29 dicembre

PUBBLICO IMPIEGO

Blocco stipendi, l'allarme della Cgil "I lavoratori perderanno 1.600 euro"

Il calcolo sulla perdita del potere d'acquisto tiene conto dello stop al rinnovo contrattuale e del mancato incremento in base all'indice dell'inflazione. La Cisl frena: "All'estero è andata anche peggio"

ROMA - Circa 1.600 euro di potere d'acquisto in meno. Tanto perderanno i lavoratori del pubblico impiego con il blocco degli stipendi pubblici fino al 2013 previsto dalla manovra economica. La stima è della Cgil che sottolinea con il responsabile settore pubblico, Michele Gentile, come circa 1.200 euro lordi si perdano per il triennio 2010-2012 di mancato rinnovo dei contratti mentre altri 400 euro di aumenti complessivi mancheranno all'appello nel 2013 a causa del blocco ulteriore previsto dalla stessa manovra.

Nel triennio 2010-2012, spiega Gentile, "l'incremento degli stipendi sulla base dell'indice dell'inflazione Ipca previsto dall'accordo interconfederale del 2009 (non firmato dalla Cgil) avrebbe dovuto essere complessivamente del 4,2%. Poiché ogni punto di inflazione vale circa 20 euro si tratta a regime di 90 euro lordi che mancheranno nello stipendio. Ipotizzando tre tranche annuali da trenta euro in più al mese (quindi 400 euro l'anno compresa la tredicesima) che non ci saranno, la perdita cumulata di potere d'acquisto sarà almeno di 1.200 euro lordi in media. Se ci aggiungiamo il blocco già previsto anche per il 2013 arriviamo almeno a 1.600 euro. I lavoratori pubblici torneranno a vedere aumenti in busta paga solo nel 2014".

La Cgil ricorda poi come al blocco della contrattazione nazionale per il triennio (i contratti per circa tre milioni e mezzo di lavoratori sono scaduti a fine 2009) si affianca lo stop alla contrattazione integrativa e il blocco economico della carriera. In pratica nei prossimi anni si potrà fare carriera ma l'avanzamento sarà riconosciuto solo giuridicamente senza nessun miglioramento dello stipendio.

Il blocco degli stipendi preoccupa non solo la Cgil, ma anche gli altri sindacati che però sottolineano come la stretta sul lavoro pubblico in Italia sia comunque meno pesante rispetto a quanto è accaduto in altri Paesi. "In 17 Paesi europei - dice il segretario generale della Fp-Cisl Giovanni Faverin - non si sono limitati al blocco dello stipendio in essere ma hanno deciso tagli delle retribuzioni rilevantissimi. In Spagna è stata del 5% mentre in Irlanda hanno avuto tagli del 13%. E puntiamo a recuperare risorse con la contrattazione integrativa". Gli esempi citati sono in realtà quelli delle nazioni più colpite dalla crisi e dalla cui situazione economica il governo ha sempre preso le distanze, ma anche il segretario confederale Cisl Gianni Baratta è convinto che non ci si possa lamentare più di tanto. "Il blocco dei contratti è una ferita - precisa - ma se guardiamo al panorama europeo le decisioni degli altri Paesi sul lavoro pubblico sono state più pesanti".

La stretta nel pubblico impiego per i prossimi anni non si limiterà al blocco degli stipendi ma riguarderà anche il turn over. La manovra economica prevede che fino al 2012 ci sia un limite del 20% delle entrate rispetto alle uscite. In pratica su dieci dipendenti pubblici che escono (per pensione o dimissioni) ne potranno entrare solo due (e con il limite anche del 20% massimo della spesa quindi non sarà possibile che a fronte dell'uscita di due commessi entrino due dirigenti). Facendo un calcolo medio di uscite di 100.000 persone l'anno (circa il 3% di tre milioni e mezzo di dipendenti) significa che tra il 2010 e il 2012 a fronte di 300.000 uscite sarà possibile fare al massimo 60.000 nuove assunzioni (poiché vincoli più stringenti ci sono nei comuni, le regioni e la sanità)

 

Mirafiori? ''Non esportabile e censurabile''

Secondo il segretario della Ces l'accordo è da censurare. Oggi vertice straordinario Fiom su Fiat Chrysler
"Marchionne? Questo dirigente planetario, molto americano, affronta la questione di Mirafiori con un approccio pragmatico e armato di una furbizia italica, direi napolitana", risponde Walter Cerfeda segretario del sindacato europeo (Ces), che per la prima volta parla dell'accordo separato alla Fiat-Chrysler raggiunto alla vigilia di Natale.

"Questo accordo esula dal quadro della contrattazione europea e delle trattative in corso perché qui si sommano diversi contenuti che nella contrattazione europea vengono affrontati separatamente". Ci sono quattro elementi mischiati insieme: lo scambio tra prestazione di lavoro e investimenti promessi, il diritto alla salute, il diritto alla rappresentanza e un nuovo modello contrattuale da applicare alla New Co Fiat Chrysler. "Mi occupo di contrattazione in Europa da otto anni e un guazzabuglio così non si è mai visto".

Cosa significa per la Ces questo accordo?

E' un contratto non esportabile e censurabile. Molte imprese europee, pronte a lanciare nuovi invesimenti produttivi, hanno prima sondato la possibilità di delocalizzare per aumentare la produttività. L'ha fatto Volkswagen e Daimler-Benz. Poi hanno deciso di rimanere in Germania a patto di uno scambio tra prestazioni di lavoro (modifiche dell'orario e dei turni) e promesse di investimenti, con concessioni anche più marcate di quelle richieste a Mirafiori. Ad esempio, in Germania ci sono operai che lavorano 43 ore la settimana, ma con una retribuzione che si ferma a 35 ore. I sindacati hanno definito questi accordi concession bargaining, accordo peggiorativo, indispensabili per il mantenimento del sito produttivo e degli investimenti.

Anche Marchionne ha promesso investimenti a Mirafiori.

La differenza è che Marchionne non ha presentato alcun piano industriale, c'è una promessa di investimento che non è supportata da numeri, progetti, volumi di investimento, tempi di realizzazione e via dicendo. In Germania sono state create cabine di vigilanza tra impresa e sindacato che verificano la concretizzazione dei patti siglati nell'accordo e ogni soldo promesso dall'azienda viene certificato e inserito nel contratto. In Germania non si mette insieme l'investimento con il diritto alla malattia e l'assenteismo. Questi sono problemi che devono essere affrontati dai sistemi ispettivi. I punti di Mirafiori hanno una dimensione aberrante e censurabile e il Ces cercherà di evitare una contaminazione.

C'è quindi il pericolo che altre imprese seguano la strada di Mirafiori con accordi separati?

L'accordo di Mirafiori riporta in auge un vecchio problema del sindacato italiano, la rappresentanza. In Francia è possibile firmare accordi con una sola parte del sindacato, a condizione che questi rappresentino il 51% dei dipendenti di un'azienda, perché esiste una legge per la rappresentanza sindacale. In Italia vige il principio di esclusione: chi c'è, c'è. In Germania è possibile che un'impresa esca dalla Confindustria perché il modello contrattuale tedesco consente molta più flessibilità. Ma quando un'azienda esce dalla sua associazione di rappresentanza, non applica più il contratto collettivo di lavoro e quindi non tratta con i sindacati confederali di categoria, che hanno firmato il Ccnl, ma con i sindacati aziendali, cioè con i consigli di fabbrica. E' proprio questo che ci preoccupa a Mirafiori. Insomma la Fim e la Uilm firmando l'accordo di Mirafiori è come se disdicessero il contratto nazionale che avevano in precedenza firmato. Quindi siamo di fronte a sindacati culturalmente subordinati all'impresa. Potrebbero esserci imprenditori che decidono di trattare con altri sindacati e magari lo stesso Marchionne domani deciderà di sedersi al tavolo della trattativa con qualcun'altro.

Marcegaglia è pronta a creare un contratto per l'auto per riavere Fiat in Confindustria. Cosa ne pensa?

Va benissimo. Ma la decisione di creare il contratto di settore dell'auto non può nascere da un'azienda, semmai da Federmeccanica. Altrimenti chiunque potrebbe seguire lo stesso esempio.Il punto fondamentale è che Cisl e Uil non hanno più alcuna garanzia del rispetto degli accordi, che derogano al contratto nazionale che loro stessi hanno firmato. A Fim e Uilm auguro che vada tutto bene e che Marchionne sia di parola, anche se non c'è uno straccio di piano industriale che gli impone di mantenere le promesse fatte.

Gloria Riva

 

Nigeria, Natale di sangue

Bombe nell'area cristiana di Jos, chiese assaltate nel Borno: lo spettro della violenza religiosa torna a fare paura

Le luci del Natale hanno lasciato il posto a quelle delle ambulanze e ai roghi delle esplosioni che hanno ricordato alla Nigeria quanto siano fragili quegli equilibri che impediscono l'implosione del Paese.

Fiamme nel Plateau. Equilibri che sono tornati a scricchiolare alla vigilia di Natale, quando quattro bombe sono esplose, seminando di nuovo il terrore della violenza interetnica: epicentro della violenza è ancora Jos, la capitale del Plateau, dove tra gennaio e marzo di quest'anno si sono registrati massacri di civili che hanno fatto un migliaio di morti. Il bilancio provvisorio è di 38 morti e 74 feriti. Torna anche lo spettro della violenza inter-religiosa, visto che le bombe sono esplose in un'area a prevalenza cristiana della capitale. La prima a Kabong, nei pressi della chiesa cattolica del Sacro Cuore, alle otto meno venti di sera. Subito dopo è seguita un'esplosione al Satellite, il vicino mercato, dove la folla stava facendo gli ultimi acquisti; un'altra nei pressi della sopraelevata di Gada-Biyu. La data e i luoghi delle esplosioni sono stati scelti perché risultasse evidente a tutti la matrice anti-cristiana degli attentati. Chiunque sia stato, sta soffiando sul fuoco delle divisioni religiose lungo le quali si vanno da tempo condensando tensioni di tipo etnico e sociale che stanno indebolendo la Nigeria, un gigante in crescita in cui diventa sempre più delicata la faglia tra il nord musulmano e il sud cristiano; lo stato del Plateau è esattamente a cavallo.

Violenza di strada. E le bombe hanno messo in moto un'escalation che ha subito prodotto i suoi effetti, innescando atti di guerriglia urbana nell'area di Jos. Gruppi di giovani hanno montato barricate nei distretti di Angwan Rukuba e Dogon Dutse. In tre ore, i disordini si erano estesi a Rikkos, Abbatoir e Dogon-Karfe. Mancano cifre su eventuali vittime ma un quotidiano di Abuja, Leadership, menzionava otto morti nel solo distretto di Angwan Rukuba. La situazione resta estremamente delicata: i reparti antisommossa stanno faticando per ripristinare l'ordine. Unità mobili, almeno quattro, sono state spostate da altri stati del Paese. Un migliaio di poliziotti in borghese sono stati immediatamente schierati nei pressi dei luoghi di culto della capitale e del territorio metropolitano ma l'incendio è contenuto a stento. Tanto che il vicepresidente nigeriano, Nomadi Sambo, ha annullato la sua visita a Jos. I servizi di sicurezza gliel'hanno sconsigliato: troppo pericoloso.

Il ritorno di Boko Haram. Ma non è solo il Plateau, lo stato a rischio. I dispositivi di sicurezza sono stati rafforzati anche nel vicino Kaduna e nei luoghi simboli della capitale federale, Abuja. Perché la violenza non è rimasta confinata nel Plateau. A Maiduguri, la capitale del Borno, una trentina di uomini armati hanno assaltato un paio di chiese. In una, sotto la minaccia di un coltellaccio, hanno portato il pastore fuori dalla chiesa e lo hanno freddato con un colpo di fucile. Hanno poi ucciso due membri del coro e tre passanti. Qui però la polizia ha una pista preferenziale da seguire, quella che porta a Boko Haram, la setta islamica radicale (il suo nome, in Hausa, vuol dire "L'educazione occidentale è un sacrilegio"). Secondo diversi analisti, sarebbe stata Boko Haram a pianificare l'intera operazione delle bombe di Jos. La setta, solo l'anno scorso, era data per spacciata. Gli investigatori credevano di averla sgominata ma fonti attendibili dicono che adesso è tornata più forte e spietata che mai: lo ha dimostrato già lo scorso settembre, quando un suo commando assaltò un carcere nello stato del Bauchi e liberando 732 detenuti, in massima parte suoi miliziani. Con le fibrillazioni che arrivano dall'area del Delta del Niger e una campagna elettorale che si annuncia infuocata ormai alle porte (le presidenziali del 2011), questo è sicuramente un momento estremamente delicato per il Paese. La leadership del presidente Goodluck Jonathan, cristiano del sud, salito al potere con la malattia e la morte di Umaru Musa Yar'Adua, musulmano del nord, stenta a consolidarsi. Non si può parlare di un vuoto di potere ma bisogna riconoscere che le istituzioni repubblicane sembrano quanto mai fragili, soprattutto gli apparati di sicurezza, sui quali Jonathan è intervenuto pesantemente rinominandone i vertici. Il gigante africano si avvicina al 2011, un anno cruciale, più fragile che mai.

Alberto Tundo

 

Messico, il lavoro che non rende liberi

Centinaia di persone vengono rapite e costrette a lavorare nei campi gestiti dalle organizzazioni criminali

Cinquanta operai sono stati liberati dalla Policia Federal dopo essere stati sequestrati per diversi giorni e costretti a lavorare nei campi nello Stato di Sonora, nel nord del Paese. I cinque uomini che dovevano controllare gli operai sono stati arrestati.
Secondo quanto raccontato dalle forze di sicurezza messicane, gli operai sarebbero stati liberati dopo che una pattuglia aveva notato dei movimenti strani nei pressi di un edificio non distante dai campi da coltivare. Soprattutto la polizia aveva notato che alla loro vista gli operai avevano fatto di tutto per nascondersi. Ovvio ci fosse qualcosa che non andava secondo le regole. Dopo poco l'intervento e l'amara scoperta della riduzione in schiavitù dei 50 uomini.

Gli agenti, poi, hanno raccontato che alcuni lavoratori presentavano segni evidenti di lesioni, conferma degli abusi e delle botte subite dai loro aguzzini. Una pratica che negli ultimi mesi sembra essersi ben consolidata all'interno del panorama criminale nord messicano. Di fatto alcuni lavoratori sono stati costretti a rivolgersi alle cure del più vicino ospedale. Dopo i primi interrogatori è emersa la cruda verità. I cinquanta uomini erano stati rapiti a Eloxochitlán, nello stato di Puebla. Fra loro ci sarebbero almeno quindici minorenni e dopo le prime cure mediche avrebbero tutti sporto denuncia nel locale ufficio di polizia.

La liberazione dei cinquanta lavoratori non è una novità. Qualche settimana fa, infatti, altre 107 persone (tutte di età compresa fra i 18 e i 70 anni) sono tornate alla libertà dopo essere state sequestrate da gruppi criminali che le ha costrette a lavorare come schiavi per mesi in una fabbrica produttrice di borse e chiusure lampo, camuffata da centro per il recupero di alcoolisti e tossicodipendenti. Una vita d'inferno in una fabbrica totalmente clandestina, terminata solo grazie alla tenacia di uno dei lavoratori che dopo essere riuscito a scappare si è rivolto alla polizia che è intervenuta.
In manette sono finite 23 persone, accusate di traffico di esseri umani. "Molte delle vittime, tutti indios che non parlavano nemmeno lo spagnolo, che abbiamo salvato -dice il procuratore Miguel Angel Mancera - sono state violentate. Secondo quanto abbiamo appreso lavoravano tutti sedici ore al giorno e avevano una pausa di mezz'ora per mangiare. A volte venivano alimentati con zampe di pollo e legumi marci". Ora la loro vita avrà un nuovo indirizzo.

Alessandro Grandi

 

16 dicembre

 

Vince la regola del libero mercato

da Rosario Amico Roxas

La grande fiera di Santa Lucia ha chiuso i battenti; gli affari sono andati come da copione.
La merce esposta e messa in vendita è stata apprezzata, valutata, ma il volume degli affari non ha visto l’exploit che avrebbe potuto avere; pochi i movimenti effettuati, ma sufficienti per consentire di vantare un successo che, se non è quello preventivato, in ogni caso ha dato ossigeno ad un mercato in agonia.
La nuova realtà che viene offerta all’analisi dei politologi, dei commentatori e degli opinionisti è tale da consentire ad ognuno di dire la propria e, alla fine, avere ragione tutti.
Chi ha vinto dirà che ha vinto, ed è vero; chi ha perso dirà che in fondo non ha perso, ed è altrettanto vero.
Se si parla di fiducia al governo, ha vinto chi ha comprato i biglietti vincenti; se si parla di credibilità, allora non ha perso chi ha preventivato un crollo verticale della medesima da parte di questo governo.
Ha vinto la regola del libero mercato, quello che più libero non si può; il mercato che si è istallato nel tempio che era delle democrazia, ha imposto le sue leggi della forza, quelle leggi che calpestano il diritto.
In una nazione civile l’opinione pubblica si sarebbe rivoltata insieme allo stomaco; ma dopo 16 anni di abitudine all’assenza di ogni regola democratica non ci si fa più caso.
Ora scatta il momento del pentimento da parte di chi, per pudore, non ha voluto partecipare all’Offerta Pubblica di Acquisto, perdendo sia la capra che i cavoli che erano esposti in vetrina e si esporranno, pronti a soccorrere il vincitore, anche se ha vinto solo una fiducia comprata ed ha perso definitivamente la credibilità residua.
Gli acquisti già perfezionati mostreranno presto la loro vera faccia; hanno capito di essere aghi di una bilancia truccata e faranno valere le vere ragioni di una compra-vendita chiedendo, anzi pretendendo, un compenso per ogni gesto o atto idoneo al proseguimento di un’avventura personale che ha uno scopo personale e fini personali, per cui l’Amministrazione dello Stato, trasformata in mercato delle vacche, si posizionerà ulteriormente e definitivamente nella sfera dei ricatti quotidiani.
Il "servirsi dello Stato" ha vinto sul "servire lo Stato".

 

14 dicembre

 

2011, il pendolare resta a terra. Meno treni e pochi fondi, è allarme

Il rapporto Legambiente: per il prossimo anno mancherà la metà delle risorse. In Italia ogni giorno 2 milioni 700 mila viaggiatori si spostano in treno. L'annuncio delle Ferrovie: 154 convogli a lunga percorrenza sono in perdita e verranno eliminati

di GIOVANNI VALENTINI

MENTRE le nostre Ferrovie dello Stato sbarcano in Germania, acquisendo il 5% della società che gestisce le linee dei pendolari tedeschi, il 2011 rischia di diventare l'anno nero per i pendolari italiani e per il trasporto ferroviario nel nostro Paese. Sono 2 milioni e 700 mila in Italia i viaggiatori che ogni giorno prendono il treno per motivi di lavoro o di studio e negli ultimi due anni sono aumentati dell'11,5%, circa 300 mila persone in più. Ma, in base al Rapporto Pendolari 2010 compilato da Legambiente che la Repubblica è in grado di anticipare, la riduzione delle risorse disponibili e quindi il taglio dei collegamenti minacciano di provocare nel prossimo anno un salto nel buio nel trasporto nazionale su rotaia.

I vertici delle Ferrovie hanno annunciato nei giorni scorsi che verranno eliminati 154 treni a lunga percorrenza su 600, perché risultano in perdita. Per quanto riguarda le linee dei pendolari, mancano 800 milioni di euro rispetto al 2010, vale a dire il 45% delle risorse che garantivano un servizio già spesso carente, con treni perennemente in ritardo, scomodi e sporchi. L'associazione guidata da Vittorio Cogliati Dezza prevede un taglio drastico a danno di quei cittadini - operai, impiegati, studenti - che abitano nelle periferie urbane e utilizzano quotidianamente il mezzo di trasporto più sostenibile: da qui, l'allarme degli ambientalisti contro l'aumento del traffico privato e dell'inquinamento.

Per ora, i tagli non compaiono nel nuovo orario ferroviario in vigore dal 13 dicembre. E le stesse Regioni, responsabili dei contratti di servizio, non sanno al momento quali collegamenti sopprimere o di quanto aumentare i biglietti. Nel silenzio generale, il ministro dei Trasporti Altero Matteoli è riuscito a ottenere anche in questa Finanziaria 400 milioni di euro per l'autotrasporto e altri 1.200 milioni per nuove strade e autostrade, tra i fondi della cosiddetta Legge Obiettivo e quelli per l'Expo di Milano. In mancanza di interventi efficaci, è un disastro ferroviario annunciato quello che - secondo Legambiente - si prepara per il nuovo anno. Dice il presidente Cogliati Dezza: "Occorre impedire una prospettiva di abbandono del trasporto ferroviario, vivendo in città sempre più inquinate, con il trasporto su gomma responsabile di oltre il 20% delle emissioni di CO2 sul nostro territorio e una tendenza in costante crescita".

All'origine di questa situazione, ci sono le manovre economiche adottate dal governo a luglio e a dicembre. In pratica, risultano cancellati i trasferimenti alle Regioni per il fondo del servizio ferroviario locale pari a 1.215 milioni di euro. La beffa è che, per placare le proteste degli assessori regionali, sono stati individuati 425 milioni di euro che però corrispondono alle risorse già stanziate l'anno scorso per l'acquisto di treni pendolari e mai impegnate: ora verranno utilizzati dalle Regioni per "salvare" la circolazione di quelli esistenti. Ma il rischio ulteriore per i pendolari è che gli stanziamenti previsti da Trenitalia per l'acquisto di nuovi treni e l'ammodernamento delle carrozze, legati ai contratti di servizio con le Regioni si possano bloccare per mancanza di risorse.

È proprio nei confronti delle amministrazioni regionali, perciò, che Legambiente lancia un appello alla responsabilità, contestando "l'inadeguata reazione che hanno opposto a un taglio che non ha paragoni rispetto ad altre voci di spesa statale". Al momento, le Regioni più sensibili alle esigenze dei pendolari sono state l'Emilia Romagna, la Toscana e la Lombardia, che hanno approvato assestamenti di bilancio per limitare il taglio dei treni nell'ordine del 5-10% a fronte di un amento delle tariffe tra il 10 e il 20%. Nella maggior parte delle altre si teme un rincaro dei biglietti fino al 30%.
Da Roma alla periferia, la tendenza generale continua a essere quella di privilegiare la strada a danno della rotaia. E la questione appare tanto più delicata, alla vigilia della liberalizzazione del servizio ferroviario previsto dalle Direttive europee. È in gioco la stessa sopravvivenza del servizio ferroviario universale nel nostro Paese: quello cioè che assicura i collegamenti con centri urbani e direttrici fondamentali a minor traffico, come l'asse adriatico e quello tirrenico, o i collegamenti trasversali da un versante all'altro della Penisola. "Sono città e cittadini che proprio nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia - conclude il Rapporto di Legambiente - rischiano di ritrovarsi meno collegati e più lontani rispetto al resto del Paese".

 

Buenos Aires, la guerra fra poveri

Il parco Indoamericano, polmone verde e rifugio dei migranti in cerca di un lavoro, è stata sgomberata con la forza dal sindaco Macri. Quattro i morti per gli scontri fra residenti

Il parco Indoamericano è un immenso polmone verde nel quartiere Villa Soldati, zona sud di Buenos Aires, e da molto tempo era il rifugio di migliaia di migranti senza permesso di soggiorno, che lì avevano trovato una rete sociale a cui aggrapparsi per non morire nell'indifferenza. Martedì 7 dicembre, però, il sindaco Mauricio Macri ha deciso di procedere allo sgombero forzato dell'intera area per mano della Polizia metropolitana. Ma vista l'enorme sproporzione fra migranti e poliziotti, le forze dell'ordine hanno perso il controllo della situazione e il risultato è da bollettino di guerra: tre morti accertati - ma fonti ufficiose parlano di quattro - e centinaia di feriti. Gli scontri si sono protratti per giorni, degenerando in particolare fra gli stessi occupanti del parco e gli abitanti dei quartieri circostanti. Un caos, per risolvere il quale Macri ha chiesto l'intervento delle autorità nazionali, negatogli dalla presidente Cristina Fernández, che tramite il capo di gabinetto, Aníbal Fernández, ha precisato come problemi del genere non si debbano risolvere con la forza, ma sedendosi e trovando soluzioni costruttive.

La vicenda ha sconvolto il paese e acceso un dibattito sulle questioni migratorie e le varie implicazioni sociali e politiche. Da una parte Macri, che ha accusato il governo di essere stato troppo blando con i cittadini stranieri accampati nelle cosiddette villas miseria della capitale, dove si concentra il 72 percento di boliviani, paraguaiani e peruviani arrivati in Argentina per disperazione. E dall'altra la Casa Rosada, che ha risposto tacciando il sindaco bonearense di xenofobia.

"Siamo tutti coscienti che l'Argentina è esposta a una politica fuori controllo, dove lo Stato non si fa carico del proprio ruolo. Sembra che sia la città di Buenos Aires a doversi far carico dei problemi abitativi dei paesi limitrofi", ha tuonato il destrorso Macri. "Discorso xenofobo. Tanta xenofobia ci ha portati in questi giorni a un terzo morto, un cittadino boliviano - ha ribattuto la presidente venerdì dieci dicembre, quando ancora il bilancio dei morti era fermo a tre - perché altri risultati non arrivano da politiche del genere. La violenza non porta mai soluzioni alla gente".

Una situazione che è scivolata anche in tensioni diplomatiche, con l'ambasciata boliviana che ha preteso pubbliche scuse da Macri per il "clima di xenofobia che sta scatenando contro la comunità boliviana". " Non ho niente per cui chiedere scusa - ha ribattuto il governatore bonearense -. E' il governo che ha mentito ai fratelli latinoamericani dicendo loro che il nostro paese, con il suo 30 percento di povertà, ha una soluzione anche per loro". Quindi ha voluto difendere le forze di sicurezza che non avrebbero, a suo dire, ucciso nessuno. " Quei morti sono il frutto dell'intromissione delle bande di delinquenti da sempre in azione nei quartieri miseri della città", ha aggiunto. E che grandi tensioni sociali siano all'ordine del giorno nei vari slums di Buenos Aires non è certo una novità. Anzi, molte organizzazioni civili, fra cui le Madres de Plaza de Mayo, hanno denunciato la presenza di bande di nacrotrafficanti che avrebbero approfittato del caos per regolamenti di conti e blitz. Al centro c'è il controllo dei terreni e lo sfruttamento della miseria. Per occupare un fazzoletto di terra con due tavole di legno e un tetto in lamiera, infatti, i migranti sono costretti persino a pagare una sorta di pizzo alle bande che controllano la zona. E molte famiglie indigenti sono state persino costrette a sfollare. Alla base di tutto c'è dunque una totale assenza di politiche di inclusione sociale, che lasciano questi disperati in balia dei criminali.

"E' certo che l'Argentina ha problemi di povertà, ma solo nella capitale ci sono 120mila proprietà vuote che potrebbero venire destinate ai senza tetto - ha spiegato Fernando Ojeda, di Red Hábitat Argentina a Bbc Mundo -. Ma in questo paese si discrimina chi è povero". Un attenggiamento che dunque andrebbe al di là della nazionalità.

Intanto, l'intero quartiere Villa Soldati è oggi totalmente circondato da un cordone di polizia in assetto anti-sommossa che tenta di presiedere la calma dopo la tempesta. Sono stati dispiegati anche veicoli blindati ed elicotteri. Per l'occasione, la presidente Fernandez de Kirchner ha deciso di creare un nuovo ministro per la sicurezza da affiancare al ministro della Difesa Nilda Garre.
Questo come primo masso verso la mediazione del conflitto, che prevede anche un censimento di tutte le famiglie rimaste nel parco e una successiva politica di servizi che vada a migliorare la situazione, a dispetto della passività in tal senso dimostrata dalla politica di Macri. In base ai primi dati, pare che siano circa quattromila le persone ancora lì in attesa di una sistemazione edilizia. Conoscere a fondo il problema per iniziare a risolverlo è la filosofia adottata dalla Casa Rosada che intanto punta a sedare l'emergenza e a sfamare la gente per poi cercare una soluzione definitiva. Macri permettendo.

 

13 dicembre

Schiavi e caporali a Natale scandalo false cooperative

Vengono usate come forma di outsourcing, con il vantaggio che i "soci" sono facilmente licenziabili. Fini mutualistici solo sulla carta, così si sfruttano i benefici su fisco e costo del lavoro. L'influenza di mafia e 'ndrangheta

di DAVIDE CARLUCCI e SANDRO DE RICCARDIS

Alla catena di montaggio che prepara il Natale, nei cubi di cemento dei grandi centri logistici che riforniscono gli scaffali dei supermercati di luci e decorazioni, entrano che non è ancora l'alba ed escono che è già notte. Nelle grandi piattaforme della grande distribuzione, sperdute nelle campagne di tutta Italia, sgobba una nuova classe di lavoratori. Sono gli schiavi del Natale. Formalmente, soci di cooperative. In realtà persone che, di fatto, hanno meno diritti dei dipendenti delle aziende classiche, con la sola differenza che spesso non sanno bene chi è il loro padrone. Due coop su tre, dicono le ispezioni delle direzioni provinciali del lavoro, sono irregolari. Ma quante sono allora in Italia le "cooperative spurie"? Quanti dipendenti occupano? E perché sia il sistema economico che la criminalità organizzata ricorrono sempre più a questa tipologia d'impresa che produce un valore aggiunto di 40 miliardi di euro, il tre per cento del totale nazionale?

LE DENUNCE

"Con questo mezzo, gli operai ad essa aderenti pensano di fare il primo passo nella via della loro emancipazione, poiché sottratto il lavoro da ogni dipendenza, l'associazione offrirà ad essi il modo di istruirsi, di educarsi e di togliersi dallo stato di miseria e soggezione in cui oggi si trovano...". Fa tenerezza rileggere le parole dello statuto della prima cooperativa modenese, fondata a Finale Emilia nel 1886, e confrontarle con il racconto che Juan, 124 anni dopo, ha reso alla procura di Lodi. Con altri quattro connazionali, il 36enne boliviano ha denunciato gli ingranaggi del sistema del lavoro nero nella piattaforma Dhl di San Giuliano Milanese, dove lo smistamento dei pacchi natalizi moltiplica il numero di colli da movimentare. "Ho girato diverse cooperative. I nomi cambiavano in continuazione ma i responsabili erano sempre gli stessi...". L'ultima "non mi consegnò mai il contratto di assunzione. Ma il quindici di ogni mese un caporale mi pagava in contanti. La mia busta paga era sempre a zero ore. Lavoravo nel settore carico con una mansione pericolosa, che richiedeva, però, velocità e lucidità. Poi abbiamo contattato il sindacato e ci siamo ribellati. Ma quando tornai in azienda, l'addetto alla sicurezza non mi fece entrare: ero licenziato".

Ora Juan ha ottenuto il permesso di soggiorno in base all'articolo 18 della legge sull'immigrazione, quello utilizzato di solito dalle prostitute per fare arrestare i protettori. E come lui gli altri colleghi che hanno denunciato, oggi collocati in una vera cooperativa, la "Lotta all'emarginazione" di Sesto San Giovanni. Le prime segnalazioni della Filt-Cgil sulla piattaforma di San Giuliano risalgono all'aprile 2008. "Ai lavoratori regolarmente assunti venivano assegnati orari sempre più ridotti in modo da provocarne le dimissioni affinché fossero sostituiti da extracomunitari con permessi di soggiorno falsi...". Simon, anche lui boliviano, quarantenne, racconta di aver lavorato per più cooperative e di ricevere lo stipendio "su una carta di credito prepagata intestata a mio nome". Le cifre sono sempre minori di quelle concordate. Sulle denunce di Juan, Simon e gli altri è aperta un'inchiesta della direzione provinciale del lavoro di Milano. Molte coop citate nelle denunce, nel frattempo, hanno licenziato gli operai, come la Padana servizi - 70 in un colpo solo, con un semplice fax - o risultano inattive, come la Alfa coop e la Vidac.

IL BOOM
In Italia le cooperative sono 151mila, calcola l'ultimo rapporto di Unioncamere. E mostrano, a differenza delle altre imprese, "una notevole resistenza alle difficoltà della crisi", con un saldo positivo tra cessazioni e nuove costituzioni. Quasi la metà del totale (45 per cento) sono al Sud, ma è al Nord che creano più occupazione. Sicilia e Lazio sono le prime regioni per diffusione, seguono Lombardia e Campania, dove in media crescono del 2%. Sono il 2,1% del totale delle imprese italiane, con un milione e 400mila lavoratori impiegati ormai in ogni settore. La logistica - dove operano grandi gruppi come Colser di Parma (3000 dipendenti), Ucsa di Milano (1700), Gesconet di Roma, Cal di San Giuliano Milanese (900 soci), Piave di Torino, Transcoop di Reggio Emilia - è solo uno dei settori delle coop, che ora operano anche nell'outsourcing. Per esempio, grandi compagnie di assicurazioni hanno delegato a piccole coop di giovani diplomati - inserite all'interno di gruppi imprenditoriali molto floridi - lavori che prima erano riservati agli interni, ottenendo più flessibilità, ma anche la possibilità di lasciare a casa i "soci" quando le commesse scarseggiano. Un vero e proprio boom si registra poi nella sanità, nell'informatica, nelle telecomunicazioni, nell'edilizia, nel settore delle pulizie fin anche all'intermediazione finanziaria, all'istruzione, alla formazione privata. Con picchi di crescita superiori alla media delle altre imprese, soprattutto per quanto riguarda donne e immigrati. Ma cosa c'è dietro questa esplosione di vitalità? Un rilancio in grande stile o un uso distorto della forma cooperativa come quello che denunciano i facchini di San Giuliano Milanese?

IL RACKET
Dietro, spesso, ci sono soltanto delle truffe. Storie che sanno di caporalato e che riempiono decine di inchieste, dal Trentino alla Sicilia. Imprenditori, commercialisti, avvocati e consulenti fiscali sono i registi di reti di società intestate a prestanome con le quali danno avvio all'impresa criminale. Come funzionano le coop-patacca? Il meccanismo è quasi sempre lo stesso. S'intestano le cooperative ad anziani, disabili, tossicodipendenti, che in cambio di una firma ricevono poche decine di euro. Poi si dà il via all'attività, sfruttando le agevolazioni previste per questo genere d'impresa, con assunzioni in nero, buste paga inferiori ai pagamenti effettivamente corrisposti, straordinari nascosti in altre voci contabili, contributi e tasse non versate. Formalmente, i lavoratori sfruttati sono soci della coop. Ma essendo ricattati, le loro decisioni sono dirette dal presidente o dai suoi fantocci. Quando gli investigatori arrivano alle società, si trovano di fronte a società in liquidazione, a patrimoni pari a zero, ad amministratori fittizi. Ma non sempre i furbi la fanno franca.

Il caso più noto è quello di Padova, dove un'operazione della Guardia di Finanza ha smantellato una "associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale". Una rete di cooperative intestate a titolari di comodo, quasi tutte nell'orbita della Compagnia delle opere, aveva evaso 30 milioni di euro tra oneri previdenziali, fiscali e contributivi non versati. I militari hanno sequestrato anche 18 milioni di euro in contanti, titoli di società ed immobili tra Veneto, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna. Tra i 21 indagati e i tre arrestati c'erano Willi Zampieri, 40 anni, presidente della società con un passato in Forza Italia; il commercialista Paolo Sinagra Brisca e una consulente del lavoro, ex tesoriere del Consiglio provinciale dell'Ordine, Patrizia Trivellato. Diecimila euro al giorno venivano reinvestiti in bar e negozi, mentre centinaia di lavoratori restavano senza contributi previdenziali. Le loro condizioni di lavoro sono lo spaccato del moderno schiavismo camuffato da cooperativismo: permessi per malattia o maternità negate, ferie inesistenti.
Un caso isolato? Pare proprio di no. Nella capitale economica del paese, Milano, teoricamente il luogo più evoluto nei rapporti di lavoro, dal primo gennaio al 31 agosto 2010, gli accertamenti hanno svelato 1101 posizioni irregolari: collaboratori a progetto che nella realtà erano soci, lavoratori senza riposo giornaliero o settimanale, "con schede cronografiche infedeli, straordinari contabilizzati come indennità di trasferta, per le quali non è previsto il versamento di contributi", spiega il direttore provinciale del Lavoro di Milano, Paolo Weber. In otto mesi, gli ispettori della Direzione provinciale del lavoro hanno recuperato ben 426.780 euro di contributi non versati.

COOPERATIVE A DELINQUERE
La favola dell'assistenza e della mutualità ha fatto il suo tempo. E in questa grande finzione, fa presto a infiltrarsi la criminalità organizzata. A Corigliano Calabro la Finanza ha indagato a maggio 352 persone per truffa all'Inps: una cooperativa agricola che aveva denunciato falsi rapporti di lavoro per 35mila giornate agricole era, in realtà, riconducibile a una cosca della 'ndrangheta. A Gioia Tauro, invece, la "Cooperativa lavoro", che gestisce il traffico di migliaia di container, aveva stretto una sorta di joint-venture con le famiglie Piromalli, Alvaro e Molè. E in Campania è la camorra a utilizzare le coop nel settore dei trasporti e dei parcheggi. L'Ortomercato di Milano, che si prepara a garantire una cornucopia di frutta e pesci di ogni tipo sulle tavole degli italiani imbandite per il Natale, è stato per anni il regno dei clan. Nella memoria depositata nel processo concluso a maggio con la condanna dei boss della cosca Morabito-Bruzzaniti, il pm Laura Barbaini ricostruisce il ruolo del prestanome Antonio Paolo che "formalmente assume presso la cooperativa Scai il socio lavoratore Salvatore Morabito, l'uomo conosciuto da tutti come criminalmente potente, e nella sostanza cede al consorzio i suoi contratti di appalto migliori: quale per esempio quello con Dhl Express Italy srl e con Tnt Poste". Le cooperative - scrive il pm - servono ai clan anche per riciclare denaro sporco "attraverso la falsa fatturazione o l'emissione di assegni circolari intestati a nominativi di lavoratori stranieri dipendenti e incassati da prestanomi". In questo modo, creano "importanti disponibilità in contanti per l'acquisto di droga". Anche al boss di Cologno Monzese, Marcello Paparo, le cooperative del suo consorzio di facchinaggio e pulizie per i supermercati Sma ed Esselunga servivano solo per prelevare contanti da investire in affari illegali. E nel capoluogo lombardo c'è l'ombra del riciclaggio anche nell'omicidio di Pasquale Maglione, un avvocato casertano che rappresentava diversi consorzi di origine campana nel rapporto tra colossi della logistica e sindacati.

IL DUMPING E LA CONCORRENZA SLEALE
Ma anche quando non c'è la mafia, le statistiche dicono che le cooperative sono, una miniera di profitti in nero. Più delle altre società. A Milano, come a Lecco, l'82% di quelle ispezionate risultano irregolari; a Brindisi il 37%; a Cuneo il 65, a Pescara il 40, a Padova il 67,7. In media, il 65% sono irregolari. Anche nel settore dei servizi sanitari e sociali si diffonde l'illegalità: a Siena la Gdf ha scoperto a luglio una coop che per quattro anni aveva lavorato in nero con anziani, minorenni e disabili. Gonfiavano i rimborsi, s'inventavano trasferte inesistenti in giorni improbabili - come il 31 giugno - e in questo modo, secondo la Finanza, "riuscivano a garantirsi, a costi competitivi, la presenza sul mercato degli appalti pubblici". Con prezzi stracciati, è facile sbaragliare la concorrenza degli onesti. Il ministero del Lavoro, nel 2007, aveva tentato di arginare il fenomeno con un protocollo che considerava i ribassi del 30 per cento "un fattore di distorsione del mercato". Si decise di dar vita agli "osservatori permanenti", coordinati dalle direzioni del lavoro. Pochi ispettorati, però, sono riusciti a tener d'occhio le cooperative spurie. Che hanno una vita media di due anni ed espellono i soci che osano prendere sul serio i loro diritti. Com'è successo, ad esempio, ai 16 soci eritrei della cooperativa "Il papavero" di Cerro al Lambro, in provincia di Milano, che lavora per la Gls, che ha tra i suoi committenti le poste inglesi: a febbraio avevano indetto un regolare sciopero, ad agosto si sono ritrovati licenziati. E ora, assistiti dal SiCobas, hanno aperto due vertenze: in una il datore di lavoro è tacciato di comportamento "discriminatorio". Due settimane fa il tribunale del lavoro di Firenze ha dato loro ragione. Ma, prima della magistratura, chi dovrebbe fare tutte le verifiche?

I CONTROLLI FANTASMA
La maggior parte delle pseudocoop non fanno parte delle centrali (Legacoop, Confcooperative, eccetera) che prevedono verifiche sugli affiliati. "C'è il potere ispettivo del ministero dello Sviluppo - spiega Stefano Zamagni, economista e presidente dell'agenzia per le Onlus - ma gli ispettori sono pochi, è difficile controllare. Noi possiamo intervenire solo per le cooperative sociali, ma solo inoltrando le denunce alla Guardia di finanza e all'Agenzia delle entrate. Nella maggior parte dei casi si ricorre alle cooperative solo per evadere il fisco e avere agevolazioni. Lo spirito mutualistico di una volta è sparito". Così finisce che le cooperative anziché unire i lavoratori consentendo loro di emanciparsi, li dividono ulteriormente. In questi giorni nei magazzini Gs-Carrefour di Pieve Emanuele, in provincia di Milano, operai cinesi, egiziani e italiani stanno il dando il meglio di sé. Sono i "soci" che hanno accettato i nuovi ritmi, 160 colli stoccati all'ora, imposti da una nuova coop che sostituiva la precedente. Quelli che hanno detto no, erano stati espulsi. Ora hanno vinto la loro battaglia, e hanno ritrovato il lavoro.

 

Angela Pascucci

Quando i diritti fanno comodo

Confucio contro Alfred Nobel. Lo scontro tra la Cina e l'Occidente generato dal riconoscimento assegnato al dissidente cinese Liu Xiaobo assomiglia ormai a quello di tifoserie opposte, dopo la decisione di un misterioso comitato di creare un premio per la pace ispirato al nume tutelare della neo modernità cinese da assegnare ai «propri» benemeriti.
L'esordio è stato infelice. Il prescelto, l'ex vice presidente di Taiwan, Lien Chan, non si è presentato a ritirare il premio consegnato ieri a Pechino, e non ha neppure ringraziato. Il che dimostra quanto sia difficile per la leadership cinese e i suoi sostenitori la costruzione di un «soft power» che convinca il mondo delle loro ragioni.
Lo dicono anche le sedie vuote dei paesi che hanno declinato l'invito ad essere presenti a Oslo per la consegna del Nobel a Liu.

Un invisibile parterre di notevole potenza, ma che ancora una volta esprime una logica di schieramento e contrapposizione, non di profonda consapevolezza che i nodi del mondo debbano essere sciolti in altro modo. Al dunque, sedie vuote contro una sedia vuota. Il trionfo dell'assenza, a esprimere la criticità della situazione.
Gli entusiasti fautori del Nobel per la pace a Liu Xiaobo, Congresso degli Stati uniti in testa, dovrebbero tuttavia mostrare meno fervore e più lungimiranza perché la ragione non è tutta dalla loro parte.
Non è qui in discussione la spregevolezza di un potere, quello cinese, che commina 11 anni di galera a un uomo solo perché esprime idee scomode per un sistema politico ed economico che non sa gestire in modo maturo i conflitti che genera.

Nessuno tuttavia giurerebbe sull'innocenza di un gesto consapevolmente calato come uno schiaffo sul volto non solo di una leadership ma di un intero paese. La ragione della profonda rabbia cinese è in fondo tutta qui: il prendere atto che non sono serviti a nulla 30 anni di corsa folle per raggiungere il resto del mondo e superarlo, mettendosi alla testa della motrice che fa procedere il convoglio, procurando affari e ingenti profitti al capitale occidentale al prezzo di un feroce sfruttamento interno. Alla prima crisi davvero globale, qualcuno assegna premi e punizioni.
Non a caso l'accusa più ricorrente nei media governativi cinesi contro il Comitato del Nobel è «mentalità da Guerra Fredda» mentre il nazionalista Wang Xiaodong, uno degli autori del best seller cinese «China is Not Happy», lamenta nel suo blog «Abbiamo accolto i vostri consigli e ci siamo modernizzati usando mezzi occidentali, e ora l'Occidente ci rifiuta».

L'agenzia Xinhua va anche oltre: «Negli scorsi decenni la Cina ha perseguito la via del socialismo con caratteristiche cinesi, ed è diventata la seconda economia mondiale. Se il modello cinese sia un successo, oppure no, lo sviluppo della Cina è la migliore risposta, e 1,3 miliardi di cinesi hanno la voce in capitolo più importante. La Cina non ha bisogno di osservatori esterni». Insomma, siamo stati i vostri migliori allievi, non siamo l'Unione sovietica. E dunque che c'entrano ora i diritti umani?
Questa è una domanda da porre seriamente. Soprattutto in un momento storico in cui si scrivono tomi per capire come sia possibile che un governo così convinto nell'abbracciare il liberismo lo abbia saputo coniugare tanto bene, finora, con la mancanza di un sistema democratico di tipo occidentale. Non era questa, la vulgata. Ma è da qui che bisogna ripartire ricordando, tutti quanti, che la sostanza della democrazia non è un menù: diritti umani sì, diritti sociali forse, libertà di informazione se e quando fa comodo.

A Liu Xiaobo auguriamo di essere presto liberato e di poter esprimere le proprie posizioni politiche da uomo libero, ben oltre i pur importanti diritti umani. Potremmo anche scoprire di non essere pienamente d'accordo con lui e dirlo, cosa che oggi ci è preclusa, perché quel che conta di più è tirarlo fuori di galera.
Quanto al premio Nobel per la pace, non ha aiutato Barack Obama a difendere con più forza la speranza di cambiamento che aveva suscitato, come appare evidente ogni giorno di più. Il Mahatma Gandhi invece non l'ha mai avuto (ben più forte era il soft power dell'Impero britannico). Tuttavia la verità e la giustizia espresse dalle sue idee sono state tali da dargli la forza di vincere, ben oltre la sua vita
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9 dicembre

Consulenze da 100mila euro, il premio ai voltagabbana

Una "squadra" punta gli acquisti, Verdini tratta le condizioni. La ragnatela del Cavaliere sui deputati tentati con i contratti di consulenza. Controlli mirati sulla situazione patrimoniale delle "prede". Alla fine summit col premier

di CARMELO LOPAPA

"Quando la caccia si fa grossa e si punta a uno come Scilipoti, che fino a due giorni fa urlava dall'altra parte, allora vuol dire che è entrato in gioco Denis Verdini". Un dirigente Pdl che è di casa a Palazzo Grazioli racconta quel che sta accadendo in queste ore, racconta cosa accade in casa Pdl quando "non ci si può limitare alla promessa della ricandidatura". Perché adesso che la partita entra nel vivo non si punta ai soliti finiani incerti e centristi confusi, ma a dipietristi e persino democratici. Chi ci sta conquista un allettante win for life. Ci sono i pescatori da transatlantico, che lavorano sotto costa. E anche in questo caso sembra ne sia entrato in gioco uno, anzi una, finora defilata. Si tratta di Maria Rosaria Rossi - al fianco del Cavaliere questa estate al castello di Tor Crescenza e alla Certosa - che proprio sull'imminente passaggio del siciliano Scilipoti al partito della fiducia sembra abbia svolto un ruolo delicato. Ma poi ci sono i pescatori da mare grosso. Tre, in movimento in queste ore. Il coordinatore Verdini, appunto, il tesoriere del Pdl Rocco Crimi e una seconda fila ma molto attiva, il campano Mario Pepe. La triade, stando alle informazioni acquisite da autorevoli fonti interne al partito, si muove a tenaglia sugli obiettivi, con funzioni e assunzioni di impegni diversificati. Al pari di Pepe, altri si muovono nell'acquario di Montecitorio. Daniela Santanché, per gli avversari il "Luciano Moggi" del calciomercato, e il ministro Elio Vito. Francesco Pionati e Saverio Romano sugli amici dell'Udc dal quale provengono. Non vi è traccia, né mai ve ne sarà di passaggio di denaro. "I 350-400 mila euro di cui si parla è il corrispettivo in 3-5 anni di una consulenza col partito o col gruppo - racconta dietro anonimato chi ha ricevuto e rifiutato - Il sistema è collaudato: ti propongono di indicare il nome di un amico, un parente col quale stipulare subito il contratto, che si aggira attorno ai 100 mila euro lordi l'anno, per più anni". Cosa ne faccia il "prestanome" del compenso, a chi giri quei soldi, non è affare dell'offerente. "La consulenza poi può passare a tuo nome a fine legislatura - continua nel racconto il deputato - in caso di mancata rielezione". Perché la ricandidatura è la prima offerta avanzata, ma nessuno, nemmeno il leader può garantirla. Poche settimane fa Repubblica aveva pubblicato il contratto di consulenza col gruppo Pdl che due ex parlamentari transitati a Forza Italia a fine 2007, Marco Pottino e Albertino Gabana, hanno stipulato dopo la mancata rielezione. Compenso, tuttora percepito: "120.516 euro l'anno al lordo delle ritenute".

La regola numero uno di Palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi l'ha dettata a coordinatori e capigruppo a settembre, in occasione del primo calciomercato: "Non voglio ricevere nessuno che venga qui a far richieste o aprire trattative, non intendo passare altri guai per colpa di inaffidabili che registrano o vanno a raccontare chissà che". Gli scandali dell'ultimo anno e mezzo hanno imposto cautela. Sono altri a condurre le trattative. Il presidente del Consiglio si congratula e concede il privilegio dell'abbraccio finale, il sigillo. Il pidiellino Dore Misuraca, potente calamita elettorale in Sicilia occidentale e in odor di transito all'Udc, è stato il recordman degli ingressi a Palazzo. Tre nelle ultime sei settimane. Fruttuosi. "Il presidente l'ha buttata tutta sul rapporto personale, mi ha confermato che sono una risorsa" minimizza Misuraca. Ma la famiglia Misuraca è regina della sanità privata nell'isola, il rapporto personale non è stato l'elemento decisivo per convincere altri deputati che si sono avvicendati dal premier. Non trova conferma l'indiscrezione che circola sullo screening che sarebbe stato effettuato sulla situazione patrimoniale e le esposizioni bancarie di una serie di "avvicinabili". Però sul dipietrista Domenico Scilipoti, stando alla documentazione inviata al partito da uno dei suoi creditori, pende un decreto ingiuntivo (89/07) sostenuto da sentenza del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto per 200 mila euro. L'altro idv sotto tiro, Antonio Razzi, non fa mistero della proposta avanzatagli per l'estinzione del mutuo per la casa acquistata a Pescara, tramite Previdencassa svizzera. "Mutuo? Pressioni ancora più forti su di lui" allude Di Pietro.

A Palazzo Chigi poi un occhio di riguardo lo hanno anche per gli "idealisti". Deputati e senatori pronti a discutere in cambio di un impegno per una "giusta causa". La situazione delle carceri per Pannella ricevuto da Berlusconi, la gestione del Parco dello Stelvio da affidare agli enti locali per i due Svp Brugger e Zeller, la galleria del San Bernardo per il valdostano indipendente Nicco. E martedì sera al Senato Giovanni Pistorio, dell'Mpa di Lombardo, scherzava ma neanche tanto coi colleghi pidiellini: "Ragazzi, se sbloccaste i fondi Fas della Sicilia da 1,4 miliardi fermi al ministero, potremmo discutere".

 

Usa, bimbi a digiuno per gli F-35

La Camera dei Rappresentanti blocca il disegno di legge sulle mense gratuite per gli scolari indigenti, mentre si fatica a trovare un accordo sulla riduzione delle commesse per i 2500 F-35.

La nuova maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti si è imposta ancora sul partito di governo bloccando un'altra legge a favore della popolazione indigente. Per mezzo di un manovra procedurale, il Grand Old Party (Gop) ha temporaneamente sbarrato la strada al "Child Nutrition Bill", il disegno di legge che garantisce pasti gratuiti nelle mense scolastiche ai bambini in condizioni economiche svantaggiate.

La scure dell'austerity non si è fermata neanche di fronte alla necessità di garantire il programma di refezione rivolto agli scolari più poveri. "Ognuno riconosce l'importanza di estendere i programmi per la nutrizione infantile, ma estendere non significa espanderli" questo il commento del deputato repubblicano del Minnesota, John Kline. La manovra, del valore complessivo di 4,5 miliardi di dollari, avrebbe, infatti, coinvolto nel programma 20 milioni di mense scolastiche in più, rispetto a quelle attualmente sovvenzionate in tutto il Paese. Il disegno di legge, fortemente caldeggiato dalla first lady Michelle Obama, avrebbe inoltre aumentato di 6 centesimi di dollaro, il rimborso su ogni pranzo che, ad oggi, costa agli istituti scolastici 2,72 dollari. Senza gli emendamenti proposti, e quindi senza il blocco repubblicano, il disegno avrebbe segnato il primo aumento dei programmi mensa dal 1973. Nulla da fare. Dopo i disoccupati, colpiti ieri dal taglio dei sussidi federali, è stata la volta dei loro figli che, se il progetto dovesse essere definitivamente troncato, potrebbero veder ridursi il diritto a un pasto gratuito a scuola.

Il piano di risanamento dello Stato, dettato dalla National Commission on Fiscal Responsibility and Reform, un gruppo bipartisan creato dallo stesso presidente Barack Obama per "affrontare le sfide fiscali del Paese", sembra avere fatto presa sui legislatori che, in soli due giorni, hanno evitato che Washington si impegnasse per circa 65 miliardi di dollari, tra i sussidi ai disoccupati e quelli alle mense scolastiche.
In un rapporto dall'emblematico titolo, "il momento della verità", i 18 membri della commissione consigliano il taglio del deficit pubblico di 3.800 miliardi entro il 2020; la riduzione drastica delle aliquote fiscali; il contenimento dei costi per realizzare il Medicare (programma di assicurazione medica statale ndr) attraverso la condivisione dei costi, la riforma delle negligenze mediche e il prezzo dei farmaci; l'abbassamento della spesa pubblica mediante la riduzione delle dimensioni della forza lavoro federale e, infine, la preservazione della sicurezza sociale e la tutela di anziani e poveri.

Una direttiva programmatica, questa, che potrebbe non essere rispettata, visto che proprio la fascia più povera della popolazione verrà privata di tutti quei benefits legati alle loro necessità economiche.

La materia su cui permangono i dubbi sembra invece essere quella delle spese militari. Ancora una volta il governo potrebbe lasciare intatti gli esborsi messi in preventivo per le proprie Forze Armate. In particolare questa volta si considera l'affare degli F-35, i caccia anti-radar, dei quali il Pentagono vorrebbe acquistare ben 2500 esemplari. "È il cuore del futuro trasporto aereo da combattimento tattico per i nostri servizi, per cui l'importanza di questo programma può difficilmente essere sopravvalutata", in questo modo il Segretario della Difesa, Robert Gates, ha fatto capire che se c'è qualcosa a cui si può rinunciare per diminuire il deficit pubblico, questa cosa non è certamente la flotta aerea militare. Poco importa che per pagare l'intera commessa siaono necessari 382 miliardi di dollari dei 715 miliardi che attualmente costituiscono il budget della Difesa. Per la Commissione deficit l'ideale sarebbe quello di optare per modelli più economici, rinunciando al decollo rapido e all'atterraggio verticale, per le forniture dei Marines e andando a risparmiare 17,6 miliardi di dollari entro il 2015. Riduzioni nette, invece, sono quelle pensate per Aviazione e Marina, che, per il pool di risparmiatori, dovrebbero ottenere solo la metà dei velivoli previsti, salvando 9,5 miliardi di dollari dalle casse del Pentagono.

A quel punto, però, il problema sarebbe un altro: "Se si riduce l'acquisto a qualche centinaio per l'Air Force la Marina Militare - ha sostenuto Winslow T. Wheeler del Center for Defense Information - pagheremo ben oltre 250 milioni di dollari per ogni copia di questo aereo".

E allora, l'unica soluzione possibile per far risparmiare dollari alla Difesa, è quella di attuare un giro di vite sui sussidi ai disoccupati e ai poveri.

Antonio Marafioti

 

7 dicembre

Statali, a casa 3.250 precari tra Inps, Inpdap e Viminale

A rischio molti servizi su pensioni e assistenza. I calcoli di Nidil-Cgil in seguito al taglio del 50 per cento della spesa. La riduzione dei contratti di lavoro precari negli uffici pubblici provocherebbe lunghe code agli sportelli

di VLADIMIRO POLCHI

ROMA - Tutti a casa: precari e interinali. Il conto alla rovescia è cominciato: a gennaio 2011 un esercito di lavoratori della pubblica amministrazione rischia di perdere il posto. Almeno 3.250 secondo i calcoli della Nidil Cgil, tra Inps, Viminale e Inpdap. Sul tavolo degli imputati, la manovra di bilancio approvata a luglio scorso (decreto 78/2010), che taglia del 50% la spesa per lavoro temporaneo nelle amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo e nelle università. A rischio sono dunque tutti i contratti di somministrazione (cioè gli ex interinali), a tempo determinato, co. co. co., formazione lavoro e lavoro accessorio.

"Nel taglio - spiegano al sindacato - sono comprese tutte le amministrazioni centrali dello Stato, che possono avere diramazioni territoriali, come accade per gli istituti previdenziali. La legge stabilisce inoltre che le disposizioni di riduzione della spesa costituiscono "principi generali, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, ai quali si adeguano le regioni, gli enti del Servizio sanitario nazionale e gli enti locali". Ciò significa che si potrebbero produrre ulteriori tagli se le autonomie locali e il Ssn si adeguassero alla normativa".

La Ragioneria generale dello Stato nel 2008 valutava che le persone legate da contratti precari con l'amministrazione pubblica erano circa 200mila. La Nidil Cgil fornisce però un calcolo prudenziale dei futuri tagli, limitato a soli tre casi: "Le persone colpite oggi dal taglio di Tremonti sono sicuramente oltre

3.250, tra Inps (1.800 lavoratori in somministrazione tuttora in forza), ministero dell'Interno (650 lavoratori a tempo determinato e 650 in somministrazione già tagliati a luglio) e Inpdap (circa 150 lavoratori in somministrazione)".

E cosa fanno oggi questi lavoratori? "Servizi utili ai cittadini e alle imprese - risponde la Cgil - al ministero dell'Interno si occupano dei permessi di soggiorno per gli immigrati, evitando così che gli agenti di polizia si preoccupino di scartoffie invece che della sicurezza dei cittadini; all'Inps sono impegnati nelle prestazioni pensionistiche e di indennità di disoccupazione; all'Inpdap sono occupati non solo nelle prestazioni, ma anche nella gestione del patrimonio e, addirittura, nell'avvocatura". Insomma i tagli rischiano di comportare "una drastica riduzione della qualità e quantità dei servizi pubblici o la loro cessazione di fatto". La Cgil ricorda poi che "il taglio farà risparmiare allo Stato solo 100 milioni di euro per gli anni 2011, 2012, 2013 a fronte di una manovra di bilancio pari a oltre 12 miliardi per il 2011 e a circa 25 miliardi per gli anni successivi. Il taglio al lavoro precario incide, quindi, per lo 0,8% sull'ammontare della manovra per il 2011 e per lo 0,4% su quello per gli anni 2012 e 2013".

Non è tutto. I lavoratori precari della P. A. rischiano di rappresentare un pezzo nascosto della crisi. "Quando infatti le imprese private vanno in difficoltà, anche i loro lavoratori precari possono utilizzare forme di ammortizzatori sociali in deroga. Questo nel settore pubblico non è ancora previsto - avverte la Cgil - perché non esistono questi strumenti di sostegno sociale ed economico, pur trattandosi di un vero stato di crisi nel quale si licenziano lavoratori".

 

Bombe demografiche

L'India è una potenza fuori controllo mentre l'Africa entro 40 anni avrà un miliardo di abitanti in più. Un rapporto Onu lancia l'allarme sul futuro del pianeta

Non hanno timer e non deflagrano come classici ordigni ma quando scoppiano possono produrre effetti devastanti. Sono le cosiddette "bombe demografiche". In un mondo che sta già facendo i conti con gli effetti del sovrappopolamento, sono in particolare due quelle innescate che inducono demografi e geografi a tracciare quadri inquietanti: in India e in Africa.

Il cappio indiano. La prima minaccia arriva dall'India che attualmente, con il suo miliardo e duecento milioni di abitanti è il secondo Paese più popoloso del mondo, dopo la Cina. Un primato, quello di Pechino, che potrebbe passare di mano già a partire dal 2025, quando gli indiani arriveranno al miliardo e settecento milioni. Sempre che il trend rimanga costante, ipotesi più che probabile se si guarda alle statistiche degli ultimi anni. Il piano noto come National Population Policy, varato nel 2000, prevedeva la riduzione del tasso di fertilità per arrivare ad una stabilizzazione entro il 2045 e una serie di obiettivi intermedi, come quello di portarlo a 2,1 entro il 2010. Target mancato clamorosamente, visto che i dati di quest'anno lo fissano a 2,8, la media figli di ogni donna indiana. Se in alcuni stati del subcontinente come il Tamir Nadu o il Kerala negli ultimi anni si sono registrati forti progressi, nel nord e nel centro dello sterminato Paese la media è di circa quattro figli per coppia. Il simbolo del disastro incombente è l' Uttar Pradesh, uno stato che da solo conta 190 milioni di abitanti e dove è fallito qualsiasi tentativo di pianificazione e razionalizzazione. Manca la volontà politica del governo centrale ma anche la consapevolezza che se negli anni Novanta l'India si è avvantaggiata della sua forza demografica e di una popolazione molto giovane da sfruttare come manodopera, adesso questi stessi elementi si stanno trasformando in un cappio.

Il continente urbanizzato. Se lo scenario indiano preoccupa, quello africano fa venire i brividi. Secondo i dati forniti dall'agenzia dell'Onu che monitora il processo di urbanizzazione, UN-Habitat, entro il 2050 si assisterà ad un massiccio spostamento di popolazioni dalle campagne alle città. Il numero di abitanti delle aree metropolitane triplicherà: entro questa data arriverà a 1,3 miliardi. Erano poco più di 500 mila nel 1950. Colpa anche del boom demografico, che si tradurrà in un miliardo di abitanti in più nei prossimi 40 anni, solo in Africa. La crescita più impressionante, pari all'80 per cento, stando alle proiezioni, sarà quella di Ougadougou, in Burkina Faso, che in 10 anni potrebbe passare dagli attuali 1,9 milioni di abitanti a 3,4. Più contenuto a livello percentuale ma ugualmente preoccupante, lo sviluppo di Lagos, Nigeria - che nel 2025, con i suoi 16 milioni, toglierà a Il Cairo la palma di metropoli più popolosa (il sorpasso è previsto per il 2015) - Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo (15 milioni) e Luanda, Angola (8 milioni), tutte con tassi di crescita che oscillano tra il 40 e il 50 per cento, mentre quelli di Niamey (Niger), Kampala (Uganda), Dar es Salaam (Tanzania) e Mbuji-Mayi (Rdc) sfioreranno il 60 per cento.

Un oceano di miseria. Ciò che spaventa di più, è la consapevolezza che aumenteranno le bocche da sfamare mentre con lo spopolamento delle campagne diminuirà la forza lavoro impegnata nell'agricoltura, con un conseguente calo della produzione alimentare. Come vivranno i futuri cittadini africani allora? Il rapporto Onu chiude la porta alla speranza: "Sarà un oceano di miseria con isole di benessere", si legge nel testo. La paura è che l'urbanizzazione si tramuti in una crescita senza precedenti degli slum, le baraccopoli che circondano molte capitali africane. Timori che sono quasi certezze, soprattutto perché negli ultimi anni, molte società europee e mediorientali hanno comprato appezzamenti vastissimi nel continente, per la produzione di cibo destinato a tavole e mercati degli altri continenti o per coltivazioniwater-intensive, che necessitano di una enorme quantità di acqua. Senza cibo, senza acqua e strangolata dagli slums. Questa è la cartolina che il rapporto dell'agenzia con sede a Nairobi sta disegnando per il futuro prossimo. E già il presente è piuttosto inquietante: anche quest'anno, abbiamo esaurito già ad agosto le risorse naturali che la terra può fornire e reintegrare nell'arco di 12 mesi. L'Africa per molti era il continente della speranza, quello che avrebbe rimesso la natura al centro dello sviluppo. Le proiezioni Onu dicono il contrario, se questi trend non saranno invertiti. Uno spazio di manovra resta ma si va facendo sempre più stretto.

Alberto Tundo

 

3 dicembre

 

Dimissioni

di EZIO MAURO

In un brutto giorno per l'immagine del nostro Paese nel mondo, il Presidente del Consiglio ha incassato tre sfiducie, che lo rendono ormai palesemente inadatto a governare una grande democrazia occidentale.
In Parlamento Fini, Casini, Rutelli e Lombardo hanno portato tutti i loro uomini a firmare una formale mozione di sfiducia nei confronti del governo e dunque a partire da oggi, sommando queste firme con quelle già pronte del Pd e dell'Idv, il ministero Berlusconi non ha più una maggioranza politica.

Ma dalla valanga di WikiLeaks emerge un altro elemento di drammatica e crescente fragilità. È la insistita e costante diffidenza dell'amministrazione americana - espressa nel normale svolgimento del suo lavoro quotidiano riservato e dunque autentica - nei confronti del Premier italiano a causa del suo rapporto pericoloso con Putin. Una relazione che la diplomazia americana sospetta basata su affari inconfessabili e addirittura su tangenti, oltre che su un mimetismo machista e autoritario: e che viene descritta nei dispacci riservati come innaturale per un leader occidentale, dunque politicamente allarmante.

Infine, com'era naturale attendersi, questa serie crescente e patente di anomalie (che Repubblica denuncia da anni, ma che molti scoprono solo oggi, di rimbalzo dall'America) provoca delusione, disagio e inquietudine all'interno dello stesso santuario del potere berlusconiano in disfacimento, da dove escono i racconti ormai rassegnati ed esasperati dell'inner circle del Premier: dall'ossessione per i festini agli scontri con Napolitano, all'uso politico pilotato degli scandali altrui, nel tipico disvelamento che accompagna ogni crepuscolo di regime.

Davanti a queste tre sfiducie il Presidente del Consiglio ha un dovere preciso. Salga dal Capo dello Stato per assumersi per una volta la responsabilità di questo indebolimento del Paese e del suo sistema politico e istituzionale, e annunci subito che si dimetterà un minuto dopo il voto sulla legge di stabilità economica: evitando così di provocare altri danni all'Italia.

 

La fuga di cervelli costa cara all'Italia. "In 20 anni abbiamo perso 4 miliardi"

Ogni ricercatore 'top' vale in media 148 milioni di euro in brevetti. E i pochi che rimangono in Italia, nonostante le difficoltà, hanno un indice di produttività inferiore solo a britannici e canadesi

dI ROSARIA AMATO

ROMA -La fuga dei ricercatori italiani all'estero ha un costo, un costo molto alto. Ha provato a calcolarlo l'Icom, Istituto per la Competitività, in un'indagine commissionata dalla Fondazione Lilly, che promuove la ricerca medica, e dalla Fondazione Cariplo: negli ultimi 20 anni l'Italia ha perso quasi 4 miliardi di euro. La cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali "l'inventore principale è nella lista dei top 20 italiani all'estero" e di altri 301 brevetti ai quali diversi ricercatori italiani emigrati hanno contribuito come membri del team di ricerca. Questi brevetti in 20 anni sono arrivati a un valore di 3,9 miliardi di euro, "cifra che può essere paragonata all'ultima manovrina correttiva dei conti pubblici annuncaita dal governo qualche mese fa", osservano gli autori della ricerca.

Certo, si potrebbe obiettare, questi brevetti sono frutto, oltre che del genio italico, di équipe ben strutturate, ben finanziate, sostenute da università o centri di ricerca di valore. Probabilmente se questi preziosi cervelli, perfino i 'top 20' considerati dalla ricerca, fossero rimasti in Italia, non avrebbero brevettato un bel niente. E però se invece in Italia fossero stati adeguatamente sostenuti, il nostro Paese sarebbe stato più ricco. Secondo l'Icom, che ha presentato la ricerca oggi al Senato, in media ogni cervello in fuga può valere fino a 148 milioni di euro (nel caso in cui arrivi ai livelli degli scienziati più produttivi della Top 20 elaborata dall'associazione Via-Academy, costituita da un gruppo di ricercatori italiani che vivono e lavorano all'estero). Un calcolo che nello specifico può essere contestato, ma è indubbio che i tanti brevetti depositati dagli scienziati italiani all'estero si traducano in danaro.

"Guardando alla classifica elaborata da Via-Academy1 - spiega il coordinatore della ricerca, Stefano da Empoli - si vede come man mano che si arriva in cima alla graduatoria, la Top Italian Scientists, diminuisca il numero dei residenti in Italia e aumenti quello dei residenti all'estero". Insomma, il cervello quando fugge è più produttivo, probabilmente perché viene messo nelle condizioni migliori.

"La ricerca non è solo in teoria uno dei motori dello sviluppo di ogni sistema Paese, ma è anche in pratica un grande investimento", afferma il presidente del Consiglio Universitario Nazionale Andrea Lenzi. Che non manca di sottolineare come anche la riforma attualmente in via di approvazione, fortemente constestata dagli studenti, non migliori assolutamente nulla dal punto di vista della ricerca:  "Il difetto vero è che mancano le risorse per i ricercatori - spiega - questo non va bene perchè sono la categoria più debole. Si devono trovare le risorse, non si parla di cifre astronomiche ma serve un miliardo di euro, che corrisponderebbe a un viadotto sull'autostrada Bologna-Firenze".

Per arrivare ai quattro miliardi di perdite calcolate, spiegano gli autori della ricerca, si fa riferimento al database dell'Organizzazione Mondiale per la proprietà Intellettuale, che associa ad ogni scienziato il numero di domande internazionali presentate in base all'anno di pubblicazione. Se il 'top scientist' l'autore principale, è italiano, emergono 11 brevetti nel settore chimico, 5 nell'ITC, e 139 nel settore farmaceutico, che comprende anche la medicina.

La Fondazione ha poi calcolato il rendimento del brevetto: per esempio, un famaco anticancerogeno introdotto recentemente nel mercato ha generato un fatturato annuo di poco meno di due miliardi di euro. Il valore medio di 148 milioni viene calcolato sulla base del rendimento medio di un brevetto (che è diverso a seconda del settore: maggiore nel settore chimico, segue quello farmaceutico e infine l'ITC).

Secondo lo studio, il 35% dei 500 migliori ricercatori italiani nei principali settori di ricerca ha abbandonato il Paese. Ma se si considerano i primi 100, ad essersene andato è addirittura la metà.  Quelli che rimangono fanno quello che possono, che è comunque molto, sottolinea Lenzi: "In rapporto alla scarsità di stanziamenti e al fatto che in Italia il numero dei ricercatori sia più basso rispetto agli altri principali Paesi del G7 (da noi sono complessivamente 70.000, in Francia 155.000, in Regno Unito 147.000, in Germania 240.000, negli USA 1.150.00, in Canada 90.000 e in Giappone 640.00), i nostri ricercatori possiedono un indice di produttività individuale eccellente con il 2,28 %  di pubblicazioni scientifiche. La ricerca scientifica italiana risulta così essere superiore alla media dei principali Paesi europei, nonostante il più basso numero di ricercatori: l'Italia infatti si posiziona al terzo posto (2,28%), dopo l'Inghilterra (3,27%) ed il Canada (2,44%). Dopo di noi ci sono, in ordine, gli Stati Uniti (2,06%), la Francia (1,67%) la Germania (1,62%) e il Giappone (0,41%)".

Insomma, si fa di necessità virtù. Ma si perde anche tanto: alla presentazione della ricerca oggi a Roma c'era anche Napoleone Ferrara, catanese, via dall'Italia dal 1988. Ferrara ha recentemente ottenuto il prestigioso premio internazionale Lasker Award per i suoi studi, che si sono svolti negli Stati Uniti, su un farmaco che blocca la perdita della vista nei pazienti "con degenerazione maculare senile umida, patologia che in passato conduceva alla cecità totale". Concetto Vasta, della Fondazione Lilly, lo ha presentato come "il secondo miglior ricercatore italiano in termini di pubblicazioni e di impatto scientifico", e ha osservato: "Se Ferrara fosse rimasto in Italia, con il frutto delle sue ricerche e dei suoi brevetti avrebbe potuto ricostruire da zero la sua università".

Ma forse, se fosse rimasto in Italia, i suoi brevetti non avrebbero mai visto la luce. "Negli Usa - ha ammesso Ferrara - c'è un investimento enorme nella ricerca, miliardi di dollari, e da anni il governo americano investe molto nella lotta al cancro o alle altre principali malattie. C'è un'organizzazione che permette e facilita la ricerca, penso che il resto del mondo dovrebbe prendere esempio da questo modello".

Proprio per promuovere la ricerca, la Fondazione Lilly oggi ha assegnato una borsa di studio di 360.000 euro a una giovane ricercatrice italiana, l'oncologa Tiziana Vavalà: la somma servirà a finanziare le ricerche della studiosa per i prossimi quattro anni.

 

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start" gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a bassa emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva di chi stiamo parlando. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto sia rispetto ai finanziamenti che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che poi vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

 

Rio sotto assedio

Trenta morti, fra cui una ragazzini di 14 anni e una donna di 62. Il tutto in uno scontro fra le forze dell'ordine e le bande criminali legate al narcotraffico

I militari e i poliziotti rimarranno dispiegati nelle favelas di Vila Cruzeiro e del Complejo del Alemán, Río de Janeiro, fino a che non si saranno installati definitivamente le Unità di polizia pacificatrice, le quali assumeranno il controllo della sicurezza in queste zone piegate dalla violenza del narcotraffico. E' questo il succo dell'accordo preso dal governatore carioca, Sergio Cabral, con il governo federale affinché i militari, giunti in massa la settimana scorsa per coadiuvare la polizia in piena guerra contro la criminalità, mantengano il loro ruolo di vigilanti per almeno altri sei, sette mesi.

Erano ottocento i militari delle Forze armate intevenuti, appunto, per appoggiare il governo di Rio de Janeiro nelle operazioni per debellare nacrotraffico e criminalità nella capitale dello stato. Il tutto grazie alla benedizione del presidente uscente Luiz Inacio Lula da Silva. Una vera e propria militarizzazione, con la concentrazione dei soldati lungo i perimetri delle aree occupate dalla polizia, che da giorni sta invadendo le favelas più turbolente quale Vila Cruzeiro e inscenando scontri a fuoco che hanno già fatto almeno  trentotto morti.

Rinforzi assicurati, dunque, con tanto di armamenti pesanti: due elicotteri e dieci carri armati, oltre ai sei in assetto da guerra che già stanno usando da giorni grazie all'intervento dei soldati della Marina brasiliana. Non solo: per evitare di dover interrompere i blitz nelle ore notturne, gli uomini delle forze dell'ordine sono stati equipaggiati con occhiali a infrarossi capaci di guidarli nel buio più totale.

Intanto, la polizia è certa di aver ripreso il controllo di Vila Cruzeiro, dopo giorni di guerra con bande e narcotrafficanti, ma in particolare culla della più temuta associazione criminale di Rio. La corrispondente della Bbc nella capitale carioca ha confermato che negli ultimi scontri sono morte almeno trenta persone e cinquanta veicoli sono stati dati alle fiamme. Fonti governative assicurano che la maggioranza delle vittime sono trafficanti, ma ha anche ammesso che a perdere la vita sono stati anche cittadini innocenti: una ragazzina di 14 anni e una donna di 62. e a quanto pare la violenza è ancora ben lungi da finire. Testimoni parlano di circa duecento uomini armati arrivati dalle zone vicine per dar man forte in questa battaglia contro lo Stato. L'ultima volta che Rio ha vissuto questa lotta senza esclusione di colpi risale a due anni fa.

Le strade sono invase da circa 17.500 poliziotti che resteranno lì in base alla nuova normativa sulla sicurezza stabilita in vista dei Mondiali di calcio del 2014 e delle olimpiadi del 2016. Un provvedimento che evidentemente è andato di traverso ai narcos, che stanno perdendo forze e territorio. Di qui la battaglia iniziata domenica 21 e la reazione esasperata dello Stato centrale. Che resisterà in nome della programma di pacificazione.
"I trafficanti, spesso minorenni, sono mandati dai capi banda in giro per la città a bruciare auto e autobus - ha commentato Alessandro Vigilante da Rio - A rimetterci sono sempre e solo i più deboli". I pezzi grossi si tengono ben lontani dalla prima linea e alla luce di questo è molto, molto difficile scovarli e arrestarli. Occorrerà capire, dunque, cosa significa in termini pratici quanto dichiarato dalla polizia speciale, ossia "che non toglierà il pattugliamento permanente fino a quando non risolverà la situazione".

Stella Spinelli

 

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