Blocco stipendi,
l'allarme della Cgil "I lavoratori perderanno 1.600 euro"
Il calcolo sulla perdita del potere d'acquisto tiene conto dello stop al
rinnovo contrattuale e del mancato incremento in base all'indice
dell'inflazione. La Cisl frena: "All'estero è andata anche peggio"
ROMA
- Circa 1.600 euro di potere d'acquisto in meno. Tanto perderanno i lavoratori
del pubblico impiego con il blocco degli stipendi pubblici fino al 2013 previsto
dalla manovra economica. La stima è della Cgil che sottolinea con il
responsabile settore pubblico, Michele Gentile, come circa 1.200 euro lordi si
perdano per il triennio 2010-2012 di mancato rinnovo dei contratti mentre altri
400 euro di aumenti complessivi mancheranno all'appello nel 2013 a causa del
blocco ulteriore previsto dalla stessa manovra.
Nel triennio 2010-2012, spiega Gentile, "l'incremento degli stipendi sulla base
dell'indice dell'inflazione Ipca previsto dall'accordo interconfederale del 2009
(non firmato dalla Cgil) avrebbe dovuto essere complessivamente del 4,2%. Poiché
ogni punto di inflazione vale circa 20 euro si tratta a regime di 90 euro lordi
che mancheranno nello stipendio. Ipotizzando tre tranche annuali da trenta euro
in più al mese (quindi 400 euro l'anno compresa la tredicesima) che non ci
saranno, la perdita cumulata di potere d'acquisto sarà almeno di 1.200 euro
lordi in media. Se ci aggiungiamo il blocco già previsto anche per il 2013
arriviamo almeno a 1.600 euro. I lavoratori pubblici torneranno a vedere aumenti
in busta paga solo nel 2014".
La Cgil ricorda poi come al blocco della contrattazione nazionale per il
triennio (i contratti per circa tre milioni e mezzo di lavoratori sono scaduti a
fine 2009) si affianca lo stop alla contrattazione integrativa e il blocco
economico della carriera. In pratica nei prossimi anni si potrà fare carriera ma
l'avanzamento sarà riconosciuto solo giuridicamente senza nessun miglioramento
dello stipendio.
Il blocco degli stipendi preoccupa non solo la Cgil, ma anche gli altri
sindacati che però sottolineano come la stretta sul lavoro pubblico in Italia
sia comunque meno pesante rispetto a quanto è accaduto in altri Paesi. "In 17
Paesi europei - dice il segretario generale della Fp-Cisl Giovanni Faverin - non
si sono limitati al blocco dello stipendio in essere ma hanno deciso tagli delle
retribuzioni rilevantissimi. In Spagna è stata del 5% mentre in Irlanda hanno
avuto tagli del 13%. E puntiamo a recuperare risorse con la contrattazione
integrativa". Gli esempi citati sono in realtà quelli delle nazioni più colpite
dalla crisi e dalla cui situazione economica il governo ha sempre preso le
distanze, ma anche il segretario confederale Cisl Gianni Baratta è convinto che
non ci si possa lamentare più di tanto. "Il blocco dei contratti è una ferita -
precisa - ma se guardiamo al panorama europeo le decisioni degli altri Paesi sul
lavoro pubblico sono state più pesanti".
La stretta nel pubblico impiego per i prossimi anni non si limiterà al blocco
degli stipendi ma riguarderà anche il turn over. La manovra economica prevede
che fino al 2012 ci sia un limite del 20% delle entrate rispetto alle uscite. In
pratica su dieci dipendenti pubblici che escono (per pensione o dimissioni) ne
potranno entrare solo due (e con il limite anche del 20% massimo della spesa
quindi non sarà possibile che a fronte dell'uscita di due commessi entrino due
dirigenti). Facendo un calcolo medio di uscite di 100.000 persone l'anno (circa
il 3% di tre milioni e mezzo di dipendenti) significa che tra il 2010 e il 2012
a fronte di 300.000 uscite sarà possibile fare al massimo 60.000 nuove
assunzioni (poiché vincoli più stringenti ci sono nei comuni, le regioni e la
sanità)
Mirafiori? ''Non esportabile
e censurabile''
Secondo
il segretario della Ces l'accordo è da censurare. Oggi vertice straordinario
Fiom su Fiat Chrysler
"Marchionne? Questo dirigente planetario, molto americano, affronta la questione
di Mirafiori con un approccio pragmatico e armato di una furbizia italica, direi
napolitana", risponde Walter Cerfeda segretario del sindacato europeo (Ces), che
per la prima volta parla dell'accordo separato alla Fiat-Chrysler raggiunto alla
vigilia di Natale.
"Questo accordo esula dal quadro della contrattazione europea e delle trattative
in corso perché qui si sommano diversi contenuti che nella contrattazione
europea vengono affrontati separatamente". Ci sono quattro elementi mischiati
insieme: lo scambio tra prestazione di lavoro e investimenti promessi, il
diritto alla salute, il diritto alla rappresentanza e un nuovo modello
contrattuale da applicare alla New Co Fiat Chrysler. "Mi occupo di
contrattazione in Europa da otto anni e un guazzabuglio così non si è mai
visto".
Cosa significa per la Ces questo accordo?
E' un contratto non esportabile e censurabile. Molte imprese europee, pronte a
lanciare nuovi invesimenti produttivi, hanno prima sondato la possibilità di
delocalizzare per aumentare la produttività. L'ha fatto Volkswagen e
Daimler-Benz. Poi hanno deciso di rimanere in Germania a patto di uno scambio
tra prestazioni di lavoro (modifiche dell'orario e dei turni) e promesse di
investimenti, con concessioni anche più marcate di quelle richieste a Mirafiori.
Ad esempio, in Germania ci sono operai che lavorano 43 ore la settimana, ma con
una retribuzione che si ferma a 35 ore. I sindacati hanno definito questi
accordi concession bargaining, accordo peggiorativo, indispensabili per il
mantenimento del sito produttivo e degli investimenti.
Anche Marchionne ha promesso investimenti a Mirafiori.
La differenza è che Marchionne non ha presentato alcun piano industriale, c'è
una promessa di investimento che non è supportata da numeri, progetti, volumi di
investimento, tempi di realizzazione e via dicendo. In Germania sono state
create cabine di vigilanza tra impresa e sindacato che verificano la
concretizzazione dei patti siglati nell'accordo e ogni soldo promesso
dall'azienda viene certificato e inserito nel contratto. In Germania non si
mette insieme l'investimento con il diritto alla malattia e l'assenteismo.
Questi sono problemi che devono essere affrontati dai sistemi ispettivi. I punti
di Mirafiori hanno una dimensione aberrante e censurabile e il Ces cercherà di
evitare una contaminazione.
C'è quindi il pericolo che altre imprese seguano la strada di Mirafiori con
accordi separati?
L'accordo di Mirafiori riporta in auge un vecchio problema del sindacato
italiano, la rappresentanza. In Francia è possibile firmare accordi con una sola
parte del sindacato, a condizione che questi rappresentino il 51% dei dipendenti
di un'azienda, perché esiste una legge per la rappresentanza sindacale. In
Italia vige il principio di esclusione: chi c'è, c'è. In Germania è possibile
che un'impresa esca dalla Confindustria perché il modello contrattuale tedesco
consente molta più flessibilità. Ma quando un'azienda esce dalla sua
associazione di rappresentanza, non applica più il contratto collettivo di
lavoro e quindi non tratta con i sindacati confederali di categoria, che hanno
firmato il Ccnl, ma con i sindacati aziendali, cioè con i consigli di fabbrica.
E' proprio questo che ci preoccupa a Mirafiori. Insomma la Fim e la Uilm
firmando l'accordo di Mirafiori è come se disdicessero il contratto nazionale
che avevano in precedenza firmato. Quindi siamo di fronte a sindacati
culturalmente subordinati all'impresa. Potrebbero esserci imprenditori che
decidono di trattare con altri sindacati e magari lo stesso Marchionne domani
deciderà di sedersi al tavolo della trattativa con qualcun'altro.
Marcegaglia è pronta a creare un contratto per l'auto per riavere Fiat in
Confindustria. Cosa ne pensa?
Va benissimo. Ma la decisione di creare il contratto di settore dell'auto non
può nascere da un'azienda, semmai da Federmeccanica. Altrimenti chiunque
potrebbe seguire lo stesso esempio.Il punto fondamentale è che Cisl e Uil non
hanno più alcuna garanzia del rispetto degli accordi, che derogano al contratto
nazionale che loro stessi hanno firmato. A Fim e Uilm auguro che vada tutto bene
e che Marchionne sia di parola, anche se non c'è uno straccio di piano
industriale che gli impone di mantenere le promesse fatte.
Gloria Riva
Nigeria, Natale di sangue
Bombe nell'area cristiana di Jos, chiese assaltate nel Borno: lo spettro
della violenza religiosa torna a fare paura
Le luci del Natale hanno lasciato il posto a quelle delle ambulanze e ai roghi
delle esplosioni che hanno ricordato alla Nigeria quanto siano fragili quegli
equilibri che impediscono l'implosione del Paese.
Fiamme nel Plateau. Equilibri che sono tornati a scricchiolare alla vigilia di
Natale, quando quattro bombe sono esplose, seminando di nuovo il terrore della
violenza interetnica: epicentro della violenza è ancora Jos, la capitale del
Plateau, dove tra gennaio e marzo di quest'anno si sono registrati massacri di
civili che hanno fatto un migliaio di morti. Il bilancio provvisorio è di 38
morti e 74 feriti. Torna anche lo spettro della violenza inter-religiosa, visto
che le bombe sono esplose in un'area a prevalenza cristiana della capitale. La
prima a Kabong, nei pressi della chiesa cattolica del Sacro Cuore, alle otto
meno venti di sera. Subito dopo è seguita un'esplosione al Satellite, il vicino
mercato, dove la folla stava facendo gli ultimi acquisti; un'altra nei pressi
della sopraelevata di Gada-Biyu. La data e i luoghi delle esplosioni sono stati
scelti perché risultasse evidente a tutti la matrice anti-cristiana degli
attentati. Chiunque sia stato, sta soffiando sul fuoco delle divisioni religiose
lungo le quali si vanno da tempo condensando tensioni di tipo etnico e sociale
che stanno indebolendo la Nigeria, un gigante in crescita in cui diventa sempre
più delicata la faglia tra il nord musulmano e il sud cristiano; lo stato del
Plateau è esattamente a cavallo.
Violenza di strada. E le bombe hanno messo in moto un'escalation che ha subito
prodotto i suoi effetti, innescando atti di guerriglia urbana nell'area di Jos.
Gruppi di giovani hanno montato barricate nei distretti di Angwan Rukuba e Dogon
Dutse. In tre ore, i disordini si erano estesi a Rikkos, Abbatoir e Dogon-Karfe.
Mancano cifre su eventuali vittime ma un quotidiano di Abuja, Leadership,
menzionava otto morti nel solo distretto di Angwan Rukuba. La situazione resta
estremamente delicata: i reparti antisommossa stanno faticando per ripristinare
l'ordine. Unità mobili, almeno quattro, sono state spostate da altri stati del
Paese. Un migliaio di poliziotti in borghese sono stati immediatamente schierati
nei pressi dei luoghi di culto della capitale e del territorio metropolitano ma
l'incendio è contenuto a stento. Tanto che il vicepresidente nigeriano, Nomadi
Sambo, ha annullato la sua visita a Jos. I servizi di sicurezza gliel'hanno
sconsigliato: troppo pericoloso.
Il ritorno di Boko Haram. Ma non è solo il Plateau, lo stato a rischio. I
dispositivi di sicurezza sono stati rafforzati anche nel vicino Kaduna e nei
luoghi simboli della capitale federale, Abuja. Perché la violenza non è rimasta
confinata nel Plateau. A Maiduguri, la capitale del Borno, una trentina di
uomini armati hanno assaltato un paio di chiese. In una, sotto la minaccia di un
coltellaccio, hanno portato il pastore fuori dalla chiesa e lo hanno freddato
con un colpo di fucile. Hanno poi ucciso due membri del coro e tre passanti. Qui
però la polizia ha una pista preferenziale da seguire, quella che porta a Boko
Haram, la setta islamica radicale (il suo nome, in Hausa, vuol dire
"L'educazione occidentale è un sacrilegio"). Secondo diversi analisti, sarebbe
stata Boko Haram a pianificare l'intera operazione delle bombe di Jos. La setta,
solo l'anno scorso, era data per spacciata. Gli investigatori credevano di
averla sgominata ma fonti attendibili dicono che adesso è tornata più forte e
spietata che mai: lo ha dimostrato già lo scorso settembre, quando un suo
commando assaltò un carcere nello stato del Bauchi e liberando 732 detenuti, in
massima parte suoi miliziani. Con le fibrillazioni che arrivano dall'area del
Delta del Niger e una campagna elettorale che si annuncia infuocata ormai alle
porte (le presidenziali del 2011), questo è sicuramente un momento estremamente
delicato per il Paese. La leadership del presidente Goodluck Jonathan, cristiano
del sud, salito al potere con la malattia e la morte di Umaru Musa Yar'Adua,
musulmano del nord, stenta a consolidarsi. Non si può parlare di un vuoto di
potere ma bisogna riconoscere che le istituzioni repubblicane sembrano quanto
mai fragili, soprattutto gli apparati di sicurezza, sui quali Jonathan è
intervenuto pesantemente rinominandone i vertici. Il gigante africano si
avvicina al 2011, un anno cruciale, più fragile che mai.
Alberto Tundo
Messico, il lavoro che non rende
liberi
Centinaia di persone vengono rapite e costrette a lavorare nei campi gestiti
dalle organizzazioni criminali
Cinquanta operai sono stati liberati dalla Policia Federal dopo essere stati
sequestrati per diversi giorni e costretti a lavorare nei campi nello Stato di
Sonora, nel nord del Paese. I cinque uomini che dovevano controllare gli operai
sono stati arrestati.
Secondo quanto raccontato dalle forze di sicurezza messicane, gli operai
sarebbero stati liberati dopo che una pattuglia aveva notato dei movimenti
strani nei pressi di un edificio non distante dai campi da coltivare.
Soprattutto la polizia aveva notato che alla loro vista gli operai avevano fatto
di tutto per nascondersi. Ovvio ci fosse qualcosa che non andava secondo le
regole. Dopo poco l'intervento e l'amara scoperta della riduzione in schiavitù
dei 50 uomini.
Gli
agenti, poi, hanno raccontato che alcuni lavoratori presentavano segni evidenti
di lesioni, conferma degli abusi e delle botte subite dai loro aguzzini. Una
pratica che negli ultimi mesi sembra essersi ben consolidata all'interno del
panorama criminale nord messicano. Di fatto alcuni lavoratori sono stati
costretti a rivolgersi alle cure del più vicino ospedale. Dopo i primi
interrogatori è emersa la cruda verità. I cinquanta uomini erano stati rapiti a
Eloxochitlán, nello stato di Puebla. Fra loro ci sarebbero almeno quindici
minorenni e dopo le prime cure mediche avrebbero tutti sporto denuncia nel
locale ufficio di polizia.
La liberazione dei cinquanta lavoratori non è una novità. Qualche settimana fa,
infatti, altre 107 persone (tutte di età compresa fra i 18 e i 70 anni) sono
tornate alla libertà dopo essere state sequestrate da gruppi criminali che le ha
costrette a lavorare come schiavi per mesi in una fabbrica produttrice di borse
e chiusure lampo, camuffata da centro per il recupero di alcoolisti e
tossicodipendenti. Una vita d'inferno in una fabbrica totalmente clandestina,
terminata solo grazie alla tenacia di uno dei lavoratori che dopo essere
riuscito a scappare si è rivolto alla polizia che è intervenuta.
In manette sono finite 23 persone, accusate di traffico di esseri umani. "Molte
delle vittime, tutti indios che non parlavano nemmeno lo spagnolo, che abbiamo
salvato -dice il procuratore Miguel Angel Mancera - sono state violentate.
Secondo quanto abbiamo appreso lavoravano tutti sedici ore al giorno e avevano
una pausa di mezz'ora per mangiare. A volte venivano alimentati con zampe di
pollo e legumi marci". Ora la loro vita avrà un nuovo indirizzo.
Alessandro Grandi
16 dicembre
Vince la regola del libero
mercato
da Rosario Amico Roxas
La grande fiera di Santa Lucia ha chiuso i
battenti; gli affari sono andati come da copione.
La merce esposta e messa in vendita è stata apprezzata, valutata, ma il volume
degli affari non ha visto l’exploit che avrebbe potuto avere; pochi i movimenti
effettuati, ma sufficienti per consentire di vantare un successo che, se non è
quello preventivato, in ogni caso ha dato ossigeno ad un mercato in agonia.
La nuova realtà che viene offerta all’analisi dei politologi, dei commentatori e
degli opinionisti è tale da consentire ad ognuno di dire la propria e, alla
fine, avere ragione tutti.
Chi ha vinto dirà che ha vinto, ed è vero; chi ha perso dirà che in fondo non ha
perso, ed è altrettanto vero.
Se si parla di fiducia al governo, ha vinto chi ha comprato i biglietti
vincenti; se si parla di credibilità, allora non ha perso chi ha preventivato un
crollo verticale della medesima da parte di questo governo.
Ha vinto la regola del libero mercato, quello che più libero non si può; il
mercato che si è istallato nel tempio che era delle democrazia, ha imposto le
sue leggi della forza, quelle leggi che calpestano il diritto.
In una nazione civile l’opinione pubblica si sarebbe rivoltata insieme allo
stomaco; ma dopo 16 anni di abitudine all’assenza di ogni regola democratica non
ci si fa più caso.
Ora scatta il momento del pentimento da parte di chi, per pudore, non ha voluto
partecipare all’Offerta Pubblica di Acquisto, perdendo sia la capra che i cavoli
che erano esposti in vetrina e si esporranno, pronti a soccorrere il vincitore,
anche se ha vinto solo una fiducia comprata ed ha perso definitivamente la
credibilità residua.
Gli acquisti già perfezionati mostreranno presto la loro vera faccia; hanno
capito di essere aghi di una bilancia truccata e faranno valere le vere ragioni
di una compra-vendita chiedendo, anzi pretendendo, un compenso per ogni gesto o
atto idoneo al proseguimento di un’avventura personale che ha uno scopo
personale e fini personali, per cui l’Amministrazione dello Stato, trasformata
in mercato delle vacche, si posizionerà ulteriormente e definitivamente nella
sfera dei ricatti quotidiani.
Il "servirsi dello Stato" ha vinto sul "servire lo Stato".
14 dicembre
2011, il pendolare resta a
terra. Meno treni e pochi fondi, è allarme
Il rapporto Legambiente: per il prossimo anno
mancherà la metà delle risorse. In Italia ogni giorno 2 milioni 700 mila
viaggiatori si spostano in treno. L'annuncio delle Ferrovie: 154 convogli a
lunga percorrenza sono in perdita e verranno eliminati
di GIOVANNI VALENTINI
MENTRE
le nostre Ferrovie dello Stato sbarcano in Germania, acquisendo il 5% della
società che gestisce le linee dei pendolari tedeschi, il 2011 rischia di
diventare l'anno nero per i pendolari italiani e per il trasporto ferroviario
nel nostro Paese. Sono 2 milioni e 700 mila in Italia i viaggiatori che ogni
giorno prendono il treno per motivi di lavoro o di studio e negli ultimi due
anni sono aumentati dell'11,5%, circa 300 mila persone in più. Ma, in base al
Rapporto Pendolari 2010 compilato da Legambiente che la Repubblica è in grado di
anticipare, la riduzione delle risorse disponibili e quindi il taglio dei
collegamenti minacciano di provocare nel prossimo anno un salto nel buio nel
trasporto nazionale su rotaia.
I vertici delle Ferrovie hanno annunciato nei giorni scorsi che verranno
eliminati 154 treni a lunga percorrenza su 600, perché risultano in perdita. Per
quanto riguarda le linee dei pendolari, mancano 800 milioni di euro rispetto al
2010, vale a dire il 45% delle risorse che garantivano un servizio già spesso
carente, con treni perennemente in ritardo, scomodi e sporchi. L'associazione
guidata da Vittorio Cogliati Dezza prevede un taglio drastico a danno di quei
cittadini - operai, impiegati, studenti - che abitano nelle periferie urbane e
utilizzano quotidianamente il mezzo di trasporto più sostenibile: da qui,
l'allarme degli ambientalisti contro l'aumento del traffico privato e
dell'inquinamento.
Per ora, i tagli non compaiono nel nuovo orario ferroviario in vigore dal 13
dicembre. E le stesse Regioni, responsabili dei contratti di servizio, non sanno
al momento quali collegamenti sopprimere o di quanto aumentare i biglietti. Nel
silenzio generale, il ministro dei Trasporti Altero Matteoli è riuscito a
ottenere anche in questa Finanziaria 400 milioni di euro per l'autotrasporto e
altri 1.200 milioni per nuove strade e autostrade, tra i fondi della cosiddetta
Legge Obiettivo e quelli per l'Expo di Milano. In mancanza di interventi
efficaci, è un disastro ferroviario annunciato quello che - secondo Legambiente
- si prepara per il nuovo anno. Dice il presidente Cogliati Dezza: "Occorre
impedire una prospettiva di abbandono del trasporto ferroviario, vivendo in
città sempre più inquinate, con il trasporto su gomma responsabile di oltre il
20% delle emissioni di CO2 sul nostro territorio e una tendenza in costante
crescita".
All'origine di questa situazione, ci sono le manovre economiche adottate dal
governo a luglio e a dicembre. In pratica, risultano cancellati i trasferimenti
alle Regioni per il fondo del servizio ferroviario locale pari a 1.215 milioni
di euro. La beffa è che, per placare le proteste degli assessori regionali, sono
stati individuati 425 milioni di euro che però corrispondono alle risorse già
stanziate l'anno scorso per l'acquisto di treni pendolari e mai impegnate: ora
verranno utilizzati dalle Regioni per "salvare" la circolazione di quelli
esistenti. Ma il rischio ulteriore per i pendolari è che gli stanziamenti
previsti da Trenitalia per l'acquisto di nuovi treni e l'ammodernamento delle
carrozze, legati ai contratti di servizio con le Regioni si possano bloccare per
mancanza di risorse.
È proprio nei confronti delle amministrazioni regionali, perciò, che Legambiente
lancia un appello alla responsabilità, contestando "l'inadeguata reazione che
hanno opposto a un taglio che non ha paragoni rispetto ad altre voci di spesa
statale". Al momento, le Regioni più sensibili alle esigenze dei pendolari sono
state l'Emilia Romagna, la Toscana e la Lombardia, che hanno approvato
assestamenti di bilancio per limitare il taglio dei treni nell'ordine del 5-10%
a fronte di un amento delle tariffe tra il 10 e il 20%. Nella maggior parte
delle altre si teme un rincaro dei biglietti fino al 30%.
Da Roma alla periferia, la tendenza generale continua a essere quella di
privilegiare la strada a danno della rotaia. E la questione appare tanto più
delicata, alla vigilia della liberalizzazione del servizio ferroviario previsto
dalle Direttive europee. È in gioco la stessa sopravvivenza del servizio
ferroviario universale nel nostro Paese: quello cioè che assicura i collegamenti
con centri urbani e direttrici fondamentali a minor traffico, come l'asse
adriatico e quello tirrenico, o i collegamenti trasversali da un versante
all'altro della Penisola. "Sono città e cittadini che proprio nel 150°
anniversario dell'Unità d'Italia - conclude il Rapporto di Legambiente -
rischiano di ritrovarsi meno collegati e più lontani rispetto al resto del
Paese".
Buenos Aires, la guerra fra
poveri
Il parco Indoamericano, polmone verde e rifugio
dei migranti in cerca di un lavoro, è stata sgomberata con la forza dal sindaco
Macri. Quattro i morti per gli scontri fra residenti
Il parco Indoamericano è un immenso polmone verde
nel quartiere Villa Soldati, zona sud di Buenos Aires, e da molto tempo era il
rifugio di migliaia di migranti senza permesso di soggiorno, che lì avevano
trovato una rete sociale a cui aggrapparsi per non morire nell'indifferenza.
Martedì 7 dicembre, però, il sindaco Mauricio Macri ha deciso di procedere allo
sgombero forzato dell'intera area per mano della Polizia metropolitana. Ma vista
l'enorme sproporzione fra migranti e poliziotti, le forze dell'ordine hanno
perso il controllo della situazione e il risultato è da bollettino di guerra:
tre morti accertati - ma fonti ufficiose parlano di quattro - e centinaia di
feriti. Gli scontri si sono protratti per giorni, degenerando in particolare fra
gli stessi occupanti del parco e gli abitanti dei quartieri circostanti. Un
caos, per risolvere il quale Macri ha chiesto l'intervento delle autorità
nazionali, negatogli dalla presidente Cristina Fernández, che tramite il capo di
gabinetto, Aníbal Fernández, ha precisato come problemi del genere non si
debbano risolvere con la forza, ma sedendosi e trovando soluzioni costruttive.
La vicenda ha sconvolto il paese e acceso un dibattito sulle questioni
migratorie e le varie implicazioni sociali e politiche. Da una parte Macri, che
ha accusato il governo di essere stato troppo blando con i cittadini stranieri
accampati nelle cosiddette villas miseria della capitale, dove si concentra il
72 percento di boliviani, paraguaiani e peruviani arrivati in Argentina per
disperazione. E dall'altra la Casa Rosada, che ha risposto tacciando il sindaco
bonearense di xenofobia.
"Siamo tutti coscienti che l'Argentina è esposta a una politica fuori controllo,
dove lo Stato non si fa carico del proprio ruolo. Sembra che sia la città di
Buenos Aires a doversi far carico dei problemi abitativi dei paesi limitrofi",
ha tuonato il destrorso Macri. "Discorso xenofobo. Tanta xenofobia ci ha portati
in questi giorni a un terzo morto, un cittadino boliviano - ha ribattuto la
presidente venerdì dieci dicembre, quando ancora il bilancio dei morti era fermo
a tre - perché altri risultati non arrivano da politiche del genere. La violenza
non porta mai soluzioni alla gente".
Una situazione che è scivolata anche in tensioni diplomatiche, con l'ambasciata
boliviana che ha preteso pubbliche scuse da Macri per il "clima di xenofobia che
sta scatenando contro la comunità boliviana". " Non ho niente per cui chiedere
scusa - ha ribattuto il governatore bonearense -. E' il governo che ha mentito
ai fratelli latinoamericani dicendo loro che il nostro paese, con il suo 30
percento di povertà, ha una soluzione anche per loro". Quindi ha voluto
difendere le forze di sicurezza che non avrebbero, a suo dire, ucciso nessuno. "
Quei morti sono il frutto dell'intromissione delle bande di delinquenti da
sempre in azione nei quartieri miseri della città", ha aggiunto. E che grandi
tensioni sociali siano all'ordine del giorno nei vari slums di Buenos Aires non
è certo una novità. Anzi, molte organizzazioni civili, fra cui le Madres de
Plaza de Mayo, hanno denunciato la presenza di bande di nacrotrafficanti che
avrebbero approfittato del caos per regolamenti di conti e blitz. Al centro c'è
il controllo dei terreni e lo sfruttamento della miseria. Per occupare un
fazzoletto di terra con due tavole di legno e un tetto in lamiera, infatti, i
migranti sono costretti persino a pagare una sorta di pizzo alle bande che
controllano la zona. E molte famiglie indigenti sono state persino costrette a
sfollare. Alla base di tutto c'è dunque una totale assenza di politiche di
inclusione sociale, che lasciano questi disperati in balia dei criminali.
"E' certo che l'Argentina ha problemi di povertà, ma solo nella capitale ci sono
120mila proprietà vuote che potrebbero venire destinate ai senza tetto - ha
spiegato Fernando Ojeda, di Red Hábitat Argentina a Bbc Mundo -. Ma in questo
paese si discrimina chi è povero". Un attenggiamento che dunque andrebbe al di
là della nazionalità.
Intanto, l'intero quartiere Villa Soldati è oggi totalmente circondato da un
cordone di polizia in assetto anti-sommossa che tenta di presiedere la calma
dopo la tempesta. Sono stati dispiegati anche veicoli blindati ed elicotteri.
Per l'occasione, la presidente Fernandez de Kirchner ha deciso di creare un
nuovo ministro per la sicurezza da affiancare al ministro della Difesa Nilda
Garre.
Questo come primo masso verso la mediazione del conflitto, che prevede anche un
censimento di tutte le famiglie rimaste nel parco e una successiva politica di
servizi che vada a migliorare la situazione, a dispetto della passività in tal
senso dimostrata dalla politica di Macri. In base ai primi dati, pare che siano
circa quattromila le persone ancora lì in attesa di una sistemazione edilizia.
Conoscere a fondo il problema per iniziare a risolverlo è la filosofia adottata
dalla Casa Rosada che intanto punta a sedare l'emergenza e a sfamare la gente
per poi cercare una soluzione definitiva. Macri permettendo.
13 dicembre
Schiavi e caporali a Natale
scandalo false cooperative
Vengono usate come forma di outsourcing, con il vantaggio che i "soci" sono
facilmente licenziabili. Fini mutualistici solo sulla carta, così si sfruttano i
benefici su fisco e costo del lavoro. L'influenza di mafia e 'ndrangheta
di DAVIDE CARLUCCI e SANDRO DE RICCARDIS
Alla
catena di montaggio che prepara il Natale, nei cubi di cemento dei grandi centri
logistici che riforniscono gli scaffali dei supermercati di luci e decorazioni,
entrano che non è ancora l'alba ed escono che è già notte. Nelle grandi
piattaforme della grande distribuzione, sperdute nelle campagne di tutta Italia,
sgobba una nuova classe di lavoratori. Sono gli schiavi del Natale. Formalmente,
soci di cooperative. In realtà persone che, di fatto, hanno meno diritti dei
dipendenti delle aziende classiche, con la sola differenza che spesso non sanno
bene chi è il loro padrone. Due coop su tre, dicono le ispezioni delle direzioni
provinciali del lavoro, sono irregolari. Ma quante sono allora in Italia le
"cooperative spurie"? Quanti dipendenti occupano? E perché sia il sistema
economico che la criminalità organizzata ricorrono sempre più a questa tipologia
d'impresa che produce un valore aggiunto di 40 miliardi di euro, il tre per
cento del totale nazionale?
LE DENUNCE
"Con questo mezzo, gli operai ad essa aderenti pensano di fare il primo passo
nella via della loro emancipazione, poiché sottratto il lavoro da ogni
dipendenza, l'associazione offrirà ad essi il modo di istruirsi, di educarsi e
di togliersi dallo stato di miseria e soggezione in cui oggi si trovano...". Fa
tenerezza rileggere le parole dello statuto della prima cooperativa modenese,
fondata a Finale Emilia nel 1886, e confrontarle con il racconto che Juan, 124
anni dopo, ha reso alla procura di Lodi. Con altri quattro connazionali, il
36enne boliviano ha denunciato gli ingranaggi del sistema del lavoro nero nella
piattaforma Dhl di San Giuliano Milanese, dove lo smistamento dei pacchi
natalizi moltiplica il numero di colli da movimentare. "Ho girato diverse
cooperative. I nomi cambiavano in continuazione ma i responsabili erano sempre
gli stessi...". L'ultima "non mi consegnò mai il contratto di assunzione. Ma il
quindici di ogni mese un caporale mi pagava in contanti. La mia busta paga era
sempre a zero ore. Lavoravo nel settore carico con una mansione pericolosa, che
richiedeva, però, velocità e lucidità. Poi abbiamo contattato il sindacato e ci
siamo ribellati. Ma quando tornai in azienda, l'addetto alla sicurezza non mi
fece entrare: ero licenziato".
Ora Juan ha ottenuto il permesso di soggiorno in base all'articolo 18 della
legge sull'immigrazione, quello utilizzato di solito dalle prostitute per fare
arrestare i protettori. E come lui gli altri colleghi che hanno denunciato, oggi
collocati in una vera cooperativa, la "Lotta all'emarginazione" di Sesto San
Giovanni. Le prime segnalazioni della Filt-Cgil sulla piattaforma di San
Giuliano risalgono all'aprile 2008. "Ai lavoratori regolarmente assunti venivano
assegnati orari sempre più ridotti in modo da provocarne le dimissioni affinché
fossero sostituiti da extracomunitari con permessi di soggiorno falsi...".
Simon, anche lui boliviano, quarantenne, racconta di aver lavorato per più
cooperative e di ricevere lo stipendio "su una carta di credito prepagata
intestata a mio nome". Le cifre sono sempre minori di quelle concordate. Sulle
denunce di Juan, Simon e gli altri è aperta un'inchiesta della direzione
provinciale del lavoro di Milano. Molte coop citate nelle denunce, nel
frattempo, hanno licenziato gli operai, come la Padana servizi - 70 in un colpo
solo, con un semplice fax - o risultano inattive, come la Alfa coop e la Vidac.
IL BOOM
In Italia le cooperative sono 151mila, calcola l'ultimo rapporto di Unioncamere.
E mostrano, a differenza delle altre imprese, "una notevole resistenza alle
difficoltà della crisi", con un saldo positivo tra cessazioni e nuove
costituzioni. Quasi la metà del totale (45 per cento) sono al Sud, ma è al Nord
che creano più occupazione. Sicilia e Lazio sono le prime regioni per
diffusione, seguono Lombardia e Campania, dove in media crescono del 2%. Sono il
2,1% del totale delle imprese italiane, con un milione e 400mila lavoratori
impiegati ormai in ogni settore. La logistica - dove operano grandi gruppi come
Colser di Parma (3000 dipendenti), Ucsa di Milano (1700), Gesconet di Roma, Cal
di San Giuliano Milanese (900 soci), Piave di Torino, Transcoop di Reggio Emilia
- è solo uno dei settori delle coop, che ora operano anche nell'outsourcing. Per
esempio, grandi compagnie di assicurazioni hanno delegato a piccole coop di
giovani diplomati - inserite all'interno di gruppi imprenditoriali molto floridi
- lavori che prima erano riservati agli interni, ottenendo più flessibilità, ma
anche la possibilità di lasciare a casa i "soci" quando le commesse
scarseggiano. Un vero e proprio boom si registra poi nella sanità,
nell'informatica, nelle telecomunicazioni, nell'edilizia, nel settore delle
pulizie fin anche all'intermediazione finanziaria, all'istruzione, alla
formazione privata. Con picchi di crescita superiori alla media delle altre
imprese, soprattutto per quanto riguarda donne e immigrati. Ma cosa c'è dietro
questa esplosione di vitalità? Un rilancio in grande stile o un uso distorto
della forma cooperativa come quello che denunciano i facchini di San Giuliano
Milanese?
IL RACKET
Dietro, spesso, ci sono soltanto delle truffe. Storie che sanno di caporalato e
che riempiono decine di inchieste, dal Trentino alla Sicilia. Imprenditori,
commercialisti, avvocati e consulenti fiscali sono i registi di reti di società
intestate a prestanome con le quali danno avvio all'impresa criminale. Come
funzionano le coop-patacca? Il meccanismo è quasi sempre lo stesso. S'intestano
le cooperative ad anziani, disabili, tossicodipendenti, che in cambio di una
firma ricevono poche decine di euro. Poi si dà il via all'attività, sfruttando
le agevolazioni previste per questo genere d'impresa, con assunzioni in nero,
buste paga inferiori ai pagamenti effettivamente corrisposti, straordinari
nascosti in altre voci contabili, contributi e tasse non versate. Formalmente, i
lavoratori sfruttati sono soci della coop. Ma essendo ricattati, le loro
decisioni sono dirette dal presidente o dai suoi fantocci. Quando gli
investigatori arrivano alle società, si trovano di fronte a società in
liquidazione, a patrimoni pari a zero, ad amministratori fittizi. Ma non sempre
i furbi la fanno franca.
Il caso più noto è quello di Padova, dove un'operazione della Guardia di Finanza
ha smantellato una "associazione per delinquere finalizzata all'evasione
fiscale". Una rete di cooperative intestate a titolari di comodo, quasi tutte
nell'orbita della Compagnia delle opere, aveva evaso 30 milioni di euro tra
oneri previdenziali, fiscali e contributivi non versati. I militari hanno
sequestrato anche 18 milioni di euro in contanti, titoli di società ed immobili
tra Veneto, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna. Tra i 21 indagati e i tre
arrestati c'erano Willi Zampieri, 40 anni, presidente della società con un
passato in Forza Italia; il commercialista Paolo Sinagra Brisca e una consulente
del lavoro, ex tesoriere del Consiglio provinciale dell'Ordine, Patrizia
Trivellato. Diecimila euro al giorno venivano reinvestiti in bar e negozi,
mentre centinaia di lavoratori restavano senza contributi previdenziali. Le loro
condizioni di lavoro sono lo spaccato del moderno schiavismo camuffato da
cooperativismo: permessi per malattia o maternità negate, ferie inesistenti.
Un caso isolato? Pare proprio di no. Nella capitale economica del paese, Milano,
teoricamente il luogo più evoluto nei rapporti di lavoro, dal primo gennaio al
31 agosto 2010, gli accertamenti hanno svelato 1101 posizioni irregolari:
collaboratori a progetto che nella realtà erano soci, lavoratori senza riposo
giornaliero o settimanale, "con schede cronografiche infedeli, straordinari
contabilizzati come indennità di trasferta, per le quali non è previsto il
versamento di contributi", spiega il direttore provinciale del Lavoro di Milano,
Paolo Weber. In otto mesi, gli ispettori della Direzione provinciale del lavoro
hanno recuperato ben 426.780 euro di contributi non versati.
COOPERATIVE A DELINQUERE
La favola dell'assistenza e della mutualità ha fatto il suo tempo. E in questa
grande finzione, fa presto a infiltrarsi la criminalità organizzata. A
Corigliano Calabro la Finanza ha indagato a maggio 352 persone per truffa all'Inps:
una cooperativa agricola che aveva denunciato falsi rapporti di lavoro per
35mila giornate agricole era, in realtà, riconducibile a una cosca della
'ndrangheta. A Gioia Tauro, invece, la "Cooperativa lavoro", che gestisce il
traffico di migliaia di container, aveva stretto una sorta di joint-venture con
le famiglie Piromalli, Alvaro e Molè. E in Campania è la camorra a utilizzare le
coop nel settore dei trasporti e dei parcheggi. L'Ortomercato di Milano, che si
prepara a garantire una cornucopia di frutta e pesci di ogni tipo sulle tavole
degli italiani imbandite per il Natale, è stato per anni il regno dei clan.
Nella memoria depositata nel processo concluso a maggio con la condanna dei boss
della cosca Morabito-Bruzzaniti, il pm Laura Barbaini ricostruisce il ruolo del
prestanome Antonio Paolo che "formalmente assume presso la cooperativa Scai il
socio lavoratore Salvatore Morabito, l'uomo conosciuto da tutti come
criminalmente potente, e nella sostanza cede al consorzio i suoi contratti di
appalto migliori: quale per esempio quello con Dhl Express Italy srl e con Tnt
Poste". Le cooperative - scrive il pm - servono ai clan anche per riciclare
denaro sporco "attraverso la falsa fatturazione o l'emissione di assegni
circolari intestati a nominativi di lavoratori stranieri dipendenti e incassati
da prestanomi". In questo modo, creano "importanti disponibilità in contanti per
l'acquisto di droga". Anche al boss di Cologno Monzese, Marcello Paparo, le
cooperative del suo consorzio di facchinaggio e pulizie per i supermercati Sma
ed Esselunga servivano solo per prelevare contanti da investire in affari
illegali. E nel capoluogo lombardo c'è l'ombra del riciclaggio anche
nell'omicidio di Pasquale Maglione, un avvocato casertano che rappresentava
diversi consorzi di origine campana nel rapporto tra colossi della logistica e
sindacati.
IL DUMPING E LA CONCORRENZA SLEALE
Ma anche quando non c'è la mafia, le statistiche dicono che le cooperative sono,
una miniera di profitti in nero. Più delle altre società. A Milano, come a
Lecco, l'82% di quelle ispezionate risultano irregolari; a Brindisi il 37%; a
Cuneo il 65, a Pescara il 40, a Padova il 67,7. In media, il 65% sono
irregolari. Anche nel settore dei servizi sanitari e sociali si diffonde
l'illegalità: a Siena la Gdf ha scoperto a luglio una coop che per quattro anni
aveva lavorato in nero con anziani, minorenni e disabili. Gonfiavano i rimborsi,
s'inventavano trasferte inesistenti in giorni improbabili - come il 31 giugno -
e in questo modo, secondo la Finanza, "riuscivano a garantirsi, a costi
competitivi, la presenza sul mercato degli appalti pubblici". Con prezzi
stracciati, è facile sbaragliare la concorrenza degli onesti. Il ministero del
Lavoro, nel 2007, aveva tentato di arginare il fenomeno con un protocollo che
considerava i ribassi del 30 per cento "un fattore di distorsione del mercato".
Si decise di dar vita agli "osservatori permanenti", coordinati dalle direzioni
del lavoro. Pochi ispettorati, però, sono riusciti a tener d'occhio le
cooperative spurie. Che hanno una vita media di due anni ed espellono i soci che
osano prendere sul serio i loro diritti. Com'è successo, ad esempio, ai 16 soci
eritrei della cooperativa "Il papavero" di Cerro al Lambro, in provincia di
Milano, che lavora per la Gls, che ha tra i suoi committenti le poste inglesi: a
febbraio avevano indetto un regolare sciopero, ad agosto si sono ritrovati
licenziati. E ora, assistiti dal SiCobas, hanno aperto due vertenze: in una il
datore di lavoro è tacciato di comportamento "discriminatorio". Due settimane fa
il tribunale del lavoro di Firenze ha dato loro ragione. Ma, prima della
magistratura, chi dovrebbe fare tutte le verifiche?
I CONTROLLI FANTASMA
La maggior parte delle pseudocoop non fanno parte delle centrali (Legacoop,
Confcooperative, eccetera) che prevedono verifiche sugli affiliati. "C'è il
potere ispettivo del ministero dello Sviluppo - spiega Stefano Zamagni,
economista e presidente dell'agenzia per le Onlus - ma gli ispettori sono pochi,
è difficile controllare. Noi possiamo intervenire solo per le cooperative
sociali, ma solo inoltrando le denunce alla Guardia di finanza e all'Agenzia
delle entrate. Nella maggior parte dei casi si ricorre alle cooperative solo per
evadere il fisco e avere agevolazioni. Lo spirito mutualistico di una volta è
sparito". Così finisce che le cooperative anziché unire i lavoratori consentendo
loro di emanciparsi, li dividono ulteriormente. In questi giorni nei magazzini
Gs-Carrefour di Pieve Emanuele, in provincia di Milano, operai cinesi, egiziani
e italiani stanno il dando il meglio di sé. Sono i "soci" che hanno accettato i
nuovi ritmi, 160 colli stoccati all'ora, imposti da una nuova coop che
sostituiva la precedente. Quelli che hanno detto no, erano stati espulsi. Ora
hanno vinto la loro battaglia, e hanno ritrovato il lavoro.
Angela Pascucci
Quando i diritti
fanno comodo
Confucio
contro Alfred Nobel. Lo scontro tra la Cina e l'Occidente generato dal
riconoscimento assegnato al dissidente cinese Liu Xiaobo assomiglia ormai a
quello di tifoserie opposte, dopo la decisione di un misterioso comitato di
creare un premio per la pace ispirato al nume tutelare della neo modernità
cinese da assegnare ai «propri» benemeriti.
L'esordio è stato infelice. Il prescelto, l'ex vice presidente di Taiwan, Lien
Chan, non si è presentato a ritirare il premio consegnato ieri a Pechino, e non
ha neppure ringraziato. Il che dimostra quanto sia difficile per la leadership
cinese e i suoi sostenitori la costruzione di un «soft power» che convinca il
mondo delle loro ragioni.
Lo dicono anche le sedie vuote dei paesi che hanno declinato l'invito ad essere
presenti a Oslo per la consegna del Nobel a Liu.
Un invisibile parterre di notevole potenza, ma che ancora una volta
esprime una logica di schieramento e contrapposizione, non di profonda
consapevolezza che i nodi del mondo debbano essere sciolti in altro modo. Al
dunque, sedie vuote contro una sedia vuota. Il trionfo dell'assenza, a esprimere
la criticità della situazione.
Gli entusiasti fautori del Nobel per la pace a Liu Xiaobo, Congresso degli Stati
uniti in testa, dovrebbero tuttavia mostrare meno fervore e più lungimiranza
perché la ragione non è tutta dalla loro parte.
Non è qui in discussione la spregevolezza di un potere, quello cinese, che
commina 11 anni di galera a un uomo solo perché esprime idee scomode per un
sistema politico ed economico che non sa gestire in modo maturo i conflitti che
genera.
Nessuno tuttavia giurerebbe sull'innocenza di un gesto consapevolmente
calato come uno schiaffo sul volto non solo di una leadership ma di un intero
paese. La ragione della profonda rabbia cinese è in fondo tutta qui: il prendere
atto che non sono serviti a nulla 30 anni di corsa folle per raggiungere il
resto del mondo e superarlo, mettendosi alla testa della motrice che fa
procedere il convoglio, procurando affari e ingenti profitti al capitale
occidentale al prezzo di un feroce sfruttamento interno. Alla prima crisi
davvero globale, qualcuno assegna premi e punizioni.
Non a caso l'accusa più ricorrente nei media governativi cinesi contro il
Comitato del Nobel è «mentalità da Guerra Fredda» mentre il nazionalista Wang
Xiaodong, uno degli autori del best seller cinese «China is Not Happy», lamenta
nel suo blog «Abbiamo accolto i vostri consigli e ci siamo modernizzati usando
mezzi occidentali, e ora l'Occidente ci rifiuta».
L'agenzia Xinhua va anche oltre: «Negli scorsi decenni la Cina ha
perseguito la via del socialismo con caratteristiche cinesi, ed è diventata la
seconda economia mondiale. Se il modello cinese sia un successo, oppure no, lo
sviluppo della Cina è la migliore risposta, e 1,3 miliardi di cinesi hanno la
voce in capitolo più importante. La Cina non ha bisogno di osservatori esterni».
Insomma, siamo stati i vostri migliori allievi, non siamo l'Unione sovietica. E
dunque che c'entrano ora i diritti umani?
Questa è una domanda da porre seriamente. Soprattutto in un momento storico in
cui si scrivono tomi per capire come sia possibile che un governo così convinto
nell'abbracciare il liberismo lo abbia saputo coniugare tanto bene, finora, con
la mancanza di un sistema democratico di tipo occidentale. Non era questa, la
vulgata. Ma è da qui che bisogna ripartire ricordando, tutti quanti, che la
sostanza della democrazia non è un menù: diritti umani sì, diritti sociali
forse, libertà di informazione se e quando fa comodo.
A Liu Xiaobo auguriamo di essere presto liberato e di poter esprimere le
proprie posizioni politiche da uomo libero, ben oltre i pur importanti diritti
umani. Potremmo anche scoprire di non essere pienamente d'accordo con lui e
dirlo, cosa che oggi ci è preclusa, perché quel che conta di più è tirarlo fuori
di galera.
Quanto al premio Nobel per la pace, non ha aiutato Barack Obama a difendere con
più forza la speranza di cambiamento che aveva suscitato, come appare evidente
ogni giorno di più. Il Mahatma Gandhi invece non l'ha mai avuto (ben più forte
era il soft power dell'Impero britannico). Tuttavia la verità e la giustizia
espresse dalle sue idee sono state tali da dargli la forza di vincere, ben oltre
la sua vita.
9 dicembre
Consulenze da 100mila euro,
il premio ai voltagabbana
Una "squadra" punta gli acquisti, Verdini
tratta le condizioni. La ragnatela del Cavaliere sui deputati tentati con i
contratti di consulenza. Controlli mirati sulla situazione patrimoniale delle
"prede". Alla fine summit col premier
di CARMELO LOPAPA
"Quando la caccia si fa grossa e si punta a uno
come Scilipoti, che fino a due giorni fa urlava dall'altra parte, allora vuol
dire che è entrato in gioco Denis Verdini". Un dirigente Pdl che è di casa a
Palazzo Grazioli racconta quel che sta accadendo in queste ore, racconta cosa
accade in casa Pdl quando "non ci si può limitare alla promessa della
ricandidatura". Perché adesso che la partita entra nel vivo non si punta ai
soliti finiani incerti e centristi confusi, ma a dipietristi e persino
democratici. Chi ci sta conquista un allettante win for life. Ci sono i
pescatori da transatlantico, che lavorano sotto costa. E anche in questo caso
sembra ne sia entrato in gioco uno, anzi una, finora defilata. Si tratta di
Maria Rosaria Rossi - al fianco del Cavaliere questa estate al castello di Tor
Crescenza e alla Certosa - che proprio sull'imminente passaggio del siciliano
Scilipoti al partito della fiducia sembra abbia svolto un ruolo delicato. Ma poi
ci sono i pescatori da mare grosso. Tre, in movimento in queste ore. Il
coordinatore Verdini, appunto, il tesoriere del Pdl Rocco Crimi e una seconda
fila ma molto attiva, il campano Mario Pepe. La triade, stando alle informazioni
acquisite da autorevoli fonti interne al partito, si muove a tenaglia sugli
obiettivi, con funzioni e assunzioni di impegni diversificati. Al pari di Pepe,
altri si muovono nell'acquario di Montecitorio. Daniela Santanché, per gli
avversari il "Luciano Moggi" del calciomercato, e il ministro Elio Vito.
Francesco Pionati e Saverio Romano sugli amici dell'Udc dal quale provengono.
Non vi è traccia, né mai ve ne sarà di passaggio di denaro. "I 350-400 mila euro
di cui si parla è il corrispettivo in 3-5 anni di una consulenza col partito o
col gruppo - racconta dietro anonimato chi ha ricevuto e rifiutato - Il sistema
è collaudato: ti propongono di indicare il nome di un amico, un parente col
quale stipulare subito il contratto, che si aggira attorno ai 100 mila euro
lordi l'anno, per più anni". Cosa ne faccia il "prestanome" del compenso, a chi
giri quei soldi, non è affare dell'offerente. "La consulenza poi può passare a
tuo nome a fine legislatura - continua nel racconto il deputato - in caso di
mancata rielezione". Perché la ricandidatura è la prima offerta avanzata, ma
nessuno, nemmeno il leader può garantirla. Poche settimane fa Repubblica aveva
pubblicato il contratto di consulenza col gruppo Pdl che due ex parlamentari
transitati a Forza Italia a fine 2007, Marco Pottino e Albertino Gabana, hanno
stipulato dopo la mancata rielezione. Compenso, tuttora percepito: "120.516 euro
l'anno al lordo delle ritenute".
La regola numero uno di Palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi l'ha dettata a
coordinatori e capigruppo a settembre, in occasione del primo calciomercato:
"Non voglio ricevere nessuno che venga qui a far richieste o aprire trattative,
non intendo passare altri guai per colpa di inaffidabili che registrano o vanno
a raccontare chissà che". Gli scandali dell'ultimo anno e mezzo hanno imposto
cautela. Sono altri a condurre le trattative. Il presidente del Consiglio si
congratula e concede il privilegio dell'abbraccio finale, il sigillo. Il
pidiellino Dore Misuraca, potente calamita elettorale in Sicilia occidentale e
in odor di transito all'Udc, è stato il recordman degli ingressi a Palazzo. Tre
nelle ultime sei settimane. Fruttuosi. "Il presidente l'ha buttata tutta sul
rapporto personale, mi ha confermato che sono una risorsa" minimizza Misuraca.
Ma la famiglia Misuraca è regina della sanità privata nell'isola, il rapporto
personale non è stato l'elemento decisivo per convincere altri deputati che si
sono avvicendati dal premier. Non trova conferma l'indiscrezione che circola
sullo screening che sarebbe stato effettuato sulla situazione patrimoniale e le
esposizioni bancarie di una serie di "avvicinabili". Però sul dipietrista
Domenico Scilipoti, stando alla documentazione inviata al partito da uno dei
suoi creditori, pende un decreto ingiuntivo (89/07) sostenuto da sentenza del
Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto per 200 mila euro. L'altro idv sotto
tiro, Antonio Razzi, non fa mistero della proposta avanzatagli per l'estinzione
del mutuo per la casa acquistata a Pescara, tramite Previdencassa svizzera.
"Mutuo? Pressioni ancora più forti su di lui" allude Di Pietro.
A Palazzo Chigi poi un occhio di riguardo lo hanno anche per gli "idealisti".
Deputati e senatori pronti a discutere in cambio di un impegno per una "giusta
causa". La situazione delle carceri per Pannella ricevuto da Berlusconi, la
gestione del Parco dello Stelvio da affidare agli enti locali per i due Svp
Brugger e Zeller, la galleria del San Bernardo per il valdostano indipendente
Nicco. E martedì sera al Senato Giovanni Pistorio, dell'Mpa di Lombardo,
scherzava ma neanche tanto coi colleghi pidiellini: "Ragazzi, se sbloccaste i
fondi Fas della Sicilia da 1,4 miliardi fermi al ministero, potremmo discutere".
Usa, bimbi a digiuno per gli
F-35
La Camera dei Rappresentanti blocca il disegno
di legge sulle mense gratuite per gli scolari indigenti, mentre si fatica a
trovare un accordo sulla riduzione delle commesse per i 2500 F-35.
La
nuova maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti si è imposta
ancora sul partito di governo bloccando un'altra legge a favore della
popolazione indigente. Per mezzo di un manovra procedurale, il Grand Old Party (Gop)
ha temporaneamente sbarrato la strada al "Child Nutrition Bill", il disegno di
legge che garantisce pasti gratuiti nelle mense scolastiche ai bambini in
condizioni economiche svantaggiate.
La scure dell'austerity non si è fermata neanche di fronte alla necessità di
garantire il programma di refezione rivolto agli scolari più poveri. "Ognuno
riconosce l'importanza di estendere i programmi per la nutrizione infantile, ma
estendere non significa espanderli" questo il commento del deputato repubblicano
del Minnesota, John Kline. La manovra, del valore complessivo di 4,5 miliardi di
dollari, avrebbe, infatti, coinvolto nel programma 20 milioni di mense
scolastiche in più, rispetto a quelle attualmente sovvenzionate in tutto il
Paese. Il disegno di legge, fortemente caldeggiato dalla first lady Michelle
Obama, avrebbe inoltre aumentato di 6 centesimi di dollaro, il rimborso su ogni
pranzo che, ad oggi, costa agli istituti scolastici 2,72 dollari. Senza gli
emendamenti proposti, e quindi senza il blocco repubblicano, il disegno avrebbe
segnato il primo aumento dei programmi mensa dal 1973. Nulla da fare. Dopo i
disoccupati, colpiti ieri dal taglio dei sussidi federali, è stata la volta dei
loro figli che, se il progetto dovesse essere definitivamente troncato,
potrebbero veder ridursi il diritto a un pasto gratuito a scuola.
Il piano di risanamento dello Stato, dettato dalla National Commission on Fiscal
Responsibility and Reform, un gruppo bipartisan creato dallo stesso presidente
Barack Obama per "affrontare le sfide fiscali del Paese", sembra avere fatto
presa sui legislatori che, in soli due giorni, hanno evitato che Washington si
impegnasse per circa 65 miliardi di dollari, tra i sussidi ai disoccupati e
quelli alle mense scolastiche.
In un rapporto dall'emblematico titolo, "il momento della verità", i 18 membri
della commissione consigliano il taglio del deficit pubblico di 3.800 miliardi
entro il 2020; la riduzione drastica delle aliquote fiscali; il contenimento dei
costi per realizzare il Medicare (programma di assicurazione medica statale ndr)
attraverso la condivisione dei costi, la riforma delle negligenze mediche e il
prezzo dei farmaci; l'abbassamento della spesa pubblica mediante la riduzione
delle dimensioni della forza lavoro federale e, infine, la preservazione della
sicurezza sociale e la tutela di anziani e poveri.
Una direttiva programmatica, questa, che potrebbe non essere rispettata, visto
che proprio la fascia più povera della popolazione verrà privata di tutti quei
benefits legati alle loro necessità economiche.
La materia su cui permangono i dubbi sembra invece essere quella delle spese
militari. Ancora una volta il governo potrebbe lasciare intatti gli esborsi
messi in preventivo per le proprie Forze Armate. In particolare questa volta si
considera l'affare degli F-35, i caccia anti-radar, dei quali il Pentagono
vorrebbe acquistare ben 2500 esemplari. "È il cuore del futuro trasporto aereo
da combattimento tattico per i nostri servizi, per cui l'importanza di questo
programma può difficilmente essere sopravvalutata", in questo modo il Segretario
della Difesa, Robert Gates, ha fatto capire che se c'è qualcosa a cui si può
rinunciare per diminuire il deficit pubblico, questa cosa non è certamente la
flotta aerea militare. Poco importa che per pagare l'intera commessa siaono
necessari 382 miliardi di dollari dei 715 miliardi che attualmente costituiscono
il budget della Difesa. Per la Commissione deficit l'ideale sarebbe quello di
optare per modelli più economici, rinunciando al decollo rapido e
all'atterraggio verticale, per le forniture dei Marines e andando a risparmiare
17,6 miliardi di dollari entro il 2015. Riduzioni nette, invece, sono quelle
pensate per Aviazione e Marina, che, per il pool di risparmiatori, dovrebbero
ottenere solo la metà dei velivoli previsti, salvando 9,5 miliardi di dollari
dalle casse del Pentagono.
A quel punto, però, il problema sarebbe un altro: "Se si riduce l'acquisto a
qualche centinaio per l'Air Force la Marina Militare - ha sostenuto Winslow T.
Wheeler del Center for Defense Information - pagheremo ben oltre 250 milioni di
dollari per ogni copia di questo aereo".
E allora, l'unica soluzione possibile per far risparmiare dollari alla Difesa, è
quella di attuare un giro di vite sui sussidi ai disoccupati e ai poveri.
Antonio Marafioti
7 dicembre
Statali, a casa 3.250
precari tra Inps, Inpdap e Viminale
A rischio molti servizi su pensioni e
assistenza. I calcoli di Nidil-Cgil in seguito al taglio del 50 per cento della
spesa. La riduzione dei contratti di lavoro precari negli uffici pubblici
provocherebbe lunghe code agli sportelli
di VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Tutti a casa: precari e interinali. Il
conto alla rovescia è cominciato: a gennaio 2011 un esercito di lavoratori della
pubblica amministrazione rischia di perdere il posto. Almeno 3.250 secondo i
calcoli della Nidil Cgil, tra Inps, Viminale e Inpdap. Sul tavolo degli
imputati, la manovra di bilancio approvata a luglio scorso (decreto 78/2010),
che taglia del 50% la spesa per lavoro temporaneo nelle amministrazioni dello
Stato, anche a ordinamento autonomo e nelle università. A rischio sono dunque
tutti i contratti di somministrazione (cioè gli ex interinali), a tempo
determinato, co. co. co., formazione lavoro e lavoro accessorio.
"Nel taglio - spiegano al sindacato - sono comprese tutte le amministrazioni
centrali dello Stato, che possono avere diramazioni territoriali, come accade
per gli istituti previdenziali. La legge stabilisce inoltre che le disposizioni
di riduzione della spesa costituiscono "principi generali, ai fini del
coordinamento della finanza pubblica, ai quali si adeguano le regioni, gli enti
del Servizio sanitario nazionale e gli enti locali". Ciò significa che si
potrebbero produrre ulteriori tagli se le autonomie locali e il Ssn si
adeguassero alla normativa".
La Ragioneria generale dello Stato nel 2008 valutava che le persone legate da
contratti precari con l'amministrazione pubblica erano circa 200mila. La Nidil
Cgil fornisce però un calcolo prudenziale dei futuri tagli, limitato a soli tre
casi: "Le persone colpite oggi dal taglio di Tremonti sono sicuramente oltre
3.250, tra Inps (1.800 lavoratori in somministrazione tuttora in forza),
ministero dell'Interno (650 lavoratori a tempo determinato e 650 in
somministrazione già tagliati a luglio) e Inpdap (circa 150 lavoratori in
somministrazione)".
E cosa fanno oggi questi lavoratori? "Servizi utili ai cittadini e alle imprese
- risponde la Cgil - al ministero dell'Interno si occupano dei permessi di
soggiorno per gli immigrati, evitando così che gli agenti di polizia si
preoccupino di scartoffie invece che della sicurezza dei cittadini; all'Inps
sono impegnati nelle prestazioni pensionistiche e di indennità di
disoccupazione; all'Inpdap sono occupati non solo nelle prestazioni, ma anche
nella gestione del patrimonio e, addirittura, nell'avvocatura". Insomma i tagli
rischiano di comportare "una drastica riduzione della qualità e quantità dei
servizi pubblici o la loro cessazione di fatto". La Cgil ricorda poi che "il
taglio farà risparmiare allo Stato solo 100 milioni di euro per gli anni 2011,
2012, 2013 a fronte di una manovra di bilancio pari a oltre 12 miliardi per il
2011 e a circa 25 miliardi per gli anni successivi. Il taglio al lavoro precario
incide, quindi, per lo 0,8% sull'ammontare della manovra per il 2011 e per lo
0,4% su quello per gli anni 2012 e 2013".
Non è tutto. I lavoratori precari della P. A. rischiano di rappresentare un
pezzo nascosto della crisi. "Quando infatti le imprese private vanno in
difficoltà, anche i loro lavoratori precari possono utilizzare forme di
ammortizzatori sociali in deroga. Questo nel settore pubblico non è ancora
previsto - avverte la Cgil - perché non esistono questi strumenti di sostegno
sociale ed economico, pur trattandosi di un vero stato di crisi nel quale si
licenziano lavoratori".
Bombe demografiche
L'India è una potenza fuori controllo mentre
l'Africa entro 40 anni avrà un miliardo di abitanti in più. Un rapporto Onu
lancia l'allarme sul futuro del pianeta
Non
hanno timer e non deflagrano come classici ordigni ma quando scoppiano possono
produrre effetti devastanti. Sono le cosiddette "bombe demografiche". In un
mondo che sta già facendo i conti con gli effetti del sovrappopolamento, sono in
particolare due quelle innescate che inducono demografi e geografi a tracciare
quadri inquietanti: in India e in Africa.
Il cappio indiano. La prima minaccia arriva dall'India che attualmente,
con il suo miliardo e duecento milioni di abitanti è il secondo Paese più
popoloso del mondo, dopo la Cina. Un primato, quello di Pechino, che potrebbe
passare di mano già a partire dal 2025, quando gli indiani arriveranno al
miliardo e settecento milioni. Sempre che il trend rimanga costante, ipotesi più
che probabile se si guarda alle statistiche degli ultimi anni. Il piano noto
come National Population Policy, varato nel 2000, prevedeva la riduzione del
tasso di fertilità per arrivare ad una stabilizzazione entro il 2045 e una serie
di obiettivi intermedi, come quello di portarlo a 2,1 entro il 2010. Target
mancato clamorosamente, visto che i dati di quest'anno lo fissano a 2,8, la
media figli di ogni donna indiana. Se in alcuni stati del subcontinente come il
Tamir Nadu o il Kerala negli ultimi anni si sono registrati forti progressi, nel
nord e nel centro dello sterminato Paese la media è di circa quattro figli per
coppia. Il simbolo del disastro incombente è l' Uttar Pradesh, uno stato che da
solo conta 190 milioni di abitanti e dove è fallito qualsiasi tentativo di
pianificazione e razionalizzazione. Manca la volontà politica del governo
centrale ma anche la consapevolezza che se negli anni Novanta l'India si è
avvantaggiata della sua forza demografica e di una popolazione molto giovane da
sfruttare come manodopera, adesso questi stessi elementi si stanno trasformando
in un cappio.
Il continente urbanizzato. Se lo scenario indiano preoccupa, quello
africano fa venire i brividi. Secondo i dati forniti dall'agenzia dell'Onu che
monitora il processo di urbanizzazione, UN-Habitat, entro il 2050 si assisterà
ad un massiccio spostamento di popolazioni dalle campagne alle città. Il numero
di abitanti delle aree metropolitane triplicherà: entro questa data arriverà a
1,3 miliardi. Erano poco più di 500 mila nel 1950. Colpa anche del boom
demografico, che si tradurrà in un miliardo di abitanti in più nei prossimi 40
anni, solo in Africa. La crescita più impressionante, pari all'80 per cento,
stando alle proiezioni, sarà quella di Ougadougou, in Burkina Faso, che in 10
anni potrebbe passare dagli attuali 1,9 milioni di abitanti a 3,4. Più contenuto
a livello percentuale ma ugualmente preoccupante, lo sviluppo di Lagos, Nigeria
- che nel 2025, con i suoi 16 milioni, toglierà a Il Cairo la palma di metropoli
più popolosa (il sorpasso è previsto per il 2015) - Kinshasa, Repubblica
Democratica del Congo (15 milioni) e Luanda, Angola (8 milioni), tutte con tassi
di crescita che oscillano tra il 40 e il 50 per cento, mentre quelli di Niamey
(Niger), Kampala (Uganda), Dar es Salaam (Tanzania) e Mbuji-Mayi (Rdc)
sfioreranno il 60 per cento.
Un oceano di miseria. Ciò che spaventa di più, è la consapevolezza che
aumenteranno le bocche da sfamare mentre con lo spopolamento delle campagne
diminuirà la forza lavoro impegnata nell'agricoltura, con un conseguente calo
della produzione alimentare. Come vivranno i futuri cittadini africani allora?
Il rapporto Onu chiude la porta alla speranza: "Sarà un oceano di miseria con
isole di benessere", si legge nel testo. La paura è che l'urbanizzazione si
tramuti in una crescita senza precedenti degli slum, le baraccopoli che
circondano molte capitali africane. Timori che sono quasi certezze, soprattutto
perché negli ultimi anni, molte società europee e mediorientali hanno comprato
appezzamenti vastissimi nel continente, per la produzione di cibo destinato a
tavole e mercati degli altri continenti o per coltivazioniwater-intensive, che
necessitano di una enorme quantità di acqua. Senza cibo, senza acqua e
strangolata dagli slums. Questa è la cartolina che il rapporto dell'agenzia con
sede a Nairobi sta disegnando per il futuro prossimo. E già il presente è
piuttosto inquietante: anche quest'anno, abbiamo esaurito già ad agosto le
risorse naturali che la terra può fornire e reintegrare nell'arco di 12 mesi.
L'Africa per molti era il continente della speranza, quello che avrebbe rimesso
la natura al centro dello sviluppo. Le proiezioni Onu dicono il contrario, se
questi trend non saranno invertiti. Uno spazio di manovra resta ma si va facendo
sempre più stretto.
Alberto Tundo
3 dicembre
Dimissioni
di EZIO MAURO
In un brutto giorno per l'immagine del nostro
Paese nel mondo, il Presidente del Consiglio ha incassato tre sfiducie, che lo
rendono ormai palesemente inadatto a governare una grande democrazia
occidentale.
In Parlamento Fini, Casini, Rutelli e Lombardo hanno portato tutti i loro uomini
a firmare una formale mozione di sfiducia nei confronti del governo e dunque a
partire da oggi, sommando queste firme con quelle già pronte del Pd e dell'Idv,
il ministero Berlusconi non ha più una maggioranza politica.
Ma dalla valanga di WikiLeaks emerge un altro elemento di drammatica e crescente
fragilità. È la insistita e costante diffidenza dell'amministrazione americana -
espressa nel normale svolgimento del suo lavoro quotidiano riservato e dunque
autentica - nei confronti del Premier italiano a causa del suo rapporto
pericoloso con Putin. Una relazione che la diplomazia americana sospetta basata
su affari inconfessabili e addirittura su tangenti, oltre che su un mimetismo
machista e autoritario: e che viene descritta nei dispacci riservati come
innaturale per un leader occidentale, dunque politicamente allarmante.
Infine, com'era naturale attendersi, questa serie crescente e patente di
anomalie (che Repubblica denuncia da anni, ma che molti scoprono solo oggi, di
rimbalzo dall'America) provoca delusione, disagio e inquietudine all'interno
dello stesso santuario del potere berlusconiano in disfacimento, da dove escono
i racconti ormai rassegnati ed esasperati dell'inner circle del Premier:
dall'ossessione per i festini agli scontri con Napolitano, all'uso politico
pilotato degli scandali altrui, nel tipico disvelamento che accompagna ogni
crepuscolo di regime.
Davanti a queste tre sfiducie il Presidente del Consiglio ha un dovere preciso.
Salga dal Capo dello Stato per assumersi per una volta la responsabilità di
questo indebolimento del Paese e del suo sistema politico e istituzionale, e
annunci subito che si dimetterà un minuto dopo il voto sulla legge di stabilità
economica: evitando così di provocare altri danni all'Italia.
La fuga di cervelli costa cara all'Italia.
"In 20 anni abbiamo perso 4 miliardi"
Ogni ricercatore 'top' vale in media 148 milioni di euro in brevetti. E i
pochi che rimangono in Italia, nonostante le difficoltà, hanno un indice di
produttività inferiore solo a britannici e canadesi
dI
ROSARIA AMATO
ROMA -La
fuga dei ricercatori italiani all'estero ha un costo, un costo molto alto.
Ha provato a calcolarlo l'Icom, Istituto per la Competitività, in
un'indagine commissionata dalla Fondazione Lilly, che promuove la ricerca
medica, e dalla Fondazione Cariplo: negli ultimi 20 anni l'Italia ha perso
quasi 4 miliardi di euro. La cifra corrisponde a quanto ricavato dal
deposito di 155 domande di brevetto, dei quali "l'inventore principale è
nella lista dei top 20 italiani all'estero" e di altri 301 brevetti ai quali
diversi ricercatori italiani emigrati hanno contribuito come membri del team
di ricerca. Questi brevetti in 20 anni sono arrivati a un valore di 3,9
miliardi di euro, "cifra che può essere paragonata all'ultima manovrina
correttiva dei conti pubblici annuncaita dal governo qualche mese fa",
osservano gli autori della ricerca.
Certo, si potrebbe obiettare, questi brevetti sono frutto, oltre che del
genio italico, di équipe ben strutturate, ben finanziate, sostenute da
università o centri di ricerca di valore. Probabilmente se questi preziosi
cervelli, perfino i 'top 20' considerati dalla ricerca, fossero rimasti in
Italia, non avrebbero brevettato un bel niente. E però se invece in Italia
fossero stati adeguatamente sostenuti, il nostro Paese sarebbe stato più
ricco. Secondo l'Icom, che ha presentato la ricerca oggi al Senato, in media
ogni cervello in fuga può valere fino a 148 milioni di euro (nel caso in cui
arrivi ai livelli degli scienziati più produttivi della Top 20 elaborata
dall'associazione Via-Academy, costituita da un gruppo di ricercatori
italiani che vivono e lavorano all'estero). Un calcolo che nello specifico
può essere contestato, ma è indubbio che i tanti brevetti depositati dagli
scienziati italiani all'estero si traducano in danaro.
"Guardando alla
classifica elaborata da Via-Academy1
- spiega il coordinatore della ricerca, Stefano da Empoli - si vede come man
mano che si arriva in cima alla graduatoria, la Top Italian Scientists,
diminuisca il numero dei residenti in Italia e aumenti quello dei residenti
all'estero". Insomma, il cervello quando fugge è più produttivo,
probabilmente perché viene messo nelle condizioni migliori.
"La ricerca non è solo in teoria uno dei motori dello sviluppo di ogni
sistema Paese, ma è anche in pratica un grande investimento", afferma il
presidente del Consiglio Universitario Nazionale Andrea Lenzi. Che non manca
di sottolineare come anche la riforma attualmente in via di approvazione,
fortemente constestata dagli studenti, non migliori assolutamente nulla dal
punto di vista della ricerca: "Il difetto vero è che mancano le risorse per
i ricercatori - spiega - questo non va bene perchè sono la categoria più
debole. Si devono trovare le risorse, non si parla di cifre astronomiche ma
serve un miliardo di euro, che corrisponderebbe a un viadotto
sull'autostrada Bologna-Firenze".
Per arrivare ai quattro miliardi di perdite calcolate, spiegano gli autori
della ricerca, si fa riferimento al database dell'Organizzazione Mondiale
per la proprietà Intellettuale, che associa ad ogni scienziato il numero di
domande internazionali presentate in base all'anno di pubblicazione. Se il
'top scientist' l'autore principale, è italiano, emergono 11 brevetti nel
settore chimico, 5 nell'ITC, e 139 nel settore farmaceutico, che comprende
anche la medicina.
La Fondazione ha poi calcolato il rendimento del brevetto: per esempio, un
famaco anticancerogeno introdotto recentemente nel mercato ha generato un
fatturato annuo di poco meno di due miliardi di euro. Il valore medio di 148
milioni viene calcolato sulla base del rendimento medio di un brevetto (che
è diverso a seconda del settore: maggiore nel settore chimico, segue quello
farmaceutico e infine l'ITC).
Secondo lo studio, il 35% dei 500 migliori ricercatori italiani nei
principali settori di ricerca ha abbandonato il Paese. Ma se si considerano
i primi 100, ad essersene andato è addirittura la metà. Quelli che
rimangono fanno quello che possono, che è comunque molto, sottolinea Lenzi:
"In rapporto alla scarsità di stanziamenti e al fatto che in Italia il
numero dei ricercatori sia più basso rispetto agli altri principali Paesi
del G7 (da noi sono complessivamente 70.000, in Francia 155.000, in Regno
Unito 147.000, in Germania 240.000, negli USA 1.150.00, in Canada 90.000 e
in Giappone 640.00), i nostri ricercatori possiedono un indice di
produttività individuale eccellente con il 2,28 % di pubblicazioni
scientifiche. La ricerca scientifica italiana risulta così essere superiore
alla media dei principali Paesi europei, nonostante il più basso numero di
ricercatori: l'Italia infatti si posiziona al terzo posto (2,28%), dopo
l'Inghilterra (3,27%) ed il Canada (2,44%). Dopo di noi ci sono, in ordine,
gli Stati Uniti (2,06%), la Francia (1,67%) la Germania (1,62%) e il
Giappone (0,41%)".
Insomma, si fa di necessità virtù. Ma si perde anche tanto: alla
presentazione della ricerca oggi a Roma c'era anche Napoleone Ferrara,
catanese, via dall'Italia dal 1988. Ferrara ha recentemente ottenuto il
prestigioso premio internazionale Lasker Award per i suoi studi, che si sono
svolti negli Stati Uniti, su un farmaco che blocca la perdita della vista
nei pazienti "con degenerazione maculare senile umida, patologia che in
passato conduceva alla cecità totale". Concetto Vasta, della Fondazione
Lilly, lo ha presentato come "il secondo miglior ricercatore italiano in
termini di pubblicazioni e di impatto scientifico", e ha osservato: "Se
Ferrara fosse rimasto in Italia, con il frutto delle sue ricerche e dei suoi
brevetti avrebbe potuto ricostruire da zero la sua università".
Ma forse, se fosse rimasto in Italia, i suoi brevetti non avrebbero mai
visto la luce. "Negli Usa - ha ammesso Ferrara - c'è un investimento enorme
nella ricerca, miliardi di dollari, e da anni il governo americano investe
molto nella lotta al cancro o alle altre principali malattie. C'è
un'organizzazione che permette e facilita la ricerca, penso che il resto del
mondo dovrebbe prendere esempio da questo modello".
Proprio per promuovere la ricerca, la Fondazione Lilly oggi ha assegnato una
borsa di studio di 360.000 euro a una giovane ricercatrice italiana,
l'oncologa Tiziana Vavalà: la somma servirà a finanziare le ricerche della
studiosa per i prossimi quattro anni.
Gli
artigli della finanza sul clima
Elena Gerebizza,
specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della
Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha
funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.
"Tenteremo
di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard,
commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun
le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010
per il "fast start" gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i
singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della
finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto
smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di
essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter
ha intervistato Elena Gerebizza,
specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della
Banca Mondiale.
A quanto pare la prima notizia uscita dalla
giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà
applicarsi anche alla lotta contro il global warming.
Per
quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che
non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno
scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione
accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che
quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli
impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari
alla loro salvaguardia.
Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto
che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast
start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca
l'impegno economico degli Stati?
Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni
discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le
altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i
soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun
del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca
la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro
mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro
all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate
all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile
trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.
Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza
la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima.
È una strada percorribile?
Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e
istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito
irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di
carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e
come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari
direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se
guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in
quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui
questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa
Banca Mondiale ha ammesso che il Clean
Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del
protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle
aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in
questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a bassa
emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a
fare questi investimenti.
Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?
Si
sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie
frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle
emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e
favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile
e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora
non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori
delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende
dalla prospettiva di chi stiamo parlando. Se cerchiamo una soluzione
sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei
cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla
prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto,
allora il mercato si presenta più interessante.
Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare
seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato
il meccanismo dei crediti di carbonio?
Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla
seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia
anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo
globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica
della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di
Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la
parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una
seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i
meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto
sia rispetto ai finanziamenti che rispetto alla riduzione di emissioni.
Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio,
come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le
comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati
per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono
realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di
emissioni che poi vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui
mercati finanziari a puri fini speculativi.
Antonio Marafiot
Rio sotto
assedio
Trenta morti, fra cui una
ragazzini di 14 anni e una donna di 62. Il tutto in uno scontro fra le forze
dell'ordine e le bande criminali legate al narcotraffico
I
militari e i poliziotti
rimarranno dispiegati nelle favelas di Vila Cruzeiro e del Complejo del Alemán,
Río de Janeiro, fino a che non si saranno installati definitivamente le Unità di polizia pacificatrice,
le quali assumeranno il controllo della sicurezza in queste zone piegate
dalla violenza del narcotraffico. E' questo il succo dell'accordo preso dal
governatore carioca, Sergio Cabral,
con il governo federale affinché i militari, giunti in massa la settimana
scorsa per coadiuvare la polizia in piena guerra contro la criminalità,
mantengano il loro ruolo di
vigilanti per almeno altri sei, sette mesi.
Erano ottocento i militari
delle Forze armate intevenuti,
appunto, per appoggiare il governo di
Rio de Janeiro nelle operazioni per debellare nacrotraffico e criminalità nella
capitale dello stato. Il tutto grazie alla benedizione
del presidente uscente Luiz Inacio Lula da Silva. Una vera e propria militarizzazione, con la
concentrazione dei soldati lungo i perimetri delle aree occupate dalla
polizia, che da giorni sta invadendo le favelas più turbolente quale Vila Cruzeiro e
inscenando scontri a fuoco che hanno già fatto almeno
trentotto morti.
Rinforzi assicurati, dunque, con tanto di armamenti pesanti: due
elicotteri e dieci carri armati, oltre ai sei in assetto da guerra che già
stanno usando da giorni grazie all'intervento dei soldati della Marina
brasiliana. Non solo: per evitare di dover interrompere i blitz nelle ore
notturne, gli uomini delle forze dell'ordine sono stati equipaggiati con occhiali a infrarossi capaci di guidarli
nel buio più totale.
Intanto, la polizia è certa di aver
ripreso il controllo di Vila Cruzeiro, dopo giorni di
guerra con bande e narcotrafficanti, ma in particolare culla della più
temuta associazione criminale di Rio. La corrispondente della Bbc nella
capitale carioca ha confermato che negli ultimi scontri sono morte almeno
trenta persone e cinquanta veicoli
sono stati dati alle fiamme. Fonti governative
assicurano che la maggioranza delle
vittime sono trafficanti, ma ha anche ammesso che
a perdere la vita sono stati anche
cittadini innocenti: una ragazzina di 14 anni e una donna di 62.
e a quanto pare la violenza è ancora ben lungi da finire. Testimoni parlano
di circa duecento uomini armati arrivati dalle zone vicine per dar man forte
in questa battaglia contro lo Stato. L'ultima volta che Rio ha vissuto
questa lotta
senza esclusione di colpi risale a due anni fa.
Le
strade sono invase da circa 17.500
poliziotti che resteranno lì in base alla nuova normativa sulla sicurezza stabilita in
vista dei Mondiali di calcio del
2014 e delle olimpiadi del 2016. Un provvedimento che
evidentemente è andato di traverso ai narcos, che stanno perdendo forze e
territorio. Di qui la battaglia iniziata domenica 21 e la reazione
esasperata dello Stato centrale. Che resisterà in nome della
programma di pacificazione.
"I trafficanti, spesso minorenni, sono mandati dai capi banda in giro per la
città a bruciare auto e autobus - ha commentato Alessandro Vigilante da Rio
- A rimetterci sono sempre e solo i più deboli". I pezzi grossi si tengono ben lontani dalla prima
linea e alla luce di questo è molto, molto difficile
scovarli e arrestarli. Occorrerà capire, dunque, cosa significa in termini
pratici quanto dichiarato dalla polizia speciale, ossia "che non toglierà il
pattugliamento permanente fino a quando non risolverà la situazione".