Dissesto idrogeologico, 45
prof contro il ddl Lupi: “Spinge a cementificazione”
di Duccio Tronci
Gruppo di urbanisti contro il testo del
ministro: "Non affronta i problemi reali del governo del territorio testimoniato
dai disastri degli ultimi mesi. Così l'Italia rischia di andare allo
scatafascio"·
Per loro, se il provvedimento sarà approvato,
l’Italia rischia di andare “definitivamente allo scatafascio”. Perché dopo i
disastri provocati dalle alluvioni degli ultimi mesi gli occhi sono puntati su
una cementificazione a cui, nella sostanza, verrebbe così spianata
definitivamente la strada. Prende forza dall’università di Firenze la critica
degli urbanisti al disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio,
che ha l’ambizione di modificare le norme risalenti al 1942. Un gruppo di 45
docenti, tra cui Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Alberto Asor Rosa e
Roberto Camagni, ha sottoscritto un documento di dura critica.
Gli esperti del dipartimento di architettura dell’Università lo hanno definito
“inemendabile”, decidendo di non partecipare neanche alla consultazione online
lanciata dal ministro delle infrastrutture: “Malgrado le numerose prese di
posizione critiche da parte di istituzioni come Italia Nostra, Legambiente, Fai,
ecc, la discussione è stata scarsa – spiegano – solo cancellandolo si può
ripartire da una proposta seria”. Di recente era stato anche il presidente della
Regione Toscana Enrico Rossi a esprimere più di una perplessità: “Non mi
convince perché continua a consentire edificazioni su lottizzazioni che devono
essere tutelate, su aree che devono essere invece conservate. Quindi, dal mio
punto di vista chiedo che venga modificato”. Il nodo è che il ddl “conferisce al
privato la possibilità di presentare la lottizzazione al Comune e di
co-pianificare con l’ente pubblico. Sarebbe una disgrazia”.
E sulle stesse linee si muove la critica degli urbanisti che nel loro documento
smontano pezzo per pezzo il provvedimento inserito nel pacchetto di riforme del
governo Renzi, presentato a luglio e di cui si attende la calendarizzazione
nelle commissioni parlamentari. “Da un lato il governo annuncia lo stanziamento
di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si
agisce legiferando in senso opposto”, spiega il professor Marco Massa, docente
di urbanistica, che a dicembre ha organizzato due seminari per presentare nel
dettaglio le critiche sui temi del rapporto fra pubblico e privato e
dell’emergenza ambientale.
“Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far
fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso
opposto”
Per i professori dunque, accanto al ddl Lupi, questi stanziamenti sono
l’ennesima toppa destinata a scollarsi presto, perché “il ddl non affronta in
alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati
dai disastri ambientali”. Nel dettaglio, secondo i promotori delle due
iniziative, il ddl Lupi “propone la cancellazione, di fatto, della potestà
pubblica in materia di pianificazione del territorio, istituzionalizzando la
contrattazione con i proprietari fondiari di ogni scelta in materia”. Un
rapporto pubblico/privato che andrebbe così a sbilanciarsi ancora di più verso i
privati, come in nessun altro paese europeo accade. In secondo piano finirebbe
la funzione sociale e il governo del territorio sarebbe costituito dalla
“sommatoria delle proposte immobiliari private”, favorendo di fatto
l’imprenditoria edilizia.
Secondo i firmatari del documento, inoltre, il ddl Lupi “azzera il ruolo dei
Comuni” e “non si preoccupa di coordinarsi con le altre leggi vigenti”, col
risultato “di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti
pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire”. La
semplificazione di cui c’è tanto bisogno per sburocratizzare l’Italia, insomma,
è tutta un’altra cosa. “Il ministro Lupi ha aperto sul testo una consultazione
pubblica online prorogata dal 15 agosto al 15 settembre – sottolinea la
professoressa Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, che ha
partecipato al primo dei due seminari organizzati a Firenze – Sul sito del
ministero dicono che siano arrivate oltre cento osservazioni, peccato che queste
non siano visibili. Scelte politiche che andavano sostanzialmente nella stessa
direzione Lupi le aveva promosse da assessore al Comune di Milano, mentre nel
2005, da deputato del centrodestra, avanzò una proposta di legge simile, che
naufragò solo per lo strappo di Fini da Berlusconi”. Su sito Eddyburg una
petizione per fermare il disegno di legge Lupi ha già raccolto oltre 500
adesioni, e quello di circa 60 gruppi e associazioni. Il logo, neanche a farlo
apposta, è un lupo cattivo.
11 dicembre
L'Italia nella trappola
dell'usura
La crisi economica ha trascinato impiegati e
pensionati nella rete degli strozzini. È la prima volta e i numeri del fenomeno
sono impressionanti. Nella sola Emilia Romagna (una delle regioni più colpite)
le denunce nell'ultimo anno sono aumentate del 200%. Ribellarsi però non è
facile e chi sceglie di farlo rischia di trovare la strada sbarrata dalle norme
bancarie
di LUCA MONACO con un commento di FRANCA SELVATICI, video di ALICE GUSSONI, con
un disegno di MOJMIR JEZEK
Indebitarsi per battere la crisi
di LUCA MONACO
ROMA - Il ceto medio è sotto usura. Impiegati, liberi professionisti, ma anche
pensionati: la crisi morde e a rivolgersi agli strozzini non sono più solo gli
imprenditori o i giocatori d'azzardo. Negli ultimi cinque anni il 52 per cento
dei soggetti che si sono rivolti agli ambulatori della Federazione delle
associazioni antiracket e antiusura (Fai) dislocati sul territorio nazionale
sono persone con un reddito fisso, le famiglie della porta accanto. Un fenomeno
in crescita specie al Nord, terra di conquista delle mafie. "Quando è arrivata
la crisi - spiega il coordinatore della Fai, Luigi Ciatti - il sistema di
assistenza non si è fatto trovare pronto. E ancora oggi su 33 associazioni
iscritte negli elenchi del ministero dell'Economia e deputate a gestire i fondi
di prevenzione, solo sei agiscono dalla Toscana in su".
I dati più recenti del Viminale, relativi al 2013, sono eloquenti. In Emilia
Romagna i reati di usura sono aumentati del 219 per cento (schizzando dai 21 del
2011 ai 67 nel 2013, con 31 denunce e 43 vittime accertate). Stesso discorso per
la Lombardia, dove imperversa la criminalità organizzata e il numero delle
denunce è cresciuto del 54 per cento (da 48 nel 2011 a 74 nel 2013 ). Allarme
rosso anche nel Lazio: lì gli arresti nell'ultimo anno sono incrementati di
oltre il 20 per cento rispetto al biennio precedente. A livello generale, in
Italia il fenomeno si è espanso e i reati riscontrati dalle forze dell'ordine
sono cresciuti del 30 per cento (da 352 del 2011 ai 450 del 2013). Numeri che
fotografano purtroppo solo la punta dell'iceberg, visto che, come è
comprensibile, solo una minoranza tra le vittime trova il coraggio di denunciare
i propri carnefici. Inoltre sono sempre di più le donne che rischiano di
soffocare nelle spire degli strozzini. Nel Lazio il numero è addirittura
superiore a quello degli uomini: 617 contro 598 nel 2013.
Le cause dell'ingigantirsi del fenomeno sono molteplici. "La più preoccupante
- rileva il presidente della Fai Tano Grasso - è legata all'indebitamento
tramite finanziarie. Si rivolgono ai nostri sportelli centinaia di impiegati in
giacca e cravatta e con buoni stipendi, costretti a vivere con 200 euro al mese.
Il meccanismo è il seguente: molti stipulano due o più contratti di
finanziamento per cifre esigue ma con tassi di interesse anche oltre il 10 per
cento. Ogni società al momento della firma non controlla se il soggetto abbia
già altri finanziamenti in essere, perché in caso di insolvenza potrà avvalersi
sul Tfr". Così sono arrivati gli usurai nel pubblico impiego. "Nell'ultimo anno
- chiarisce Grasso - sto seguendo due procedimenti contro altrettanti
caposala degli ospedali di Napoli che subodorando il business si sono
improvvisati strozzini. "Prestano" i soldi ai colleghi in difficoltà economica a
causa delle finanziarie. Applicano tassi di interesse almeno del 10 per cento
mensile, in un anno esigono il doppio del prestito iniziale. In un caso è stato
documentato lo scambio di denaro nel reparto di pediatria, vi rende conto?". Il
numero dei sovraindebitati è cresciuto in maniera talmente massiccia da creare
un nuovo prototipo di malvivente: l'impiegato-usuraio.
Dal fenomeno non sono immuni neppure le imprese, storicamente i soggetti più
esposti. Confcommercio fa sapere che, nel settore, dal 2008 al 2013 l'usura è
cresciuta del 30 per cento e le estorsioni del 22 per cento. L'8 per cento delle
imprese è minacciata da gruppi criminali e il 35 per cento di queste ha subito
danni alle attività. Mario (il nome è di fantasia) rientra invece in quel 7 per
cento di imprenditori che ha subito violenze fisiche oltre a quelle
psicologiche. "Un pomeriggio - racconta l'uomo - un pugile professionista
legato al clan dei Casalesi è entrato nella mia videoteca alla borgata Finocchio
di Roma (periferia est di Roma) e mi ha pestato a sangue. L'attività andava
male, avevo contratto 100mila euro di debiti con le banche. Per rientrare dello
scoperto ho chiesto soldi a cinque usurai diversi. Nel 2010 però ho deciso di
denunciare tutto alla Guardia di Finanza". Dopo mesi di indagini i militari
hanno arrestato gli esponenti della 'ndrangheta calabrese e della camorra che
pretendevano dal commerciante 400mila euro di interessi. Vista la pericolosità
dei soggetti Mario è stato il primo usurato romano a dover lasciare la città
dopo la denuncia.
"Questa forma di usura è un caso particolare - spiega un investigatore
impegnato da anni nella repressione del fenomeno - la fenomenologia più
comune è legata allo sconto degli assegni per terze persone. Mi spiego: ho
bisogno di liquidità immediata ma ho in mano un assegno post-datato che mi ha
dato un'altra persona. Vado dall'usuraio e me lo faccio cambiare, ma se
l'assegno continua a non essere esigibile anche dopo la data indicata, allora
scattano gli interessi. Nelle fasi iniziali il rapporto tra vittima e carnefice
è cordiale, quasi amichevole. Ma se non si riesce a estinguere il debito, allora
intervengono terze persone deputate alla riscossione (spesso appartenenti a
famiglie criminali come nel caso dei Casamonica, a Roma)". Il numero delle
denunce è così basso "perché capita spesso che le vittime siano persone che
agiscono in regime di sommerso e questo gli crea delle remore nel rivolgersi a
noi. Altre volte capita che i gruppi criminali si impossessino invece delle
attività e che il legittimo proprietario rimanga un mero intestatario e nulla
più".
I pochi che hanno la forza di denunciare trovano la strada sbarrata dalle norme
bancarie. "È il dramma di chi è segnalato come cattivo pagatore , un fenomeno
che negli ultimi cinque anni è cresciuto del 100 per cento - continua Ciatti
- È bene che si sappia: gli individui inseriti da tempo nelle black list e che
poi si sono rivolti agli usurai, si vedono negata la possibilità di aprire un
conto corrente utile per riprendere a lavorare (senza carte né altre forme di
credito) anche se hanno denunciato e fatto arrestare gli strozzini. Ciò
complica molto i processi di riabilitazione". Un'accusa che il sistema bancario
respinge, sottolineando che "si tratta di un tema delicato. Ogni caso va
approfondito singolarmente e da ogni punto di vista". Intanto l'emergenza
continua.
Dalle botte alla denuncia, la rinascita di
Mario
di LUCA MONACO
ROMA - "Ascoltami bene perché non te lo ripeto: o ci dai tutti i soldi entro due
giorni o ti diamo fuoco". La settimana successiva dalle minacce sono passati ai
fatti. Il sole era già calato sulla periferia Est di Roma quando un pugile
professionista legato al clan dei Casalesi è entrato dentro la videoteca della
borgata Finocchio - un pugno di case lontano 18 chilometri dal Grande Raccordo
Anulare - e ha picchiato a sangue il proprietario. Le telecamere piazzate dagli
inquirenti però hanno ripreso tutto. Le immagini del pestaggio e degli scambi di
denaro sono state le prove che hanno consentito agli investigatori di inchiodare
gli usurai.
Dopo i cinque arresti messi a segno dai reparti speciali della Guardia di
Finanza, Mario, il titolare della videoteca, 45 anni, una moglie e tre figli, ha
dovuto cambiare città per ragioni di sicurezza. Piange nella sua nuova casa al
centro di un paesino della bassa padana. Lui è una delle 278 vittime in tutta
Italia che all'epoca hanno avuto il coraggio di denunciare. Lontano dal suo
quartiere, ripercorre i cinque anni di inferno trascorsi con il pensiero fisso
di riuscire a trovare soldi per coprire gli interessi pretesi dagli strozzini.
"Nel corso del tempo ero finito in un vortice - racconta - Per ripianare i
debiti mi sono rivolto a cinque usurai diversi. Dai criminali di quartiere che
mi conoscevano fino ai boss, uno legato alla 'ndrangheta, l'altro alla camorra.
Con loro non si scherza. Arrivati a un certo punto non hai scelta: denunciare o
morire".
I soldi nella vita di Mario erano diventati un'ossessione. "Pensavo solo a
quelli - assicura - il denaro significava la sopravvivenza". Un dramma vissuto
in solitudine e carico di cattivi pensieri. "Per molto tempo - sospira - non ho
detto nulla a nessuno, illudendomi di tutelare la mia famiglia. Non lo nascondo,
ci sono stati momenti nei quali avevo deciso di togliermi la vita, c'è mancato
pochissimo". Poi, il 7 ottobre 2010, la rinascita. "Quella mattina mi sono
alzato all'alba - ricorda - sono entrato in caserma e ho raccontato tutto". Dopo
40 giorni di intercettazioni, filmati, appostamenti, i militari sono riusciti ad
arrestare i criminali.
"Il primo usuraio l'avevo incontrato nel 2005, quando è scoppiata la crisi -
ricostruisce Mario - Gli incassi del negozio diminuivano costantemente e io per
andare avanti avevo contratto debiti con le banche per 100mila euro. I direttori
mi stavano col fiato sul collo: dovevo rientrare dello scoperto a tutti i costi.
Cosi ho chiesto i primi 10mila euro a un tizio del quartiere. Frequentava il mio
negozio, ci conoscevamo da tempo e mi è venuto incontro. Solo dopo ho scoperto
che applicava il 20% di interesse mensile e alla fine mi ha tolto 60mila euro.
Nel frattempo - continua - per tappare i buchi mi sono rivolto a un secondo
usuraio, poi a un terzo. Finché non sono diventati cinque. In totale ho
accumulato 400mila euro di debiti con queste persone, compresi gli interessi.
Ero braccato, mi venivano a cercare al negozio, sotto casa. Non minacciavano
solo me, ma anche la mia famiglia".
Mario ha paura ancora oggi. "Certo, cosa crede - esclama - ma con la paura ci si
convive. A dicembre si celebra il primo grado di giudizio, alcuni di loro sono
già agli arresti domiciliari. Possono farmi trovare in qualsiasi momento".
Tuttavia Mario, nonostante le difficoltà, ha ricominciato a lavorare. E dopo
aver rischiato il divorzio, ora può contare sull'appoggio di tutta la famiglia.
Il suo invito, per quanto scontato possa sembrare, "è quello di denunciare
quanto prima. Altrimenti questa gente vi distrugge la vita".
L'andamento del fenomeno usura negli ultimi tre anni
ANNO 2011
Reati commessi
Denunciati
Arrestati
Vittime di reato
352
650
577
278
ANNO 2012
Reati commessi
Denunciati
Arrestati
Vittime di reato
405
703
500
332
ANNO 2013
Reati commessi
Denunciati
Arrestati
Vittime di reato
450
639
533
316
Dati di fonte SDI/SSD, consolidati per gli anni 2011-2012, non
consolidati per il 2013
"Diventiamo vittime per il tenore di vita"
di LUCA MONACO
ROMA - "La convinzione di non essere autoefficaci nella gestione del denaro
unitamente all'esigenza di status e al timore di essere stigmatizzati, inducono
l'individuo a sovraindebitarsi fino a perdere il controllo". Maria Gabriella
Manno, psicoterapeuta al centro studi Psicosomatica di Roma, traccia così il
profilo dei pazienti finiti nella stretta dell'usura.
Ci può fare un profilo di chi diventa "soggetto sovraindebitato"?
"Da un punto di vista sociologico, le vittime degli strozzini non sono solo gli
imprenditori o gli individui affetti da compulsioni come i giocatori d'azzardo,
ma con sempre maggiore frequenza capita di prendere in cura persone con il
reddito fisso che hanno immaginato di poter vivere una vita al di sopra delle
proprie possibilità. Sono guidati da un bisogno di affermazione disfunzionale e
provano ad accedere a ogni costo a dei simboli materiali. Il ragionamento
interiore è: 'Io conto perché faccio queste cose', dalla cena fuori alla
vacanza. In questi soggetti c'è uno spostamento cognitivo dal potere sociale e
personale al potere attraverso le cose: materiale. Ecco a cosa è dovuto il
sovraindebitamento".
Da cosa è dettato psicologicamente il passaggio all'usura?
"Dalla bassa autoefficacia percepita e dall'incapacità a trovare risorse
personali e sociali. Quando il soggetto è chiamato dagli eventi ad attingere
alla propria capacità di gestire la vita, non si sente in grado. Così è
sufficiente che vada in rosso sul conto in banca affinché rinforzi per
autodifesa la convizione di non saper controllare la gestione il denaro,
chiedendo un altro prestito. È come se una voce interiore illusoria dicesse:
'Visto? Adesso i soldi ce l'ho e posso stare meglio'".
Perché si ha tanta difficoltà a chiedere aiuto?
"Si prova un marcato senso di vergogna per essere un indebitato e un usurato.
Spesso per lo stesso sentimento si ha difficoltà a rendere partecipi del
problema i familiari, anche quelli più stretti. Ci si sente umiliati dal fatto
che gli altri conoscano i nostri problemi economici e si fa di tutto per
nasconderli. Non si vuole che si sappia che mancano i soldi per la gestione
quotidiana o ancora peggio che si hanno montagne di debiti con dei criminali.
Tecnicamente tutto questo è definito stigma sociale".
Come se ne esce?
"Attraverso la ricerca di risorse interiori, familiari e sociali. Perché quando
le persone non si sentono giudicate e trovano un terreno di accettazione e
accoglienza possono farsi forza e trovare il coraggio di denunciare. Si può
chiedere aiuto agli specialisti e attivare una rete adiuvante e di supporto,
psicologico e legale".
“Poste offre risparmi e
investimenti vantaggiosi per sé. Ma non per i clienti”
Un'ispezione Consob rivela le pratiche interne:
prodotti finanziari venduti in base alle esigenze dell'azienda e non degli
utenti
di Stefano Feltri
La parte dedicata a “Risparmio e investimenti” del
sito delle Poste Italiane ci accoglie con questo rassicurante messaggio: “Per i
tuoi risparmi o i tuoi investimenti BancoPosta ti mette a disposizione
un’offerta completa di soluzioni sicure e vantaggiose”. Ma sicure e vantaggiose
per chi? Secondo la Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa e la gestione del
risparmio, la priorità è che le soluzioni siano “sicure e vantaggiose” per le
Poste, non certo per i clienti. Dopo mesi di ispezione e un’analisi minuziosa,
anche delle email interne, è questo il giudizio a cui arriva la Consob in un
rapporto della Divisione intermediari firmato dal presidente Giuseppe Vegas, è
il “Procedimento 20638/14” (di cui ha dato conto anche Andrea Greco su
Repubblica qualche giorno fa).
Sono tutte analisi relative alla gestione del gruppo durante l’era di Massimo
Sarmi, ora il nuovo amministratore delegato Francesco Caio sta riorganizzando il
gruppo e a settembre ha dovuto convocare un consiglio di amministrazione con
all’ordine del giorno i rilievi presentati da Vegas. Ma il giudizio nel dossier
dell’autorità di vigilanza non è rassicurante per chi alle Poste ha affidato i
risparmi di una vita: “Le verifiche condotte hanno evidenziato che la società si
avvale, nello svolgimento dei servizi di investimento, di meccanismi di
pianificazione commerciale e di incentivazione del personale fondati sul
perseguimento di specifici interessi ‘di business’ (prevalentemente declinati in
termini di redditività) che, affiancati da rilevanti pressioni gerarchiche a
tutti i livelli della struttura organizzativa, hanno determinato, a valle del
processo distributivo significative distorsioni nella relazione con la
clientela”. Tradotto: quando l’impiegato alle Poste propone un prodotto, non
pensa a cosa è nell’interesse del cliente, ma alle pressioni che gli sta facendo
il suo capo per raggiungere gli obiettivi di vendita. Secondo la Consob, “il
sistematico ricorso a forme di pianificazione commerciale ‘per prodotto’
costituiscono le componenti di un impianto focalizzato verso la realizzazione di
obiettivi aziendali senza tenere adeguatamente conto delle esigenze della
clientela”. Un portavoce dell’azienda spiega a Il Fatto Quotidiano che, dopo il
cda convocato a settembre su indicazione della Consob c’è già stata anche una
riunione con gli uomini dell’autorità per discutere il da farsi, un’altra è
prevista entro fine anno, in modo da correggere in tempi rapidi i comportamenti
contestati.
Più sportelli finanziari che portalettere
La struttura dei ricavi del gruppo Poste Italiane è questa: 21,6 miliardi di
euro di cui solo 5,1 dai servizi postali e commerciali (lettere e pacchi), il
grosso arriva dai servizi finanziari, 5 miliardi, e dalle polizze 11,2 miliardi.
C’è quindi una certa pressione per ottenere risultati nella gestione del
risparmio, visto che ormai le Poste sono soprattutto una ramificata rete di
punti vendita di prodotti finanziari che, a margine, si occupa di
corrispondenza. In base a una direttiva europea del 2007, la cosiddetta “Mifid”,
la Consob deve accertarsi che ci sia un rapporto corretto tra chi vende prodotti
finanziari e le competenze e la propensione al rischio della clientela. Nel 2010
ha riscontrato irregolarità in cinque banche, Intesa, Unicredit, Mps, Popolare
di Verona, Bnl e ha convocato d’ufficio i cda per porre rimedio. Nel 2011 ha
multato la Popolare di Milano per aver spinto ai propri clienti un prestito
convertendo mentendo sui reali rischi dell’operazione. Anche le Poste rischiano
ora una multa. E non sarà una buona pubblicità se la sanzione dovesse arrivare
nei mesi in cui Caio proverà, con grande ritardo sui tempi immaginati dal
governo, a portare le Poste in Borsa per aiutare l’azionista unico, cioè il
ministero del Tesoro, a fare cassa.
Vediamo, grazie al documento Consob , i punti critici dei rapporti tra Poste e
risparmiatori. Soltanto 330 mila clienti su 900 mila hanno un profilo di rischio
Mifid (gli altri hanno rapporti avviati prima dell’entrata in vigore della
norma, replica l’azienda). Ma il 74,5 per cento dei clienti del BancoPosta si
classifica sui tre livelli più elevati di “esperienza e conoscenza”, soltanto il
5 per cento ha conoscenze minime. Altro che pensionati e piccoli risparmiatori
spaventati dalle banche, le Poste, stando alle loro classificazioni interne,
sono frequentate da scafati professionisti degli investimenti. La Consob ha
scoperto che perfino il 91 per cento della clientela con la licenzia media
rientra tra quelli a cui si possono vendere i prodotti più sofisticati. E l’80
per cento dei clienti sopra i 70 anni che hanno comprato una polizza
index-linked (una forma di investimento che garantisce il capitale e ha un
rendimento legato all’andamento di un indice) hanno un orizzonte di investimento
superiore ai 7 anni. Tutti molto ottimisti sulle proprie prospettive di vita o
hanno comprato qualcosa che non è stato spiegato loro bene? Per l’azienda quello
che conta è vendere: “A fronte di una specifica richiesta del team ispettivo, la
società non è stata in grado di estrapolare i dati” relativi alla situazione
finanziaria effettiva del cliente. E non considera l’età anagrafica per
garantire un periodo di investimento adeguato. Se un ottantenne con la pensione
minima vuole investire in un prodotto con scadenza 20 anni, nessuno alle Poste
farà obiezioni. E come si stabilisce quanto è rischioso un investimento? Per
misurare la rischiosità delle polizze vita emesse da Poste Italiane viene
considerato il rating fornito dalle agenzie specializzate in titoli di Stato,
quando invece allo sportello si offrono prodotti emessi da altri soggetti, si
usano i Credit Default Swap, una specie di prezzo per assicurarsi contro la
bancarotte del debitore. Una diversità di misura che, scrive Consob, “può
generare effetti distorsivi”: obbligazioni emesse da Enel e Atlantia, che hanno
un rating (quindi un’affidabilità creditizia) superiore a quello dello Stato
italiano, risultavano riservate soltanto alla clientela più sofisticata . Le
polizze index linked delle Poste, molto meno placide, sono invece compatibili
con tutte le fasce di clientela.
Cosa non si fa per avere qualche commissione in più
I risultati arrivano: nel 2013 le commissioni da “servizi di gestione,
intermediazione e consulenza” sono state 2,1 miliardi. Ma con quali sistemi? La
Consob cita un caso estremo: la vendita di polizze e l’apertura di libretti
postali a studenti stranieri che andavano a chiedere il permesso di soggiorno. E
la pratica, “anziché sollevare dubbi in merito ai possibili rischi di misselling
(cioè di vendita inappropriata, ndr) che esso incorporava, è stato ripreso in
termini positivi e selezionato come esempio virtuoso di vendita nel corso di un
meeting aziendale”.
Un sistema più sofisticato è questo: nel 2013 le Poste convincono molti clienti
ad aderire al riacquisto di obbligazioni emesse da Barclays e Crédit Suisse e
poi ne approfittano per consigliare subito di impiegare la liquidità tornata sul
conto per comprare prodotti remunerativi per il gruppo. La Consob nota la
tendenza delle Poste a proporre alla clientela disinvestimenti anticipati nei
periodi in cui ci sono emissioni di prodotti delle Poste stesse, “senza che tali
proposte fossero precedute da analisi sulle reali esigenze della clientela”.
Perché lo scopo era uno solo: incassare più commissioni possibile. Nel dossier
Consob ci sono email come questa, da Pasquale Marchese, capo della Funzione
Mercato Privati ai responsabili delle aree territoriali l’11 settembre 2012:
“Forse non mi sono spiegato: vanno fatti i nn che abbiamo assegnato
singolarmente a ognuno di voi come obiettivo trimestrale!” e il giorno
successivo: “Forse non ci siamo capiti, dovete alzare la rn! Avete le liste,
usatele!”. C’è infatti in azienda un sistema di incentivazione del personale di
rete imperniato su “obiettivi quantitativi di breve periodo (trimestre) che non
considera, se non in via del tutto residuale, fattori di carattere qualitativo
che premino condotte conformi alla disciplina di settore”. Con Caio cambierà
tutto? Chissà: l’amministratore delegato sta lavorando a una riorganizzazione
dell’azienda, con la società di consulenza Boston Consulting Group, ed è quasi
pronto un piano industriale che punterà molto sulla finanza ma anche sul
contendere ai corrieri il crescente mercato dalla distribuzione degli acquisti
via web. Ma per ora Marchese, il dirigente della mail citata sopra, è stato
confermato al suo posto.
Il rapporto con la Cassa depositi e prestiti
Qualcosa però sta già cambiando, anche se non è detto che sia una notizia
positiva per i risparmiatori che si affidano alle Poste: grazie a un emendamento
(approvato) alla legge di Stabilità, le Poste potranno investire fino al 50 per
cento della raccolta delle attività di BancoPosta in titoli emessi dalla Cassa
depositi e prestiti. Il tetto prima della modifica era il 5 per cento. La Cdp,
il fondo sovrano all’italiana che presta soldi ai Comuni ma ormai agisce anche
come strumento di politica industriale comprando partecipazioni azionarie o
intere aziende, ha già raccolto 242 miliardi vendendo i propri prodotti di
investimento tramite le Poste: libretti postali e buoni fruttiferi. Sono
investimenti sulla carta tranquilli, più di quelli in titoli di Stato perché
pagabili a vista: il cliente può andare in ogni momento a farsi dare indietro i
soldi con gli interessi mentre, se ha comprato un Btp a 10 anni, deve aspettare
la scadenza. Adesso anche tramite BancoPosta le Poste potranno sostenere
l’attività della Cdp, che così può assicurarsi un volume finanziario di
intervento ancora maggiore. E quando comincerà a emettere obbligazioni (è già
partita la campagna stampa per preparare il terreno) avrà un acquirente già
pronto e pieno di liquidità. La prima regola nella gestione del risparmio è non
mettere mai tutte le uova nello stesso cesto, perché si possono rompere. Meglio
diversificare. Le Poste invece si legano sempre di più alla Cdp. Difficile fare
diversamente, almeno finché non si chiude la discussione sull’allungamento da 3
a 5 anni della concessione alle Poste della distribuzione dei libretti e dei
buoni Cdp: senza quel contratto, che nei primi sei mesi del 2014 ha portato a
Caio 766 milioni di euro commissioni, quotare le Poste in Borsa diventerebbe
quasi impossibile.
da Il Fatto Quotidiano del 3 dicembre 2014
1 dicembre
Fallimento Capitale -
Bruciati 4 miliardi in 5 anni, Roma affonda in un default pagato da tutta Italia
- La ragioneria dello Stato: “Città in default dal 2008, da allora nulla è
cambiato” - “La colpa non è solo della destra ma anche della giunta Marino”
J’accuse della Ragioneria generale: “Lo Stato
si è accollato i suoi debiti ma la città ha fallito il risanamento senza far
cessare neanche comportamenti palesemente illegittimi - La giunta Marino chiede
aiuto allo Stato ma ha fatto ben poco per attivare entrate proprie” (e la spesa
corrente aumenta di un miliardo)
L’Operazione
di salvataggio per ora ha fallito nel suo obiettivo più importante: voltare
pagina. Quattro miliardi di aiuti in cinque anni da parte di tutti gli italiani
non sono bastati alla città di Roma per iniziare a bruciare meno denaro pubblico
e a offrire servizi più efficienti. I fondi dello Stato sono stati incassati,
hanno tamponato le emergenze in serie della capitale, ma non hanno mai indotto
un cambiamento nella gestione finanziaria di un’amministrazione cittadina che
già nel 2008 era al default.
GLI ISPETTORI
Anche se molti dei problemi più seri sono concentrati negli anni del
centrodestra di Gianni Alemanno, la Ragioneria generale dello Stato non fa
sconti a nessuna delle giunte di questi ultimi dieci anni. Al Campidoglio non
c’era più Alemanno ma Ignazio Marino il 4 ottobre del 2013, quando due ispettori
della Ragioneria hanno avviato una «verifica amministrativocontabile»
consegnata poi mesi fa.
La loro relazione, oltre trecento pagine, era destinata ad atterrare su un
numero ristretto di scrivanie al ministero dell’Economia e nella giunta. Ma le
conclusioni hanno un evidente interesse pubblico, per la dimensione crescente
dei trasferimenti incondizionati da tutte le regioni d’Italia verso la giunta
della capitale.
La relazione mostra nel dettaglio i conti di questi anni. Per liberare
l’amministrazione di Roma dall’assillo dei suoi debiti, dal 2009 al 2012 i
contribuenti italiani si sono accollati oneri da 580 milioni di euro l’anno.
Durante lo stesso periodo, hanno trasferito a Roma Capitale - la nuova entità
libera dai debiti partita nel 2008 altri 885 milioni di euro solo perché
l’amministrazione potesse continuare a funzionare.
Infine nel 2013 i contribuenti di tutto il Paese, attraverso governo e
parlamento, hanno mandato alla città di Roma altri 485 milioni di euro e si sono
accollati debiti per ulteriori 115 milioni nella gestione commissariale che
funziona ormai da bad bank della città eterna: l’entità ( governativa) che
gestisce i debiti e le poste finanziarie più intrattabili raccolte in eredità
dalle ultime due o tre amministrazioni. Nessun altro comune italiano, fra le
centinaia oggi dissesto, ha mai goduto di un trattamento tanto privilegiato.
LA REQUISITORIA
Si legge nella relazione degli ispettori della Ragioneria: «L’esame dei dati di
bilancio del periodo 2009-2012 (quelli della giunta Alemanno, ndr) dimostra
come l’ente, nonostante le difficoltà finanziarie che hanno indotto lo Stato nel
2008 ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, abbia continuato ad
aumentare progressivamente la spesa corrente».
In sostanza, malgrado la mole dei sussidi dal resto d’Italia, non si è mai
cercato di cambiare i comportamenti che hanno già schiacciato Roma sotto una
montagna di debiti: «È stata evitata ogni decisione volta ad adeguare il livello
e il costo dei servizi forniti dall’ente alle reali disponibilità di bilancio,
riproducendo quei comportamenti che avevano portato a uno stato di sostanziale
default nel 2008». In certi passaggi la relazione della Ragioneria assume i toni
di una vera e propria requisitoria: «Per il proprio risanamento - si legge -
Roma Capitale ha fatto totale affidamento sull’intervento statale, senza
realizzare in proprio alcuno sforzo per riportare in equilibrio i conti, nemmeno
quando si trattava di far cessare comportamenti palesemente illegittimi».
Del resto le responsabilità non solo ascritte solo al centrodestra. Secondo gli
ispettori della Ragioneria, anche la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino
ha riprodotto gli stessi meccanismi: «A seguito del cambio di amministrazione,
la situazione non sembra aver fatto registrare particolari miglioramenti -
continuano gli ispettori -. L’attuale gestione, in linea con i comportamenti
precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell’avanzare richieste di
supporto allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare le entrate proprie».
IL CASO GRECIA
In fondo è all’opera fra Ragioneria, ministero del Tesoro, contribuenti e città
di Roma la stessa dinamica che divide i Paesi di Eurolandia. I governi europei
hanno accettato di finanziare la Grecia, ma chiedono in contropartita che Atene
risani i conti per non aver bisogno di nuovi aiuti in futuro. Questo passaggio è
mancato a Roma Capitale, secondo la Ragioneria: i sussidi dei contribuenti,
offerti senza porre alcuna condizione, hanno prodotto nuovi comportamenti
irresponsabili incoraggiando l’idea che altri salvataggi dello Stato sarebbero
arrivati comunque in futuro. Così è stato nel 2013.
Scrivono gli ispettori: «L’assegnazione di risorse, senza la richiesta di
puntuali interventi per ridurre la spesa o sanare i comportamenti irregolari, è
una modalità operativa che difficilmente può innescare comportamenti virtuosi da
parte di un ente». Per legge ogni comune in dissesto sarebbe tenuto a tagliare
la spesa fra il 10% e il 25% ma, visto il suo status di capitale, a Roma non è
successo. Secondo le stime della Ragioneria, quegli interventi avrebbero
prodotto risparmi per più di 400 milioni di euro l’anno e rimosso la necessità
di sempre nuovi aiuti da parte dello Stato.
DALL’ATAC AGLI APPALTI
La realtà della giunta capitolina e delle sue società partecipate resta invece
un mondo a parte. Con il comune in default, la spesa corrente è cresciuta al
galoppo dai 4,1 miliardi del 2009 ai 5,1 miliardi del 2012. Secondo gli
ispettori di via XX Settembre, non è neanche attendibile il lieve surplus nei
conti presentato nel 2012: se si tiene conto dei debiti spazzati fuori bilancio
e dei crediti in realtà inesigibili, dunque posticci, emerge «un reale disavanzo
di amministrazione di circa 485 milioni di euro».
Tra i casi più estremi indicati nel rapporto della Ragioneria risaltano alcuni
grandi appalti e la gestione delle grandi controllate al 100%, a partire dalla
società di trasporto locale Atac. Dal 2004 (giunta di Walter Veltroni) al 2013,
l’azienda dei bus e del metrò ha registrato in media una perdita di 130 milioni
l’anno e ha chiuso in utile solo il 2005, mentre nel 2010 è riuscita a perdere
oltre 300 milioni di euro su circa mille di ricavi.
I costi per il personale pesano per oltre metà delle spese totali, l’azienda è
passata da 37 dirigenti nel 2008 (ultimo anno di Veltroni) fino a ben 97
dirigenti nel 2010 (dopo due anni di Alemanno). Ancora due anni fa, l’allora
amministratore delegato Carlo Tosti ha ricevuto compensi da 377mila euro per la
sua guida di un’azienda municipale capace di bruciare quasi un miliardo e mezzo
in un decennio.
Quasi nessuno di questi problemi oggi è risolto: il contratto di servizio del
comune all’Atac è stato ridotto, senza però affrontare nessuno dei problemi di
spreco e malagestione dell’azienda. In queste condizioni, la Ragioneria prevede
che perdite per circa 150 milioni l’anno continueranno e dovranno essere
ripianate poi dall’azionista. Tutto sarebbe stato diverso se la Legge di
stabilità per il 2015 avesse introdotto regole che obbligano i comuni non
ricapitalizzare a ciclo continuo le controllate in perdita, obbligandole così a
trovare investitori privati o a ristrutturarsi: ma questa norma per adesso non è
stata presentata né dal governo, né in parlamento.
Ancora peggio (se possibile) il caso di Roma Multiservizi: secondo la
Ragioneria, quest’impresa continua a ricevere l’appalto di gestione delle scuole
comunali di Roma senza averne titolo («in violazione delle disposizioni») con un
«enorme incremento» del costo del servizio a 52 milioni di euro. Finisce così
che fra i pochi risparmi davvero trovati nella città eterna ci sono quelli per
«interventi urgenti di manutenzione stradale in caso di eventi meteorologici
eccezionali »: fondi tagliati da 16 a 1,3 milioni di euro. Gli italiani pagano
quattro miliardi, la spesa corrente di Roma aumenta di un miliardo, ma appena
piove nel traffico di Roma sarà alla paralisi.
I furbetti della pompa - da
gennaio a novembre il barile è sceso del 29% ma il prezzo della benzina è calato
solo dello 0,6% – Però al primo rimblazo del greggio c'è da scommettere che
salirà subito anche la benzina
Non tengono neanche le tradizionali scusanti
delle compagnie petrolifere. Dollaro ed euro sono rimasti relativamente stabili
e la scusa delle scorte da smaltire vale al massimo per sei mesi. In parallelo
con il barile, in questi mesi, sono scese anche le quotazioni “Platts” dei
carburanti raffinati…
Luigi Grassia per “la Stampa”
La
benzina non smette di stupire. Ieri i prezzi del petrolio, cioè della materia
prima per raffinare i carburanti delle auto, sono crollati dopo la decisione
dell’Opec di non tagliare le quote di produzione. Il barile di Brent che fa da
riferimento in Europa è sceso a 72,94 dollari e il Wti americano a 69,28
dollari. Gli automobilisti non pretendono che la benzina e il gasolio si
adeguino di minuto in minuto, ma ormai il movimento al ribasso del greggio dura
da cinque mesi ed è un fatto curioso che i prezzi dei distributori non se ne
siano quasi accorti.
Un gap che si allarga
Ricostruiamo in poche battute la storia del 2014. Fra gennaio e giugno il Brent
oscillava fra 105 e 115 dollari al barile e la benzina in Italia costava fra 1,7
e 1,8 euro al litro. La situazione era stabile e la relazione fra i prezzi di
greggio e carburante appariva consolidata (e fondata, si suppone, su parametri
oggettivi). Poi per il petrolio sono cominciati cinque mesi di declino ma con
effetti insignificanti sui listini di benzina e gasolio (il che mette in dubbio
l’oggettività dei parametri). Impressionante il confronto complessivo sugli
undici mesi, fra il 5 gennaio e il 27 novembre: Brent a 107,78 dollari al barile
e benzina a 1,729 al litro come dati di partenza, e come numeri finali 76,26
dollari e 1,718 euro al litro. Quindi il Brent in dollari ha perso il 29% e la
benzina in euro solo lo 0,6 per cento.
Perché tanta timidezza
Le compagnie petrolifere potrebbero accampare tre giustificazioni. Siccome i
prezzi del barile e del litro sono espressi in valute differenti, la diversa
dinamica dei listini potrebbe essere attribuita alla variazione del cambio tra
monete. Ma non è vero. Il cambio al 5 gennaio era 1,302 dollari per un euro,
ieri ne bastavano 1,2481 ma la variazione percentuale del prezzo del petrolio
negli undici mesi si riduce di poco se il barile si misura in euro (-26,2%
anziché -29%).
La scusa delle scorte
Un’altra giustificazione tradizionale da parte delle compagnie è che bisogna
prima smaltire le scorte di greggio comprate ad alto prezzo e solo in seguito,
man mano che affluisce il petrolio meno caro, si possono adeguare al ribasso il
listino della benzina e quello del gasolio. Ma neanche questa scusa regge. Fatto
100 il prezzo di inizio gennaio, le ultime scorte di greggio comprate a prezzo
100 risalgono a luglio; da allora a novembre si è smaltito così poco da
giustificare un taglio del prezzo finale di appena lo 0,6 per cento?
Le quotazioni Platts
Dulcis in fundo la spiegazione più tecnica fornita dalle compagnie petrolifere:
quella che fa riferimento alle quotazioni Platts. Quando né le variazioni del
cambio né lo smaltimento delle scorte vengono in aiuto, si sostiene che la vera
variabile a cui guardare non è il prezzo del barile di greggio ma quello dei
carburanti raffinati, di cui l’indice
Platts costituisce la sintesi. Ebbene, neanche da questa variabile arriva una
giustificazione plausibile per la benzina troppo timida nell’andare giù: le
quotazioni Platts sono scese negli ultimi mesi in parallelo con quelle del
barile.
Tabarelli: 4,2 cent di troppo
Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dice al telefono che «il Platts
benzina il primo giugno era a 55 centesimi di euro al litro, adesso» (cioè ieri,
ndr) «è sceso a 44,5 centesimi», quindi in calo drastico. Stessa storia per il
prezzo Platts gasolio: «Il primo giugno era 56 centesimi, poi è crollato a
48,6».
Nomisma Energia pubblica regolarmente nel suo sito web l’andamento di quello che
definisce il «prezzo ottimale» della benzina e del gasolio, confrontati con
l’andamento dei prezzi reali. Nella schermata di ieri fra il prezzo ottimale
della benzina, basato sulle quotazioni Platts, e quello effettivo al
distributore, risultava uno scarto di 4,2 centesimi al litro, e per il gasolio
un divario di 2,6 centesimi calcolato con gli stessi criteri.
Ma Tabarelli non è ottimista sul calo dei prezzi dei carburanti: fra l’altro
segnala come possibile, e forse anche probabile, un rimbalzo del petrolio, che
per le compagnie chiuderebbe il discorso.