
18 ottobre
Al Sud più italiani che stranieri nei centri Caritas
Novità del Rapporto povertà: nel Mezzogiorno i
nostri connazionali che si rivolgono ai Centri di ascolto sono il 66,6% contro
una media del 57,2%
ROMA
- Sono soprattutto gli stranieri a chiedere aiuto ai Centri di ascolto della
Caritas ma, per la prima volta, al Sud la percentuale degli italiani ha superato
di gran lunga quella degli immigrati. È una delle novità del Rapporto 2016 della
Caritas sulla povertà, elaborato sui dati del 2015. Se a livello nazionale il
peso degli stranieri continua a essere maggioritario (57,2%), nel Mezzogiorno
gli italiani hanno fatto il 'sorpasso' e sono al 66,6%. I centri Caritas sono
1.649, dislocati su 173 diocesi.
Parità di genere. Rispetto al genere, il nuovo dossier della Caritas
segna un importante cambio di tendenza: per la prima volta risulta esserci una
sostanziale parità di presenze tra uomini (49,9%) e donne (50,1%), a fronte di
una lunga e consolidata prevalenza del genere femminile.
Età media e titolo di studio. L'età media delle persone che si sono
rivolte ai Centri Caritas è 44 anni. Tra i beneficiari dell'ascolto e
dell'accompagnamento prevalgono le persone coniugate (47,8%), seguite dai celibi
o nubili (26,9%). Il titolo di studio più diffuso è la licenza media inferiore
(41,4%); a seguire, la licenza elementare (16,8%) e la licenza di scuola media
superiore (16,5%). I disoccupati e inoccupati insieme rappresentano il 60,8% del
totale.
Povertà e disoccupazione. I bisogni più frequenti che hanno spinto a
chiedere aiuto sono perlopiù di ordine materiale: spiccano i casi di povertà
economica (76,9%) e di disagio occupazionale (57,2%), ma non sono trascurabili
anche i problemi abitativi (25,0%) e familiari (13,0%). E sono frequenti le
situazioni in cui si cumulano due o più ambiti problematici.
Profughi e richiedenti asilo. Sono 7.770 i profughi e richiedenti asilo
che si sono rivolti ai Centri di ascolto della Caritas nel corso del 2015. Si
tratta per lo più di uomini (92,4%), con un'età compresa tra i 18 e i 34 anni
(79,2%), provenienti soprattutto da Stati africani e dell'Asia
centro-meridionale. Queste persone, sottolinea il dossier, sono spesso
analfabeti (26,0%) o di modesta scolarità (licenza elementare 16,5%, licenza di
scuola media inferiore 22,8%). In termini di bisogno prevalgono le situazioni di
povertà economica (61,2%), ma è alto anche il disagio abitativo, sperimentato da
oltre la metà dei profughi intercettati (55,8%). Tra loro è proprio la "mancanza
di casa" la necessità più comune; seguono le situazioni di precarietà o
inadeguatezza abitativa e di sovraffollamento. In terza posizione i problemi di
istruzione, che si traducono per lo più in difficoltà linguistice e di
analfabetismo. Le loro richieste di aiuto riguardano soprattutto beni e servizi
materiali (pasti alle mense, vestiario, prodotti per l'igiene) ma anche
alloggio.
Fonte: La Repubblica
11 ottobre
Afghanistan, una guerra da 2000 miliardi
Il 7 ottobre del 2001, 15 anni fa, gli Stati
Uniti rispondevano all'attacco delle Torri Gemelle lanciando l'operazione
Enduring Freedom. L'obiettivo era quello di pacificare e modernizzare il Paese
liberandolo dal regime oscurantista dei talibani. Un'ambizione costata, non solo
agli Usa ma anche ai suoi alleati, oltre duemila miliardi di dollari. Altissimo
anche il costo umano: oltre 100mila vittime afgane e 3500 militari occidentali.
E i risultati? Qualche luce e molte ombre, con uno Stato in preda alla
disoccupazione (40%) e alla corruzione, dove il 38% della popolazione è ancora
privo di corrente elettrica
di DANIELE CASTELLANI PERELLI

Si combatte ancora e la gente fugge
di DANIELE CASTELLANI PERELLI
ROMA - I barbieri di Kabul erano in festa, il 13
novembre del 2001: gli uomini riconquistavano il diritto di radersi. Le donne
intanto si sbarazzavano del burqa e potevano finalmente uscire di casa da sole,
mentre in cielo ricominciavano a volteggiare gli aquiloni. C'era di che
rallegrarsi, perché in sole cinque settimane gli americani avevano liberato
Kabul da uno dei regimi più oscurantisti e crudeli della storia moderna. Tanto
era passato infatti dal 7 ottobre, giorno in cui gli Stati Uniti - spalleggiati
dai britannici e dall'Alleanza del Nord - avevano lanciato l'operazione Enduring
Freedom, con l'obiettivo di vendicare gli attentati dell'11 settembre e colpire
Osama Bin Laden, al Qaeda e i talebani loro protettori. Quindici anni dopo, a
che punto è però l'Afghanistan? Sono stati ben spesi i soldi con cui la comunità
internazionale ha provato a rimettere in sicurezza e a ricostruire il Paese?
I numeri di un disastro. Se guardiamo alle principali classifiche internazionali
non ci sono dubbi: l'Afghanistan è oggi un vero disastro. Anzitutto proprio sul
piano della sicurezza. Le tre principali missioni che si sono finora succedute
-Enduring Freedom, Isaf e Resolute Support - non hanno reso l'Afghanistan più
sicuro, tanto che secondo il Global Peace Index del 2016 è il quarto paese meno
pacifico del mondo. Secondo l'americano John Sopko, l'Ispettore generale
speciale per la ricostruzione, tra gennaio e maggio il governo di Kabul ha perso
un altro 5 per cento di territorio, e ora ne controlla solo il 65,6, la
percentuale più bassa dal 2001 ad oggi. Ci sono aree dove la guerra non è mai
finita, gli attentati continuano a insanguinare il Paese, e ora anche l'Isis sta
facendo concorrenza ad Al Qaeda e ai talebani, al punto che secondo l'Onu il
2015 è stato l'anno con il maggior numero di vittime civili dal 2009: 3.545
morti e 7.457 feriti, colpiti nel 62 per cento dei casi da "elementi
anti-governativi" e nel 17 per cento da forze legate all'esecutivo.
Per quanto riguardo lo sviluppo, l'ultimo rapporto dello United Nations
Development Programme colloca l'Afghanistan al 171esimo posto su 188. Più o meno
intorno a quella posizione, tra la 170 e la 175, lo danno le classifiche della
Banca Mondiale, dell'Fmi e dell'Onu per il Pil pro capite, mentre è terzultimo,
166esimo su 168, nell'indice di Transparency International, e 120esimo nel World
Press Freedom Index. Il 39,1 per cento dei suoi 32 milioni di abitanti è povero,
e l'ultima sintesi della Banca Mondiale, aggiornata ad aprile, non è
incoraggiante. Sì, il Pil cresce intorno all'1,5-2 per cento, ma nel 2012
aumentava del 14,4 per cento. Migliorano le entrate fiscali, ma la
disoccupazione è salita addirittura al 40 per cento e l'accesso all'elettricità
rimane uno dei peggiori al mondo (38 per cento). Quanto alle donne, secondo
l'Unione Interparlamentare, rappresentano il 27,7 per cento dei deputati, più
che in Francia o in Canada, ma la vita del "secondo sesso" rimane difficile,
come raccontano il 152esimo posto nel Gender Inequality Index: solo il 19 per
cento lavora, solo il 17 per cento è istruita.
E poi: c'è un avvocato ogni 11 mila cittadini, la malnutrizione dei bambini
sotto i 5 anni è ancora al 40,9 per cento, le foreste sono state decimate, il
terreno coltivabile è scarso. Così non c'è da stupirsi se per tanti giovani
afghani l'unica speranza si chiama emigrazione. Nel 2015 si è più che
quadruplicato il numero di richiedenti asilo nell'Ue. Sono stati 178 mila,
contro i quasi 38 mila del 2014. Ormai sono il secondo gruppo nazionale dopo i
siriani, anche se ancora di più sono quanti cercano asilo in Pakistan e Iran
(2,5 milioni di afghani in entrambi i paesi).Descripción:
http://www.repubblica.it/static/images/inchieste/2016/afghanistan/afghanistan-luci-ombre2.jpgDi
quanto è stato fatto dopo la caduta dei talebani non tutto è da buttare,
ovviamente. E non è solo questione di barbe e burka, di dress code insomma. Dal
2004 si tengono libere elezioni, e l'istruzione e il sistema sanitario sono
migliorati. Dal 2002 ad oggi il numero di iscritti nelle scuole è balzato da uno
a 8,7 milioni (il 36 per cento sono ragazze), quello degli insegnanti da 21 mila
a 185 mila. Tra il 2003 e il 2011 la mortalità infantile è passata dal 16,5 al
7,7 per cento. Tuttavia, come ha sintetizzato a marzo Nicholas Haysom, allora
rappresentante speciale a Kabul del Segretario Generale dell'Onu, "nel 2016, per
il governo, sopravvivere equivarrà a un successo".
Il rapporto costi/benefici. E quanto ha speso l'Occidente, dal 2001 ad oggi,
perché l'Afghanistan ottenesse questi magrissimi risultati? Solo per quanto
riguarda gli Stati Uniti, di gran lunga i protagonisti dell'intervento
occidentale, fino alla fine del 2014 la guerra era costata 765 miliardi di
dollari, secondo i calcoli del Financial Times. Vale a dire 33 mila dollari -
2.300 l'anno - per ogni cittadino afghano, il cui reddito è peraltro di soli 670
dollari. Da allora si è arrivati a 783 miliardi, come ha scritto in un dossier
pubblicato a fine luglio Neta C. Crawford, professoressa di scienze politiche
alla Boston University e condirettrice di Costs of War, un progetto della Brown
University.
La stima è però ampiamente al ribasso, come ci spiega una delle autorità sul
tema, ovvero Linda J. Bilmes, esperta di finanza pubblica di Harvard. "I
conflitti in Afghanistan e in Iraq sono costati insieme tra i 4 e i 6 bilioni,
includendo anche le cure per i veterani. Non è possibile separarli, perché molte
delle truppe e degli equipaggiamenti sono stati impiegati in entrambi gli
scenari. Tuttavia, molto approssimativamente, possiamo dire che il 60 per cento
sia stato impiegato per l'Iraq, il 35 in Afghanistan, e il 5 in altre regioni".
Tradotto: secondo Bilmes, la guerra a Kabul è costata tra gli 1,4 e i 2,1
bilioni.Descripción: http://www.repubblica.it/static/images/inchieste/2016/afghanistan/15-anni-guerra-afghanistan2.jpg
Ma a cosa sono serviti quei soldi? In gran parte a fare la guerra, a mantenere
un contingente militare che ha visto tornare in patria dentro tetri body
bag2.384 soldati statunitensi, secondo il sito icasualties.org. Complessivamente
le vittime militari occidentali sono state 3.520 in tutto, tra cui 455
britannici e 681 di altre nazionalità, compresi 53 italiani (a cui vanno
aggiunti 3 civili) tra caduti in battaglia o in incidenti durante la missione.
La cifra è comunque solo una piccola parte delle 111 mila vittime - delle quali
31 mila civili, 30 mila tra poliziotti e forze di sicurezza, 42 mila tra
talebani e altri militanti - che secondo Neta C. Crawford la guerra in
Afghanistan avrebbe fatto in totale. A metà settembre John Sopko ha dichiarato
che, di tutti quei soldi americani, alla ricostruzione sono andati solo 113,2
miliardi, 63,9 dei quali peraltro usati per addestrare le forze afghane: una
somma che per Sopko supera già comunque quella del Piano Marshall.
Quanto ha speso l'Italia. E l'Italia? Sommando gli stanziamenti dei nostri
governi dal 2001 ad oggi, destinati sia alle varie missioni sia alla
cooperazione, il risultato è di almeno 6,6 miliardi di euro. Nel 2001 l'Italia
stanziò 71 milioni di euro, ma già l'anno successivo la cifra si era più che
triplicata, fino ad arrivare a un record di 833 milioni nel 2011. Fino al 2013,
secondo un rapporto della Camera, erano stati spesi 5.554.103.782 euro. Nel 2014
se ne sono aggiunti 420.239.136, poi con la fine della missione Isaf il
contributo è andato calando sensibilmente: nel 2015 185.024.243, e nel 2016,
fino al 31 dicembre, 179.030.323, mentre altri 120 milioni sono stati destinati,
sia l'anno scorso sia quest'anno, alle forze di sicurezza locali. Da sommare
sono infine i soldi per la cooperazione dal 2014 ad oggi, che, come ci spiega la
Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, sono stati
rispettivamente di 16.690.000, 20.250.000 e 19.950.000.
Anche qui la stima è comunque al ribasso. Non si contano infatti le indennità di
missione di tutti questi anni, le decine di milioni stanziati per l'impiego di
personale militare in Medio Oriente e a Tampa (in Florida) "per esigenze
connesse con le missioni in Afghanistan", oppure quelli per le volontarie della
Croce Rossa. Più altre voci singole, come ad esempio i 127.800 euro per
l'organizzazione di una Conferenza di Roma sulla giustizia nel 2007, o quei
1.613.595 euro stanziati a luglio per "la cessione a titolo gratuito di mezzi e
attrezzature per la gestione dell'aeroporto di Herat". Un prezzo comunque
considerevole, uno dei più alti nell'alleanza, a cui si deve aggiungere quello
umano: l'Italia, come già ricordato, ha infatti registrato in questi anni 53
vittime, oltre alle tre non militari.
Le spese degli alleati e gli altri costi. Quanto ai nostri principali alleati,
per i due paesi che dividono il podio con gli Stati Uniti per numero di truppe
inviate in questi anni, ovvero il Regno Unito e la Germania, sono state rese
note le spese fino alla fine del 2014, quando si è conclusa la missione Isaf:
hanno sborsato rispettivamente 37 miliardi di sterline (circa 43 miliardi di
euro) e 9,8 miliardi di euro. Oltre agli stanziamenti nazionali, ci sono stati
anche quelli di due budget comuni della Nato, Nisp e Military Budget, che finora
hanno sborsato - ci spiegano da Bruxelles dall'Alleanza atlantica - 5,34
miliardi di euro, a cui vanno aggiunti gli 1,5 miliardi di dollari dell'Ana
Trust Fund. Dal gennaio 2015, poi, è attiva la Resolute Support Mission, che è
decisamente meno impegnativa, per compiti e costi, delle precedenti, ma vede
comunque in prima linea 39 Paesi con 13.079 soldati, in testa Stati Uniti
(6.800), Germania (980) e Italia (945). All'ultimo vertice di Varsavia, a
luglio, i leader della Nato hanno infine annunciato che continueranno a
finanziare la presenza dell'Alleanza con 5 miliardi di dollari l'anno fino al
2020, circa 3,5 dei quali saranno assicurati dagli Stati Uniti.Descripción:
http://www.repubblica.it/static/images/inchieste/2016/afghanistan/guerra-afghanistan-oggi.jpgUn'ultima
voce è rappresentata dai soldi destinati allo sviluppo dalla comunità
internazionale. È una giungla di dati in cui è facile perdersi, tra Banca
Mondiale, accordi bilaterali, Ue e Onu. Un calcolo totale più preciso ci ha
aiutato a farlo la Development Initiatives, un'organizzazione britannica i cui
studi sull'assistenza umanitaria globale sono finanziati dai governi di Canada,
Olanda, Svezia e Regno Unito. "Tra il 2002 e il 2014 l'Afghanistan ha ricevuto
61,1 miliardi di Aiuti pubblici allo sviluppo (Oda), incluse cioè le spese
umanitarie bilaterali e multilaterali dei paesi Ocse ed esclusi i fondi per la
sicurezza locale", ci spiegano. La discrepanza con i 113,2 miliardi investiti
dagli americani per la ricostruzione dipende perlopiù, oltre che in parte
dall'uso di una diversa metodologia, proprio dal fatto che in quest'ultima cifra
- riferita peraltro anche al 2015 e al 2016 - gli aiuti alle forze di sicurezza
afghane, dunque non di assistenza umanitaria, la fanno da padrona. Tabelle Oda
alla mano, i tre paesi più generosi risultano essere stati finora di gran lunga
Stati Uniti, Giappone e Germania.
Cos'è andato storto...e l'Afghanistan tra 15 anni. Dunque: quindici anni di
guerra, mille miliardi di dollari a tenersi bassi, 111 mila morti, tutto per i
risultati citati all'inizio. Cos'è andato storto? Lo abbiamo chiesto a due dei
più importanti esperti internazionali di Afghanistan. "L'Iraq, ecco cosa è
andato storto", ci risponde da Londra Ahmed Rashid, anglopachistano, autore del
bestseller 'Talebani': "Quell'invasione ha distolto truppe e energie dallo
scenario afghano quando i talebani erano quasi sconfitti. Se sono stati spesi
troppi pochi soldi per la ricostruzione? Forse sì, ma era difficile fare
altrimenti in un paese ancora in guerra". Invece secondo Carlotta Gall,
corrispondente del New York Times da Kabul dal 2001 al 2013, oggi in Nord
Africa, autrice nel 2014 di 'The Wrong Enemy: America in Afghanistan', "la
stabilizzazione del Paese è stata resa estremamente difficile dal Pakistan, che
in questi anni ha sostenuto e protetto i talebani e ha protetto Al Qaeda. Questa
è la mia tesi, e penso che anche Washington sia arrivata alle stesse
conclusioni. Come nel caso dei vietcong, è difficile combattere un'insurgency se
un paese vicino le assicura un porto sicuro e una via di rifornimento".
Tuttavia, per Carlotta Gall, si è assistito a "un progresso reale in ogni
settore, l'intera economia si è risollevata, la sanità e l'istruzione sono
migliorati immensamente, e anche le forze di sicurezza si sono
professionalizzate, mentre strade e infrastrutture erano totalmente distrutte
nel 2001. Ferrovie, aeroporti, dogane, dipartimenti delle tasse, tutto è nuovo".
E dove sarà l'Afghanistan tra altri 15 anni? "Non vedo speranze, a meno che non
si riesca a raggiungere un accordo con la lobby moderata che eppure esiste tra i
talebani. L'anno scorso l'opportunità si è presentata, ma poi è stata persa -
risponde Rashid - L'Occidente deve continuare a fare pressioni in tal senso,
anche se comprensibilmente oggi è distratto dalla Siria e dall'Iraq, mentre i
vicini, da una parte il Pakistan e dall'altra India e Iran, continuano a
interferire negativamente negli affari di Kabul, per non parlare della nuova
presenza dell'Isis. Come sempre è accaduto nella sua storia, l'Afghanistan è
ancora in balia delle potenze straniere". "Tra 15 anni? Ho letto da qualche
parte - conclude Gall - che ne servono 25 perché un paese si riprenda dalla
guerra, e lì la guerra non è ancora finita. C'è bisogno che in 5-10 anni si
arrivi a un accordo di pace. Solo a quel punto l'Afghanistan avrà veramente la
possibilità di crescere".
"Dai mattoni alle aspirine, si ruba su tutto"
di DANIELE CASTELLANI PERELLI
ROMA - Può uno Stato vincere una guerra senza la
fiducia del proprio popolo? Difficilmente potrà l'Afghanistan, se non riuscirà
prima a sconfiggere un nemico forse ancora più inestirpabile dei talebani: la
corruzione. Uno dei testimoni più informati di quanto la mazzetta e il
favoritismo scandiscano la vita quotidiana di ogni afghano è l'eurodeputata
verde Eva Joly, magistrata franco-norvegese che prima si è occupata di grandi
scandali politico-finanziari francesi e poi ha presieduto il Mec, organismo
anti-corruzione afghano, di cui ha fatto parte dal 2012 al 2015.
"Scoprimmo che più della metà dei soldi pubblici finiva in corruzione", ci
spiega Joly da Strasburgo: "I cittadini sono abituati a pagare mazzette per
qualsiasi cosa. Ma l'aspetto più spaventoso è che la catena è ininterrotta, fino
al livello più alto possibile. I ministeri sono protagonisti della corruzione,
sanno benissimo come funziona, e chi ci lavora ne trae vantaggio. Ad esempio il
ministero della Salute, che ha il compito di dare il via libera all'importazione
dei farmaci, che perlopiù vengono dal Pakistan. Ebbene, venivano approvati
medicinali che non lo erano, aspirine che non erano aspirine. I soldi con cui si
dovrebbero costruire gli ospedali sono impiegati per tutt'altro, oppure
spariscono. Nell'edilizia si usano materiali molto più poveri di quelli che si
sostiene di aver comprato, e lo stesso succede quando si fa una strada. Per non
parlare di quello che scoprimmo analizzando la dieta delle forze di sicurezza,
cui in teoria si era pensato di destinare 6 mila calorie al giorno, e invece
quei ragazzi rischiavano ogni giorno la loro vita nutrendosi di riso scadente e
appena 1.200 calorie".
A combattere questo mondo criminale, poi, non ci sono quasi mai giudici
indipendenti, che, "quando invece trovano il coraggio, vengono facilmente
terrorizzati dai potenti e dalle bande". "L'Afghanistan ha un organismo per
reclutare i funzionari pubblici, e quando l'abbiamo analizzato abbiamo visto che
nei curricula aveva difficoltà a distinguere tra diplomi veri e fasulli", spiega
Joly, che a un certo punto preferì lasciare Kabul a causa del senso di impotenza
e della paura ("C'era un attentato a settimana, ed io, donna con i capelli
biondi, davo troppo nell'occhio, avevo paura anche ad uscire di casa"), ma ha
continuato comunque a seguire, anche attraverso il Mec, i pochi progressi del
Paese.
Ricorda con amarezza il caso della Kabul Bank, "forse il più grande scandalo
bancario del mondo", che nel 2010 ha coinvolto in prima persona il fratello di
Hamid Karzai - presidente dal 2001 al 2014 - e ha visto svanire nel nulla quasi
un miliardo di dollari. Le cronache di questi mesi non sono però da meno.
Raccontano dei soldati "fantasma" che non esistono o sono morti, ma di cui
qualcuno riceve comunque gli stipendi; della centrale energetica da 355 milioni
che nessuno usa; della produzione dell'oppio che rimane ai livelli del 2000,
nonostante i 7 miliardi di dollari spesi per combatterla; e del commercio dei
lapislazzuli che è diventata la seconda fonte di guadagno per i talebani.
L'Occidente ha le sue responsabilità. Non solo perché non ha verificato che fine
facessero gli aiuti internazionali, come ha rimarcato di recente John Sopko,
l'Ispettore generale speciale per la ricostruzione, ma anche perché, segnala
Joly, alcune iniziative, come quella di consegnare i soldi in contanti nei
villaggi, non si sono rivelate proprio delle buone idee: "Ma soprattutto si sono
chiusi gli occhi quando emergeva che qualche ministro afghano si era comprato
un'auto di lusso oppure una villa in Germania o negli Stati Uniti. Con quali
soldi lo faceva?".
"La corruzione è un enorme ostacolo alla pace", dice Joly. Il problema è che, se
da un lato alimenta a suo modo la guerra, dall'altro ne è alimentata, in un
infinito circolo vizioso: "Cerco di prendere e godere tutto il possibile oggi,
perché domani potrei venire ammazzato, questa è la mentalità che porta la
guerra". Per il futuro è difficile essere ottimisti, ma almeno ora c'è il
presidente Ashraf Ghani, "un uomo che a differenza del suo predecessore non è
mosso dall'avidità". "Per il resto - conclude Joly - dobbiamo riporre la nostra
fiducia nei tantissimi giovani di buona volontà che vivono in quel paese,
sperare che sappiano costruire delle isole di integrità da cui la società possa
ripartire".
6 ottobre
Cucchi, i pazienti: "Di epilessia non si muore". Il neurologo conferma: "Morte
improvvisa evento rarissimo"
In
Italia in 500 mila soffrono di questa malattia ma è controllabile. Le persone
affette da epilessia e i loro parenti fanno sentire le loro voci
di VALERIA PINI
L'EPILESSIA è una malattia diffusa in Italia, ne
soffrono circa 500 mila persone, ma la morte improvvisa, pur se possibile,
rappresenta davvero un evento raro. Si verifica in particolare nei casi di crisi
epilettiche generalizzate e molto frequenti. A spiegarlo è Vincenzo Di Lazzaro,
ordinario di neurologia alCampus Biomedico di Roma, commentando il caso Cucchi.
"Vorrei mandare un messaggio rassicurante ai pazienti - spiega rispondendo a una
domanda sulla morte improvvisa - la malattia è generalmente ben controllabile".
Le associazioni insorgono. E proprio le persone affette da epilessia e i
loro parenti fanno sentire le loro voci. Preoccupate per un allarme che - come
conferma il neurologo Di Lazzaro - non ha ragione di esistere. E, insieme,
indignati per come il loro problema sia stato tirato in ballo in un caso così
drammatico e controverso. "Non vogliamo strumentalizzazioni - spiega Rosa
Cervellione, presidente della Federazione italiana epilessia e di Epilessia
Lombardia Onlus - . Spesso la parola epilessia viene usata per fare
sensazionalismi. Come comunità ci sentiamo feriti. Anche se non possiamo
commentare l'autopsia di Cucchi, perché non conosciamo i documenti, c'è sempre
il timore di strumentalizzazioni. La morte improvvisa è un evento molto raro".
Il neurologo. La sospensione improvvisa dei farmaci antiepilettici, la
mancata risposta alle cure o la presenza di patologie cardiache associate ad
aritmie potrebbero incrementarne il rischio. "Impossibile - dice ancora Di
Lazzaro - valutare la situazione specifica" di Stefano Cucchi non conoscendo i
dettagli relativi alle patologie preesistenti, alla sua morte ed ai risultati
dell'esame autoptico".
La morte improvvisa. La morte improvvisa e inaspettata dei pazienti
epilettici (Sudep: sudden unexpected Death in epilepsy) è un evento
relativamente raro, ma sul quale è estremamente vivo l'interesse della comunità
scientifica internazionale. E' una complicanza devastante dell'epilessia che si
stima possa essere responsabile del 10% dei decessi dei pazienti.
Lo studio. La questione della 'morte improvvisa per epilessia' è da tempo
all'attenzione dei neurologi e uno studio statunitense dell'equipe di
ricercatori diretta da Jeffrey Noebels, neurologo presso il Baylor college of
Medicine di Houston, pubblicato sulla rivista Science translational medicine
suggeriva che l'evento potrebbe scaturire da un arresto encefalico a seguito di
un attacco epilettico.
Spesso pazienti giovani. La Sudep colpisce senza preavviso: spesso le
persone vengono trovate morte dopo un attacco epilettico. Si tratta spesso di
giovani (l'età media è intorno ai 20 anni) e i pazienti con attacchi
generalizzati incontrollati (il tipo più grave di epilessia) sono quelli che
corrono il rischio più alto.
Difficile da identificare. Già in uno studio pubblicato nel 2013 sulla
rivista theLancet, un team internazionale di ricercatori aveva descritto i casi
di pazienti epilettici morti mentre erano tenuti sotto controllo da
apparecchiature ospedaliere per il monitoraggio dell'epilessia. Nei casi di
Sudep l'esame tossicologico e l'analisi autoptica post mortem non sono in grado
di identificare la causa del decesso in quanto non rivelano alcun danno
anatomico.
Varia da caso a caso. Secondo il gruppo di studio della Lice (Lega
italiana contro l'epilessia sugli aspetti clinici della Sudep), l'incidenza
riportata è diversa in rapporto al tipo di popolazione studiata variando dal
0,35 casi ogni mille l'anno nei pazienti con epilessia di nuova insorgenza e nei
pazienti in remissione al 3-9 ogni mille nei pazienti con epilessia cronica e
refrattaria.
Fattori di rischio. Il più importante fattore di rischio - chiariscono i
neurologi - sembrerebbe essere l'elevata frequenza di crisi e i meccanismi
coinvolti sarebbero di tipo cardiaco e respiratorio. Ma molti indizi
suggeriscono la presenza di fattori predisponenti individuali, ad esempio, su
base genetica. In particolare recenti studi hanno ipotizzato la possibilità che
una canalopatia comune possa essere alla base sia della malattia cardiaca sia
dell'epilessia e quindi potrebbe contribuire alla maggiore incidenza di sudep
attraverso una aritmia cardiaca letale.
La patologia. L'epilessia è una malattia ancora per molti versi poco
conosciuta ma più diffusa di quanto non si pensi. In italia colpisce mezzo
milione di persone, ma oltre la metà ne ignora la causa. Recentemente la
federazione italiana epilessie (Fie) ha sviluppato un ampio progetto per la
mappatura del Dna di bambini con epilessia, allo scopo di scoprirne le cause
genetiche: "in questo modo - hanno chiarito i ricercatori - sarà possibile
individuare nuovi geni responsabili della patologia e progettare terapie per la
malattia, su misura per ogni paziente".
Fonte: La Repubblica
4 ottobre

Amatrice, la ricostruzione sulla via dello spreco
Primo bilancio a un mese dal sisma: le case
provvisorie costano più di tutti gli edifici nuovi della zona. Perché la
Protezione civile ha un modello che favorisce lo sperpero. Senza benefici per la
popolazione
DI FABRIZIO GATTI
C’è una domanda che Sergio Pirozzi, sindaco di
Amatrice, dovrebbe fare a Fabrizio Curcio, capo nazionale della Protezione
civile: «Perché nel 1997 bastarono quarantacinque giorni per dare un tetto
provvisorio a oltre tremilaquattrocento persone, dopo il terremoto di Marche e
Umbria e oggi servono sette mesi per 2.304 sfollati?». La stessa questione
riguarda perfino noi contribuenti, se teniamo davvero ai principi dell’articolo
97 della Costituzione sul buon andamento della pubblica amministrazione. Ma non
solo i tempi di intervento si sono paurosamente dilatati da allora, con un salto
del 366 per cento. Anche i costi sono letteralmente esplosi.
Il dopo-terremoto 2016 ha già imboccato la strada lastricata d’oro (per pochi
imprenditori) che aveva guidato l’emergenza a L’Aquila nel 2009: cioè la via
dello spreco, già pesantemente sanzionata dalla Commissione di controllo del
Parlamento europeo sui bilanci Ue e dalla Corte dei conti europea (Special
report 24/2012), dopo che l’Unione ci aveva rimesso svariate centinaia di
milioni. Perché, come vedremo, ciascuna casetta di legno che costruiranno ad
Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto la pagheremo perfino più di quanto in
Abruzzo ci era costata la Protezione civile di Guido Bertolaso, l’ex capo
dipartimento che si avvia felicemente alla prescrizione dei processi penali che
lo riguardano. Questione di giorni.
Il prezzo al metro quadro per i moduli abitativi provvisori che la Protezione
civile sborserà è infatti di 1.075 euro (contratto Consip del 25 maggio 2016 per
“fornitura, trasporto, montaggio di Sae - soluzioni abitative in emergenza”). Il
costo supera il valore di tutti i tipi di edifici nuovi e in muratura nella
provincia di Rieti e nella zona di Amatrice prima del terremoto: 990 euro al
metro quadrato un appartamento, 840 una casa di edilizia economica, 1.000 una
villa. Quotazioni immobiliari che nei paesi subito al di fuori dell’area del
disastro scendono a 790 euro al metro quadro per un appartamento, 740 per una
casa economica, 840 per una villa in ottime condizioni (dati Agenzia del
territorio).
Ecco quindi una seconda domanda che il sindaco Pirozzi potrebbe porre al capo
dipartimento Curcio, ma anche al ministro dell’Economia, Gian Carlo Padoan: lo
Stato può pagare una casa di legno provvisoria in proporzione il 28 per cento in
più di una villa di lusso?
Stando così le cifre, è difficile ricavare benefici dalla gara d’appalto
organizzata attraverso Consip, la centrale acquisti del ministero dell’Economia.
Il valore della fornitura stabilito da Consip per la prenotazione preventiva di
diciottomila “soluzioni abitative in emergenza” è infatti di un miliardo e 188
milioni di euro: i contratti, firmati il 25 maggio di quest’anno e suddivisi in
tre lotti, sono stati vinti da aziende legate alla Lega Coop, riunite intorno al
“Consorzio nazionale servizi” di Bologna, lo stesso attraverso cui
l’imprenditore romano arrestato, Salvatore Buzzi, si era garantito alcuni
appalti di “mafia Capitale”.
Ad Amatrice fornitura, trasporto e montaggio di ciascuna Sae, così sono state
rinominate le casette di legno, ci costerà 66 mila euro Iva esclusa, più i costi
di esproprio dei terreni, le opere di urbanizzazione, gli allacciamenti,
eventuali urgenze. Perfino più del prezzo stabilito in Abruzzo dalla Protezione
civile di Bertolaso. Perché nella cifra del 2009 l’Iva era compresa: 68mila 559
euro per ciascuna delle 3.473 casette, allora chiamate Map.
I costi di oggi condizionano inesorabilmente il nostro futuro. E soprattutto il
domani degli sfollati. Come hanno evidenziato sia la Commissione di controllo
sui bilanci Ue sia la Corte dei conti europea, ogni spesa inutile, eccessiva o
fuori norma durante le emergenze sottrae importanti risorse economiche alla
ricostruzione e alla prevenzione dei disastri. Concetti che il capo dipartimento
della Protezione civile, Fabrizio Curcio, e il suo vice, Angelo Borrelli,
certamente conoscono. Curcio per essere stato dal 2007 al 2008 responsabile
della segreteria personale di Guido Bertolaso e dal 2008 al 2012 capo
dell’ufficio gestione delle emergenze. Borrelli per aver ricoperto dal 2003 al
2010, sempre sotto la direzione di Bertolaso, gli incarichi di coordinatore
dell’ufficio amministrazione e finanza, dell’ufficio bilancio e risorse umane e
poi dell’ufficio amministrazione e bilancio. Ma anche per aver firmato, il 25
maggio scorso, i tre contratti sulle casette che impegnano lo Stato con le Coop
per i prossimi sei anni in caso di calamità per un miliardo e 188 milioni. Ed è
una spesa che non si esaurisce con la firma.
Le case prefabbricate scelte da Curcio e Borrelli e dai loro consiglieri tecnici
provocano uno strascico di costi incontrollabili, come il terremoto 2009 in
Abruzzo insegna: dagli indennizzi per gli espropri dei terreni alla spesa per le
piattaforme di cemento armato su cui costruire i quartieri di legno, dalle opere
urbanistiche definitive all’inutile distruzione di territorio. Fino alla
desertificazione dei paesi. Con gli interventi imposti dalla Protezione civile a
L’Aquila e in provincia, migliaia di sfollati sono stati trasferiti su terreni
isolati. E i centri storici si sono spopolati. Anzi, sono finite le risorse che
avrebbero dovuto stimolarne la ricostruzione e l’orologio non si è più mosso
dall’ora della scossa. In altre parole, le casette provvisorie sono diventate
definitive. Ed è proprio quanto sostiene la Commissione Ue per il controllo dei
bilanci. Così è scritto nella relazione del 2013: mette sotto accusa l’uso dei
493,8 milioni del fondo europeo di solidarietà nella costruzione dei condomini
in cartongesso del progetto “Case”, perché si tratta di opere definitive e non
di emergenza, e delle casette di legno “Map”, per la scarsa qualità dei
materiali forniti, in alcuni casi tossici, e gli errori di realizzazione che
hanno già provocato qualche incendio.
Ad Amatrice e dintorni gli abitanti rischiano lo stesso destino. Perché sulla
carta l’epoca di Bertolaso è terminata. Ma Curcio e Borrelli continuano in buona
fede ad applicare i suoi piani. Modelli che servivano da vetrina al governo di
Silvio Berlusconi. E ancora oggi obbligheranno lo Stato ad affrontare costi
altrimenti evitabili. A cominciare dai trasferimenti in albergo sollecitati in
questi giorni in vista dell’inverno, fino al “contributo di autonoma
sistemazione”: 600 euro al mese a famiglia, somma che nei paesi risparmiati dal
terremoto nelle province di Rieti e Ascoli equivale al canone mensile per
affittare non uno ma contemporaneamente tre appartamenti di 80 metri quadri
(dati Agenzia del territorio).
L’alternativa praticabile è ancora scritta nei fascicoli sul terremoto 1997,
depositati negli archivi delle amministrazioni regionali di Umbria e Marche e
negli armadi romani della Protezione civile. Un protocollo applicato più volte
dal dipartimento allora guidato dal vulcanologo Franco Barberi. E subito
stravolto con l’arrivo di Bertolaso. A differenza di quanto è avvenuto in
Abruzzo, è un modello totalmente in linea con le direttive di impiego dei fondi
di solidarietà dell’Unione europea che dal 2002 a oggi (Amatrice esclusa) ha
stanziato per le calamità italiane un miliardo e 246 milioni (di cui 493,8 in
Abruzzo e 670,2 in Emilia per il terremoto 2012). È il record europeo: la
Germania, seconda, si è fermata a 610,9 milioni.
Nell’emergenza Umbria-Marche il 26 settembre ’97, la magnitudo della scossa più
forte fu di 6,1, non molto superiore all’intensità del 24 agosto ad Amatrice.
«Anche se il numero delle vittime si fermò a undici, avevamo ventimila
sfollati», ricorda Piero Moscardini, allora coordinatore del centro operativo
misto di Nocera Umbra. Una vita trascorsa nei vigili del fuoco, poi nella
Protezione civile nazionale e una voce sempre critica del modello Bertolaso: «In
appena tre mesi a Nocera furono predisposte 37 aree su cui furono posizionati
126 moduli sociali e 941 moduli abitativi per 852 famiglie e un totale di 2.132
persone. Lo stesso fecero gli altri Comuni. Tutti sistemati in tre mesi, non in
sette. E se consideriamo l’intero territorio coinvolto dai crolli, bastarono
quarantacinque giorni per togliere dalle tende le prime tremila persone. Più di
quante oggi attendono una sistemazione nell’area di Amatrice. Vorrei
sottolineare il periodo: quarantacinque giorni. Se non mi crede, ecco qua lo
stato dei lavori all’11 novembre 1997», conclude Moscardini e mostra la tabella.
La rapidità di intervento di quella Protezione civile era dovuta all’impiego di
moduli abitativi trasportabili come container: piccoli appartamenti mobili e
riutilizzabili che non richiedevano espropri, varianti al piano regolatore,
permessi a costruire o piattaforme in cemento armato. Conclusa l’emergenza, le
aree occupate ritornavano al loro impiego precedente: parcheggi, campi sportivi,
terreni coltivati. Invece lo staff di Bertolaso se ne liberò dandone qualcuno
alle Regioni e lasciando marcire migliaia di moduli nel deposito dell’esercito a
Capua, in provincia di Caserta. Oggi l’evoluzione nella produzione mette a
disposizione case mobili su ruote: si parte da dodicimila euro a chalet per
strutture pronte all’uso in 48 ore. Una soluzione contemplata dalla legge, che
affida alla Protezione civile soltanto opere provvisorie. Ma non dai protocolli
del dipartimento nazionale.
La confusione in materia è evidente sul sito istituzionale: «È possibile
realizzare moduli abitativi con struttura prefabbricata in cemento armato?»,
chiede un imprenditore in merito alla fornitura delle casette di legno. «La
struttura portante potrà essere realizzata in qualunque materiale scelto dal
fornitore... Si conferma pertanto la possibilità di realizzare i moduli
abitativi con struttura prefabbricata in cemento armato», risponde il
dipartimento, esponendo gli sfollati a qualunque materiale, scelto da chi vende
e non da chi compra: quindi anche polistirolo, gommapiuma, truciolare scadente,
esattamente come a L’Aquila. Mentre il cemento armato provvisorio proposto per
Amatrice è un ossimoro strutturale ancora ignorato dalla normativa edilizia.
Basta una visita a San Giuliano di Puglia, paese della strage di bambini nella
scuola crollata con la scossa del 2002, per verificare cosa succede alle case di
legno provvisoriamente fisse: usciti gli sfollati, cadono a pezzi perché
costerebbe troppo smontarle e rimetterle a disposizione per una nuova emergenza.
Sempre seguendo il modello Bertolaso, sui conti pubblici già provati dal
disastro si abbatte poi il cataclisma degli espropri. In Abruzzo per far posto a
“Map” e “Case”, le ordinanze di protezione civile hanno requisito 24mila
particelle catastali caricando sui cittadini un costo aggiuntivo di 215 milioni.
Tre anni dopo il terremoto, gli interessi legali sugli indennizzi non ancora
pagati facevano lievitare la spesa al ritmo di 700 mila euro al mese. Un regalo
alla Curia e ai latifondisti aquilani, proprietari di terreni agricoli pagati
dallo Stato come fossero edificabili. Ma non è bastato ad aumentare la guardia.
Il report interno della Protezione civile “Assistenza alla popolazione - ore 12
del 21 settembre 2016”, informa che per 2.672 sfollati alloggiati in tenda nelle
quattro regioni interessate e 967 volontari in servizio sono tuttora allestiti
7.467 posti: cioè un totale di 3.828 letti fantasma. È comprensibile che nelle
prime ore si muovano più forze del necessario: ma dopo un mese dal 24 agosto è
giustificabile che la Protezione civile le lasci sul posto, con i relativi costi
per le indennità di missione? Il record è della Regione Lazio: 558 volontari con
rimborsi di circa 103 euro al giorno a persona per appena 796 ospiti alloggiati
su 2.045 posti tenda. Quasi un assistente per ogni assistito.
Saremo pure indietro nella prevenzione antisismica: ma nello spreco di soldi
pubblici, non ci batte nessuno.
Fonte: L'Espresso
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