31 maggio

 

Spiagge, in 15 anni stabilimenti raddoppiati: uno ogni 400 metri. I Verdi: c'è anche la mafia dietro

Secondo il dossier "Spiaggiopoli 2016", nel 2001 erano 5.369, oggi sono 12mila. La Liguria prima come numero di stabilimenti, in Campania 80 chilometri di spiaggia privata

di ANTONIO CIANCIULLO

ROMA - È un muro lungo 1.050 chilometri: circa un quarto delle coste balneabili è stato concesso in uso a privati. Gli stabilimenti, che nel 2001 secondo uno studio Doxa erano 5.369, sono arrivati a quota 12 mila. Sono i dati contenuti nel rapporto "Spiaggiopoli 2016: mare in gabbia", curato dai Verdi.

"Nemmeno l'agenzia del demanio sa che superficie occupano questi stabilimenti, ma facendo un calcolo deduttivo prudenziale si può stimare una superficie di circa 2 mila ettari e uno stabilimento ogni 400 metri di costa balneabile", afferma Angelo Bonelli, il responsabile del dossier. "In Italia sono state rilasciate concessioni demaniali sulle coste per 160 milioni di metri cubi, pari a 534.000 appartamenti da 100 metri quadrati. È un bel contributo alla cementificazione che deturpa il 60-70% dei nostri litorali, a fronte di una media mediterranea del 40%".

Oltretutto, secondo il dossier, l'affitto riscosso dallo Stato per la concessione è modesto (101 milioni di euro, a fronte di incassi che i Verdi calcolano in 10 miliardi) perché viene applicata la tariffa sui luoghi "a bassa valenza turistica". Così, per fare un esempio, a Ostia ci sono stabilimenti che pagano tra i 500 e i 700 euro mensili per aree di qualche migliaio di metri quadrati: l'affitto di un appartamento popolare.

Al primo posto per numero di stabilimenti c'è la Liguria: su 135 chilometri solo 19 sono liberi e 3 attrezzati. Segue l'Emilia Romagna con 80 chilometri su 104 occupati da bagni privati: la sola provincia di Rimini su 40 chilometri di costa ha la bellezza di circa 700 stabilimenti. A Roma (lido di Ostia) l'85% delle spiagge è occupato da stabilimenti. In Campania ci sono 80 chilometri di spiaggia privata. In Sicilia il caso simbolo è la cancellata della spiaggia di Mondello, mentre a Maiori, nel cuore della costiera amalfitana, una delibera comunale ha di fatto privatizzato tutto il litorale: 830 metri su 850.

"A questi problemi si sommano le infiltrazioni mafiose", aggiunge Bonelli. "In Italia negli ultimi 5 anni sono stati oltre 110 gli stabilimenti balneari sequestrati alle cosche. I motivi dell'interesse della malavita organizzata per i litorali sono infatti vari: vanno dalla possibilità di riciclare denaro di provenienza illecita all'alto livello di redditività degli stabilimenti considerato che il costo della concessione demaniale incide per meno dell'1% sul fatturato dello stabilimento. Questo è il motivo per cui la battaglia per il controllo del business delle spiagge prosegue con tutti i mezzi: solo sul litorale romano dal 2009 al 2013 ci sono stati circa 30 attentati incendiari e dinamitardi ai danni di strutture balneari. Il dato emerge anche dalle cronache giudiziarie: tra i beni sequestrati a Massimo Carminati c'erano alcuni stabilimenti balneari".

Fonte: Repubblica

 

26 maggio

 

Il verde pubblico è sempre più marcio

Senza fondi, a corto di personale e spesso costretti a bloccare gli appalti sulla scia degli scandali, i Comuni italiani faticano a garantire la manutenzione di parchi e giardini. Un problema che mobilita associazioni e comitati cittadini, ma completamente assente dalla campagna elettorale nelle grandi città. La legge nazionale impone censimenti, piani e regolamenti, ma sono rari i municipi che riescono a rispettare gli obblighi, compreso quello che prevede un nuovo albero per ogni neonato. E alla vigilia delle elezioni in pochi sanno che i sindaci sarebbero tenuti a presentare il loro "bilancio arboreo"

di ILARIA CARRA, ALESSANDRO CECIONI, ANNA LAURA DE ROSA e CECILIA GENTILE

Mafie, incompetenza e leggi ignorate

di ALESSANDRO CECIONI

ROMA. La rappresentazione plastica del disastro sono le centinaia di portavasi lasciati vuoti nel semenzaio comunale di San Sisto, a Roma. Sopra c'erano piante di azalea ora sparite, depredate dalle coop di Mafia Capitale con la complicità ben retribuita di funzionari infedeli. È l’esempio, il peggiore certo, di quello che può accadere quando, con i Comuni senza più né uomini né risorse per far fronte alla manutenzione ordinaria e straordinaria, i 550 milioni di metri quadrati di alberi, prati, fiori, viali e parchi che compongono il verde pubblico italiano (dati riferiti ai 120 capoluoghi di provincia) vengono dati in gestione ai privati. Un patrimonio che diviso per il numero di italiani corrisponde a 30,3 metri quadrati per abitante, un dato che non ci metterebbe nemmeno male in un'ipotetica classifica mondiale. A New York, per dire, ogni cittadino ha a disposizione 23,1 metri quadrati, a Parigi 11 e mezzo: ma provate a cercare un arredo rotto o rifiuti abbandonati a Central Park o nel Giardino delle Tuileries. O nei parchi di Londra, che sono comunque immensi e fanno dei londinesi dei cittadini fortunati con i loro 105 metri quadrati a testa. Ai romani ne toccano 16,5 a testa, ma ci sono 20mila alberi ridotti a un mozzicone che aspettano di essere sostituiti, panchine spaccate, prati che sembrano giungle. Consola poco quindi il recentissimo rapporto Istat sul verde urbano che segnala qualche progresso quantitativo (nel 2014 ogni cittadino italiano che vive nelle città capoluogo disponeva in media di 31,1 metri quadri, con forti differenze regionali) ma non lo stato qualitativo.

L'allarme del ministero: "Comuni hanno rinunciato alle politiche per il verde"

La foto sfocata delle statistiche. "Il problema è proprio questo: il degrado del verde pubblico. I dati statistici non riescono a cogliere l'aspetto decisivo della qualità di prati, alberi, attrezzature. Anche i dati che pubblichiamo nel nostro rapporto annuale 'Ecosistema urbano' ci dicono, per esempio, che Matera ha quasi mille metri quadrati di verde per abitante, ma non ci dicono in che condizioni si trovano e se per raggiungerlo devo prendere la macchina o ci posso andare a piedi, non ci dicono se le panchine ci sono o sono devastate", sottolinea Alberto Fiorillo, responsabile Aree urbane di Legambiente. La riprova sta nelle centinaia di comitati a difesa del verde che si contano in Italia. E sta nei dati del sondaggio fatto nel 2013 da Eurobarometro in 79 città e 4 agglomerati urbani europei sulla precezione della qualità del verde urbano. Il 71% dei napoletani e 6 palermitani su 10 si dichiarano insoddisfatti dello stato dei loro parchi e giardini.

Un tesoro urbano. Eppure il verde urbano è un bene prezioso. "È importantissimo per i comportamenti della popolazione. Il verde è il colore della calma – dice Mariella Zoppi, dicente di Urbanistica, presidente del corso di laurea magistrale in Architettura del paesaggio all’Università di Firenze - quindi svolge una funzione psicologica, sociale. Sotto il profilo ambientale, poi, ha effetti benefici sulla qualità dell'aria. Io credo che sia un elemento fondamentale nella transizione verso una nuova società. Per questo considero sbagliato il taglio della spesa pubblica in questo settore".

Legge quadro. Da tre anni è in vigore la legge 10/2013, una vera e propria legge quadro sullo sviluppo e la salvaguardia del verde pubblico in Italia. Il fulcro è il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico istituito presso il ministero dell'Ambiente. E' al Comitato che è demandato il controllo sulle norme che riguardano la tutela degli alberi monumentali, del rispetto dell’obbligo per i Comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato. E' il Comitato, ancora, che emana circolari attuative della legge e che indica i criteri che le amministrazioni territoriali devono seguire in materia di urbanizzazione per mantenere e incrementare il verde pubblico con particolare riferimento agli alberi. Le sanzioni, amministrative e penali, sono previste solo nei casi di abbattimento o danneggiamento delle piante monumento dei Parchi della rimembranza nati dopo la Prima Guerra mondiale, ma ci si sta attrezzando anche per gli alberi monumentali (anche se la definizione "monumentale" è ancora oggetto di dibattito) il cui censimento nazionale è a buon punto, mentre per quanto riguarda il rispetto della norma "un albero per ogni nato o adottato" la sanzione può essere solo "politica". "La legge – spiega Massimiliano Atelli, presidente del Comitato – introduce il ‘Bilancio arboreo’, ovvero il computo di quanti alberi ha trovato un sindaco al suo insediamento e quanti ne lascia alla fine del mandato. Saranno poi i cittadini, con il voto, a sanzionare o premiare il suo operato".

Strumenti ignorati. Le amministrazioni locali hanno tre strumenti di governo per parchi e giardini: Censimento del verde, Regolamento del verde e Piano del verde. Il primo fa una fotografia precisa di quello che c’è in una città: quanti alberi, di che specie e in quale condizione di salute si trovano. A redarlo sono stati 53 capoluogo di provincia sui 73 analizzati dal X rapporto Ispra. Il Regolamento deve indicare invece prescrizioni e indicazioni tecniche sulla progettazione del verde (sia pubblico che privato). Lo hanno adottato solo 36 Comuni, 7 dei quali solo per ciò che riguarda il verde pubblico. Poi c’è il Piano, lo strumento più ignorato. Dovrebbe integrare la pianificazione ubanistica per dare una "visione strategica sullo sviluppo del sistema del verde urbano e peri-urbano", come si legge nella Relazione 2015 del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. In Italia lo hanno approvato solo sei comuni capoluogo (Savona, Reggio Emilia, Bologna, Ravenna, Forlì e Taranto), mentre Milano e Bergamo hanno norme in materia nel Piano per il governo del territorio.

Il tradimento dell'albero per ogni nato. In attesa del giudizio elettorale, però, sono pochi i Comuni che piantano un albero per ogni neonato. Nella legge è previsto che i municipi inviino a chi ha registrato il proprio figlio all’anagrafe un certificato in cui si dice che tipo di albero è stato piantato e dove. Fantascienza. A Firenze si pianta un albero per ogni classe d’età: c’è quello del 2001, del 2002 ecc. A Torino si è esteso il concetto anche agli arbusti, in altre città della norma si è persa traccia. "A Roma ci sono 25mila nuovi nati all’anno. Non saprei come pagarli considerando che ognuno costa 300 euro fra impianto e manutenzione nei primi due anni. E poi in 10 anni fa 250mila alberi, una foresta. Dove li mettiamo?", si giustifica Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma. "Quella del territorio a disposizione è una scusa – sostiene Massimiliano Atelli – la legge prevede che che si possano chiedere terreni in prestito al Demanio. O che si usino gli alberi previsti per i neonati per sostituire quelli abbattuti". E comunque 250mila alberi in dieci anni non possono spaventare se Sadiq Khan, neosindaco di Londra, ha annunciato di voler piantare due milioni di alberi in 10 anni. "In Cina ne vogliono piantare un miliardo da qui al 2020", chiosa Atelli.

Risorse scarse. A preoccupare sono le risorse, sia in termini di soldi che di personale, con cui i responsabili del verde pubblico dei vari Comuni devono fare i conti. "Le faccio l’esempio del mio Comune – dice Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italiana direttori e tecnici dei pubblici giardini – Da trent’anni lavoro a Treviglio, 30mila abitanti, provincia di Bergamo. Lo scorso anno per far fronte a tutta la gestione del nostro verde pubblico avevo un budget di 230mila euro, quest’anno saranno 150mila". "Noi - aggiunge Mori – oggi abbiamo mezzo centesimo per ognuno dei 40 milioni di metri quadrati di verde che gestiamo a Roma".

L'associazione che Cerea presiede è nata 60 anni fa e conta 400 iscritti in rappresentanza di 200 Comuni. Prima erano ammessi solo i dipendenti degli enti locali, da tre anni è stata aperta ai funzionari delle municipalizzate perché spesso i Comuni ricorrono a loro per la gestione del verde. "Non sempre con grandi risultati – ammette Antonello Mori – a Roma con Ama, per esempio, si è aperto un contenzioso sulla gestione delle aree per i cani nei giardini pubblici. Chi deve raccogliere gli escrementi e disinfettare l’area? Per noi loro, si tratta pur sempre di rifiuti speciali. Ma Ama non la pensa così".

Responsabili Servizio giardini nel mirino. "Poche risorse, ma oneri immensi per i responsabili dei Servizi giardini – dice ancora Stefano Cerea – perché se un albero cade, in città, stia sicuro che fa danni. A volte, purtroppo anche delle vittime. E’ accaduto ultimamente a Roma, a Catania, a Napoli. E l’avviso di garanzia dopo il sindaco colpisce il responsabile tecnico. Non solo, siamo anche indicati spesso come nemici del verde dagli ambientalisti, magari perché abbiamo tagliato degli alberi potenzialmente pericolosi. Tre anni fa il dirigente del verde pubblico di Padova si è visto recapitare una busta con un proiettile”.

Pochi e invecchiati. Sul fronte delle risorse umane il problema arriva da lontano, dal 1975 quando la chiamata diretta nella pubblica amministrazione è stata cancellata e non è stato più possibile assumere chi usciva dalle scuole giardinieri, le scuole di formazione dei Comuni. Dal 2001, poi, nel Pubblico Impiego c’è il blocco del turnover, è possibile un’assunzione ogni 5 pensionamenti. E questo ha riflessi sull’organico in termini quantitativi. "Ma da noi a Roma il blocco è iniziato prima, di fatto non ci sono assunzioni dal 1990 e dei 1800 addetti del Servizio Giardini presenti nel 1980 oggi di operativi ne restano 250, con un’età media che supera di gran lunga i 50 anni", dice ancora Antonello Mori. E' vero però che a Roma nel 2004 ci fu una corsa a trasformare i giardinieri in personale tecnico, così sul campo rimasero 270 persone in meno. Fu di fatto l'apertura agli appalti esterni, molto spesso per affidamento diretto, un meccanismo che ha permesso al sistema di Mafia Capitale di fare man bassa.

Sponsor e mecenati. Problemi di gestione che appaiono insormontabili, quindi, anche se proprio la legge 10 permette di affidarla ai privati. Due le strade che si possono seguire. La prima è quella della sponsorizzazione: un'azienda sceglie un giardino o un parco e si impegna nella sua manutenzione o al suo ripristino presentando un progetto all’amministrazione comunale che lo approva e poi controlla che tutto venga fatto secondo i criteri decisi. In cambio lo sponsor può utilizzare lo spazio per eventi, campagne pubblicitarie e altre iniziative, garantendo però sempre la fruibilità pubblica. Una modalità applicata con successo in particolare a Milano.

La seconda strada la indica Antonello Mori, del servizio Verde pubblico di Roma: "E’ quella del mecenatismo. Ben vengano i privati, le aziende, ma niente uso esclusivo del bene. Un cartello ricorderà chi ha finanziato la manutenzione del giardino. Di più non concediamo. Sta funzionando. L'esempio più recente è il ripristino del Giardino degli aranci sull’Aventino". "Su questo – precisa Atelli – noi siamo a disposizione per consigli e aiuti pratici. Purtroppo molti ci ignorano, preferiscono fare da soli, o anche non fare niente". E intanto parchi e giardini vanno in malora.

Senza manutenzione Roma chiude i cancelli

di CECILIA GENTILE

ROMA - Un cancello serrato con un cartello: "Vietato entrare per rischio caduta alberi". È così che succede a Roma. Se un temporale fa ondeggiare pericolosamente le fronde non si procede alla messa in sicurezza ma si chiudono i parchi perché non ci sono i soldi e non c'è personale. È la Caporetto della manutenzione del verde: gli effetti si vedono nei giardini e nei parchi chiusi e nell'incuria imperante. Ora che è primavera inoltrata e che l'erba cresce prepotentemente prati e giardini si sono trasformati in giungle.

Il colpo di grazia ad un settore già ridotto ad ancella del bilancio comunale lo ha dato lo scandalo Mafia Capitale. Una volta appurato che verde e migranti erano i pozzi senza fine da cui si alimentava il malaffare l'allora giunta Marino ha congelato tutti gli appalti con le Coop che per conto del Comune si occupavano della manutenzione. Una scelta obbligata quella del ricorso agli affidamenti esterni. Il Servizio Giardini del Campidoglio dispone infatti soltanto di 250 giardinieri per curare l'immenso patrimonio verde della capitale. Solo le alberature sono 330mila. Un tempo i giardinieri comunali erano 1.800 poi sono andati progressivamente riducendosi con i pensionamenti e il blocco del turn over.

Appena insediata, l'allora assessore all'Ambiente della giunta di Ignazio Marino, Estella Marino, aveva annunciato un cosiddetto "appaltone" per il monitoraggio delle alberature di prima grandezza, pari a 86mila fusti, la cui altezza raggiunge almeno i venti metri. Ma la gara è stata bandita soltanto il 29 giugno 2015. Il termine per presentare le offerte, arrivate da 130 candidati, si è chiuso il 15 settembre 2015. Si è appena conclusa la fase dei controlli, ora si passa al vaglio delle offerte e probabilmente la pratica finirà nelle mani del prossimo sindaco.

Da parte loro, i candidati sindaci non sembrano aver tenuto in gran conto l'emergenza del verde nel loro programma elettorale. Malgrado a Roma parchi e ville, un tempo vanto della capitale, siano agonizzanti. Gli appalti ponte banditi dal Comune in attesa dell'assegnazione dell'appaltone, 16 in otto mesi nel corso del 2015, del costo di 200 mila euro ciascuno, sono esauriti o in via di esaurimento. Inutile pensare che in queste condizioni la capitale possa dar corso alla legge del 1992 che prescrive di mettere a dimora un albero per ogni nuovo nato. In città nascono 25mila bambini all'anno. Il problema adesso è mettere in sicurezza e curare il patrimonio esistente che sta andando in malora.

Napoli, dopo 20 anni la città ancora aspetta

di ANNA LAURA DE ROSA

NAPOLI - Vent'anni per realizzare il Parco della Marinella in pieno centro. Ma quell'oasi verde ancora non c'è. Alberi, aiuole, giostrine e un piccolo campo sportivo. Il progetto firmato dall'architetto Aldo Loris Rossi nel 1997 mostra un polmone verde di 30mila metri quadrati atteso inutilmente da ragazzini ormai trentenni. L'intervento rientra nel Grande progetto Napoli Est. L'appalto finanziato con fondi Por vale 5 milioni ed è stato aggiudicato dopo una serie di affanni burocratici. È una saga fatta di sequestri e incendi dolosi, occupazioni abusive e ricorsi da parte delle ditte in graduatoria. I lavori non sono mai partiti. E sul parco restano le macerie. Montagne di rifiuti e topi tra l'erba alta. Una discarica nel centro di Napoli.

Le vite invisibili del Parco Marinella

L'area in cui dovrebbe sorgere il parco, detto anche Villa del Popolo, si trova di fronte a due quartieri senza spazi verdi abitati da circa 25mila persone. Il primo passo significativo per la realizzazione si ha nel 2010, con il trasferimento della proprietà dei terreni dal demanio al Comune. Un enorme campo rom abusivo occupa però l'area negli anni dell'abbandono. Nel 2012 cominciano lo sgombero delle baracche e una serie di interventi di rimozione rifiuti. Via quintali di copertoni, legno e materiale speciale.

Una speranza si accende a settembre 2014, quando la gara d'appalto viene aggiudicata al consorzio temporaneo d'impresa Ream. Neanche il tempo di recintare l'area di cantiere che scatta il ricorso al Tar della seconda ditta in graduatoria. Le battaglie legali vanno avanti fino ad oggi mentre un incendio doloso appiccato da ignoti divampa nel parco che finisce sotto sequestro. Le sezioni unite si pronunceranno sulla gara il prossimo 22 giugno, ma i lavori non potranno partire subito poichè sono scadute le verifiche antimafia.

Il vicesindaco Raffaele Del Giudice, in carica da 10 mesi con l'amministrazione de Magistris, ha avviato da qualche giorno la realizzazione di una fogna nel parco, in modo da sbloccare almeno una parte dei lavori. "E' assurdo. Un quartiere che per 20 anni ha sognato questo parco è ancora senza spazi verdi - protesta Del Giudice, ex responsabile di Legambiente Campania - Serve un osservatorio nazionale su ritardi e conteziosi nella realizazione di opere opere pubbliche, non ci possiamo più permettere tempi biblici. I tribunali hanno bisogno di personale per la trascrizione delle sentenze. Ce la stiamo mettendo tutta, la nostra amministrazione ha dato un'accelerata".

Del Giudice ha riattivato la prassi della messa a dimora di un albero per ogni nato, disattesa da anni: grazie a un accordo con la forestale, alberelli di piccoli dimensioni sono stati sistemati nel vivaio comunale e saranno piantati a breve. Pubblicato anche il bilancio arboreo di fine mandato. Il verde urbano attrezzato gestito dall'amministrazione è passato dai 4 milioni e 722 mila metri quadri del 2011 ai 4 milioni e 991 mila metri quadri del 2015 con un incremento del 4.41 per cento. In città ci sono più di 60 mila alberi di alto e basso fusto, di cui però molti hanno superato i 50 anni e richiedono quindi maggiore cura. In 5 anni sono stati abbattuti più di duemila alberi e piantati 4208 arbusti. La città spera di vedere finalmente l'arrivo di alberi al Parco della Marinella. Un sogno rimandato a dopo le elezioni.

A Milano la svolta con Pisapia

di ILARIA CARRA

MILANO - Al settore verde la giunta guidata da Giuliano Pisapia ha prestato molta attenzione. In particolare si è cambiato l’approccio: sono 33mila i metri quadrati di aiuole trasformate da stagionali in perenni, in modo che siano sempreverdi tutto l’anno. Si è spinto molto poi sul fronte della partecipazione dei cittadini: sono 392 le aiuole condivise dai milanesi e 13 i nuovi giardini condivisi, 150 i condomini che hanno trasformato marciapiedi in aree verdi sottraendo spazi a parcheggi abusivi e 20mila metri quadrati di terreni in più per orti.

Uno sforzo che ha conosciuto però anche contestazioni. Le critiche più dure sono arrivate dai difensori del verde sacrificato per i lavori del futuro metrò 4, circa 500 alberi tagliati per far spazio ai cantieri in vari punti della città oggetto di una battaglia di alcuni gruppi di cittadini. Dopo decenni, in tema verde, la giunta Pisapia ha dedicato tempo infine per risolvere la annosa questione della paulonia, secolare albero in Brera molto difeso dalle signore del quartiere che rischiava di dover lasciare il posto al progetto immobiliare della società proprietaria dello spicchio di area di grande pregio in via Madonnina: con una permuta di aree, la paulonia è salva e il quartiere è accontentato.

Alberi urbani vittime delle potature selvagge

di ALESSANDRO CECIONI

ROMA. L’intervento più visibile, e più criticato, sul verde pubblico sono le potature. "È un punto dolente nel quale noi ci troviamo fra due fuochi – dice Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma – da una parte ci sono quelli che considerano gli alberi un pericolo, oppure che si sentono danneggiati da rami troppo vicini alle finestre, dall’altra ci sono i cittadini pronti a fare le barricate appena si sfoltisce una pianta. Quello che posso dire è che a Roma non si pota più in modo selvaggio da almeno 20 anni. Niente capitozzature per intenderci".

"È falso, le capitozzature ci sono eccome – lamenta Sanzio Baldini, già docente universitario di Gestione del verde urbano e Tecnologia forestale, autore di diversi libri in materia – solo che le chiamano capitozzature lunghe, perché non sono più fatte dove si allargano i rami, ma un paio di metri più in alto. Però anche così si creano delle ferite che lasceranno spazio alle spore e ai funghi, agli insetti. Si condanna la pianta".

"Capitozzare è un retaggio che viene dalla gestione contadina, quando si doveva fare frasca per gli animali. Oggi è realizzata nella versione 'lunga' (il modo descritto dal professor Baldini, ndr) anche perché è semplice e non richiede nessuna perizia", rincara la dose Carlo Mascioli, dottore forestale consulente di enti pubblici e di privati. "Il problema – aggiunge – è che sul verde pubblico c’è purtroppo una grandissima ignoranza di fondo, nella scelta degli alberi che vengono messi a dimora, nella scarsa programmazione e progettualità".

"I problemi che può creare un albero in città vengono da lontano – spiega il professor Baldini – dalla distanza di un albero dall'altro, dalla vicinanza o meno delle case, dai lavori stradali che sono stati fatti con conseguente taglio delle radici. Poi a tutto questo si prova a porre rimedio con le potature. Con le capitozzature lunghe che di fatto spostano il baricentro dell’albero e lo rendono meno stabile, più pericoloso. Perché queste ferite alle piante vengono inferte da persone che non hanno la minima idea di quello che fanno. Non escono da scuole come quella di Monza, non hanno studiato la natura degli alberi. Sapesse quante volte ho sentito dire ‘tagliamo, tanto ramo più, ramo meno...’".

"Lei lo sa quanto ci mette una pianta a dare copertura al taglio di un ramo di 5 centimetri di diametro? Dai 15 ai 18 anni. La ferita si rimargina in un tempo lunghissimo. Qualcuno crede di superare il problema mettendoci del mastice, ma gli alberi sono esseri viventi, si muovono”, dice ancora Baldini. "Non solo: un platano alto 35 metri, perché in quel posto quella è la sua altezza naturale, una volta potato drasticamente ripartirà verso l’alto, per tornare a 35 metri - aggiunge Mascioli – La natura è questo. Se lo si vuole più basso va curato in modo diverso, da persone competenti". "Il problema di fondo resta questo – dice Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico – si deve distinguere fra verde orizzontale, i prati, verticale, gli alberi, e verde di pregio. Per il verde orizzontale si possono anche impiegare persone con conoscenze minori, per gli altri servono degli specialisti".

L'eccellenza perduta delle scuole giardinieri

di ALESSANDRO CECIONI

ROMA - "Disaffezione verso le professioni del verde, anche a causa della chiusura di fatto delle scuole giardinieri di maggiore tradizione". Così si legge nella Relazione annuale del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. "Erano, e in alcuni casi sono restate, un'eccellenza didattica, ma non più per il settore pubblico. Una delle tante eccellenze cui il nostro paese ha rinunciato", dice con amarezza Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italianadirettori e tecnici pubblici giardini.

Certo, quando nel 1975 furono cancellate tutte le deroghe che permettevano la chiamata diretta dei dipendenti comunali, le scuole giardinieri videro il loro destino segnato. Prima ci si iscriveva a una di queste, si facevano quattro anni di studio, sia teorico che pratico, e c’era la certezza di entrare a far parte dei giardinieri comunali. "A Roma negli anni 80 c'erano 2mila ettari di verde pubblico, la metà di ora - dice Antonello Mori, direttore del Servizio ambiente e giardini del Comune di Roma - e 2mila addetti al servizio. Ora con il doppio di verde i giardinieri sono 250, con molti ultracinquantenni, gli ultimi usciti dalla Scuola. Quando li vedo salire sui cestelli per le potature, magari a venti metri d'altezza, qualche paura ce l'ho”.

Parchi e giardini, la gara tra i più belli

Per loro niente corsi di "tree climbing", arrampicarsi sugli alberi per fare così la manutenzione straordinaria delle piante. È una tecnica che data un paio di decenni nata negli Usa. Si insegna, insieme a molte altre cose, nella Scuola agraria del Parco di Monza. "La scuola più famosa e più bella”, dice ancora Cerea. "Ormai i dipendenti pubblici che vengono da noi a specializzarsi non ci sono più - spiega Filippo Pizzoni, direttore della Scuola – siamo un centro di formazione professionale postdiploma accreditato alla Regione Lombardia, prepariamo personale che poi potrà lavorare in aziende, in proprio, in ogni campo legato alla cura, progettazione e realizzazione di giardini e parchi".

I numeri parlano da soli: 150 corsi di formazione ogni anno, 1500 allievi. Fra i corsi più seguiti quello per giardiniere professionista (600 ore), quello per arboricoltore (320 ore). E ancora quello per imparare a fare il fiorista, oppure per avere il titolo a occuparsi di giardini storici. E, naturalmente, i due corsi pertree climbers tenuti dagli specialisti americani Mark Chisholm e Brian Noyes.

A Roma la Scuola Giardinieri, nata nel 1926 e chiusa di fatto all’inizio degli anni 90, ha riaperto cambiando pelle. "Facciamo corsi per i privati cittadini che amano il giardinaggio – dice ancora Antonello Mori – durano 5 mesi, da febbraio a giugno, 20 lezioni di due ore l'una. Il costo è 150 euro. Abbiamo aperto le iscrizioni on line e in 4 giorni sono arrivate 520 domande". Per tenere delle lezioni verranno anche alcuni docenti della Scuola di Monza.

Fonte: L'Espresso

 

19 maggio

 

Così stiamo divorando il suolo italiano

Nuove costruzioni edificate anche se rimangono sfitte, continue colate di cemento. L'Italia è uno dei paesi europei con il maggior consumo di territorio. Un fenomeno che la crisi ha solo rallentato e che interessa più il Nord del Sud. Ma la Camera approva una nuova legge: "Azzerare la cementificazione entro il 2050"

di Davide Mancino

Maggiori emissioni di gas serra, perdita di biodiversità, scomparsa di una risorsa non rinnovabile: quella del consumo di suolo è tutt'altro che una questione estetica. Eppure esistono città, in Italia, in cui si può girare per tutto il tempo senza trovare un minimo di spazio libero – non occupato dall'uomo e dalle sue attività. Per questo è un significativo passo in vanti la legge contro il consumo di suolo che è stata approvata dalla Camera con 256 sì, 140 no e 4 astenuti. Per la prima volta si fissa un obiettivo molto avanzato: azzerare la cementificazione entro il 2050.

Secondo dati resi disponibili dall'istituto superiore per la ricerca e la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Torino è la grande città con la maggiore fetta di suolo consumato (57,6 percento), seguita a brevissima distanza da Napoli. Anche a Milano risultano numeri simili, mentre fra i centri principali Roma si trova assai più in basso (20 percento).

Eppure i valori più elevati non sono affatto in queste città. Al contrario, in diversi piccoli comuni trovare uno spazio non edificato è quasi impossibile. Che sia a Casavatore – 18mila abitanti appena a nord di Napoli – oppure a Melito o Arzano, ancora nel napoletano, la situazione non cambia troppo: lì il consumo di suolo supera il 75 percento, e proprio a Casavatore – record italiano – tocca un picco dell'85 percento.

Cosa significa, in pratica, "consumo di suolo"? Ispra lo definisce come "l'occupazione di una superficie in origine agricola o naturale", un processo dovuto soprattutto alla "costruzione di nuovi edifici, capannoni e insediamenti, all'espansione delle città". Oppure, altro caso, alla conversione di terreno in un'area urbana: come per esempio è successo a Milano nell'area dedicata a Expo.

"Oltre alla scomparsa di una risorsa non rinnovabile" – spiega Michele Munafò, ricercatore dell'Ispra – "il problema è la perdita delle funzioni che essa ci assicura. In primo luogo la produzione agricola, con tutta una serie di servizi di regolazione dei cicli naturali come quello delle acque. Se il suolo viene sigillato questa capacità va persa, e aumenta per esempio il rischio di inondazione. Scompare anche il supporto alla biodiversità. Direttamente, perché sappiamo molto poco di quanta ce ne sia del suolo anche se possiamo stimare che un quarto delle specie del pianeta viva sotto terra. Ma anche indirettamente, perché trasformandolo abbiamo un impatto anche sulle aree dove il suolo non è consumato in maniera diretta".

Il terreno, poi, è in grado di contenere il carbonio – molto più dell'atmosfera stessa – ma solo a condizione che non venga occupato artificialmente. "Abbiamo stimato", continua Munafò, "che negli ultimi cinque anni il suolo consumato dalle nuove costruzioni e infrastrutture ha portato a una perdita equivalente alle emissioni di CO2 di quattro milioni di auto. Come se ci fosse il 10 percento di veicoli in più che gira per le strade".

Fare un confronto così semplice fra città ha però anche un grosso limite: non tiene in considerazione quante sono le persone che in quei luoghi vivono. Spesso, dove la densità abitativa è maggiore e gli abitanti sono più concentrati, anche il consumo di suolo è più elevato.

Prendiamo proprio Torino, Milano e Napoli. Certo si tratta di tre grandi centri in cui il consumo di suolo è molto alto, ma allo stesso tempo la popolazione al loro interno risulta circa tre o quattro volte più "impacchettata" rispetto a Roma, Genova o Bologna.

Non si tratta neppure di casi limite, in Italia. I piccoli comuni campani in cui il consumo di suolo arriva al massimo sono anche quelli in cui un gran numero di abitanti vive in uno spazio ristrettissimo: al punto che in alcuni di loro la densità abitativa è talmente elevata da far sembrare la stessa Napoli un borgo spopolato.

In altre città succede l'opposto. Rispetto a quanto sono ampie, a Padova, Brescia e Piacenza non vivono poi così tante persone – eppure lì il consumo di suolo non è basso quanto potremmo aspettarci. Ancora più estremo è il caso di Lallio , un piccolo comune di 4mila abitanti in provincia di Bergamo in cui lo spazio disponibile è parecchio, rispetto agli abitanti che ospita, ma allo stesso tempo il consumo di suolo arriva a poco meno del 60 percento.

Si tratta comunque di un rapporto complesso. Secondo Munafò "i dati mostrano che dagli anni '70 il consumo di suolo si è separato dalla crescita urbana. Le città si espandono mentre la popolazione lo fa molto meno, o in alcuni casi addirittura diminuisce".

Dove vanno cercate allora le ragioni dell'aumento? "Da un lato le famiglie sono diventate sempre più piccole, ma soprattutto sappiamo che si continua a costruire nonostante molte abitazioni siano vuote. Ci sono due milioni di appartamenti non usati, e se includiamo le seconde case i valori aumentano enormemente. Poi oggi l'immobile è diventato più un bene economico che non un luogo dove abitare. Per anni il comparto delle costruzioni ha trainato l'economia nazionale. Oggi è in crisi e il consumo di suolo rallenta anche per questo".

Questa la situazione recente. Ma in Italia le cose sono cambiate molto: rispetto agli anni '50 il suolo italiano di cui abbiamo fatto uso è passato da 8mila a 21mila chilometri quadrati. Soltanto negli ultimi tempi – e in particolare proprio nel 2014, secondo prime stime provvisorie – l'aumento è rallentato.

Già ai tempi del boom economico la Lombardia era la regione in cui il consumo di suolo era maggiore, e 60 anni dopo le cose non sembrano cambiate. Semmai le costruzioni hanno accelerato la loro corsa, e ancora di recente è questa la regione in cui il fenomeno si sente di più. Per il Trentino Alto-Adige la situazione è simile – soltanto inversa: area con la più alta fetta di territorio libero allora, lo stesso succede anche in tempi recenti.

Per pignoleria, va anche tenuto in conto che a volte si tratta di valori piuttosto difficili da stabilire con esattezza – e così le stime comprendono il relativo margine di errore che può spostare il risultato un po' in su o in giù, a seconda dei casi.

Le regioni mangiate

Come evidenzia Ispra stessa, tutto sommato il consumo di suolo riguarda in particolare aree "quasi totalmente situate nelle zone costiere, nelle pianure e nei fondovalli montani". Difficile pensare di poter edificare in maniera intensiva nelle zone di montagna o su fiumi e laghi. Neppure troppo comodo, a meno di volersi ancorare a oggetti circostanti, anche costruire in zone a elevata pendenza.

Così le aree che ospitano in maggiore quantità questi ultimi tipi di territorio risultano protette "naturalmente" contro il consumo di suolo. Raro trovare zone prive di montagne in Valle d'Aosta, per esempio. Tenendo in conto le caratteristiche del territorio è possibile costruire la classifica del consumo di suolo "effettivo", che considera quanto abbiamo costruito dove effettivamente era possibile farlo.

Qui proprio la Valle d'Aosta balza al primo posto fra le regioni, con il Trentino Alto-Adige che segue in terza posizione. Nel consumo di suolo effettivo entrambe le aree capovolgono del tutto il proprio risultato, come c'è da aspettarsi dove buona parte del territorio tende a essere meno adatto per essere occupato in maniera artificiale. Lombardia e Veneto, al contrario, retrocedono dalla cima di diverse posizioni.

Un conteggio alla pari

Per capire meglio com'è messa l'Italia possiamo anche allargare un po' lo sguardo al resto d'Europa. Secondo Eurostat il paese con il maggior consumo di suolo nel 2012 è il Belgio, seguito dall'Olanda, mentre l'Italia viene subito dopo.

Anche in questo caso, però, è bene ricordare che le nazioni sono popolate in modo assai diverso fra loro. Proprio l'Olanda è uno dei luoghi in cui la densità di abitanti è più alta – in media più del doppio dell'italiana –, e questo tende a portare con sé un maggior uso del territorio. Anche nel Belgio succede qualcosa di simile – sebbene in misura inferiore.

Il Regno Unito, al contrario, è fra i più virtuosi, e pur ospitando molte persone rispetto alla sua superficie il consumo di suolo non è elevato quanto potremmo aspettarci. Danimarca, Portogallo e Francia invece hanno usato il loro territorio in modo relativamente intensivo – forse non tanto in termini assoluti, ma senz'altro parecchio per essere luoghi dove la densità abitativa non è chissà quanto elevata.

Dal 2009 al 2012 il consumo è aumentato in tutti i paesi europei, ma in nessuno quanto in Belgio dove è passato dal 9,8 al 13,4 percento. Anche in Olanda c'è stato un discreto aumento, mentre l'Italia nello stesso periodo si è fermata grosso modo nella media.

Esistono politiche per fronteggiare il problema? "C'è un lavoro molto importante della Commissione Europea", spiega Munafò, "che ci chiede di azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050. Ovvero fare in modo che il nuovo suolo consumato non sia superiore a quello che siamo in grado di recuperare. Oggi questo bilancio risulta fortemente negativo: il suolo recuperato è praticamente inesistente, mentre quello occupato è notevole. In realtà è difficile e costoso lavorare su quanto è già stato perso e non lo si recupera mai del tutto, per cui la cosa più importante è limitare l'uso di suolo nuovo".

L'idea è allora provare a mitigare l'impatto, a consumare meglio: "Magari mantenendo alcune delle funzioni del suolo tramite l'uso di materiali permeabili invece del cemento nei parcheggi, per esempio". Oppure dedicarci al riuso di quanto abbiamo già. "Pensiamo solo alle aree di sviluppo industriale del secolo scorso, a zone dismesse, sottoutilizzate e così via", conclude il ricercatore, "solo così di spazio a disposizione ne abbiamo a volontà".

Fonte: L'Espresso

 

10 maggio

 

Almaviva, ultimi 30 giorni per evitare 3mila licenziamenti

Il 90% dei lavoratori boccia i contratti di solidarietà proposti dal governo. "Solo tagli, nessuna prospettiva", denunciano i sindacati. Senza un altro piano, a giugno partono i licenziamenti. Cgil: "Nel settore dei call center rischiano in 10 mila"

di VALENTINA CONTE

ROMA - Cinquemila no su 5.815 lavoratori consultati. La proposta del governo per impedire 3mila licenziamenti decisi a Roma, Palermo e Napoli da Almaviva - il colosso dei call center con 13mila impiegati nelle 38 sedi italiane, 32 mila in 19 sedi estere - è stata sonoramente bocciata dalla maggioranza degli addetti. Con punte superiori al 90% anche nelle città per ora al riparo dal forte piano di ridimensionamento. La vertenza va avanti da mesi e ora, dopo la fumata nera espressa nelle urne, la crisi rischia di deflagrare. Sindacati e azienda hanno 30 giorni per trovare una soluzione, con la mediazione del ministero dello Sviluppo (al momento ancora privo di ministro, dopo l'uscita di Federica Guidi). Passato il mese, l'azienda può cominciare a spedire le raccomandate di licenziamento. Senza una svolta dunque, a partire da giugno ogni giorno e per quattro mesi può essere quello terribile della fine del lavoro.

Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di lavoratori a part-time da quattro ore che guadagnano 550-600 euro al mese per stare davanti a un pc con le cuffiette infilate a rispondere ai clienti di primarie aziende italiane. Come quelle pubbliche: Enel, Eni, Poste, Ferrovie, Equitalia, Inps, Comuni di Roma e Milano. E i colossi privati: Mediaset, Telecom, Sky, Vodafone, Wind, Fastweb, American Express. "Non sono stupito dalla bocciatura dei lavoratori", racconta Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil. "La proposta del governo non dava alcun tipo di prospettiva futura ai lavoratori, ma si limitava a chiedere loro solo sacrifici: più solidarietà e meno guadagni". E in effetti i dipendenti di Almaviva Contact hanno trovato sul tavolo contratti di solidarietà al 45% per la sede di Palermo e Roma (taglio del 45% delle ore lavorate, in pratica 10 giorni su 20 al mese per i part-time), 35% per la sede di Napoli, 13% a Milano, 7% a Catania, 3% a Rende, in provincia di Cosenza. Senza alcun piano di rilancio.

Fatti i primi conti in tasca, i lavoratori hanno detto no. Chi guadagna 600-700 euro al mese, non solo rinuncia al 25% della busta paga. Ma scivola anche sotto la soglia di reddito degli 8 mila euro annui, diventa incapiente e dunque perde pure gli 80 euro di Renzi. Oltre al danno, la beffa. D'altro canto la crisi è nera. Il management di Almaviva dice di registrare perdite per un milione e mezzo al mese, a causa della concorrenza al ribasso di aziende italiane e straniere che hanno un costo del lavoro ancora più basso. E il rosso si è accentuato da gennaio, quando l'azienda è stata inquadrata nel settore dei servizi, uscendo così dall'industria e perdendo la copertura dell'ammortizzatore ordinario (che garantiva fino all'80% dello stipendio, con tetto a 1.200 euro), in cambio di quello in deroga che però integra solo metà salario. A questo si aggiunge l'uscita di due importanti commesse: Green Network ed Enel. La prima ha chiesto la disdetta dal contratto quattro mesi dopo averlo firmato, "perché ha scoperto che in Albania i centralinisti costano meno", dice ancora Azzola.

Gare al massimo ribasso, delocalizzazione all'estero, servizi di scarsa qualità ma con costi del lavoro bassissimi. Un cocktail micidiale che secondo la Cgil rischia di mettere fuori gioco 10mila lavoratori italiani dei call center di qui ai prossimi mesi. "Basta pensare a quella norma del decreto Sviluppo del 2012, mai applicata", ragiona ancora Azzola. "Quella che prevede una sanzione da 10mila euro al giorno per tutte le aziende che non danno la possibilità all'utente che chiama di poter scegliere tra call center italiani o esteri, come prevedere la legge. E' stata pensata per difendere i posti e invece ha prevalso il massimo ribasso sul costo del lavoro. Vince l'azienda più spregiudicata e furba, non quella che applica i contratti e offre servizi di qualità. Per questo chiediamo al governo di impedire quantomeno alle aziende pubbliche di appaltare solo in base al massimo ribasso e di fissare standard di qualità".

Nella vertenza Almaviva Contact, tuttavia, l'amminstratore delegato Andrea Antonelli ci tiene a precisare che "nel quadro di possibile intesa che si era individuato con il sindacato, sulla base del percorso condiviso con il Governo, avevamo ufficialmente confermato, assumendo un onere aggiuntivo estremamente rilevante, che nessuna delle soluzioni indicate per il nuovo contratto di solidarietà avrebbe comportato alcuna

forma di peggioramento della posizione reddituale di ogni singolo lavoratore, rispetto a quanto previsto dall'accordo attualmente in vigore". Evidentemente non è bastato a convincere i lavoratori sulla certezza di poter mantenere a lungo il posto, date le condizioni di mercato.

Fonte: Repubblica

 

Spagna, il business dei rimpatri: Air Europa si assicura l'esclusiva sui voli dei migranti

Le Ong li chiamano "i voli della vergogna", ma ogni volta che si apre un bando scatta la corsa delle compagnie. Il vettore del gruppo Globalia, in tandem con Swiftair, si è assicurato un prolungamento della concessione di diciotto mesi per quasi 12 milioni di euro. Polemiche sull'assegnazione

di ALESSANDRO OPPES

MADRID - E' un business che fa gola alle compagnie aeree: riportare in patria i migranti in situazione irregolare. In altre parole, gestire le deportazioni. Le Ong e le associazioni che lottano contro le espulsioni e che, da tempo, sollecitano la chiusura dei Cie (i centri d'internamento creati dal governo), li chiamano senza mezzi termini "i voli della vergogna". Ma ogni volta che il Ministero dell'Interno lancia un bando, parte la corsa per assicurarsi il contratto. E, di nuovo, l'ha spuntata la compagnia del gruppo Globalia, Air Europa, in alleanza con Swiftair, che ha visto prolungata di diciotto mesi la concessione di cui già disponeva, sconfiggendo la concorrenza della Ute (unione temporanea di imprese) formata dalla filiale regionale di Iberia, Air Nostrum, in alleanza con Barceló Viajes.

Al precedente concorso era filato tutto liscio, essendo Air Europa l'unico candidato. Ma, in questa occasione, non è mancata la polemica, perché l'offerta di Air Nostrum era, almeno in teoria, più conveniente per lo Stato. Alla fine, invece, il governo ha scelto l'aerolinea di Globalia per un prezzo complessivo di 11,8 milioni di euro. Per i viaggi della deportazione, Air Europa incasserà da un minimo di 9000 euro per ora di volo nel caso in cui i passeggeri non superino il numero di 75, fino a un massimo di 21.300 quando si trasportino più di 200 persone.

Fra il mese di gennaio del 2010 e ottobre del 2014, il Ministero dell'Interno ha espulso 9410 migranti in 257 voli internazionali. I voli di deportazione sono considerati operazioni di polizia e, di conseguenza, hanno un carattere riservato. L'unico organismo che periodicamente pubblica dati sui cosiddetti "voli della vergogna" è il Defensor del Pueblo (l'ombudsman spagnolo), che elabora le informazioni fornite dall'agenzia europea Frontex e dallo stesso Ministero dell'Interno. Secondo l'ultimo rapporto disponibile, nel 2014 il governo di Madrid organizzò il rimpatrio di 3373 migranti su 134 voli. La maggior parte, con destinazione Ceuta o Melilla, per riconsegnare gli stranieri in situazione irregolare alle autorità marocchine. Le altre destinazioni più frequenti: Mali, Nigeria, Senegal, Colombia ed Ecuador.

Il presidente dell'aerolinea Air Nostrum, Carlos Bertomeu, ha fatto sapere che sta valutando l'ipotesi di presentare un ricorso contro l'assegnazione del contratto al consorzio concorrente, che richiederà un esborso per lo Stato superiore a quello preventivato dall'offerta della

filiale di Iberia, che ha sede a Valencia. Ma il Ministero dell'Interno, nel giustificare la scelta, ha addotto una mancanza di solvenza tecnica delle aeronavi bimotore proposte da Barceló e dalla filiale di Iberia, insieme a presunte carenze nella documentazione sui titoli dei piloti.

Fonte: Repubblica

 

5 maggio

 

Io, docente precaria e il concorsone-incubo

Ecco il diario di una insegnante della provincia di Modena alla prese con la prova scritta di italiano per le medie. Tra i tutorial del Miur, percorsi di settimane concentrate in 15 minuti e la guerra da poveri tra abilitati e chi prova il ricorso al Tar

DI MICHELE SASSO

Lunedì due maggio è il giorno di Ines Sirianni. Trentacinque anni, da sette docente in trasferta dalla Calabria alla provincia di Modena. Insegnante con la valigia che prova il grande salto del concorsone. Lei, come l’85 per cento delle aspiranti cattedre, è donna e precaria, una delle 165.578 domande arrivate per assegnare 63.712 posti disponibili da Siracusa a Torino.

Per Ines, dopo la laurea in Lettere moderne, la scelta della provincia dove iniziare la carriera è stata naturale: Modena. Dal 2009 un tour delle graduatorie d’istituto per coprire le supplenze tra Sassuolo, Maranello, Carpi e Spezzano. Solo scuole secondarie e solo incarichi a tempo determinato, dove spesso per gli esami di stato viene pagata tre giorni e per i restanti trenta non riceve nulla.

Come è andata la prova scritta?
«È stato difficilissimo. Un incubo: dalla domanda sul sonetto di Petrarca da spiegare a una prima media, alla raccolta poetica “Ossi di seppia” di Eugenio Montale, fino al “concetto di straniero” era tutto così assurdo. Assurdo perché bisognava scrivere seguendo il filo rosso dell’unità di apprendimento, delle piste di lavoro che però non si usano mai a scuola. Oppure le facciamo in gruppo scrivendo e ragionando per settimane. Qui invece ci veniva chiesto in 15 minuti».

Nella sua sede d’esame, l’istituto “Filippo Re” di Reggio Emilia, erano appena in 25, ma hanno comunque aspettato un’ora prima e un’ora dopo per la burocrazia. Tra gli scritti presi in esame ci sono cinque classi di concorso. Italiano per la media e il superiore, disegno artistico e modellazione odontotecnica, di mattina, design dei metalli, dell'oreficeria, delle pietre dure e delle gemme, laboratori di scienze e tecnologie aeronautiche e laboratorio di tecnologie del legno, nel pomeriggio.

La prima prova prevede 8 domande che riguardano la materia di insegnamento di cui 2 in lingua straniera (inglese, francese, tedesco o spagnolo, obbligatoriamente l’inglese per la primaria). Sei quesiti a risposta aperta (di carattere metodologico/didattico e non nozionistico) e 2 (quelle in lingua) a risposta chiusa. Tutto da consegnare in due ore e mezza.

Come si è preparata?
«Io non mi sono preparata certamente con le indicazioni del Miur. L’unico tutorial che ho visto era quello in lingua, ma che era prettamente grammaticale e invece la prova in realtà era la comprensione del testo. Le racconto un’altra assurdità: se ti vuoi assentare per le prove devi chiedere un giorno di ferie e trovare un sostituito. La cosa buffa è che per fare il concorso ti spetta il permesso non retribuito e non viene considerato come giorno di servizio».

Cosa ne pensa della riforma della scuola di Renzi e di questo concorso?
«La Buona scuola è una mossa chirurgica per eliminare i precari. E questo concorso privilegia chi ha più anni di servizio. Ma con un’escamotage che penalizza tutti noi senza contratto: io ad esempio ne ho già sette, ma risultano appena 4 perché durante l’estate non mi viene pagato nulla, oppure non arrivo alla soglia minima di 180 giorni di lezioni».

Con quali effetti?
«Questa situazione ha creato una lotta tra poveri e una serie di discriminazioni. Faccio un esempio: io come tanti altri ho fatto tutto il percorso di abilitazioni per entrare nelle graduatorie ad esaurimento, un serbatoio per diventare di ruolo pre-riforma del governo Renzi. Tanti come me hanno pagato 2.500 euro per seguire cinque mesi di corso di pomeriggio, oltre all’insegnamento mattutino».

E ora?
«Ora al concorso sono ammessi i ricorsi, con una lotta all’ultimo posto tra chi insegna da anni, ha l’abilitazione e tutti gli altri. Una guerra strisciante tra insegnanti. Così potranno sostenere la prova scritta anche i diplomati magistrali a indirizzo linguistico».

Prende questa piega così il concorsone della scuola pubblica : anche i semplici laureati senza abilitazione possono partecipare se hanno in mano le «ordinanze o di decreti cautelari dei giudici amministrativi loro favorevoli» ha stabilito il Consiglio di Stato.

Da una parte i concorrenti che hanno sostenuto percorsi abilitanti a fronte di moltissimi sacrifici, che per anni hanno permesso il buon funzionamento della scuola e che ora vedono messo in discussione il loro diritto a entrare stabilmente. E insieme a loro i docenti che non sono in possesso di abilitazione e che hanno maturato i 36 mesi di servizio. E dall’altra 20-30 mila ricorrenti che rientrano dalla “finestra” aperta dal Tar.

Con quali conseguenze?
«Se le prime prove sono già state svolte occorrerà che il ministero dell'Istruzione si attrezzi per farla recuperare ai destinatari del provvedimento dei giudici amministrativi. Se partono i ricorsi – con i sindacati che cavalcano la protesta – rischiamo di ripartire da capo con le selezioni».

I numeri sono piuttosto incerti: quanti saranno gli ammessi con riserva che si presenteranno nei giorni delle prove? Ci sarà un computer per tutti? Le stime sono di 20mila ricorrenti, ma per qualche sindacato sarebbero molti di più. Anche se gli organizzatori del concorso un’idea di massima ce l’hanno, perché tutti coloro che si consideravano a torto esclusi dal concorso sono stati invitati dai sindacati a presentare domanda cartacea e non online come era previsto per i colleghi regolarmente in possesso dell’abilitazione. Un caos mentre le selezioni che dovevano rivoluzionare la scuola italiana sono in corso.

«Ora tutti gli scritti finiranno entro il 31 maggio e poi ci toccherà l’orale», conclude Ines: «I vincitori, sperano al ministero dell’Istruzione, andranno in cattedra a settembre, ma secondo me è impossibile. La graduatoria viene comunicata sempre a novembre o dicembre. Non vedo come si potrà accelerare quest’anno con la riforma ancora da rodare».

Fonte: L'Espresso

 

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