
Elogio di Antonio Fazio
Domenico
de Simone –
www.malatempora.com
Fino all’ultimo
Antonio Fazio ha difeso, con feroce coerenza il ruolo di supremo
custode delle Istituzioni assunto nell’ormai lontano 1993. Anno
difficile quello, dopo lo sfascio della politica, anno in cui tutti,
lobbies media e imprenditori, indicarono negli uomini di Via
Nazionale i Salvatori della Patria in pericolo. Ciampi, Dini, Monti
e Fazio furono chiamati a gran voce a riempire il pericoloso vuoto
lasciato dal ciclone di Tangentopoli. In un sol colpo, la Banca
d’Italia divenne il tempio della democrazia e la fonte dell’etica,
pubblica e privata. Fino alle convulse vicende degli ultimi giorni,
alla minaccia di cacciarlo via per decreto che tremebondi politici,
immemori dei tanti benefici ricevuti dalla Sua opera indefessa,
hanno agitato dopo averlo per anni ossequiato ed elogiato.
Nulla, fino a
quel momento aveva turbato la granitica fermezza con cui aveva
condotto le vicende finanziarie ed economiche del paese. Non le
intercettazioni delle telefonate con i furbetti del quartierino, non
le accuse furibonde sui discutibili controlli su Parmalat e Cirio,
non l’appoggio promesso e poi negato alla Telecom di Bernabé contro
la scalata ostile dei soliti amici degli amici, nemmeno il palese
conflitto di interessi tra Bankitalia e le sue proprietarie che essa
stessa dovrebbe controllare, ebbene proprio nulla sembrava poterlo
smuovere dal suo posto. Fino all’ultimo ha ripetuto, e non dubito
che continuerà a ripetere in futuro, di essersi comportato sempre
con la massima correttezza.
Ha ragione, è
proprio vero. D’altra parte che volete? La menzogna, cari signori, è
l’essenza del sistema finanziario e praticarla è perfettamente
coerente con le regole del potere delle Banche. Non ci credete?
Ebbene, pensate alla elementare regola di ogni mercato finanziario
per cui è necessario dare fiducia agli investitori pena lo spavento,
la crisi, il disastro, la catastrofe. Fiducia a tutti i costi, anche
e soprattutto mentendo sapendo di mentire. Il Governatore di
Bankitalia mente? Compie il suo dovere istituzionale. Dopo il 1992
il sistema bancario, che si fonda sulla menzogna e sulla truffa del
signoraggio, è diventato la fonte dell’etica nazionale. Vuoi campare
e avere un po’ di credito per comprare la macchina, il telefonino,
la casa, un’azienda, una Banca? Solo se la Banca vuole, altrimenti sei
morto. E’ la Banca che
decide chi è degno e chi no, secondo suoi inappellabili criteri di
giudizio. Il coro unanime del mediatico, ha investito questi signori
per oltre un decennio del ruolo di supremi custodi dell’etica e
della democrazia della Nazione. Un gruppo di oligarchi, sottratto ad
ogni controllo, è divenuto il depositario del verbo democratico, in
un paradosso da far impallidire Epimenide, ma assolutamente naturale
per i nostri anchorman. L’apoteosi della truffa, perché tale è la
creazione di denaro sul debito, perché tale è il signoraggio,
Bankitalia, è divenuta la fonte dell’etica nazionale. Ah, se la
gente sapesse come viene creato il denaro farebbe la rivoluzione
prima di domattina, disse un Rothschild qualche secolo fa. La
pubblica menzogna, eletta a sistema, ha custodito tanto bene il
segreto che ancora oggi quasi nessuno lo conosce. Per questo non
posso che elogiare Antonio Fazio, che, con la sua incrollabile fede
nella menzogna istituzionale, con la sua strenua difesa della
liceità della truffa bancaria, ci ha fatto scoprire che il Re è
nudo. Grazie, Antonio!
21 dicembre
E mentre la Banda Bassotti
ruba a norma di legge decine di miliardi di euro dalle
tasche dei contribuenti (noi) per costruire TAV (treni ad
alta velocità) o TAC (treni ad alta capacità) - per
guadagnare solamente qualche minuto - la situazione
fatiscente delle ferrovie italiane continua a mietere
vittime tra bambini, operai, lavoratori, pensionati, ecc.
Ancora un incidente ferroviario
Ancora dolore.
Sono ancora i lavoratori, i pendolari, gli studenti e i
bambini a pagare un prezzo altissimo per una politica
irresponsabile e scellerata che individua nel mercato, nel
profitto e nella redditività la sua strategia.
Si piange per colpa di chi ha scelto di liberalizzare il
trasporto ferroviario.
Lo avevamo previsto e denunciato dopo l'incidente di Rometta
Marea, di Crevalcore, di Viserba e, puntualmente, è
accaduto.
Perché non è un caso che gli
incidenti ferroviari avvengono e sono aumentati in maniera
esponenziale proprio in seguito allo smantellamento della
vecchia Azienda Autonoma Ferrovie dello Stato, all'avvio del
processo di liberalizzazione, alla fortissima riduzione dei
ferrovieri (sempre più spesso sostituiti con personale
precario con contratti part-time, a tempo determinato, di
apprendistato), all'abbassamento dei parametri di sicurezza,
al peggioramento complessivo delle condizioni di vita e di
lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori delle ferrovie.
Purtroppo la strategia infrastrutturale attuale, delle
grandi opere, messa in campo a partire dalla legge
obiettivo, prevede, per il futuro, oltre ad un’accentuazione
degli squilibri nel sistema del trasporto ferroviario anche
e, soprattutto, un ulteriore taglio alle già esigue risorse
per gli investimenti in sicurezza.
È evidente che le risorse
economiche disponibili, saranno completamente fagocitate da
quelle che sono le vere priorità per l'impresa, per il
mercato e, cioè, l'alta velocità e le autostrade.
Continua, quindi, quello squilibrio nel sistema
ferroviario che determina una situazione di estrema
drammaticità.
Drammaticità per quello che riguarda la sicurezza;
drammaticità per quello che riguarda l’impatto economico
delle opere; drammaticità per quello che riguarda l’impatto
ambientale; drammaticità per quello che riguarda il
Mezzogiorno ancora a corto di infrastrutture decenti.
L'incidente di ieri non è imputabile al caso, ad un semaforo
rosso, all'errore umano.
Trova la sua ragione e fondamento nelle responsabilità
politiche di chi ha considerato la ferrovia non più come un
bene pubblico ma come una impresa a scopo di lucro e,
quindi, da privatizzare.
E gli investimenti sulla
sicurezza, sul materiale rotabile e sulle infrastrutture
delle linee cosiddette "secondarie" sono costi da
"abbattere".
La lotta delle popolazioni di Val di Susa contro la TAV significa anche questo.
Ribellarsi ad opere inutili, costose, dannose e dirottare le
risorse a favore di un trasporto pubblico, sociale, sicuro e
sostenibile.
Esprimiamo il nostro profondo dolore, la nostra sincera
solidarietà ai feriti, alle famiglie e ai parenti.
Esprimiamo la nostra rabbia nei confronti dei veri
responsabili di quanto sta accadendo alle ferrovie di questo
Paese.
Coordinamento Nazionale
Ministero dell’Economia e delle Finanze
19 Dicembre 2005
Pomodori e buoi
dei paesi tuoi
(Beppe Grillo)

Da più di vent'anni in Europa e nel mondo il
trasporto delle merci cresce a velocità quasi doppia
di quella della crescita del PIL.
Miliardi di tonnellate di merci vanno avanti e indietro
sulle strade, sulle ferrovie, nei cieli e sui mari. E
ogni anno aumentano e vanno più
lontano.
Il progresso non si può fermare,
dicono. Come se il progresso fosse per forza una
locomotiva in discesa e senza freni. L'unica
cosa che non è stata ancora toccata dal progresso è
l'idea di progresso. Io sono stufo di immaginarmi il
progresso come facevano Marinetti e i
futuristi dell’inizio del secolo scorso: macchine
rombanti e sferraglianti, sempre più grosse, sempre più
potenti.
Se vogliamo continuare a credere nel progresso, dobbiamo
far progredire anche l'idea di
progresso.
Un progresso progredito è un progresso che
sussurra, che non romba. E' un progresso in
punta di piedi, non un progresso con i cingoli. "Dall'atomo
al bit" ci avevano promesso vent'anni fa i guru
della tecnologia. Avevo capito che invece di spostare
sempre più atomi, cioè materia, si
sarebbero spostati sempre più bit, cioè
informazione.
Avevo capito male.
Quello che sta succedendo è ben diverso. Stanno
esplodendo lo scambio delle merci materiali
e l'impiego di miliardi di tonnellate
di infrastrutture e di combustibili per
trasportare sempre più lontano sempre più cose, spesso
sempre più insensate. Mi è ben chiaro che per secoli le
vie di comunicazione sono state le arterie della civiltà
e che commerci equi e liberi hanno portato vantaggi a
tutti.
Ma la situazione è cambiata. Per più
di duemila anni le merci sono state trasportate con
varie forme di energia solare indiretta, quella degli
animali da soma, del vento, dell’acqua. Oggi i mezzi di
trasporto non usano più energia solare ma
energia del petrolio, centinaia di milioni di
tonnellate all'anno, che diventano miliardi di
tonnellate di CO2 nell'atmosfera e che
producono danni economici sotto forma di effetto
serra, tifoni, uragani,
siccità.
Gli storici dell'economia stimano
che per secoli i tassi di crescita economica siano stati
di qualche punto per mille ogni anno. Adesso i
tassi di crescita economica sono di
alcuni punti percentuali all'anno, e
gli scambi monetari dell'economia raddoppiano ogni 10-30
anni. Inoltre i commerci materiali
aumentano ancora più velocemente
dell'economia monetaria. Mi sembra chiaro
allora che il ritmo attuale di crescita dei trasporti è
un mostro mai esistito prima e che mai
potrà esistere in futuro. Stiamo vivendo pochi
decenni di follia.
Se i prezzi di una bottiglia
di vino australiano trasportato fino in
Piemonte o di acqua San Pellegrino
trasportata fino a Sidney, bruciando a ogni viaggio una
bottiglia di petrolio, coprissero anche
i costi dei danni ambientali generati,
quel vino e quell'acqua costerebbero il doppio, il
triplo, il quadruplo.
Perché le salsicce vendute a
Norimberga devono essere fatte con maiali
bavaresi portati a macellare a Mola
vicino a Napoli? E i pigiami
tessuti e venduti in Svizzera devono
andare fino in Portogallo per farsi
cucire i bottoni? E i
gamberetti del mare del Nord venduti in
Germania devono andare in Marocco
per essere lavati? E nei supermercati
di Stoccarda deve arrivare acqua
minerale irlandese a prezzi inferiori a quella
tedesca? E lo speck "nostrano"
altoatesino deve essere fatto coi
maiali belgi? E la carne secca
dei Grigioni con i manzi
brasiliani? E i corn flake a Ginevra
con il granturco argentino? E
la pizza a Napoli con il
pomodoro cinese? E il pesto a
Genova con il basilico del
Vietnam?
La Gran Bretagna importa ogni anno
duecentomila tonnellate di carne di porco
straniero. Ma esporta anche duecentomila
tonnellate di porco britannico. E se ognuno si
mangiasse i porci suoi?
In un pianeta sempre più affollato, dove
miliardi di persone vogliono a un maggior
benessere materiale, si potrà soddisfare tutti solo se
si ricomincerà a produrre e
consumare localmente tutto quello che è
possibile, lasciando ai commerci a lunga distanza il
resto.
Un pomodoro prodotto in Cina , in
Italia deve costare 50 euro, 10
centesimi di prodotto e 49,90 di danno
ambientale.
Poi chi vuole il pomodoro esotico lo
compri pure.
In questo folle su e giù per il pianeta
di aerei, navi, traghetti, camion e treni
sempre più TAV chi ci guadagna è il commercio e
non più la produzione.
Anzi, il contadino, l’artigiano
vengono espulsi dal sistema produttivo
dagli ipersupermegamercati,
punti di carico e scarico delle merci del pianeta.
Sentinelle delle multinazionali che ci
dicono cosa mangiare attraverso l’informazione e
la pubblicità.
E se poi la carne, il miele,
il latte prodotti localmente sono
più sani e costano meno, chi se
ne frega.
13 dicembre
I licenziamenti alla General Motors,
il deficit commerciale, il collasso del sistema sanitario
U na
volta, un'ex presidente della General Motors disse: "Ciò che va
bene per il Paese, va bene per la General Motors e viceversa".
La G. M., già da tempo in perdita per miliardi di dollari, ha
annunciato di voler tagliare 30 mila posti di lavoro. Ciò che è
male per la General Motors è male per l'America? In questo caso
sì. Gran parte dei commenti che riguardano i guai della G. M.
sono di rassegnazione: anche gli esperti che si dicono
rammaricati del declino di quella che un tempo era un'azienda
importante e autorevole, non sono dell'avviso che si possa o si
debba fare qualcosa al riguardo. Per non parlare dei commenti di
alcuni conservatori i quali, con evidente tono di soddisfazione,
sottolineano l'inevitabilità di tale situazione quasi a dire che
l'ostinazione di quegli operai che si sono iscritti ai sindacati
e hanno avanzato richieste sta ricevendo ciò che merita.
Non dovremmo essere così compiaciuti. Non difenderò le
molteplici cattive decisioni prese dalla direzione della G. M.,
tantomeno le richieste avanzate dall'Associazione degli operai
dell'industria automobilistica. Tuttavia, la perdita di posti di
lavoro alla General Motors fa parte di un quadro economico più
ampio che coinvolge l'intera industria manifatturiera americana
specialmente quel settore che offre ai propri operai indennità e
salari decenti. L'indebolimento dell'industria riflette due
grandi alterazioni della nostra economia: un sistema sanitario
mal funzionante e un deficit commerciale insostenibile. Secondo
A. T. Kearney, l'anno scorso, per ogni veicolo prodotto, la
General Motors ha speso 1.500 dollari in cure sanitarie per i
propri dipendenti. Di contro, la Toyota ne ha spesi soltanto 201
per veicolo in Nord America e 97 in Giappone. Se gli Stati Uniti
avessero un sistema sanitario nazionale, la G. M. verserebbe in
condizioni di gran lunga migliori di quelle in cui invece si
trova al momento. Un'assicurazione medica finanziata dai
contribuenti non corrisponderebbe più o meno a un sussidio per
l'industria automobilistica? Non proprio. Poiché la maggior
parte degli americani crede che i propri concittadini abbiano
diritto a cure sanitarie, e poiché il nostro sistema politico
agisce, anche se in modo imperfetto, secondo quel credo, legare
l'assicurazione medica all'occupazione ha l'effetto di
distorcere l'economia: non fa che scoraggiare la creazione di
posti di lavoro validi che comprendono benefici e indennità
vantaggiose. Di fatto, molte delle spese mediche che la G. M.
risparmierà tagliando posti di lavoro saranno semplicemente
buttate sulle spalle dei contribuenti. Alcune famiglie di ex
dipendenti della G. M. finiranno per ricevere assistenza
sanitaria attraverso il Medicaid. Altri riceveranno cure che non
saranno risarcite, ad esempio nei casi di emergenza e di pronto
soccorso, e che finiranno per essere pagate o dai contribuenti o
da coloro che sono coperti da assicurazione medica. Inoltre, i
costi dell'assistenza medica della G. M. sono così elevati anche
a causa dell'inefficienza del frammentario sistema sanitario
americano. Spendiamo più noi a persona in cure mediche dei Paesi
che godono di un sistema sanitario nazionale; e oltretutto con
risultati peggiori.
Per quanto riguarda il deficit commerciale, la situazione è la
seguente: in questo momento gli Stati Uniti importano più di
quanto esportano. Lo scorso anno il deficit commerciale ha
oltrepassato i 600 miliardi di dollari. L'altra faccia del
deficit commerciale è un riorientamento della nostra economia
che permetta di staccarsi dalle industrie che esportano o
competono con le importazioni, specialmente quella
manifatturiera, e di avvicinarsi alle industrie che non sono
influenzate dalla competizione straniera, per esempio
l'edilizia. Dal 2000, abbiamo perso circa tre milioni di posti
di lavoro nell'industria manifatturiera, mentre l'Associazione
degli agenti immobiliari è cresciuta del 50 per cento. Il
deficit commerciale è insostenibile. Al momento possiamo
permetterci di sostenerlo perché gli stranieri, i governi
stranieri in particolar modo, sono disposti a prestarci grosse
somme di denaro. Ma uno di questi giorni, il credito facile
finirà e gli Stati Uniti dovranno iniziare a pagare il proprio
ingresso nell'economia mondiale. Per farlo, dovremo riorientare
la nostra economia all'indietro, verso la produzione di beni che
possiamo esportare o per rimpiazzare così quello che ora
importiamo. E ciò significherà il ritorno di molti operai
all'industria manifatturiera. Quindi, il rapido
ridimensionamento che dal 2000 sta interessando l'industria
della manifattura equivale allo smantellamento di un settore che
di qui a qualche anno dovremo ricostruire.
Non voglio attribuire tutti i problemi della G. M. alla nostra
economia distorta. Uno degli stabilimenti che la G. M. ha in
mente di chiudere si trova in Canada e si tratta di uno
stabilimento che gode del sistema sanitario nazionale e che lo
scorso anno ha registrato un'eccedenza della bilancia
commerciale. Tuttavia, è evidente che le storture della nostra
economia rendono i problemi della G. M. di gran lunga peggiori.
Affrontare il problema del nostro deficit commerciale è una
faccenda complicata che dovrò trattare un'altra volta. Ma le
enormi difficoltà in cui versa la G. M. ci ricordano ancora una
volta l'urgente necessità di mettere mano al nostro sistema
sanitario. È ormai tempo che si passi a un sistema sanitario
nazionale che riduca i costi, diminuisca il peso che è al
momento sulle spalle dei lavoratori che cercano di fare la cosa
giusta e sollevi le famiglie americane dalla paura di perdere la
propria copertura assicurativa. Mettere mano alla sanità farebbe
bene alla General Motors e farebbe bene al Paese.
'The New York Times'-'L'espresso'
traduzione di Rosalba Fruscalzo
Forse non tutti sanno che....
18.
Tutti – non alcuni -- ma tutti gli errori dei sistemi
di votazione scoperti e denunciati in Florida erano a favore
di Bush o dei candidati Repubblicani..
http://www.wired.com/news/evote/0,2645,65757,00.html
http://www.yuricareport.com/ElectionAftermath04/ThreeResearchStudiesBushIsOut.htm
http://www.rise4news.net/extravotes.html
10 dicembre
«Sporco negro» si può dire
ALESSANDRO PORTELLI
Dopo ponderata riflessione, la Corte
di Cassazione, la nostra più alta istanza giudiziaria, ha
emesso l'alta sentenza: «Sporco negro» non è un insulto
razzista. Spiega la Repubblica:«Per la Cassazione
l'espressione `sporco negro' - pronunciata da un italiano
mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie
lesioni - non denota, di per sé l'intento discriminatorio e
razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere
una meno grave manifestazione di 'generica antipatia,
insofferenza o rifiuto' per chi appartiene a una razza
diversa». Come se una generica antipatia, insofferenza o
rifiuto non fosse, appunto già sinonimo di un atteggiamento
razzista - specie se accompagnata dall'aggressione e dalle
botte. E infatti, se non è un insulto razzista questo, che
attribuisce intrinseca sporcizia al colore della pelle
(«sporco negro», cioè sporco perché «negro»), che cosa lo è?
Per quanto mi sforzi di immaginare espressioni peggiori,
tali da poter essere riconosciute come razziste dall'alta
Corte, non mi viene in mente niente di più conciso, puntuale
e offensivo di questa, che associa indissolubilmente un'idea
di sporcizia a una presunta identità razziale. La Cassazione
spiega che si tratta di razzismo solo in caso di
«restrizione o preferenza basata sulla razza, che abbia lo
scopo di distruggere o compromettere il godimento in
condizioni di parità dei diritti e delle libertà
fondamentali».
Ora, nel caso specifico l'insulto è
stato proferito mentre l'imputato aggrediva due giovani
donne nere per cacciarle da dove si trovavano, e gli
provocava lesioni: quindi è connesso precisamente a un
tentativo di negare il loro godimento del diritto
fondamentale occupare lo spazio e di preservare la propria
integrità fisica - implicitamente, di esistere. La logica
leguleia della Corte invece separa le parole dai
comportamenti di cui invece sono parte integrante, o
premessa immediata. Per esempio. Se uno cerca «sporco negro»
su Google, trova sempre storie di contestualità o rapido
passaggio dalle parole alle azioni. In un bar di piazzale
della Radio a Roma, due tizi dicono al barista africano,
«sporco negro, ora torno con la pistola e t'ammazzo» e,
passando dalle parole ai fatti, si ripresentano subito dopo
armati e gli puntano una semiautomatica col colpo in canna
alla gola. Oppure: se (come ha raccontato il Corriere
della Sera) un bambino in una scuola della collina
Fleming a Roma si sente dire «sporco negro, puzzi» queste
parole accompagnano anche un comportamento concreto che lo
priva di un diritto fondamentale: l'esclusione dai giochi e
dalla socialità dei compagni di classe che lo insultano.
Ma anche l'immaterialità delle parole può ledere diritti non
meno fondamentali per il fatto di essere immateriali. Il
bambino della collina Fleming cancella tutto quello che
scrive perché ha paura di essere giudicato; e (come
l'africano Olaudah Equiano nel 1780 o l'italo-franco-sarawi
Nassera Chora nel 1993 - o il pulcino Calimero in un famoso
Carosello di tanti anni fa) chiede ansiosamente alla mamma,
ogni mattina, di lavarlo più a fondo per ripulirlo della
sporcizia che ormai è sicuro di avere addosso e che -
«sporco negro», appunto - ritiene incarnata nel colore della
sua pelle. Sarà o no un diritto fondamentale, per un
bambino, o per un adulto, quello di sentirsi a proprio agio
nella propria pelle e non avere disprezzo di sé?
C'è una radicata e irriflessa strategia di negazione di cui
questa sentenza fa parte: i fatti esistono, ma il razzismo
non c'entra. Sulla collina Fleming il direttore della scuola
nega che sia successo (e comunque è colpa del bambino); ma
il più delle volte presidi e direttori ammettono il mobbing
verso bambini immigrati ma negano che c'entri il razzismo -
come quei commentatori calcistici che sostengono che il
verso della scimmia ai giocatori neri non è un messaggio
razzista ma solo un modo di farli innervosire. Noi italiani
siamo brava gente, non siamo razzisti, il razzismo o non
esiste o sta sempre da un'altra parte. Infatti eravamo brava
gente anche quando bombardavamo i libici o sterminavamo i
preti copti in Etiopia. Ogni caso è un caso isolato; magari
si possono stigmatizzare gli atti ma sempre negandone la
motivazione razzista.
Penso a certe sentenze del dopoguerra (anche di Cassazione)
contro le spie che denunciavano gli ebrei ai nazisti. Come
ha mostrato Amedeo Osti Guerrazzi in un utile libro recente
(Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper,
2005), i tribunali e la stessa corte di Cassazione nel
dopoguerra consideravano il fine di lucro delle denunce
molto più grave e importante del fine razziale, per cui una
delazione fatta per puro odio razziale finiva per non essere
punibile in quanto tale. Insomma, persino la consegna degli
ebrei ai nazisti non poteva essere pensata come atto
razzista e andava derubricata in reato comune. Anche qui, il
razzismo non c'entra...
D'altra parte, uscivamo appena da un'epoca in cui dire
«sporco ebreo» non solo non era reato ma era quasi un dovere
patriottico. E se «sporco negro» non è un insulto razzista,
perché non lo sarebbe qualunque espressione analoga verso
altre identità? Che direbbe la suprema corte di Cassazione,
se qualcuno denunciasse di essere stato chiamato «sporco
ebreo»? Non è un'ipotesi astratta. Il razzismo è
indivisibile; un insulto a uno scatena il pericolo per
tutti. Se uno cerca «sporco arabo» su Google, trova le
stesse storie: «Non mio piaceva andare a scuola e mi
inventavo delle scuse. Tipo: papà non ci vado perché un
compagno mi ha chiamato sporco arabo. Mio padre mi obbligava
a lavare le mani e mi invitava a dire l'indomani, no, sono
un arabo pulito». Se uno cerca «sporco ebreo», rischia di
imbattersi in blog dove impazzano irripetibili fantasie
razzistico-scatologiche. Scrive Edgar Morin che uno degli
insulti preferiti dei poliziotti francesi è «sporco arabo»;
al tempo stesso, Pierre-André Taguieff ha scritto: «Ti
dicono `sporco ebreo' e la polizia classifica l'insulto come
`atto di inciviltà'», anziché come manifestazione razzista.
Commenta Taguieff: «Ormai il termine è diventato un insulto
qualunque, un equivalente di 'idiota'». La nostra corte di
Cassazione è felicemente avviata sulla stessa strada dei
poliziotti francesi - e oltre. Gli echi sinistri del
linguaggio della sentenza sono ancora più profondi.
Insultare gli ebrei era un dovere patriottico perché, come
diceva il documento degli intellettuali razzisti da cui
scaturirono le leggi razziste italiane del 1938, «le razze
esistono». Nonostante tutto quello che antropologi e
genetisti hanno detto in contrario, da Lévi-Strauss a
Cavalli Sforza, la corte di Cassazione mostra di pensarla
ancora allo stesso modo e parla di «chi appartiene a una
razza diversa» come se fosse pacifico che, appunto, «le
razze esistono». Basterebbe questo per porsi problemi seri
su che cosa siano la cultura e il dilagante senso comune che
hanno dettato una simile sporca sentenza.
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