1 dicembre

 

 

Amianto, no pensionamento anticipato per chi è stato esposto. La protesta dei lavoratori, il governo cerca una soluzione

Viola Contursi, L'Huffington Post

"Abbiamo respirato amianto per anni tutti i giorni, come diversi colleghi morti di mesotelioma. E anche noi non sappiamo fino a quando non ci verrà qualcosa. Speravamo di poter andare in pensione anticipata ma invece così non è stato. E solo perché la nostra azienda è ancora in vita. Siamo arrabbiati, non si possono fare differenze tra lavoratori, è un'ingiustizia". A parlare è Lorenzo, 55 anni di cui 36 passati a fare l'operaio dentro una fabbrica di Casale Monferrato. Quindici dei quali a lavorare amianto. Lorenzo, insieme a centinaia di operai sparsi in tutta Italia, avrebbe diritto al riconoscimento di più contributi previdenziali per ogni anno di riconosciuta esposizione all'amianto. La legge di Stabilità dello scorso anno ha nuovamente riconosciuto questo diritto, ma solo per gli ex lavoratori di aziende ormai chiuse. E tutti i Lorenzo d'Italia sono stati quindi "beffati". Loro non possono andare in pensione anticipata, perché la loro azienda non è fallita.

"Mi mancano sette anni per andare in pensione - racconta all'Huffington Post - e come me diversi colleghi, non solo in Piemonte. Mi sono state riconosciute 767 settimane di esposizione all'amianto ma non posso andare in prepensionamento perché non sono in mobilità e la mia azienda non ha chiuso. Se avessi avuto riconosciuti i benefici previdenziali sarei già andato in pensione. E invece io, che l'amianto l'ho lavorato per anni, devo continuare a lavorare, solo perché la mia azienda (fortunatamente) non ha chiuso. È un'ingiustizia".

Partiamo dall'inizio. Dal 1992 al 2003 i lavoratori che avevano ottenuto dall'Inail il riconoscimento dell'esposizione all'amianto per almeno 10 anni potevano andare in pensione prima. In pratica ai fini previdenziali ogni anno di esposizione veniva calcolato con coefficiente 1,5, quindi 10 anni di esposizione venivano calcolati come 15 anni di contributi. La legge di Stabilità entrata in vigore il primo gennaio 2015 ha riconosciuto nuovamente gli stessi benefici ma solo ai "dipendenti da aziende che hanno collocato tutti i dipendenti in mobilità per cessazione dell'attività lavorativa". Così sono potuti andare in pensione anticipata, ad esempio, diversi operai della Fincantieri di Genova o della Isochimica di Avellino. Ma sono invece rimasti "beffati", come Lorenzo, centinaia di altri operai di aziende che sono ancora in attività. Basti pensare che sono circa 300 mila gli ex esposti (dati emersi durante l'Assembea sull'amianto che si é tenuta oggi in Sensto). E che un tempo (prima del 1992 quando l'amianto venne messo fuori legge) diverse aziende lo lavoravano, tra cui la Olivetti, le Ferrovie, la Fincantieri, l'Ansaldo, l'Ilva (prima Italsider). E di amianto erano fatti anche alcuni componenti dell'automotive. Anche gli operai ancora in servizio di queste aziende, che hanno avuto riconosciuta l'esposizione all'amianto, non hanno diritto al prepensionamento. Perché la loro azienda è in vita.

Ora, in legge di Stabilità, potrebbe essere trovata una soluzione per Lorenzo e per tutti gli altri operai nella stessa situazione. A chiederlo, l'intera commissione Lavoro della Camera e diversi parlamentari, tra cui Fabio Lavagno e Antonio Boccuzzi del Pd. Se il governo deciderà di accogliere le loro proposte potrebbe essere esteso anche agli operai in servizio il beneficio di andare in pensione prima del previsto.

Un diritto, per chi fa i conti con la paura di ammalarsi di mesotelioma tutti i giorni. "Abbiamo respirato amianto per anni e non sappiamo fino a quando non ci verrà un accidente - racconta Lorenzo -. A Casale poi tutte le settimane muore gente. Quando fai una rampa di scale e ti manca il fiato inizi a preoccuparti. Inoltre chiunque di noi é stato operato di qualunque cosa, siamo tutti rotti perché facciamo lavori usuranti. Aspettavamo questa norma per andare via, in pensione, visto che con questa legge Fornero si allunga sempre di più l'età pensionabile. E invece no. Il governo dice che non ha soldi ma noi vogliamo giustizia".

 

Cop 21. Intervista a Enzo Di Salvatore, costituzionalista Notriv: "Da Renzi a Parigi belle parole, ma resta legato al petrolio"

L’Italia sta facendo la sua parte? Non mi pare proprio. La strategia energetica nazionale prevede sì un capitolo rinnovabili ma si basa ancora sul petrolio. Nell’ultimo anno, il governo sta facendo fioccare i decreti di compatibilità ambientale per nuovi permessi di ricerca e concessioni di estrazione petrolifera. Sono i fatti che parlano. Ed è per questo che abbiamo pensato ad un referendum anti-trivelle: chiediamo un election day, consultazione e amministrative insieme nell’interesse dell’ambiente e degli italiani”.

Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale a Teramo, è la mano che ha scritto i quesiti referendari anti-trivelle che abrogano alcuni articoli del decreto Sblocca Italia. I quesiti hanno appena ricevuto l’ok della Cassazione. Tra gennaio e febbraio sarà la Corte Costituzionale a dire la sua. Ma intorno all’idea di consultazione popolare – da tenersi nella prossima primavera – si è già raccolto un fronte largo che comprende ben 10 amministrazioni regionali, forze politiche dal M5s, alla sinistra italiana, a pezzi di Lega (il Veneto di Luca Zaia è tra le Regioni che appoggiano l’iniziativa). E poi, presente in massa, è il mondo cattolico, particolarmente sollecitato da Papa Francesco alla cura delle questioni ambientali. “Noi parliamo con tutti, anche con il Pd se vuole: non abbiamo e non vogliamo steccati politici, stiamo al merito delle questioni”, ci dice Di Salvatore in questa intervista.

All’inaugurazione di Cop21, la conferenza Onu sul clima in corso a Parigi, Renzi difende l’impegno italiano in materia di riduzione delle emissioni inquinanti e per quanto riguarda gli investimenti in energie rinnovabili. “L’Italia fa la sua parte”, dice il premier. E’ così?
Dico di no. La Tap (Trans Adriatic Pipeline, corridoio meridionale del gas dal Mar Caspio al Salento, passando per Azerbaijan, Georgia, Turchia, Grecia e Albania, ndr.) è in dirittura d’arrivo e parrebbe porre problemi di vario tipo. ‘Ombrina mare’, progetto di estrazioni petrolifere nell’Adriatico al largo dell’Abruzzo, è alle battute finali: la concessione dovrebbe arrivare a giorni. L’attuazione della strategia energetica nazionale prevede sì un capitolo sulle rinnovabili, ma si basa ancora sul petrolio: i nuovi progetti petroliferi si stanno concludendo. Cito il ‘Vega B’ nel Canale di Sicilia, che è quasi fatto. Tempa Rossa che sicuramente arriverà a conclusione e che comporterà il raddoppio delle estrazioni petrolifere in Basilicata. In questo caso, il primo trattamento del greggio avverrà nella raffineria di Taranto: ciò comporterà la costruzione di un oleodotto, non si sa poi dove questo petrolio verrà invece ulteriormente raffinato e dunque è lecito presupporre un notevole incremento del traffico di navi nel golfo di Taranto. Tutte questioni che pongono notevoli problemi di ordine ambientale.

Dunque non ci siamo.
No. Le dico che nell’ultimo anno stanno fioccando i decreti di compatibilità ambientale per nuovi progetti di ricerca ed estrazione petrolifera. Ultimamente ne sono arrivati due per la Shell nel Golfo di Taranto che si aggiungono a quelli che già ci sono. Solo la Puglia è stata interessata ultimamente da 4-5 decreti di compatibilità ambientale e da qui alle conferenze di servizi e quindi al rilascio dei titoli minerari il passo è breve. Posso andare avanti con gli esempi.

Prego.
Il progetto di prospezione della società inglese Spectrum Geo nel Mare Adriatico è il più grande in assoluto. Va dall’Emilia Romagna fino alla Puglia, riguarda ben 5 regioni. Per ora prevede solo la ricerca di idrocarburi. Ma, se la prospezione va a buon fine, la ricerca potrà tradursi in progetti di estrazione: in alcuni casi entro le 12 miglia dalla costa e in altri casi addirittura entro le 5 miglia dalla costa. Non mi pare che stiamo andando nella riduzione delle emissioni inquinanti: perché questo tipo di strategia energetica incide anche in questo senso. Oltretutto si tratta di progetti che non presentano alcuna correlazione necessaria con il fabbisogno energetico nazionale: chi estrae è proprietario di ciò che viene estratto e restituisce allo Stato solo una minima percentuale di ciò che porta via: il 10% per il gas e il petrolio per le attività in terraferma; il 10% e il 7% per le attività in mare, a seconda che si tratti di gas o petrolio. La questione comunque tocca anche un ulteriore problema: quello economico. Faccio un solo esempio: un paio di anni fa il Ministero dello sviluppo economico ha rilasciato un permesso di ricerca di idrocarburi denominato “Colle dei Nidi”. Detto permesso interessa un’area del territorio della provincia di Teramo nota per la produzione del Montepulciano d’Abruzzo (DOCG). Il permesso è stato impugnato dinanzi al TAR Lazio, che ha dato ragione ai ricorrenti (tre piccoli Comuni del teramano); poi lo Stato ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato. In questo caso è evidente quali sono gli interessi in gioco: da un lato, quello degli agricoltori; dall’altro, quello della Multinazionale che intende cercare idrocarburi e poi procedere alla loro estrazione. Ebbene, con il permesso di ricerca in tasca la Multinazionale può chiedere l’occupazione d’urgenza dei fondi. E nel momento in cui verrà rilasciata la concessione, essa potrà chiedere l’espropriazione per pubblica utilità. Con tutto quello che c’è sopra.

E’ di oggi la notizia che l’Italia è il primo tra i paesi Ue per morti per inquinamento atmosferico. Un triste primato.
Sì, è il rapporto dell’Agenzia europea dell’Ambiente (Aea). Nel 2012 in Italia ci sono stati 84.400 decessi su un totale di 491mila vittime a livello Ue. Dati alla mano, questi sono i fatti che parlano.

Quanto ai referendum, la Cassazione ha accolto i quesiti. Una decisione che depone bene in vista della sentenza della Corte Costituzionale, secondo lei?
E’ un buon segno non solo perché la Cassazione ha detto sì, ma perché ha mantenuto distinti i sei quesiti. Io spero che la Consulta li dichiari ammissibili tutti e sei, ma allo stesso tempo penso che sia altamente improbabile che vengano bocciati tutti. Comunque la Corte Costituzionale dovrà esprimersi entro la metà di gennaio ed entro il 10 febbraio ci sarà la sentenza. Quindi, il consiglio dei ministri dovrà deliberare e il capo dello Stato dovrà emettere il decreto che fissa la data della consultazione popolare nel periodo tra il 15 aprile e il 15 giugno, come dice la Costituzione. E su questo noi avanziamo una richiesta al governo.

Quale?
Che indìca un election day: amministrative e referendum insieme nello stesso giorno. Per il bene dell’ambiente, degli italiani e della spending review. Perché accorpare le elezioni significa anche risparmiare soldi pubblici.

 

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