23 dicembre

 

 

Dissesto idrogeologico, 45 prof contro il ddl Lupi: “Spinge a cementificazione”

di Duccio Tronci

Gruppo di urbanisti contro il testo del ministro: "Non affronta i problemi reali del governo del territorio testimoniato dai disastri degli ultimi mesi. Così l'Italia rischia di andare allo scatafascio"·

Per loro, se il provvedimento sarà approvato, l’Italia rischia di andare “definitivamente allo scatafascio”. Perché dopo i disastri provocati dalle alluvioni degli ultimi mesi gli occhi sono puntati su una cementificazione a cui, nella sostanza, verrebbe così spianata definitivamente la strada. Prende forza dall’università di Firenze la critica degli urbanisti al disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio, che ha l’ambizione di modificare le norme risalenti al 1942. Un gruppo di 45 docenti, tra cui Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Alberto Asor Rosa e Roberto Camagni, ha sottoscritto un documento di dura critica.

Gli esperti del dipartimento di architettura dell’Università lo hanno definito “inemendabile”, decidendo di non partecipare neanche alla consultazione online lanciata dal ministro delle infrastrutture: “Malgrado le numerose prese di posizione critiche da parte di istituzioni come Italia Nostra, Legambiente, Fai, ecc, la discussione è stata scarsa – spiegano – solo cancellandolo si può ripartire da una proposta seria”. Di recente era stato anche il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi a esprimere più di una perplessità: “Non mi convince perché continua a consentire edificazioni su lottizzazioni che devono essere tutelate, su aree che devono essere invece conservate. Quindi, dal mio punto di vista chiedo che venga modificato”. Il nodo è che il ddl “conferisce al privato la possibilità di presentare la lottizzazione al Comune e di co-pianificare con l’ente pubblico. Sarebbe una disgrazia”.

E sulle stesse linee si muove la critica degli urbanisti che nel loro documento smontano pezzo per pezzo il provvedimento inserito nel pacchetto di riforme del governo Renzi, presentato a luglio e di cui si attende la calendarizzazione nelle commissioni parlamentari. “Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso opposto”, spiega il professor Marco Massa, docente di urbanistica, che a dicembre ha organizzato due seminari per presentare nel dettaglio le critiche sui temi del rapporto fra pubblico e privato e dell’emergenza ambientale.

“Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso opposto”
Per i professori dunque, accanto al ddl Lupi, questi stanziamenti sono l’ennesima toppa destinata a scollarsi presto, perché “il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali”. Nel dettaglio, secondo i promotori delle due iniziative, il ddl Lupi “propone la cancellazione, di fatto, della potestà pubblica in materia di pianificazione del territorio, istituzionalizzando la contrattazione con i proprietari fondiari di ogni scelta in materia”. Un rapporto pubblico/privato che andrebbe così a sbilanciarsi ancora di più verso i privati, come in nessun altro paese europeo accade. In secondo piano finirebbe la funzione sociale e il governo del territorio sarebbe costituito dalla “sommatoria delle proposte immobiliari private”, favorendo di fatto l’imprenditoria edilizia.

Secondo i firmatari del documento, inoltre, il ddl Lupi “azzera il ruolo dei Comuni” e “non si preoccupa di coordinarsi con le altre leggi vigenti”, col risultato “di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire”. La semplificazione di cui c’è tanto bisogno per sburocratizzare l’Italia, insomma, è tutta un’altra cosa. “Il ministro Lupi ha aperto sul testo una consultazione pubblica online prorogata dal 15 agosto al 15 settembre – sottolinea la professoressa Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, che ha partecipato al primo dei due seminari organizzati a Firenze – Sul sito del ministero dicono che siano arrivate oltre cento osservazioni, peccato che queste non siano visibili. Scelte politiche che andavano sostanzialmente nella stessa direzione Lupi le aveva promosse da assessore al Comune di Milano, mentre nel 2005, da deputato del centrodestra, avanzò una proposta di legge simile, che naufragò solo per lo strappo di Fini da Berlusconi”. Su sito Eddyburg una petizione per fermare il disegno di legge Lupi ha già raccolto oltre 500 adesioni, e quello di circa 60 gruppi e associazioni. Il logo, neanche a farlo apposta, è un lupo cattivo.

 

11 dicembre

 

L'Italia nella trappola dell'usura

La crisi economica ha trascinato impiegati e pensionati nella rete degli strozzini. È la prima volta e i numeri del fenomeno sono impressionanti. Nella sola Emilia Romagna (una delle regioni più colpite) le denunce nell'ultimo anno sono aumentate del 200%. Ribellarsi però non è facile e chi sceglie di farlo rischia di trovare la strada sbarrata dalle norme bancarie

di LUCA MONACO con un commento di FRANCA SELVATICI, video di ALICE GUSSONI, con un disegno di MOJMIR JEZEK

Indebitarsi per battere la crisi
di LUCA MONACO
ROMA - Il ceto medio è sotto usura. Impiegati, liberi professionisti, ma anche pensionati: la crisi morde e a rivolgersi agli strozzini non sono più solo gli imprenditori o i giocatori d'azzardo. Negli ultimi cinque anni il 52 per cento dei soggetti che si sono rivolti agli ambulatori della Federazione delle associazioni antiracket e antiusura (Fai) dislocati sul territorio nazionale sono persone con un reddito fisso, le famiglie della porta accanto. Un fenomeno in crescita specie al Nord, terra di conquista delle mafie. "Quando è arrivata la crisi - spiega il coordinatore della Fai, Luigi Ciatti - il sistema di assistenza non si è fatto trovare pronto. E ancora oggi su 33 associazioni iscritte negli elenchi del ministero dell'Economia e deputate a gestire i fondi di prevenzione, solo sei agiscono dalla Toscana in su".

I dati più recenti del Viminale, relativi al 2013, sono eloquenti. In Emilia Romagna i reati di usura sono aumentati del 219 per cento (schizzando dai 21 del 2011 ai 67 nel 2013, con 31 denunce e 43 vittime accertate). Stesso discorso per la Lombardia, dove imperversa la criminalità organizzata e il numero delle denunce è cresciuto del 54 per cento (da 48 nel 2011 a 74 nel 2013 ). Allarme rosso anche nel Lazio: lì gli arresti nell'ultimo anno sono incrementati di oltre il 20 per cento rispetto al biennio precedente. A livello generale, in Italia il fenomeno si è espanso e i reati riscontrati dalle forze dell'ordine sono cresciuti del 30 per cento (da 352 del 2011 ai 450 del 2013). Numeri che fotografano purtroppo solo la punta dell'iceberg, visto che, come è comprensibile, solo una minoranza tra le vittime trova il coraggio di denunciare i propri carnefici. Inoltre sono sempre di più le donne che rischiano di soffocare nelle spire degli strozzini. Nel Lazio il numero è addirittura superiore a quello degli uomini: 617 contro 598 nel 2013.

Le cause dell'ingigantirsi del fenomeno sono molteplici. "La più preoccupante  -  rileva il presidente della Fai Tano Grasso  -  è legata all'indebitamento tramite finanziarie. Si rivolgono ai nostri sportelli centinaia di impiegati in giacca e cravatta e con buoni stipendi, costretti a vivere con 200 euro al mese. Il meccanismo è il seguente: molti stipulano due o più contratti di finanziamento per cifre esigue ma con tassi di interesse anche oltre il 10 per cento. Ogni società al momento della firma non controlla se il soggetto abbia già altri finanziamenti in essere, perché in caso di insolvenza potrà avvalersi sul Tfr". Così sono arrivati gli usurai nel pubblico impiego. "Nell'ultimo anno  -  chiarisce Grasso  -  sto seguendo due procedimenti contro altrettanti caposala degli ospedali di Napoli  che subodorando il business si sono improvvisati strozzini. "Prestano" i soldi ai colleghi in difficoltà economica a causa delle finanziarie. Applicano tassi di interesse almeno del 10 per cento mensile, in un anno esigono il doppio del prestito iniziale. In un caso è stato documentato lo scambio di denaro nel reparto di pediatria, vi rende conto?". Il numero dei sovraindebitati è cresciuto in maniera talmente massiccia da creare un nuovo prototipo di malvivente: l'impiegato-usuraio.  

Dal fenomeno non sono immuni neppure le imprese, storicamente i soggetti più esposti. Confcommercio fa sapere che, nel settore, dal 2008 al 2013 l'usura è cresciuta del 30 per cento e le estorsioni del 22 per cento. L'8 per cento delle imprese è minacciata da gruppi criminali e il 35 per cento  di queste ha subito danni alle attività. Mario (il nome è di fantasia) rientra invece in quel 7 per cento di imprenditori che ha subito violenze fisiche oltre a quelle psicologiche. "Un pomeriggio  -  racconta l'uomo -  un pugile professionista legato al clan dei Casalesi è entrato nella mia videoteca alla borgata Finocchio di Roma (periferia est di Roma) e mi ha pestato a sangue. L'attività andava male, avevo contratto 100mila euro di debiti con le banche.  Per rientrare dello scoperto ho chiesto soldi a cinque usurai diversi. Nel 2010 però ho deciso di denunciare tutto alla Guardia di Finanza". Dopo mesi di indagini i militari hanno arrestato gli esponenti della 'ndrangheta calabrese e della camorra che pretendevano dal commerciante 400mila euro di interessi. Vista la pericolosità dei soggetti Mario è stato il primo usurato romano a dover lasciare la città dopo la denuncia. 

"Questa forma di usura è un caso particolare  -  spiega un investigatore impegnato da anni nella repressione del fenomeno  -   la fenomenologia più comune è legata allo sconto degli assegni per terze persone. Mi spiego: ho bisogno di liquidità immediata ma ho in mano un assegno post-datato che mi ha dato un'altra persona. Vado dall'usuraio e me lo faccio cambiare, ma se l'assegno continua a non essere esigibile anche dopo la data indicata, allora scattano gli interessi. Nelle fasi iniziali il rapporto tra vittima e carnefice è cordiale, quasi amichevole. Ma se non si riesce a estinguere il debito, allora intervengono terze persone deputate alla riscossione (spesso appartenenti a famiglie criminali come nel caso dei Casamonica, a Roma)". Il numero delle denunce è così basso "perché capita spesso che le vittime siano persone che agiscono in regime di sommerso e questo gli crea delle remore nel rivolgersi a noi. Altre volte capita che i gruppi criminali si impossessino invece delle attività e che il legittimo proprietario rimanga un mero intestatario e nulla più". 

I pochi che hanno la forza di denunciare trovano la strada sbarrata dalle norme bancarie. "È il dramma di chi è segnalato come cattivo pagatore , un fenomeno che negli ultimi cinque anni è cresciuto del 100 per cento  -  continua Ciatti  -  È bene che si sappia: gli individui inseriti da tempo nelle black list e che poi si sono rivolti agli usurai, si vedono negata la possibilità di aprire un conto corrente utile per riprendere a lavorare (senza carte né altre forme di credito)  anche se hanno denunciato e fatto arrestare gli strozzini. Ciò complica molto i processi di riabilitazione". Un'accusa che il sistema bancario respinge, sottolineando che "si tratta di un tema delicato. Ogni caso va approfondito singolarmente e da ogni punto di vista". Intanto l'emergenza continua.

Dalle botte alla denuncia, la rinascita di Mario
di LUCA MONACO
ROMA - "Ascoltami bene perché non te lo ripeto: o ci dai tutti i soldi entro due giorni o ti diamo fuoco". La settimana successiva dalle minacce sono passati ai fatti. Il sole era già calato sulla periferia Est di Roma quando un pugile professionista legato al clan dei Casalesi è entrato dentro la videoteca della borgata Finocchio - un pugno di case lontano 18 chilometri dal Grande Raccordo Anulare - e ha picchiato a sangue il proprietario. Le telecamere piazzate dagli inquirenti però hanno ripreso tutto. Le immagini del pestaggio e degli scambi di denaro sono state le prove che hanno consentito agli investigatori di inchiodare gli usurai.

Dopo i cinque arresti messi a segno dai reparti speciali della Guardia di Finanza, Mario, il titolare della videoteca, 45 anni, una moglie e tre figli, ha dovuto cambiare città per ragioni di sicurezza. Piange nella sua nuova casa al centro di un paesino della bassa padana. Lui è una delle 278 vittime in tutta Italia che all'epoca hanno avuto il coraggio di denunciare. Lontano dal suo quartiere, ripercorre i cinque anni di inferno trascorsi con il pensiero fisso di riuscire a trovare soldi per coprire gli interessi pretesi dagli strozzini. "Nel corso del tempo ero finito in un vortice - racconta - Per ripianare i debiti mi sono rivolto a cinque usurai diversi. Dai criminali di quartiere che mi conoscevano fino ai boss, uno legato alla 'ndrangheta, l'altro alla camorra. Con loro non si scherza. Arrivati a un certo punto non hai scelta: denunciare o morire".

I soldi nella vita di Mario erano diventati un'ossessione. "Pensavo solo a quelli - assicura - il denaro significava la sopravvivenza". Un dramma vissuto in solitudine e carico di cattivi pensieri. "Per molto tempo - sospira - non ho detto nulla a nessuno, illudendomi di tutelare la mia famiglia. Non lo nascondo, ci sono stati momenti nei quali avevo deciso di togliermi la vita, c'è mancato pochissimo". Poi, il 7 ottobre 2010, la rinascita. "Quella mattina mi sono alzato all'alba - ricorda - sono entrato in caserma e ho raccontato tutto". Dopo 40 giorni di intercettazioni, filmati, appostamenti, i militari sono riusciti ad arrestare i criminali.

"Il primo usuraio l'avevo incontrato nel 2005, quando è scoppiata la crisi - ricostruisce Mario - Gli incassi del negozio diminuivano costantemente e io per andare avanti avevo contratto debiti con le banche per 100mila euro. I direttori mi stavano col fiato sul collo: dovevo rientrare dello scoperto a tutti i costi. Cosi ho chiesto i primi 10mila euro a un tizio del quartiere. Frequentava il mio negozio, ci conoscevamo da tempo e mi è venuto incontro. Solo dopo ho scoperto che applicava il 20% di interesse mensile e alla fine mi ha tolto 60mila euro. Nel frattempo - continua - per tappare i buchi mi sono rivolto a un secondo usuraio, poi a un terzo. Finché non sono diventati cinque. In totale ho accumulato 400mila euro di debiti con queste persone, compresi gli interessi. Ero braccato, mi venivano a cercare al negozio, sotto casa. Non minacciavano solo me, ma anche la mia famiglia".

Mario ha paura ancora oggi. "Certo, cosa crede - esclama - ma con la paura ci si convive. A dicembre si celebra il primo grado di giudizio, alcuni di loro sono già agli arresti domiciliari. Possono farmi trovare in qualsiasi momento". Tuttavia Mario, nonostante le difficoltà, ha ricominciato a lavorare. E dopo aver rischiato il divorzio, ora può contare sull'appoggio di tutta la famiglia. Il suo invito, per quanto scontato possa sembrare, "è quello di denunciare quanto prima. Altrimenti questa gente vi distrugge la vita".

L'andamento del fenomeno usura negli ultimi tre anni
ANNO 2011
Reati commessi Denunciati Arrestati Vittime di reato
352 650 577 278
ANNO 2012
Reati commessi Denunciati Arrestati Vittime di reato
405 703 500 332
ANNO 2013
Reati commessi Denunciati Arrestati Vittime di reato
450 639 533 316
Dati di fonte SDI/SSD, consolidati per gli anni 2011-2012, non consolidati per il 2013

"Diventiamo vittime per il tenore di vita"
di LUCA MONACO
ROMA - "La convinzione di non essere autoefficaci nella gestione del denaro unitamente all'esigenza di status e al timore di essere stigmatizzati, inducono l'individuo a sovraindebitarsi fino a perdere il controllo". Maria Gabriella Manno, psicoterapeuta al centro studi Psicosomatica di Roma, traccia così il profilo dei pazienti finiti nella stretta dell'usura.

Ci può fare un profilo di chi diventa "soggetto sovraindebitato"?
"Da un punto di vista sociologico, le vittime degli strozzini non sono solo gli imprenditori o gli individui affetti da compulsioni come i giocatori d'azzardo, ma con sempre maggiore frequenza capita di prendere in cura persone con il reddito fisso che hanno immaginato di poter vivere una vita al di sopra delle proprie possibilità. Sono guidati da un bisogno di affermazione disfunzionale e provano ad accedere a ogni costo a dei simboli materiali. Il ragionamento interiore è: 'Io conto perché faccio queste cose', dalla cena fuori alla vacanza. In questi soggetti c'è uno spostamento cognitivo dal potere sociale e personale al potere attraverso le cose: materiale. Ecco a cosa è dovuto il sovraindebitamento".

Da cosa è dettato psicologicamente il passaggio all'usura?
"Dalla bassa autoefficacia percepita e dall'incapacità a trovare risorse personali e sociali. Quando il soggetto è chiamato dagli eventi ad attingere alla propria capacità di gestire la vita, non si sente in grado. Così è sufficiente che vada in rosso sul conto in banca affinché rinforzi per autodifesa la convizione di non saper controllare la gestione il denaro, chiedendo un altro prestito. È come se una voce interiore illusoria dicesse: 'Visto? Adesso i soldi ce l'ho e posso stare meglio'". 

Perché si ha tanta difficoltà a chiedere aiuto?
"Si prova un marcato senso di vergogna per essere un indebitato e un usurato. Spesso per lo stesso sentimento si ha difficoltà a rendere partecipi del problema i familiari, anche quelli più stretti. Ci si sente umiliati dal fatto che gli altri conoscano i nostri problemi economici e si fa di tutto per nasconderli. Non si vuole che si sappia che mancano i soldi per la gestione quotidiana o ancora peggio che si hanno montagne di debiti con dei criminali. Tecnicamente tutto questo è definito stigma sociale".

Come se ne esce?
"Attraverso la ricerca di risorse interiori, familiari e sociali. Perché quando le persone non si sentono giudicate e trovano un terreno di accettazione e accoglienza possono farsi forza e trovare il coraggio di denunciare. Si può chiedere aiuto agli specialisti e attivare una rete adiuvante e di supporto, psicologico e legale".

 

“Poste offre risparmi e investimenti vantaggiosi per sé. Ma non per i clienti”

Un'ispezione Consob rivela le pratiche interne: prodotti finanziari venduti in base alle esigenze dell'azienda e non degli utenti

di Stefano Feltri

La parte dedicata a “Risparmio e investimenti” del sito delle Poste Italiane ci accoglie con questo rassicurante messaggio: “Per i tuoi risparmi o i tuoi investimenti BancoPosta ti mette a disposizione un’offerta completa di soluzioni sicure e vantaggiose”. Ma sicure e vantaggiose per chi? Secondo la Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa e la gestione del risparmio, la priorità è che le soluzioni siano “sicure e vantaggiose” per le Poste, non certo per i clienti. Dopo mesi di ispezione e un’analisi minuziosa, anche delle email interne, è questo il giudizio a cui arriva la Consob in un rapporto della Divisione intermediari firmato dal presidente Giuseppe Vegas, è il “Procedimento 20638/14” (di cui ha dato conto anche Andrea Greco su Repubblica qualche giorno fa).

Sono tutte analisi relative alla gestione del gruppo durante l’era di Massimo Sarmi, ora il nuovo amministratore delegato Francesco Caio sta riorganizzando il gruppo e a settembre ha dovuto convocare un consiglio di amministrazione con all’ordine del giorno i rilievi presentati da Vegas. Ma il giudizio nel dossier dell’autorità di vigilanza non è rassicurante per chi alle Poste ha affidato i risparmi di una vita: “Le verifiche condotte hanno evidenziato che la società si avvale, nello svolgimento dei servizi di investimento, di meccanismi di pianificazione commerciale e di incentivazione del personale fondati sul perseguimento di specifici interessi ‘di business’ (prevalentemente declinati in termini di redditività) che, affiancati da rilevanti pressioni gerarchiche a tutti i livelli della struttura organizzativa, hanno determinato, a valle del processo distributivo significative distorsioni nella relazione con la clientela”. Tradotto: quando l’impiegato alle Poste propone un prodotto, non pensa a cosa è nell’interesse del cliente, ma alle pressioni che gli sta facendo il suo capo per raggiungere gli obiettivi di vendita. Secondo la Consob, “il sistematico ricorso a forme di pianificazione commerciale ‘per prodotto’ costituiscono le componenti di un impianto focalizzato verso la realizzazione di obiettivi aziendali senza tenere adeguatamente conto delle esigenze della clientela”. Un portavoce dell’azienda spiega a Il Fatto Quotidiano che, dopo il cda convocato a settembre su indicazione della Consob c’è già stata anche una riunione con gli uomini dell’autorità per discutere il da farsi, un’altra è prevista entro fine anno, in modo da correggere in tempi rapidi i comportamenti contestati.

Più sportelli finanziari che portalettere
La struttura dei ricavi del gruppo Poste Italiane è questa: 21,6 miliardi di euro di cui solo 5,1 dai servizi postali e commerciali (lettere e pacchi), il grosso arriva dai servizi finanziari, 5 miliardi, e dalle polizze 11,2 miliardi. C’è quindi una certa pressione per ottenere risultati nella gestione del risparmio, visto che ormai le Poste sono soprattutto una ramificata rete di punti vendita di prodotti finanziari che, a margine, si occupa di corrispondenza. In base a una direttiva europea del 2007, la cosiddetta “Mifid”, la Consob deve accertarsi che ci sia un rapporto corretto tra chi vende prodotti finanziari e le competenze e la propensione al rischio della clientela. Nel 2010 ha riscontrato irregolarità in cinque banche, Intesa, Unicredit, Mps, Popolare di Verona, Bnl e ha convocato d’ufficio i cda per porre rimedio. Nel 2011 ha multato la Popolare di Milano per aver spinto ai propri clienti un prestito convertendo mentendo sui reali rischi dell’operazione. Anche le Poste rischiano ora una multa. E non sarà una buona pubblicità se la sanzione dovesse arrivare nei mesi in cui Caio proverà, con grande ritardo sui tempi immaginati dal governo, a portare le Poste in Borsa per aiutare l’azionista unico, cioè il ministero del Tesoro, a fare cassa.
Vediamo, grazie al documento Consob , i punti critici dei rapporti tra Poste e risparmiatori. Soltanto 330 mila clienti su 900 mila hanno un profilo di rischio Mifid (gli altri hanno rapporti avviati prima dell’entrata in vigore della norma, replica l’azienda). Ma il 74,5 per cento dei clienti del BancoPosta si classifica sui tre livelli più elevati di “esperienza e conoscenza”, soltanto il 5 per cento ha conoscenze minime. Altro che pensionati e piccoli risparmiatori spaventati dalle banche, le Poste, stando alle loro classificazioni interne, sono frequentate da scafati professionisti degli investimenti. La Consob ha scoperto che perfino il 91 per cento della clientela con la licenzia media rientra tra quelli a cui si possono vendere i prodotti più sofisticati. E l’80 per cento dei clienti sopra i 70 anni che hanno comprato una polizza index-linked (una forma di investimento che garantisce il capitale e ha un rendimento legato all’andamento di un indice) hanno un orizzonte di investimento superiore ai 7 anni. Tutti molto ottimisti sulle proprie prospettive di vita o hanno comprato qualcosa che non è stato spiegato loro bene? Per l’azienda quello che conta è vendere: “A fronte di una specifica richiesta del team ispettivo, la società non è stata in grado di estrapolare i dati” relativi alla situazione finanziaria effettiva del cliente. E non considera l’età anagrafica per garantire un periodo di investimento adeguato. Se un ottantenne con la pensione minima vuole investire in un prodotto con scadenza 20 anni, nessuno alle Poste farà obiezioni. E come si stabilisce quanto è rischioso un investimento? Per misurare la rischiosità delle polizze vita emesse da Poste Italiane viene considerato il rating fornito dalle agenzie specializzate in titoli di Stato, quando invece allo sportello si offrono prodotti emessi da altri soggetti, si usano i Credit Default Swap, una specie di prezzo per assicurarsi contro la bancarotte del debitore. Una diversità di misura che, scrive Consob, “può generare effetti distorsivi”: obbligazioni emesse da Enel e Atlantia, che hanno un rating (quindi un’affidabilità creditizia) superiore a quello dello Stato italiano, risultavano riservate soltanto alla clientela più sofisticata . Le polizze index linked delle Poste, molto meno placide, sono invece compatibili con tutte le fasce di clientela.

Cosa non si fa per avere qualche commissione in più
I risultati arrivano: nel 2013 le commissioni da “servizi di gestione, intermediazione e consulenza” sono state 2,1 miliardi. Ma con quali sistemi? La Consob cita un caso estremo: la vendita di polizze e l’apertura di libretti postali a studenti stranieri che andavano a chiedere il permesso di soggiorno. E la pratica, “anziché sollevare dubbi in merito ai possibili rischi di misselling (cioè di vendita inappropriata, ndr) che esso incorporava, è stato ripreso in termini positivi e selezionato come esempio virtuoso di vendita nel corso di un meeting aziendale”.

Un sistema più sofisticato è questo: nel 2013 le Poste convincono molti clienti ad aderire al riacquisto di obbligazioni emesse da Barclays e Crédit Suisse e poi ne approfittano per consigliare subito di impiegare la liquidità tornata sul conto per comprare prodotti remunerativi per il gruppo. La Consob nota la tendenza delle Poste a proporre alla clientela disinvestimenti anticipati nei periodi in cui ci sono emissioni di prodotti delle Poste stesse, “senza che tali proposte fossero precedute da analisi sulle reali esigenze della clientela”. Perché lo scopo era uno solo: incassare più commissioni possibile. Nel dossier Consob ci sono email come questa, da Pasquale Marchese, capo della Funzione Mercato Privati ai responsabili delle aree territoriali l’11 settembre 2012: “Forse non mi sono spiegato: vanno fatti i nn che abbiamo assegnato singolarmente a ognuno di voi come obiettivo trimestrale!” e il giorno successivo: “Forse non ci siamo capiti, dovete alzare la rn! Avete le liste, usatele!”. C’è infatti in azienda un sistema di incentivazione del personale di rete imperniato su “obiettivi quantitativi di breve periodo (trimestre) che non considera, se non in via del tutto residuale, fattori di carattere qualitativo che premino condotte conformi alla disciplina di settore”. Con Caio cambierà tutto? Chissà: l’amministratore delegato sta lavorando a una riorganizzazione dell’azienda, con la società di consulenza Boston Consulting Group, ed è quasi pronto un piano industriale che punterà molto sulla finanza ma anche sul contendere ai corrieri il crescente mercato dalla distribuzione degli acquisti via web. Ma per ora Marchese, il dirigente della mail citata sopra, è stato confermato al suo posto.

Il rapporto con la Cassa depositi e prestiti
Qualcosa però sta già cambiando, anche se non è detto che sia una notizia positiva per i risparmiatori che si affidano alle Poste: grazie a un emendamento (approvato) alla legge di Stabilità, le Poste potranno investire fino al 50 per cento della raccolta delle attività di BancoPosta in titoli emessi dalla Cassa depositi e prestiti. Il tetto prima della modifica era il 5 per cento. La Cdp, il fondo sovrano all’italiana che presta soldi ai Comuni ma ormai agisce anche come strumento di politica industriale comprando partecipazioni azionarie o intere aziende, ha già raccolto 242 miliardi vendendo i propri prodotti di investimento tramite le Poste: libretti postali e buoni fruttiferi. Sono investimenti sulla carta tranquilli, più di quelli in titoli di Stato perché pagabili a vista: il cliente può andare in ogni momento a farsi dare indietro i soldi con gli interessi mentre, se ha comprato un Btp a 10 anni, deve aspettare la scadenza. Adesso anche tramite BancoPosta le Poste potranno sostenere l’attività della Cdp, che così può assicurarsi un volume finanziario di intervento ancora maggiore. E quando comincerà a emettere obbligazioni (è già partita la campagna stampa per preparare il terreno) avrà un acquirente già pronto e pieno di liquidità. La prima regola nella gestione del risparmio è non mettere mai tutte le uova nello stesso cesto, perché si possono rompere. Meglio diversificare. Le Poste invece si legano sempre di più alla Cdp. Difficile fare diversamente, almeno finché non si chiude la discussione sull’allungamento da 3 a 5 anni della concessione alle Poste della distribuzione dei libretti e dei buoni Cdp: senza quel contratto, che nei primi sei mesi del 2014 ha portato a Caio 766 milioni di euro commissioni, quotare le Poste in Borsa diventerebbe quasi impossibile.

da Il Fatto Quotidiano del 3 dicembre 2014

 

1 dicembre

 

Fallimento Capitale - Bruciati 4 miliardi in 5 anni, Roma affonda in un default pagato da tutta Italia - La ragioneria dello Stato: “Città in default dal 2008, da allora nulla è cambiato” - “La colpa non è solo della destra ma anche della giunta Marino”

J’accuse della Ragioneria generale: “Lo Stato si è accollato i suoi debiti ma la città ha fallito il risanamento senza far cessare neanche comportamenti palesemente illegittimi - La giunta Marino chiede aiuto allo Stato ma ha fatto ben poco per attivare entrate proprie” (e la spesa corrente aumenta di un miliardo)

L’Operazione di salvataggio per ora ha fallito nel suo obiettivo più importante: voltare pagina. Quattro miliardi di aiuti in cinque anni da parte di tutti gli italiani non sono bastati alla città di Roma per iniziare a bruciare meno denaro pubblico e a offrire servizi più efficienti. I fondi dello Stato sono stati incassati, hanno tamponato le emergenze in serie della capitale, ma non hanno mai indotto un cambiamento nella gestione finanziaria di un’amministrazione cittadina che già nel 2008 era al default.

GLI ISPETTORI

Anche se molti dei problemi più seri sono concentrati negli anni del centrodestra di Gianni Alemanno, la Ragioneria generale dello Stato non fa sconti a nessuna delle giunte di questi ultimi dieci anni. Al Campidoglio non c’era più Alemanno ma Ignazio Marino il 4 ottobre del 2013, quando due ispettori della Ragioneria hanno avviato una «verifica amministrativocontabile» consegnata poi mesi fa.

La loro relazione, oltre trecento pagine, era destinata ad atterrare su un numero ristretto di scrivanie al ministero dell’Economia e nella giunta. Ma le conclusioni hanno un evidente interesse pubblico, per la dimensione crescente dei trasferimenti incondizionati da tutte le regioni d’Italia verso la giunta della capitale.

La relazione mostra nel dettaglio i conti di questi anni. Per liberare l’amministrazione di Roma dall’assillo dei suoi debiti, dal 2009 al 2012 i contribuenti italiani si sono accollati oneri da 580 milioni di euro l’anno. Durante lo stesso periodo, hanno trasferito a Roma Capitale - la nuova entità libera dai debiti partita nel 2008 altri 885 milioni di euro solo perché l’amministrazione potesse continuare a funzionare.

Infine nel 2013 i contribuenti di tutto il Paese, attraverso governo e parlamento, hanno mandato alla città di Roma altri 485 milioni di euro e si sono accollati debiti per ulteriori 115 milioni nella gestione commissariale che funziona ormai da bad bank della città eterna: l’entità ( governativa) che gestisce i debiti e le poste finanziarie più intrattabili raccolte in eredità dalle ultime due o tre amministrazioni. Nessun altro comune italiano, fra le centinaia oggi dissesto, ha mai goduto di un trattamento tanto privilegiato.

LA REQUISITORIA

Si legge nella relazione degli ispettori della Ragioneria: «L’esame dei dati di bilancio del periodo 2009-2012 (quelli della giunta Alemanno, ndr) dimostra come l’ente, nonostante le difficoltà finanziarie che hanno indotto lo Stato nel 2008 ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, abbia continuato ad aumentare progressivamente la spesa corrente».

In sostanza, malgrado la mole dei sussidi dal resto d’Italia, non si è mai cercato di cambiare i comportamenti che hanno già schiacciato Roma sotto una montagna di debiti: «È stata evitata ogni decisione volta ad adeguare il livello e il costo dei servizi forniti dall’ente alle reali disponibilità di bilancio, riproducendo quei comportamenti che avevano portato a uno stato di sostanziale default nel 2008». In certi passaggi la relazione della Ragioneria assume i toni di una vera e propria requisitoria: «Per il proprio risanamento - si legge - Roma Capitale ha fatto totale affidamento sull’intervento statale, senza realizzare in proprio alcuno sforzo per riportare in equilibrio i conti, nemmeno quando si trattava di far cessare comportamenti palesemente illegittimi».

Del resto le responsabilità non solo ascritte solo al centrodestra. Secondo gli ispettori della Ragioneria, anche la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino ha riprodotto gli stessi meccanismi: «A seguito del cambio di amministrazione, la situazione non sembra aver fatto registrare particolari miglioramenti - continuano gli ispettori -. L’attuale gestione, in linea con i comportamenti precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell’avanzare richieste di supporto allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare le entrate proprie».

IL CASO GRECIA

In fondo è all’opera fra Ragioneria, ministero del Tesoro, contribuenti e città di Roma la stessa dinamica che divide i Paesi di Eurolandia. I governi europei hanno accettato di finanziare la Grecia, ma chiedono in contropartita che Atene risani i conti per non aver bisogno di nuovi aiuti in futuro. Questo passaggio è mancato a Roma Capitale, secondo la Ragioneria: i sussidi dei contribuenti, offerti senza porre alcuna condizione, hanno prodotto nuovi comportamenti irresponsabili incoraggiando l’idea che altri salvataggi dello Stato sarebbero arrivati comunque in futuro. Così è stato nel 2013.

Scrivono gli ispettori: «L’assegnazione di risorse, senza la richiesta di puntuali interventi per ridurre la spesa o sanare i comportamenti irregolari, è una modalità operativa che difficilmente può innescare comportamenti virtuosi da parte di un ente». Per legge ogni comune in dissesto sarebbe tenuto a tagliare la spesa fra il 10% e il 25% ma, visto il suo status di capitale, a Roma non è successo. Secondo le stime della Ragioneria, quegli interventi avrebbero prodotto risparmi per più di 400 milioni di euro l’anno e rimosso la necessità di sempre nuovi aiuti da parte dello Stato.

DALL’ATAC AGLI APPALTI

La realtà della giunta capitolina e delle sue società partecipate resta invece un mondo a parte. Con il comune in default, la spesa corrente è cresciuta al galoppo dai 4,1 miliardi del 2009 ai 5,1 miliardi del 2012. Secondo gli ispettori di via XX Settembre, non è neanche attendibile il lieve surplus nei conti presentato nel 2012: se si tiene conto dei debiti spazzati fuori bilancio e dei crediti in realtà inesigibili, dunque posticci, emerge «un reale disavanzo di amministrazione di circa 485 milioni di euro».

Tra i casi più estremi indicati nel rapporto della Ragioneria risaltano alcuni grandi appalti e la gestione delle grandi controllate al 100%, a partire dalla società di trasporto locale Atac. Dal 2004 (giunta di Walter Veltroni) al 2013, l’azienda dei bus e del metrò ha registrato in media una perdita di 130 milioni l’anno e ha chiuso in utile solo il 2005, mentre nel 2010 è riuscita a perdere oltre 300 milioni di euro su circa mille di ricavi.

I costi per il personale pesano per oltre metà delle spese totali, l’azienda è passata da 37 dirigenti nel 2008 (ultimo anno di Veltroni) fino a ben 97 dirigenti nel 2010 (dopo due anni di Alemanno). Ancora due anni fa, l’allora amministratore delegato Carlo Tosti ha ricevuto compensi da 377mila euro per la sua guida di un’azienda municipale capace di bruciare quasi un miliardo e mezzo in un decennio.

Quasi nessuno di questi problemi oggi è risolto: il contratto di servizio del comune all’Atac è stato ridotto, senza però affrontare nessuno dei problemi di spreco e malagestione dell’azienda. In queste condizioni, la Ragioneria prevede che perdite per circa 150 milioni l’anno continueranno e dovranno essere ripianate poi dall’azionista. Tutto sarebbe stato diverso se la Legge di stabilità per il 2015 avesse introdotto regole che obbligano i comuni non ricapitalizzare a ciclo continuo le controllate in perdita, obbligandole così a trovare investitori privati o a ristrutturarsi: ma questa norma per adesso non è stata presentata né dal governo, né in parlamento.

Ancora peggio (se possibile) il caso di Roma Multiservizi: secondo la Ragioneria, quest’impresa continua a ricevere l’appalto di gestione delle scuole comunali di Roma senza averne titolo («in violazione delle disposizioni») con un «enorme incremento» del costo del servizio a 52 milioni di euro. Finisce così che fra i pochi risparmi davvero trovati nella città eterna ci sono quelli per «interventi urgenti di manutenzione stradale in caso di eventi meteorologici eccezionali »: fondi tagliati da 16 a 1,3 milioni di euro. Gli italiani pagano quattro miliardi, la spesa corrente di Roma aumenta di un miliardo, ma appena piove nel traffico di Roma sarà alla paralisi.

 

I furbetti della pompa - da gennaio a novembre il barile è sceso del 29% ma il prezzo della benzina è calato solo dello 0,6% – Però al primo rimblazo del greggio c'è da scommettere che salirà subito anche la benzina

Non tengono neanche le tradizionali scusanti delle compagnie petrolifere. Dollaro ed euro sono rimasti relativamente stabili e la scusa delle scorte da smaltire vale al massimo per sei mesi. In parallelo con il barile, in questi mesi, sono scese anche le quotazioni “Platts” dei carburanti raffinati…

Luigi Grassia per “la Stampa”

La benzina non smette di stupire. Ieri i prezzi del petrolio, cioè della materia prima per raffinare i carburanti delle auto, sono crollati dopo la decisione dell’Opec di non tagliare le quote di produzione. Il barile di Brent che fa da riferimento in Europa è sceso a 72,94 dollari e il Wti americano a 69,28 dollari. Gli automobilisti non pretendono che la benzina e il gasolio si adeguino di minuto in minuto, ma ormai il movimento al ribasso del greggio dura da cinque mesi ed è un fatto curioso che i prezzi dei distributori non se ne siano quasi accorti.

Un gap che si allarga

Ricostruiamo in poche battute la storia del 2014. Fra gennaio e giugno il Brent oscillava fra 105 e 115 dollari al barile e la benzina in Italia costava fra 1,7 e 1,8 euro al litro. La situazione era stabile e la relazione fra i prezzi di greggio e carburante appariva consolidata (e fondata, si suppone, su parametri oggettivi). Poi per il petrolio sono cominciati cinque mesi di declino ma con effetti insignificanti sui listini di benzina e gasolio (il che mette in dubbio l’oggettività dei parametri). Impressionante il confronto complessivo sugli undici mesi, fra il 5 gennaio e il 27 novembre: Brent a 107,78 dollari al barile e benzina a 1,729 al litro come dati di partenza, e come numeri finali 76,26 dollari e 1,718 euro al litro. Quindi il Brent in dollari ha perso il 29% e la benzina in euro solo lo 0,6 per cento.

Perché tanta timidezza

Le compagnie petrolifere potrebbero accampare tre giustificazioni. Siccome i prezzi del barile e del litro sono espressi in valute differenti, la diversa dinamica dei listini potrebbe essere attribuita alla variazione del cambio tra monete. Ma non è vero. Il cambio al 5 gennaio era 1,302 dollari per un euro, ieri ne bastavano 1,2481 ma la variazione percentuale del prezzo del petrolio negli undici mesi si riduce di poco se il barile si misura in euro (-26,2% anziché -29%).

La scusa delle scorte

Un’altra giustificazione tradizionale da parte delle compagnie è che bisogna prima smaltire le scorte di greggio comprate ad alto prezzo e solo in seguito, man mano che affluisce il petrolio meno caro, si possono adeguare al ribasso il listino della benzina e quello del gasolio. Ma neanche questa scusa regge. Fatto 100 il prezzo di inizio gennaio, le ultime scorte di greggio comprate a prezzo 100 risalgono a luglio; da allora a novembre si è smaltito così poco da giustificare un taglio del prezzo finale di appena lo 0,6 per cento?

Le quotazioni Platts

Dulcis in fundo la spiegazione più tecnica fornita dalle compagnie petrolifere: quella che fa riferimento alle quotazioni Platts. Quando né le variazioni del cambio né lo smaltimento delle scorte vengono in aiuto, si sostiene che la vera variabile a cui guardare non è il prezzo del barile di greggio ma quello dei carburanti raff
inati, di cui l’indice Platts costituisce la sintesi. Ebbene, neanche da questa variabile arriva una giustificazione plausibile per la benzina troppo timida nell’andare giù: le quotazioni Platts sono scese negli ultimi mesi in parallelo con quelle del barile.

Tabarelli: 4,2 cent di troppo

Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dice al telefono che «il Platts benzina il primo giugno era a 55 centesimi di euro al litro, adesso» (cioè ieri, ndr) «è sceso a 44,5 centesimi», quindi in calo drastico. Stessa storia per il prezzo Platts gasolio: «Il primo giugno era 56 centesimi, poi è crollato a 48,6».

Nomisma Energia pubblica regolarmente nel suo sito web l’andamento di quello che definisce il «prezzo ottimale» della benzina e del gasolio, confrontati con l’andamento dei prezzi reali. Nella schermata di ieri fra il prezzo ottimale della benzina, basato sulle quotazioni Platts, e quello effettivo al distributore, risultava uno scarto di 4,2 centesimi al litro, e per il gasolio un divario di 2,6 centesimi calcolato con gli stessi criteri.
Ma Tabarelli non è ottimista sul calo dei prezzi dei carburanti: fra l’altro segnala come possibile, e forse anche probabile, un rimbalzo del petrolio, che per le compagnie chiuderebbe il discorso.

 

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