Spiagge, in 15 anni
stabilimenti raddoppiati: uno ogni 400 metri. I Verdi: c'è anche la mafia dietro
Secondo il dossier "Spiaggiopoli 2016", nel
2001 erano 5.369, oggi sono 12mila. La Liguria prima come numero di
stabilimenti, in Campania 80 chilometri di spiaggia privata
di ANTONIO CIANCIULLO
ROMA
- È un muro lungo 1.050 chilometri: circa un quarto delle coste balneabili è
stato concesso in uso a privati. Gli stabilimenti, che nel 2001 secondo uno
studio Doxa erano 5.369, sono arrivati a quota 12 mila. Sono i dati contenuti
nel rapporto "Spiaggiopoli 2016: mare in gabbia", curato dai Verdi.
"Nemmeno l'agenzia del demanio sa che superficie occupano questi stabilimenti,
ma facendo un calcolo deduttivo prudenziale si può stimare una superficie di
circa 2 mila ettari e uno stabilimento ogni 400 metri di costa balneabile",
afferma Angelo Bonelli, il responsabile del dossier. "In Italia sono state
rilasciate concessioni demaniali sulle coste per 160 milioni di metri cubi, pari
a 534.000 appartamenti da 100 metri quadrati. È un bel contributo alla
cementificazione che deturpa il 60-70% dei nostri litorali, a fronte di una
media mediterranea del 40%".
Oltretutto, secondo il dossier, l'affitto riscosso dallo Stato per la
concessione è modesto (101 milioni di euro, a fronte di incassi che i Verdi
calcolano in 10 miliardi) perché viene applicata la tariffa sui luoghi "a bassa
valenza turistica". Così, per fare un esempio, a Ostia ci sono stabilimenti che
pagano tra i 500 e i 700 euro mensili per aree di qualche migliaio di metri
quadrati: l'affitto di un appartamento popolare.
Al primo posto per numero di stabilimenti c'è la Liguria: su 135 chilometri solo
19 sono liberi e 3 attrezzati. Segue l'Emilia Romagna con 80 chilometri su 104
occupati da bagni privati: la sola provincia di Rimini su 40 chilometri di costa
ha la bellezza di circa 700 stabilimenti. A Roma (lido di Ostia) l'85% delle
spiagge è occupato da stabilimenti. In Campania ci sono 80 chilometri di
spiaggia privata. In Sicilia il caso simbolo è la cancellata della spiaggia di
Mondello, mentre a Maiori, nel cuore della costiera amalfitana, una delibera
comunale ha di fatto privatizzato tutto il litorale: 830 metri su 850.
"A questi problemi si sommano le infiltrazioni mafiose", aggiunge Bonelli. "In
Italia negli ultimi 5 anni sono stati oltre 110 gli stabilimenti balneari
sequestrati alle cosche. I motivi dell'interesse della malavita organizzata per
i litorali sono infatti vari: vanno dalla possibilità di riciclare denaro di
provenienza illecita all'alto livello di redditività degli stabilimenti
considerato che il costo della concessione demaniale incide per meno dell'1% sul
fatturato dello stabilimento. Questo è il motivo per cui la battaglia per il
controllo del business delle spiagge prosegue con tutti i mezzi: solo sul
litorale romano dal 2009 al 2013 ci sono stati circa 30 attentati incendiari e
dinamitardi ai danni di strutture balneari. Il dato emerge anche dalle cronache
giudiziarie: tra i beni sequestrati a Massimo Carminati c'erano alcuni
stabilimenti balneari".
Fonte: Repubblica
26
maggio
Il verde pubblico è sempre
più marcio
Senza fondi, a corto di personale e spesso
costretti a bloccare gli appalti sulla scia degli scandali, i Comuni italiani
faticano a garantire la manutenzione di parchi e giardini. Un problema che
mobilita associazioni e comitati cittadini, ma completamente assente dalla
campagna elettorale nelle grandi città. La legge nazionale impone censimenti,
piani e regolamenti, ma sono rari i municipi che riescono a rispettare gli
obblighi, compreso quello che prevede un nuovo albero per ogni neonato. E alla
vigilia delle elezioni in pochi sanno che i sindaci sarebbero tenuti a
presentare il loro "bilancio arboreo"
di ILARIA CARRA, ALESSANDRO CECIONI, ANNA LAURA DE
ROSA e CECILIA GENTILE
Mafie, incompetenza e leggi ignorate
di ALESSANDRO CECIONI
ROMA. La rappresentazione plastica del disastro
sono le centinaia di portavasi lasciati vuoti nel semenzaio comunale di San
Sisto, a Roma. Sopra c'erano piante di azalea ora sparite, depredate dalle coop
di Mafia Capitale con la complicità ben retribuita di funzionari infedeli. È
l’esempio, il peggiore certo, di quello che può accadere quando, con i Comuni
senza più né uomini né risorse per far fronte alla manutenzione ordinaria e
straordinaria, i 550 milioni di metri quadrati di alberi, prati, fiori, viali e
parchi che compongono il verde pubblico italiano (dati riferiti ai 120
capoluoghi di provincia) vengono dati in gestione ai privati. Un patrimonio che
diviso per il numero di italiani corrisponde a 30,3 metri quadrati per abitante,
un dato che non ci metterebbe nemmeno male in un'ipotetica classifica mondiale.
A New York, per dire, ogni cittadino ha a disposizione 23,1 metri quadrati, a
Parigi 11 e mezzo: ma provate a cercare un arredo rotto o rifiuti abbandonati a
Central Park o nel Giardino delle Tuileries. O nei parchi di Londra, che sono
comunque immensi e fanno dei londinesi dei cittadini fortunati con i loro 105
metri quadrati a testa. Ai romani ne toccano 16,5 a testa, ma ci sono 20mila
alberi ridotti a un mozzicone che aspettano di essere sostituiti, panchine
spaccate, prati che sembrano giungle. Consola poco quindi il recentissimo
rapporto Istat sul verde urbano che segnala qualche progresso quantitativo (nel
2014 ogni cittadino italiano che vive nelle città capoluogo disponeva in media
di 31,1 metri quadri, con forti differenze regionali) ma non lo stato
qualitativo.
L'allarme del ministero: "Comuni hanno
rinunciato alle politiche per il verde"
La foto sfocata delle statistiche. "Il problema è
proprio questo: il degrado del verde pubblico. I dati statistici non riescono a
cogliere l'aspetto decisivo della qualità di prati, alberi, attrezzature. Anche
i dati che pubblichiamo nel nostro rapporto annuale 'Ecosistema urbano' ci
dicono, per esempio, che Matera ha quasi mille metri quadrati di verde per
abitante, ma non ci dicono in che condizioni si trovano e se per raggiungerlo
devo prendere la macchina o ci posso andare a piedi, non ci dicono se le
panchine ci sono o sono devastate", sottolinea Alberto Fiorillo, responsabile
Aree urbane di Legambiente. La riprova sta nelle centinaia di comitati a difesa
del verde che si contano in Italia. E sta nei dati del sondaggio fatto nel 2013
da Eurobarometro in 79 città e 4 agglomerati urbani europei sulla precezione
della qualità del verde urbano. Il 71% dei napoletani e 6 palermitani su 10 si
dichiarano insoddisfatti dello stato dei loro parchi e giardini.
Un tesoro urbano. Eppure il verde urbano è un bene prezioso. "È importantissimo
per i comportamenti della popolazione. Il verde è il colore della calma – dice
Mariella Zoppi, dicente di Urbanistica, presidente del corso di laurea
magistrale in Architettura del paesaggio all’Università di Firenze - quindi
svolge una funzione psicologica, sociale. Sotto il profilo ambientale, poi, ha
effetti benefici sulla qualità dell'aria. Io credo che sia un elemento
fondamentale nella transizione verso una nuova società. Per questo considero
sbagliato il taglio della spesa pubblica in questo settore".
Legge quadro. Da tre anni è in vigore la legge
10/2013, una vera e propria legge quadro sullo sviluppo e la salvaguardia del
verde pubblico in Italia. Il fulcro è il Comitato per lo sviluppo del verde
pubblico istituito presso il ministero dell'Ambiente. E' al Comitato che è
demandato il controllo sulle norme che riguardano la tutela degli alberi
monumentali, del rispetto dell’obbligo per i Comuni sopra i 15mila abitanti di
piantare un albero per ogni bambino nato o adottato. E' il Comitato, ancora, che
emana circolari attuative della legge e che indica i criteri che le
amministrazioni territoriali devono seguire in materia di urbanizzazione per
mantenere e incrementare il verde pubblico con particolare riferimento agli
alberi. Le sanzioni, amministrative e penali, sono previste solo nei casi di
abbattimento o danneggiamento delle piante monumento dei Parchi della
rimembranza nati dopo la Prima Guerra mondiale, ma ci si sta attrezzando anche
per gli alberi monumentali (anche se la definizione "monumentale" è ancora
oggetto di dibattito) il cui censimento nazionale è a buon punto, mentre per
quanto riguarda il rispetto della norma "un albero per ogni nato o adottato" la
sanzione può essere solo "politica". "La legge – spiega Massimiliano Atelli,
presidente del Comitato – introduce il ‘Bilancio arboreo’, ovvero il computo di
quanti alberi ha trovato un sindaco al suo insediamento e quanti ne lascia alla
fine del mandato. Saranno poi i cittadini, con il voto, a sanzionare o premiare
il suo operato".
Strumenti ignorati. Le amministrazioni locali hanno tre strumenti di governo per
parchi e giardini: Censimento del verde, Regolamento del verde e Piano del
verde. Il primo fa una fotografia precisa di quello che c’è in una città: quanti
alberi, di che specie e in quale condizione di salute si trovano. A redarlo sono
stati 53 capoluogo di provincia sui 73 analizzati dal X rapporto Ispra. Il
Regolamento deve indicare invece prescrizioni e indicazioni tecniche sulla
progettazione del verde (sia pubblico che privato). Lo hanno adottato solo 36
Comuni, 7 dei quali solo per ciò che riguarda il verde pubblico. Poi c’è il
Piano, lo strumento più ignorato. Dovrebbe integrare la pianificazione
ubanistica per dare una "visione strategica sullo sviluppo del sistema del verde
urbano e peri-urbano", come si legge nella Relazione 2015 del Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico. In Italia lo hanno approvato solo sei comuni
capoluogo (Savona, Reggio Emilia, Bologna, Ravenna, Forlì e Taranto), mentre
Milano e Bergamo hanno norme in materia nel Piano per il governo del territorio.
Il tradimento dell'albero per ogni nato. In attesa
del giudizio elettorale, però, sono pochi i Comuni che piantano un albero per
ogni neonato. Nella legge è previsto che i municipi inviino a chi ha registrato
il proprio figlio all’anagrafe un certificato in cui si dice che tipo di albero
è stato piantato e dove. Fantascienza. A Firenze si pianta un albero per ogni
classe d’età: c’è quello del 2001, del 2002 ecc. A Torino si è esteso il
concetto anche agli arbusti, in altre città della norma si è persa traccia. "A
Roma ci sono 25mila nuovi nati all’anno. Non saprei come pagarli considerando
che ognuno costa 300 euro fra impianto e manutenzione nei primi due anni. E poi
in 10 anni fa 250mila alberi, una foresta. Dove li mettiamo?", si giustifica
Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del
Verde del Comune di Roma. "Quella del territorio a disposizione è una scusa –
sostiene Massimiliano Atelli – la legge prevede che che si possano chiedere
terreni in prestito al Demanio. O che si usino gli alberi previsti per i neonati
per sostituire quelli abbattuti". E comunque 250mila alberi in dieci anni non
possono spaventare se Sadiq Khan, neosindaco di Londra, ha annunciato di voler
piantare due milioni di alberi in 10 anni. "In Cina ne vogliono piantare un
miliardo da qui al 2020", chiosa Atelli.
Risorse scarse. A preoccupare sono le risorse, sia in termini di soldi che di
personale, con cui i responsabili del verde pubblico dei vari Comuni devono fare
i conti. "Le faccio l’esempio del mio Comune – dice Stefano Cerea, presidente
dell’Associazione italiana direttori e tecnici dei pubblici giardini – Da
trent’anni lavoro a Treviglio, 30mila abitanti, provincia di Bergamo. Lo scorso
anno per far fronte a tutta la gestione del nostro verde pubblico avevo un
budget di 230mila euro, quest’anno saranno 150mila". "Noi - aggiunge Mori – oggi
abbiamo mezzo centesimo per ognuno dei 40 milioni di metri quadrati di verde che
gestiamo a Roma".
L'associazione che Cerea presiede è nata 60 anni
fa e conta 400 iscritti in rappresentanza di 200 Comuni. Prima erano ammessi
solo i dipendenti degli enti locali, da tre anni è stata aperta ai funzionari
delle municipalizzate perché spesso i Comuni ricorrono a loro per la gestione
del verde. "Non sempre con grandi risultati – ammette Antonello Mori – a Roma
con Ama, per esempio, si è aperto un contenzioso sulla gestione delle aree per i
cani nei giardini pubblici. Chi deve raccogliere gli escrementi e disinfettare
l’area? Per noi loro, si tratta pur sempre di rifiuti speciali. Ma Ama non la
pensa così".
Responsabili Servizio giardini nel mirino. "Poche risorse, ma oneri immensi per
i responsabili dei Servizi giardini – dice ancora Stefano Cerea – perché se un
albero cade, in città, stia sicuro che fa danni. A volte, purtroppo anche delle
vittime. E’ accaduto ultimamente a Roma, a Catania, a Napoli. E l’avviso di
garanzia dopo il sindaco colpisce il responsabile tecnico. Non solo, siamo anche
indicati spesso come nemici del verde dagli ambientalisti, magari perché abbiamo
tagliato degli alberi potenzialmente pericolosi. Tre anni fa il dirigente del
verde pubblico di Padova si è visto recapitare una busta con un proiettile”.
Pochi e invecchiati. Sul fronte delle risorse umane il problema arriva da
lontano, dal 1975 quando la chiamata diretta nella pubblica amministrazione è
stata cancellata e non è stato più possibile assumere chi usciva dalle scuole
giardinieri, le scuole di formazione dei Comuni. Dal 2001, poi, nel Pubblico
Impiego c’è il blocco del turnover, è possibile un’assunzione ogni 5
pensionamenti. E questo ha riflessi sull’organico in termini quantitativi. "Ma
da noi a Roma il blocco è iniziato prima, di fatto non ci sono assunzioni dal
1990 e dei 1800 addetti del Servizio Giardini presenti nel 1980 oggi di
operativi ne restano 250, con un’età media che supera di gran lunga i 50 anni",
dice ancora Antonello Mori. E' vero però che a Roma nel 2004 ci fu una corsa a
trasformare i giardinieri in personale tecnico, così sul campo rimasero 270
persone in meno. Fu di fatto l'apertura agli appalti esterni, molto spesso per
affidamento diretto, un meccanismo che ha permesso al sistema di Mafia Capitale
di fare man bassa.
Sponsor e mecenati. Problemi di gestione che appaiono insormontabili, quindi,
anche se proprio la legge 10 permette di affidarla ai privati. Due le strade che
si possono seguire. La prima è quella della sponsorizzazione: un'azienda sceglie
un giardino o un parco e si impegna nella sua manutenzione o al suo ripristino
presentando un progetto all’amministrazione comunale che lo approva e poi
controlla che tutto venga fatto secondo i criteri decisi. In cambio lo sponsor
può utilizzare lo spazio per eventi, campagne pubblicitarie e altre iniziative,
garantendo però sempre la fruibilità pubblica. Una modalità applicata con
successo in particolare a Milano.
La seconda strada la indica Antonello Mori, del servizio Verde pubblico di Roma:
"E’ quella del mecenatismo. Ben vengano i privati, le aziende, ma niente uso
esclusivo del bene. Un cartello ricorderà chi ha finanziato la manutenzione del
giardino. Di più non concediamo. Sta funzionando. L'esempio più recente è il
ripristino del Giardino degli aranci sull’Aventino". "Su questo – precisa Atelli
– noi siamo a disposizione per consigli e aiuti pratici. Purtroppo molti ci
ignorano, preferiscono fare da soli, o anche non fare niente". E intanto parchi
e giardini vanno in malora.
Senza manutenzione Roma chiude i cancelli
di CECILIA GENTILE
ROMA - Un cancello serrato con un cartello:
"Vietato entrare per rischio caduta alberi". È così che succede a Roma. Se un
temporale fa ondeggiare pericolosamente le fronde non si procede alla messa in
sicurezza ma si chiudono i parchi perché non ci sono i soldi e non c'è
personale. È la Caporetto della manutenzione del verde: gli effetti si vedono
nei giardini e nei parchi chiusi e nell'incuria imperante. Ora che è primavera
inoltrata e che l'erba cresce prepotentemente prati e giardini si sono
trasformati in giungle.
Il colpo di grazia ad un settore già ridotto ad ancella del bilancio comunale lo
ha dato lo scandalo Mafia Capitale. Una volta appurato che verde e migranti
erano i pozzi senza fine da cui si alimentava il malaffare l'allora giunta
Marino ha congelato tutti gli appalti con le Coop che per conto del Comune si
occupavano della manutenzione. Una scelta obbligata quella del ricorso agli
affidamenti esterni. Il Servizio Giardini del Campidoglio dispone infatti
soltanto di 250 giardinieri per curare l'immenso patrimonio verde della
capitale. Solo le alberature sono 330mila. Un tempo i giardinieri comunali erano
1.800 poi sono andati progressivamente riducendosi con i pensionamenti e il
blocco del turn over.
Appena insediata, l'allora assessore all'Ambiente
della giunta di Ignazio Marino, Estella Marino, aveva annunciato un cosiddetto "appaltone"
per il monitoraggio delle alberature di prima grandezza, pari a 86mila fusti, la
cui altezza raggiunge almeno i venti metri. Ma la gara è stata bandita soltanto
il 29 giugno 2015. Il termine per presentare le offerte, arrivate da 130
candidati, si è chiuso il 15 settembre 2015. Si è appena conclusa la fase dei
controlli, ora si passa al vaglio delle offerte e probabilmente la pratica
finirà nelle mani del prossimo sindaco.
Da parte loro, i candidati sindaci non sembrano aver tenuto in gran conto
l'emergenza del verde nel loro programma elettorale. Malgrado a Roma parchi e
ville, un tempo vanto della capitale, siano agonizzanti. Gli appalti ponte
banditi dal Comune in attesa dell'assegnazione dell'appaltone, 16 in otto mesi
nel corso del 2015, del costo di 200 mila euro ciascuno, sono esauriti o in via
di esaurimento. Inutile pensare che in queste condizioni la capitale possa dar
corso alla legge del 1992 che prescrive di mettere a dimora un albero per ogni
nuovo nato. In città nascono 25mila bambini all'anno. Il problema adesso è
mettere in sicurezza e curare il patrimonio esistente che sta andando in malora.
Napoli, dopo 20 anni la città ancora aspetta
di ANNA LAURA DE ROSA
NAPOLI - Vent'anni per realizzare il Parco della
Marinella in pieno centro. Ma quell'oasi verde ancora non c'è. Alberi, aiuole,
giostrine e un piccolo campo sportivo. Il progetto firmato dall'architetto Aldo
Loris Rossi nel 1997 mostra un polmone verde di 30mila metri quadrati atteso
inutilmente da ragazzini ormai trentenni. L'intervento rientra nel Grande
progetto Napoli Est. L'appalto finanziato con fondi Por vale 5 milioni ed è
stato aggiudicato dopo una serie di affanni burocratici. È una saga fatta di
sequestri e incendi dolosi, occupazioni abusive e ricorsi da parte delle ditte
in graduatoria. I lavori non sono mai partiti. E sul parco restano le macerie.
Montagne di rifiuti e topi tra l'erba alta. Una discarica nel centro di Napoli.
Le vite invisibili del Parco Marinella
L'area in cui dovrebbe sorgere il parco, detto
anche Villa del Popolo, si trova di fronte a due quartieri senza spazi verdi
abitati da circa 25mila persone. Il primo passo significativo per la
realizzazione si ha nel 2010, con il trasferimento della proprietà dei terreni
dal demanio al Comune. Un enorme campo rom abusivo occupa però l'area negli anni
dell'abbandono. Nel 2012 cominciano lo sgombero delle baracche e una serie di
interventi di rimozione rifiuti. Via quintali di copertoni, legno e materiale
speciale.
Una speranza si accende a settembre 2014, quando la gara d'appalto viene
aggiudicata al consorzio temporaneo d'impresa Ream. Neanche il tempo di
recintare l'area di cantiere che scatta il ricorso al Tar della seconda ditta in
graduatoria. Le battaglie legali vanno avanti fino ad oggi mentre un incendio
doloso appiccato da ignoti divampa nel parco che finisce sotto sequestro. Le
sezioni unite si pronunceranno sulla gara il prossimo 22 giugno, ma i lavori non
potranno partire subito poichè sono scadute le verifiche antimafia.
Il vicesindaco Raffaele Del Giudice, in carica da 10 mesi con l'amministrazione
de Magistris, ha avviato da qualche giorno la realizzazione di una fogna nel
parco, in modo da sbloccare almeno una parte dei lavori. "E' assurdo. Un
quartiere che per 20 anni ha sognato questo parco è ancora senza spazi verdi -
protesta Del Giudice, ex responsabile di Legambiente Campania - Serve un
osservatorio nazionale su ritardi e conteziosi nella realizazione di opere opere
pubbliche, non ci possiamo più permettere tempi biblici. I tribunali hanno
bisogno di personale per la trascrizione delle sentenze. Ce la stiamo mettendo
tutta, la nostra amministrazione ha dato un'accelerata".
Del Giudice ha riattivato la prassi della messa a dimora di un albero per ogni
nato, disattesa da anni: grazie a un accordo con la forestale, alberelli di
piccoli dimensioni sono stati sistemati nel vivaio comunale e saranno piantati a
breve. Pubblicato anche il bilancio arboreo di fine mandato. Il verde urbano
attrezzato gestito dall'amministrazione è passato dai 4 milioni e 722 mila metri
quadri del 2011 ai 4 milioni e 991 mila metri quadri del 2015 con un incremento
del 4.41 per cento. In città ci sono più di 60 mila alberi di alto e basso
fusto, di cui però molti hanno superato i 50 anni e richiedono quindi maggiore
cura. In 5 anni sono stati abbattuti più di duemila alberi e piantati 4208
arbusti. La città spera di vedere finalmente l'arrivo di alberi al Parco della
Marinella. Un sogno rimandato a dopo le elezioni.
A Milano la svolta con Pisapia
di ILARIA CARRA
MILANO - Al settore verde la giunta guidata da
Giuliano Pisapia ha prestato molta attenzione. In particolare si è cambiato
l’approccio: sono 33mila i metri quadrati di aiuole trasformate da stagionali in
perenni, in modo che siano sempreverdi tutto l’anno. Si è spinto molto poi sul
fronte della partecipazione dei cittadini: sono 392 le aiuole condivise dai
milanesi e 13 i nuovi giardini condivisi, 150 i condomini che hanno trasformato
marciapiedi in aree verdi sottraendo spazi a parcheggi abusivi e 20mila metri
quadrati di terreni in più per orti.
Uno sforzo che ha conosciuto però anche contestazioni. Le critiche più dure sono
arrivate dai difensori del verde sacrificato per i lavori del futuro metrò 4,
circa 500 alberi tagliati per far spazio ai cantieri in vari punti della città
oggetto di una battaglia di alcuni gruppi di cittadini. Dopo decenni, in tema
verde, la giunta Pisapia ha dedicato tempo infine per risolvere la annosa
questione della paulonia, secolare albero in Brera molto difeso dalle signore
del quartiere che rischiava di dover lasciare il posto al progetto immobiliare
della società proprietaria dello spicchio di area di grande pregio in via
Madonnina: con una permuta di aree, la paulonia è salva e il quartiere è
accontentato.
Alberi urbani vittime delle potature selvagge
di ALESSANDRO CECIONI
ROMA. L’intervento più visibile, e più criticato,
sul verde pubblico sono le potature. "È un punto dolente nel quale noi ci
troviamo fra due fuochi – dice Antonello Mori, direttore del dipartimento per la
Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma – da una parte ci sono quelli
che considerano gli alberi un pericolo, oppure che si sentono danneggiati da
rami troppo vicini alle finestre, dall’altra ci sono i cittadini pronti a fare
le barricate appena si sfoltisce una pianta. Quello che posso dire è che a Roma
non si pota più in modo selvaggio da almeno 20 anni. Niente capitozzature per
intenderci".
"È falso, le capitozzature ci sono eccome – lamenta Sanzio Baldini, già docente
universitario di Gestione del verde urbano e Tecnologia forestale, autore di
diversi libri in materia – solo che le chiamano capitozzature lunghe, perché non
sono più fatte dove si allargano i rami, ma un paio di metri più in alto. Però
anche così si creano delle ferite che lasceranno spazio alle spore e ai funghi,
agli insetti. Si condanna la pianta".
"Capitozzare è un retaggio che viene dalla gestione contadina, quando si doveva
fare frasca per gli animali. Oggi è realizzata nella versione 'lunga' (il modo
descritto dal professor Baldini, ndr) anche perché è semplice e non richiede
nessuna perizia", rincara la dose Carlo Mascioli, dottore forestale consulente
di enti pubblici e di privati. "Il problema – aggiunge – è che sul verde
pubblico c’è purtroppo una grandissima ignoranza di fondo, nella scelta degli
alberi che vengono messi a dimora, nella scarsa programmazione e progettualità".
"I problemi che può creare un albero in città vengono da lontano – spiega il
professor Baldini – dalla distanza di un albero dall'altro, dalla vicinanza o
meno delle case, dai lavori stradali che sono stati fatti con conseguente taglio
delle radici. Poi a tutto questo si prova a porre rimedio con le potature. Con
le capitozzature lunghe che di fatto spostano il baricentro dell’albero e lo
rendono meno stabile, più pericoloso. Perché queste ferite alle piante vengono
inferte da persone che non hanno la minima idea di quello che fanno. Non escono
da scuole come quella di Monza, non hanno studiato la natura degli alberi.
Sapesse quante volte ho sentito dire ‘tagliamo, tanto ramo più, ramo meno...’".
"Lei lo sa quanto ci mette una pianta a dare copertura al taglio di un ramo di 5
centimetri di diametro? Dai 15 ai 18 anni. La ferita si rimargina in un tempo
lunghissimo. Qualcuno crede di superare il problema mettendoci del mastice, ma
gli alberi sono esseri viventi, si muovono”, dice ancora Baldini. "Non solo: un
platano alto 35 metri, perché in quel posto quella è la sua altezza naturale,
una volta potato drasticamente ripartirà verso l’alto, per tornare a 35 metri -
aggiunge Mascioli – La natura è questo. Se lo si vuole più basso va curato in
modo diverso, da persone competenti". "Il problema di fondo resta questo – dice
Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico
– si deve distinguere fra verde orizzontale, i prati, verticale, gli alberi, e
verde di pregio. Per il verde orizzontale si possono anche impiegare persone con
conoscenze minori, per gli altri servono degli specialisti".
L'eccellenza perduta delle scuole giardinieri
di ALESSANDRO CECIONI
ROMA - "Disaffezione verso le professioni del
verde, anche a causa della chiusura di fatto delle scuole giardinieri di
maggiore tradizione". Così si legge nella Relazione annuale del Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico. "Erano, e in alcuni casi sono restate,
un'eccellenza didattica, ma non più per il settore pubblico. Una delle tante
eccellenze cui il nostro paese ha rinunciato", dice con amarezza Stefano Cerea,
presidente dell’Associazione italianadirettori e tecnici pubblici giardini.
Certo, quando nel 1975 furono cancellate tutte le deroghe che permettevano la
chiamata diretta dei dipendenti comunali, le scuole giardinieri videro il loro
destino segnato. Prima ci si iscriveva a una di queste, si facevano quattro anni
di studio, sia teorico che pratico, e c’era la certezza di entrare a far parte
dei giardinieri comunali. "A Roma negli anni 80 c'erano 2mila ettari di verde
pubblico, la metà di ora - dice Antonello Mori, direttore del Servizio ambiente
e giardini del Comune di Roma - e 2mila addetti al servizio. Ora con il doppio
di verde i giardinieri sono 250, con molti ultracinquantenni, gli ultimi usciti
dalla Scuola. Quando li vedo salire sui cestelli per le potature, magari a venti
metri d'altezza, qualche paura ce l'ho”.
Parchi e giardini, la gara tra i più belli
Per loro niente corsi di "tree climbing",
arrampicarsi sugli alberi per fare così la manutenzione straordinaria delle
piante. È una tecnica che data un paio di decenni nata negli Usa. Si insegna,
insieme a molte altre cose, nella Scuola agraria del Parco di Monza. "La scuola
più famosa e più bella”, dice ancora Cerea. "Ormai i dipendenti pubblici che
vengono da noi a specializzarsi non ci sono più - spiega Filippo Pizzoni,
direttore della Scuola – siamo un centro di formazione professionale postdiploma
accreditato alla Regione Lombardia, prepariamo personale che poi potrà lavorare
in aziende, in proprio, in ogni campo legato alla cura, progettazione e
realizzazione di giardini e parchi".
I numeri parlano da soli: 150 corsi di formazione ogni anno, 1500 allievi. Fra i
corsi più seguiti quello per giardiniere professionista (600 ore), quello per
arboricoltore (320 ore). E ancora quello per imparare a fare il fiorista, oppure
per avere il titolo a occuparsi di giardini storici. E, naturalmente, i due
corsi pertree climbers tenuti dagli specialisti americani Mark Chisholm e Brian
Noyes.
A Roma la Scuola Giardinieri, nata nel 1926 e chiusa di fatto all’inizio degli
anni 90, ha riaperto cambiando pelle. "Facciamo corsi per i privati cittadini
che amano il giardinaggio – dice ancora Antonello Mori – durano 5 mesi, da
febbraio a giugno, 20 lezioni di due ore l'una. Il costo è 150 euro. Abbiamo
aperto le iscrizioni on line e in 4 giorni sono arrivate 520 domande". Per
tenere delle lezioni verranno anche alcuni docenti della Scuola di Monza.
Fonte: L'Espresso
19
maggio
Così stiamo divorando il
suolo italiano
Nuove costruzioni edificate anche se rimangono
sfitte, continue colate di cemento. L'Italia è uno dei paesi europei con il
maggior consumo di territorio. Un fenomeno che la crisi ha solo rallentato e che
interessa più il Nord del Sud. Ma la Camera approva una nuova legge: "Azzerare
la cementificazione entro il 2050"
di Davide Mancino
Maggiori emissioni di gas serra, perdita di
biodiversità, scomparsa di una risorsa non rinnovabile: quella del consumo di
suolo è tutt'altro che una questione estetica. Eppure esistono città, in Italia,
in cui si può girare per tutto il tempo senza trovare un minimo di spazio libero
– non occupato dall'uomo e dalle sue attività. Per questo è un significativo
passo in vanti la legge contro il consumo di suolo che è stata approvata dalla
Camera con 256 sì, 140 no e 4 astenuti. Per la prima volta si fissa un obiettivo
molto avanzato: azzerare la cementificazione entro il 2050.
Secondo dati resi disponibili dall'istituto superiore per la ricerca e la
protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Torino è la grande città con la
maggiore fetta di suolo consumato (57,6 percento), seguita a brevissima distanza
da Napoli. Anche a Milano risultano numeri simili, mentre fra i centri
principali Roma si trova assai più in basso (20 percento).
Eppure i valori più elevati non sono affatto in queste città. Al contrario, in
diversi piccoli comuni trovare uno spazio non edificato è quasi impossibile. Che
sia a Casavatore – 18mila abitanti appena a nord di Napoli – oppure a Melito o
Arzano, ancora nel napoletano, la situazione non cambia troppo: lì il consumo di
suolo supera il 75 percento, e proprio a Casavatore – record italiano – tocca un
picco dell'85 percento.
Cosa significa, in pratica, "consumo di suolo"?
Ispra lo definisce come "l'occupazione di una superficie in origine agricola o
naturale", un processo dovuto soprattutto alla "costruzione di nuovi edifici,
capannoni e insediamenti, all'espansione delle città". Oppure, altro caso, alla
conversione di terreno in un'area urbana: come per esempio è successo a Milano
nell'area dedicata a Expo.
"Oltre alla scomparsa di una risorsa non rinnovabile" – spiega Michele Munafò,
ricercatore dell'Ispra – "il problema è la perdita delle funzioni che essa ci
assicura. In primo luogo la produzione agricola, con tutta una serie di servizi
di regolazione dei cicli naturali come quello delle acque. Se il suolo viene
sigillato questa capacità va persa, e aumenta per esempio il rischio di
inondazione. Scompare anche il supporto alla biodiversità. Direttamente, perché
sappiamo molto poco di quanta ce ne sia del suolo anche se possiamo stimare che
un quarto delle specie del pianeta viva sotto terra. Ma anche indirettamente,
perché trasformandolo abbiamo un impatto anche sulle aree dove il suolo non è
consumato in maniera diretta".
Il terreno, poi, è in grado di contenere il carbonio – molto più dell'atmosfera
stessa – ma solo a condizione che non venga occupato artificialmente. "Abbiamo
stimato", continua Munafò, "che negli ultimi cinque anni il suolo consumato
dalle nuove costruzioni e infrastrutture ha portato a una perdita equivalente
alle emissioni di CO2 di quattro milioni di auto. Come se ci fosse il 10
percento di veicoli in più che gira per le strade".
Fare un confronto così semplice fra città ha però anche un grosso limite: non
tiene in considerazione quante sono le persone che in quei luoghi vivono.
Spesso, dove la densità abitativa è maggiore e gli abitanti sono più
concentrati, anche il consumo di suolo è più elevato.
Prendiamo proprio Torino, Milano e Napoli. Certo si tratta di tre grandi centri
in cui il consumo di suolo è molto alto, ma allo stesso tempo la popolazione al
loro interno risulta circa tre o quattro volte più "impacchettata" rispetto a
Roma, Genova o Bologna.
Non si tratta neppure di casi limite, in Italia. I piccoli comuni campani in cui
il consumo di suolo arriva al massimo sono anche quelli in cui un gran numero di
abitanti vive in uno spazio ristrettissimo: al punto che in alcuni di loro la
densità abitativa è talmente elevata da far sembrare la stessa Napoli un borgo
spopolato.
In altre città succede l'opposto. Rispetto a quanto sono ampie, a Padova,
Brescia e Piacenza non vivono poi così tante persone – eppure lì il consumo di
suolo non è basso quanto potremmo aspettarci. Ancora più estremo è il caso di
Lallio , un piccolo comune di 4mila abitanti in provincia di Bergamo in cui lo
spazio disponibile è parecchio, rispetto agli abitanti che ospita, ma allo
stesso tempo il consumo di suolo arriva a poco meno del 60 percento.
Si tratta comunque di un rapporto complesso. Secondo Munafò "i dati mostrano che
dagli anni '70 il consumo di suolo si è separato dalla crescita urbana. Le città
si espandono mentre la popolazione lo fa molto meno, o in alcuni casi
addirittura diminuisce".
Dove vanno cercate allora le ragioni dell'aumento? "Da un lato le famiglie sono
diventate sempre più piccole, ma soprattutto sappiamo che si continua a
costruire nonostante molte abitazioni siano vuote. Ci sono due milioni di
appartamenti non usati, e se includiamo le seconde case i valori aumentano
enormemente. Poi oggi l'immobile è diventato più un bene economico che non un
luogo dove abitare. Per anni il comparto delle costruzioni ha trainato
l'economia nazionale. Oggi è in crisi e il consumo di suolo rallenta anche per
questo".
Questa la situazione recente. Ma in Italia le cose
sono cambiate molto: rispetto agli anni '50 il suolo italiano di cui abbiamo
fatto uso è passato da 8mila a 21mila chilometri quadrati. Soltanto negli ultimi
tempi – e in particolare proprio nel 2014, secondo prime stime provvisorie –
l'aumento è rallentato.
Già ai tempi del boom economico la Lombardia era la regione in cui il consumo di
suolo era maggiore, e 60 anni dopo le cose non sembrano cambiate. Semmai le
costruzioni hanno accelerato la loro corsa, e ancora di recente è questa la
regione in cui il fenomeno si sente di più. Per il Trentino Alto-Adige la
situazione è simile – soltanto inversa: area con la più alta fetta di territorio
libero allora, lo stesso succede anche in tempi recenti.
Per pignoleria, va anche tenuto in conto che a volte si tratta di valori
piuttosto difficili da stabilire con esattezza – e così le stime comprendono il
relativo margine di errore che può spostare il risultato un po' in su o in giù,
a seconda dei casi.
Le regioni mangiate
Come evidenzia Ispra stessa, tutto sommato il
consumo di suolo riguarda in particolare aree "quasi totalmente situate nelle
zone costiere, nelle pianure e nei fondovalli montani". Difficile pensare di
poter edificare in maniera intensiva nelle zone di montagna o su fiumi e laghi.
Neppure troppo comodo, a meno di volersi ancorare a oggetti circostanti, anche
costruire in zone a elevata pendenza.
Così le aree che ospitano in maggiore quantità questi ultimi tipi di territorio
risultano protette "naturalmente" contro il consumo di suolo. Raro trovare zone
prive di montagne in Valle d'Aosta, per esempio. Tenendo in conto le
caratteristiche del territorio è possibile costruire la classifica del consumo
di suolo "effettivo", che considera quanto abbiamo costruito dove effettivamente
era possibile farlo.
Qui proprio la Valle d'Aosta balza al primo posto fra le regioni, con il
Trentino Alto-Adige che segue in terza posizione. Nel consumo di suolo effettivo
entrambe le aree capovolgono del tutto il proprio risultato, come c'è da
aspettarsi dove buona parte del territorio tende a essere meno adatto per essere
occupato in maniera artificiale. Lombardia e Veneto, al contrario, retrocedono
dalla cima di diverse posizioni.
Un conteggio alla pari
Per capire meglio com'è messa l'Italia possiamo
anche allargare un po' lo sguardo al resto d'Europa. Secondo Eurostat il paese
con il maggior consumo di suolo nel 2012 è il Belgio, seguito dall'Olanda,
mentre l'Italia viene subito dopo.
Anche in questo caso, però, è bene ricordare che le nazioni sono popolate in
modo assai diverso fra loro. Proprio l'Olanda è uno dei luoghi in cui la densità
di abitanti è più alta – in media più del doppio dell'italiana –, e questo tende
a portare con sé un maggior uso del territorio. Anche nel Belgio succede
qualcosa di simile – sebbene in misura inferiore.
Il Regno Unito, al contrario, è fra i più virtuosi, e pur ospitando molte
persone rispetto alla sua superficie il consumo di suolo non è elevato quanto
potremmo aspettarci. Danimarca, Portogallo e Francia invece hanno usato il loro
territorio in modo relativamente intensivo – forse non tanto in termini
assoluti, ma senz'altro parecchio per essere luoghi dove la densità abitativa
non è chissà quanto elevata.
Dal 2009 al 2012 il consumo è aumentato in tutti i paesi europei, ma in nessuno
quanto in Belgio dove è passato dal 9,8 al 13,4 percento. Anche in Olanda c'è
stato un discreto aumento, mentre l'Italia nello stesso periodo si è fermata
grosso modo nella media.
Esistono politiche per fronteggiare il problema?
"C'è un lavoro molto importante della Commissione Europea", spiega Munafò, "che
ci chiede di azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050. Ovvero fare in
modo che il nuovo suolo consumato non sia superiore a quello che siamo in grado
di recuperare. Oggi questo bilancio risulta fortemente negativo: il suolo
recuperato è praticamente inesistente, mentre quello occupato è notevole. In
realtà è difficile e costoso lavorare su quanto è già stato perso e non lo si
recupera mai del tutto, per cui la cosa più importante è limitare l'uso di suolo
nuovo".
L'idea è allora provare a mitigare l'impatto, a consumare meglio: "Magari
mantenendo alcune delle funzioni del suolo tramite l'uso di materiali permeabili
invece del cemento nei parcheggi, per esempio". Oppure dedicarci al riuso di
quanto abbiamo già. "Pensiamo solo alle aree di sviluppo industriale del secolo
scorso, a zone dismesse, sottoutilizzate e così via", conclude il ricercatore,
"solo così di spazio a disposizione ne abbiamo a volontà".
Fonte: L'Espresso
10
maggio
Almaviva, ultimi 30 giorni
per evitare 3mila licenziamenti
Il 90% dei lavoratori boccia i contratti di
solidarietà proposti dal governo. "Solo tagli, nessuna prospettiva", denunciano
i sindacati. Senza un altro piano, a giugno partono i licenziamenti. Cgil: "Nel
settore dei call center rischiano in 10 mila"
di VALENTINA CONTE
ROMA
- Cinquemila no su 5.815 lavoratori consultati. La proposta del governo per
impedire 3mila licenziamenti decisi a Roma, Palermo e Napoli da Almaviva - il
colosso dei call center con 13mila impiegati nelle 38 sedi italiane, 32 mila in
19 sedi estere - è stata sonoramente bocciata dalla maggioranza degli addetti.
Con punte superiori al 90% anche nelle città per ora al riparo dal forte piano
di ridimensionamento. La vertenza va avanti da mesi e ora, dopo la fumata nera
espressa nelle urne, la crisi rischia di deflagrare. Sindacati e azienda hanno
30 giorni per trovare una soluzione, con la mediazione del ministero dello
Sviluppo (al momento ancora privo di ministro, dopo l'uscita di Federica Guidi).
Passato il mese, l'azienda può cominciare a spedire le raccomandate di
licenziamento. Senza una svolta dunque, a partire da giugno ogni giorno e per
quattro mesi può essere quello terribile della fine del lavoro.
Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di lavoratori a part-time da
quattro ore che guadagnano 550-600 euro al mese per stare davanti a un pc con le
cuffiette infilate a rispondere ai clienti di primarie aziende italiane. Come
quelle pubbliche: Enel, Eni, Poste, Ferrovie, Equitalia, Inps, Comuni di Roma e
Milano. E i colossi privati: Mediaset, Telecom, Sky, Vodafone, Wind, Fastweb,
American Express. "Non sono stupito dalla bocciatura dei lavoratori", racconta
Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil. "La proposta del governo non dava
alcun tipo di prospettiva futura ai lavoratori, ma si limitava a chiedere loro
solo sacrifici: più solidarietà e meno guadagni". E in effetti i dipendenti di
Almaviva Contact hanno trovato sul tavolo contratti di solidarietà al 45% per la
sede di Palermo e Roma (taglio del 45% delle ore lavorate, in pratica 10 giorni
su 20 al mese per i part-time), 35% per la sede di Napoli, 13% a Milano, 7% a
Catania, 3% a Rende, in provincia di Cosenza. Senza alcun piano di rilancio.
Fatti i primi conti in tasca, i lavoratori hanno detto no. Chi guadagna 600-700
euro al mese, non solo rinuncia al 25% della busta paga. Ma scivola anche sotto
la soglia di reddito degli 8 mila euro annui, diventa incapiente e dunque perde
pure gli 80 euro di Renzi. Oltre al danno, la beffa. D'altro canto la crisi è
nera. Il management di Almaviva dice di registrare perdite per un milione e
mezzo al mese, a causa della concorrenza al ribasso di aziende italiane e
straniere che hanno un costo del lavoro ancora più basso. E il rosso si è
accentuato da gennaio, quando l'azienda è stata inquadrata nel settore dei
servizi, uscendo così dall'industria e perdendo la copertura dell'ammortizzatore
ordinario (che garantiva fino all'80% dello stipendio, con tetto a 1.200 euro),
in cambio di quello in deroga che però integra solo metà salario. A questo si
aggiunge l'uscita di due importanti commesse: Green Network ed Enel. La prima ha
chiesto la disdetta dal contratto quattro mesi dopo averlo firmato, "perché ha
scoperto che in Albania i centralinisti costano meno", dice ancora Azzola.
Gare al massimo ribasso, delocalizzazione all'estero, servizi di scarsa qualità
ma con costi del lavoro bassissimi. Un cocktail micidiale che secondo la Cgil
rischia di mettere fuori gioco 10mila lavoratori italiani dei call center di qui
ai prossimi mesi. "Basta pensare a quella norma del decreto Sviluppo del 2012,
mai applicata", ragiona ancora Azzola. "Quella che prevede una sanzione da
10mila euro al giorno per tutte le aziende che non danno la possibilità
all'utente che chiama di poter scegliere tra call center italiani o esteri, come
prevedere la legge. E' stata pensata per difendere i posti e invece ha prevalso
il massimo ribasso sul costo del lavoro. Vince l'azienda più spregiudicata e
furba, non quella che applica i contratti e offre servizi di qualità. Per questo
chiediamo al governo di impedire quantomeno alle aziende pubbliche di appaltare
solo in base al massimo ribasso e di fissare standard di qualità".
Nella vertenza Almaviva Contact, tuttavia, l'amminstratore delegato Andrea
Antonelli ci tiene a precisare che "nel quadro di possibile intesa che si era
individuato con il sindacato, sulla base del percorso condiviso con il Governo,
avevamo ufficialmente confermato, assumendo un onere aggiuntivo estremamente
rilevante, che nessuna delle soluzioni indicate per il nuovo contratto di
solidarietà avrebbe comportato alcuna
forma di peggioramento della posizione reddituale di ogni singolo lavoratore,
rispetto a quanto previsto dall'accordo attualmente in vigore". Evidentemente
non è bastato a convincere i lavoratori sulla certezza di poter mantenere a
lungo il posto, date le condizioni di mercato.
Fonte: Repubblica
Spagna, il business dei
rimpatri: Air Europa si assicura l'esclusiva sui voli dei migranti
Le Ong li chiamano "i voli della vergogna", ma
ogni volta che si apre un bando scatta la corsa delle compagnie. Il vettore del
gruppo Globalia, in tandem con Swiftair, si è assicurato un prolungamento della
concessione di diciotto mesi per quasi 12 milioni di euro. Polemiche
sull'assegnazione
di ALESSANDRO OPPES
MADRID - E' un business che fa gola alle compagnie
aeree: riportare in patria i migranti in situazione irregolare. In altre parole,
gestire le deportazioni. Le Ong e le associazioni che lottano contro le
espulsioni e che, da tempo, sollecitano la chiusura dei Cie (i centri
d'internamento creati dal governo), li chiamano senza mezzi termini "i voli
della vergogna". Ma ogni volta che il Ministero dell'Interno lancia un bando,
parte la corsa per assicurarsi il contratto. E, di nuovo, l'ha spuntata la
compagnia del gruppo Globalia, Air Europa, in alleanza con Swiftair, che ha
visto prolungata di diciotto mesi la concessione di cui già disponeva,
sconfiggendo la concorrenza della Ute (unione temporanea di imprese) formata
dalla filiale regionale di Iberia, Air Nostrum, in alleanza con Barceló Viajes.
Al precedente concorso era filato tutto liscio, essendo Air Europa l'unico
candidato. Ma, in questa occasione, non è mancata la polemica, perché l'offerta
di Air Nostrum era, almeno in teoria, più conveniente per lo Stato. Alla fine,
invece, il governo ha scelto l'aerolinea di Globalia per un prezzo complessivo
di 11,8 milioni di euro. Per i viaggi della deportazione, Air Europa incasserà
da un minimo di 9000 euro per ora di volo nel caso in cui i passeggeri non
superino il numero di 75, fino a un massimo di 21.300 quando si trasportino più
di 200 persone.
Fra il mese di gennaio del 2010 e ottobre del 2014, il Ministero dell'Interno ha
espulso 9410 migranti in 257 voli internazionali. I voli di deportazione sono
considerati operazioni di polizia e, di conseguenza, hanno un carattere
riservato. L'unico organismo che periodicamente pubblica dati sui cosiddetti
"voli della vergogna" è il Defensor del Pueblo (l'ombudsman spagnolo), che
elabora le informazioni fornite dall'agenzia europea Frontex e dallo stesso
Ministero dell'Interno. Secondo l'ultimo rapporto disponibile, nel 2014 il
governo di Madrid organizzò il rimpatrio di 3373 migranti su 134 voli. La
maggior parte, con destinazione Ceuta o Melilla, per riconsegnare gli stranieri
in situazione irregolare alle autorità marocchine. Le altre destinazioni più
frequenti: Mali, Nigeria, Senegal, Colombia ed Ecuador.
Il presidente dell'aerolinea Air Nostrum, Carlos Bertomeu, ha fatto sapere che
sta valutando l'ipotesi di presentare un ricorso contro l'assegnazione del
contratto al consorzio concorrente, che richiederà un esborso per lo Stato
superiore a quello preventivato dall'offerta della
filiale di Iberia, che ha sede a Valencia. Ma il Ministero dell'Interno, nel
giustificare la scelta, ha addotto una mancanza di solvenza tecnica delle
aeronavi bimotore proposte da Barceló e dalla filiale di Iberia, insieme a
presunte carenze nella documentazione sui titoli dei piloti.
Fonte: Repubblica
5
maggio
Io, docente precaria e il
concorsone-incubo
Ecco il diario di una insegnante della
provincia di Modena alla prese con la prova scritta di italiano per le medie.
Tra i tutorial del Miur, percorsi di settimane concentrate in 15 minuti e la
guerra da poveri tra abilitati e chi prova il ricorso al Tar
DI MICHELE SASSO
Lunedì
due maggio è il giorno di Ines Sirianni. Trentacinque anni, da sette docente
in trasferta dalla Calabria alla provincia di Modena. Insegnante con la valigia
che prova il grande salto del concorsone. Lei, come l’85 per cento delle
aspiranti cattedre, è donna e precaria, una delle 165.578 domande arrivate per
assegnare 63.712 posti disponibili da Siracusa a Torino.
Per Ines, dopo la laurea in Lettere moderne, la scelta della provincia dove
iniziare la carriera è stata naturale: Modena. Dal 2009 un tour delle
graduatorie d’istituto per coprire le supplenze tra Sassuolo, Maranello, Carpi e
Spezzano. Solo scuole secondarie e solo incarichi a tempo determinato, dove
spesso per gli esami di stato viene pagata tre giorni e per i restanti trenta
non riceve nulla.
Come è andata la prova scritta?
«È stato difficilissimo. Un incubo: dalla domanda sul sonetto di Petrarca da
spiegare a una prima media, alla raccolta poetica “Ossi di seppia” di Eugenio
Montale, fino al “concetto di straniero” era tutto così assurdo. Assurdo perché
bisognava scrivere seguendo il filo rosso dell’unità di apprendimento, delle
piste di lavoro che però non si usano mai a scuola. Oppure le facciamo in gruppo
scrivendo e ragionando per settimane. Qui invece ci veniva chiesto in 15
minuti».
Nella sua sede d’esame, l’istituto “Filippo Re” di Reggio Emilia, erano appena
in 25, ma hanno comunque aspettato un’ora prima e un’ora dopo per la burocrazia.
Tra gli scritti presi in esame ci sono cinque classi di concorso. Italiano per
la media e il superiore, disegno artistico e modellazione odontotecnica, di
mattina, design dei metalli, dell'oreficeria, delle pietre dure e delle gemme,
laboratori di scienze e tecnologie aeronautiche e laboratorio di tecnologie del
legno, nel pomeriggio.
La prima prova prevede 8 domande che riguardano la materia di insegnamento di
cui 2 in lingua straniera (inglese, francese, tedesco o spagnolo,
obbligatoriamente l’inglese per la primaria). Sei quesiti a risposta aperta (di
carattere metodologico/didattico e non nozionistico) e 2 (quelle in lingua) a
risposta chiusa. Tutto da consegnare in due ore e mezza.
Come si è preparata?
«Io non mi sono preparata certamente con le indicazioni del Miur. L’unico
tutorial che ho visto era quello in lingua, ma che era prettamente grammaticale
e invece la prova in realtà era la comprensione del testo. Le racconto un’altra
assurdità: se ti vuoi assentare per le prove devi chiedere un giorno di ferie e
trovare un sostituito. La cosa buffa è che per fare il concorso ti spetta il
permesso non retribuito e non viene considerato come giorno di servizio».
Cosa ne pensa della riforma della scuola di Renzi e di questo concorso?
«La Buona scuola è una mossa chirurgica per eliminare i precari. E questo
concorso privilegia chi ha più anni di servizio. Ma con un’escamotage che
penalizza tutti noi senza contratto: io ad esempio ne ho già sette, ma risultano
appena 4 perché durante l’estate non mi viene pagato nulla, oppure non arrivo
alla soglia minima di 180 giorni di lezioni».
Con quali effetti?
«Questa situazione ha creato una lotta tra poveri e una serie di
discriminazioni. Faccio un esempio: io come tanti altri ho fatto tutto il
percorso di abilitazioni per entrare nelle graduatorie ad esaurimento, un
serbatoio per diventare di ruolo pre-riforma del governo Renzi. Tanti come me
hanno pagato 2.500 euro per seguire cinque mesi di corso di pomeriggio, oltre
all’insegnamento mattutino».
E ora?
«Ora al concorso sono ammessi i ricorsi, con una lotta all’ultimo posto tra chi
insegna da anni, ha l’abilitazione e tutti gli altri. Una guerra strisciante tra
insegnanti. Così potranno sostenere la prova scritta anche i diplomati
magistrali a indirizzo linguistico».
Prende questa piega così il concorsone della scuola pubblica : anche i semplici
laureati senza abilitazione possono partecipare se hanno in mano le «ordinanze o
di decreti cautelari dei giudici amministrativi loro favorevoli» ha stabilito il
Consiglio di Stato.
Da una parte i concorrenti che hanno sostenuto percorsi abilitanti a fronte di
moltissimi sacrifici, che per anni hanno permesso il buon funzionamento della
scuola e che ora vedono messo in discussione il loro diritto a entrare
stabilmente. E insieme a loro i docenti che non sono in possesso di abilitazione
e che hanno maturato i 36 mesi di servizio. E dall’altra 20-30 mila ricorrenti
che rientrano dalla “finestra” aperta dal Tar.
Con quali conseguenze?
«Se le prime prove sono già state svolte occorrerà che il ministero
dell'Istruzione si attrezzi per farla recuperare ai destinatari del
provvedimento dei giudici amministrativi. Se partono i ricorsi – con i sindacati
che cavalcano la protesta – rischiamo di ripartire da capo con le selezioni».
I numeri sono piuttosto incerti: quanti saranno gli ammessi con riserva che si
presenteranno nei giorni delle prove? Ci sarà un computer per tutti? Le stime
sono di 20mila ricorrenti, ma per qualche sindacato sarebbero molti di più.
Anche se gli organizzatori del concorso un’idea di massima ce l’hanno, perché
tutti coloro che si consideravano a torto esclusi dal concorso sono stati
invitati dai sindacati a presentare domanda cartacea e non online come era
previsto per i colleghi regolarmente in possesso dell’abilitazione. Un caos
mentre le selezioni che dovevano rivoluzionare la scuola italiana sono in corso.
«Ora tutti gli scritti finiranno entro il 31 maggio e poi ci toccherà l’orale»,
conclude Ines: «I vincitori, sperano al ministero dell’Istruzione, andranno in
cattedra a settembre, ma secondo me è impossibile. La graduatoria viene
comunicata sempre a novembre o dicembre. Non vedo come si potrà accelerare
quest’anno con la riforma ancora da rodare».