22 settembre

 

Pericolanti, inaccessibili ai disabili e a rischio terremoto. Le scuole italiane bocciate dal rapporto di Cittadinanzattiva

Il 15% degli edifici ha lesioni strutturali e solo l'8% è stato progettato secondo le norme antisismiche. Due terzi non hanno l'agibilità statica. La metà è priva di palestra e un quarto della mensa. Il 16% delle aule sono off limits per gli studenti disabili

ROMA - Scuole fatiscenti e poco accessibili ai disabili. L'associazione Cittadinanzattiva ha presentato il XIV Rapporto su sicurezza, qualità ed accessibilità a scuola. In Italia il 15% degli istituti presenta lesioni strutturali. Tra quelle che hanno richiesto aiuto agli enti locali per intervenire, il 29% ha ricevuto risposta negativa. Due terzi degli istituti non possiedono la certificazione di agibilità statica, la metà non ha una palestra e il 23% è senza mensa. Negli ultimi 3 anni si sono verificati 112 crolli negli edifici scolastici, per un totale di 18 persone ferite. La fotografia di Cittadinanzattiva ha preso in esame 150 scuole in 10 regioni (Piemonte, Lombardia, Lazio, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna).

La vetustà della struttura non è l'unico problema. Gli studenti disabili non riescono ad accedere al 35% delle biblioteche, 28% dei bagni, 27% delle aule computer, 24% dei laboratori, 17% delle palestre, 16% delle aule, 14% delle mense e 9% dei cortili. In quasi una scuola su due mancano posti auto riservati nel cortile o nel parcheggio interno. Nel 30% dei casi il percorso per raggiungere l'ingresso non è facilmente praticabile da chi non può camminare e solo il 23% degli edifici su più piani dispone di un ascensore. Anche quando è presente, l'ascensore non funziona in una scuola su quattro.

Il crollo della scuola di Amatrice ha concentrato l'attenzione sulla sicurezza degli edifici scolastici nelle zone a rischio terremoti. In Italia quasi un istituto su tre si trova in zone ad elevata pericolosità, ma solo l'8% è stato progettato secondo la normativa antisismica. "Il 54% degli edifici scolastici italiani - spiega l'associazione - è situato in zone a rischio sismico; il 30% (13.742 istituti) nelle zone a rischio 1 e 2, il più elevato. Tra gli istituti costruiti nelle aree a rischio solo 3.745, l'8%, sono progettati secondo normativa antisismica e, in generale, solo il 3% ha il certificato di conformità, solo il 4% ha la relazione geotecnica e solo il 9% ha la verifica sismica".

I casi di genitori costretti a comprare la carta igienica trovano conferma nei risultati del rapporto. Nel 50% dei bagni manca il sapone, nel 60% gli asciugamani, nel 37% la carta igienica. Inoltre, il 13% dei bagni presenta sanitari danneggiati o non funzionanti.

 

13 settembre

 

La lobby dello zucchero ci ha ingannato per 50 anni. Medici pagati per mentire. Uno studio su JAMA svela anni di "depistaggi"

Di Ilaria Betti

Per più di cinquant'anni l'industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l'attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente.

"Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni", ha detto al New York Times, Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il "depistaggio" si sarebbe verificato a partire dagli anni '60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come "Sugar research foundation", oggi divenuto "Sugar Association", avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul New England Journal of Medicine uno studio che distruggesse l'immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.

"La ricerca concludeva che, 'senza dubbio', l'unico modo per prevenire i problemi cardiaci era quello di ridurre il colesterolo e i grassi saturi", spiegano gli autori del report su JAMA. In altre parole, gli scienziati si adoperarono per sottovalutare pubblicamente il ruolo dello zucchero nel causare malattie cardiovascolari. Sebbene i ricercatori di allora non siano più rintracciabili, perché ormai deceduti, si sa che uno di questi, D. Mark Hegsted, divenne capo della divisione che si occupa di nutrizione al Dipartimento dell'Agricoltura e che il suo gruppo pubblicò le linee guida sull'alimentazione nel 1977. Un altro, Dr. Fredrick J. Stare, ricoprì il ruolo di presidente del dipartimento di nutrizione di Harvard.

Nonostante i fatti risalgano a decenni fa, il tema è destinato ad aprire un nuovo dibattito. "Questo incidente di cinquant'anni fa potrebbe sembrare storia antica - spiega in un editoriale Marion Nestle, professoressa di 'food policy' alla New York University - ma è rilevante perché risponde ad alcune domande che ci poniamo ancora oggi. È vero che le lobby dello zucchero hanno manipolato la ricerca in loro favore? Sì, è vero, e la pratica continua". "Il nostro studio mette in luce il bisogno di fare più attenzione e non dare la ricerca sempre per scontata - spiegano gli autori -. Ci sono molti modi in cui uno studio può essere manipolato, dalle domande che pone e si pone al come le informazioni vengono analizzate fino al modo in cui le conclusioni vengono riportate nel testo".

C'è di tenere gli occhi aperti, insomma. Anche perché la Sugar Association, come riporta Vox, continua a pubblicare le sue linee guida sul rapporto tra zuccheri e salute del cuore. Dal canto suo, l'associazione si è difesa: "Lo studio di JAMA cavalca il trending dell'anti-zucchero. Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce che lo zucchero non ha una responsabilità univoca sulle malattie del cuore - si legge in uno stato -. Siamo preoccupati per la crescente diffusione di articoli ideati apposta per prendere click e che minano la qualità delle ricerche scientifiche, ma siamo ancora più delusi dal fatto che un simile report sia apparso su una rivista come JAMA".

Fonte: L'Huffington Post

 

Pensioni, sindacati: l'uscita anticipata anche a 63 anni

Possibile lasciare il lavoro fino a tre anni e sette mesi prima. Al ministero del Lavoro, il punto sull'Ape, sui lavoratori precoci e gli aiuti alle pensioni minime

ROMA - I lavoratori potranno usufruire dell'Ape, l'anticipo pensionistico, dall'età di 63 anni: il periodo anticipato sarà dunque di 3 anni e 7 mesi. E' il risultato dell'incontro al Ministero del lavoro tra i sindacati e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini. "Sessantré anni è la mediazione a cui siamo arrivati oggi, ma che era in viaggio da un po' di tempo", ha riferito il segretario confederale Cisl, Maurizio Petriccioli.

"Il sistema - ha riferito il segretario confederale Uil, Domenico Proietti - avrà una sperimentazione di due anni". I sindacati insistono perché non ci siano penalizzazioni per i disoccupati di lungo corso, le persone che hanno svolto lavori usuranti e che hanno iniziato a lavorare molto presto. Quanto alle pensioni in essere, i sindacati chiedono di estendere la quattordicesima a chi ha un reddito intorno ai mille euro: "vedremo cosa dirà il governo", ha concluso Proietti.

Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che non ha partecipato all'incontro ma ne ha parlato con i giornalisti a margine di un incontro alla Camera di Commercio italo-tedesca, a Milano, si è detto altrettanto fiducioso sul buon esito dell'accordo con i sindacati: "Poiché parliamo di un contesto molto largo, credo che comunque sia importante e ragionevolmente prevedibile un apprezzamento del lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo proprio perché abbiamo portato questo tema dentro la legge di bilancio e lo faremo in maniera condivisa o, comunque, a seguito di un confronto molto approfondito".

L'anticipo della pensione (Ape). Il sistema di anticipo pensionistico che dovrebbe entrare in vigore dall'anno prossimo permetterà a tutti i lavoratori nati tra i 1951 e il 1954 di andare in pensione in anticipo di uno, due o tre anni e sette mesi, accollandosene però in parte il costo. Infatti chi richiede l'Ape sottoscrive un prestito previdenziale ventennale, che avrà un costo variabile a seconda dell'ammontare della pensione e della durata dell'anticipo (si va dal 4-5% fino al 15%). L'anticipo pensionistico sarà tuttavia completamente gratuito per i disoccupati e i lavoratori in condizioni disagiate. La rata di ammortamento (è un'altra novità di oggi) dovrebbe inoltre essere azzerata per le pensioni che arrivano a 1.200 euro netti, mentre oscillerà tra i 50 e i 60 euro al mese per venti anni per tutti gli altri per gli anticipi di un anno, e salirà ulteriormente a 150-200 euro al mese se l'anticipo sarà invece di tre anni.

Lavoratori precoci e lavori usuranti. La riforma prevede condizioni di maggiore vantaggio per i lavoratori precoci e per chi svolge lavori usuranti. Tuttavia su queste materie, spiegano i sindacati, "c'è ancora un confronto in corso". Dovrebbero allargarsi le maglie per quanto riguarda le attività usuranti, facendovi rientrare probabilmente categorie come quelle dell'edilizia, delle maestre d'asilo e degli infermieri.

Ricongiunzioni contributi. Da rivedere in direzione maggiormente vantaggiosa per i lavoratori anche il sistema di ricongiunzione dei contributi, che al momento risulta eccessivamente oneroso per la maggio parte dei lavoratori. Si ipotizza dall'anno prossimo la ricongiunzione a titolo completamente gratuito.

Fonte: Repubblica

 

Lavoro, licenziamenti in aumento del 7,4 per cento

I dati del Ministero sul secondo trimestre 2016, un milione e mezzo di cessazioni dovute alla fine di contratti a tempo determinato. In crescita dell'8 per cento le chiusure di contratto promosse dai datori di lavoro. Le assunzioni a tempo indeterminato, grazie alla riduzione degli sgravi fiscali, sono in calo del 29 per cento. In crescita l'apprendistato

Roma. Calano le assunzioni e aumentano i licenziamenti: il dato arriva direttamente dal ministero del Lavoro, riapre il dibattito sulla validità del Jobs act e soprattutto pone l'attenzione sugli effetti della mancata crescita dell'economia. Nel secondo trimestre del 2016, infatti il saldo resta attivo: le attivazioni di contratto sono state 2,45 milioni a fronte di 2,19 milioni di cessazioni e la maggioranza delle cessazioni risultano dovute al termine data di contratto a tempo determinato (1,43 milioni). Ma tra le altre uscite sono aumentate quelle promosse dal datore di lavoro (+8,1%) mentre si sono ridotte quelle chieste dal lavoratore (-24,9%) e in particolare sono aumentati i licenziamenti (+7,4% sul secondo trimestre 2015). Così certificano le comunicazioni obbligatorie pubblicate dal ministero.

Nell periodo considerato i licenziamenti sono stati 221.186, 15.264 in più rispetto al secondo trimestre 2015. Sono invece diminuite le chiusure di contratto dovute alla cessazione dell'attività del datore di lavoro (-10,3%). E tra le cessazioni richieste dal lavoratore sono in calo considerevole sia le dimissioni (293.814, pari a -23,9%) sia i pensionamenti (13.924 , -41,4%). Per le donne sono crollate le uscite per prepensionamento (-47%), probabilmente anche a causa della stretta sui requisiti per la pensione di vecchiaia scattati quest'anno. Un calo ancora più consistente si era registrato nel primo trimestre con le cessazioni per dimissioni per pensionamento delle donne ferme a 3.169 (-64,9%). Fra le assunzioni risultano invece in netto aumento, del 26,2%, gli avviamenti in apprendistato. "Segno dei recenti interventi volti a rafforzare tale strumento di ingresso nel mercato del lavoro, in particolare Garanzia Giovani" precisa il Lavoro nelle comunicazioni obbligatorie. La riduzione di nuove attivazioni - rileva il report del ministero - si accompagna alla stabilizzazione dei contratti in corso.

Evidenti, come nota lo stesso Ministero, gli effetti della forte riduzione degli incentivi fiscali legate alle assunzioni stabili. I tagli hanno determinato un deciso calo negli ingressi a tempo indeterminato. Nel secondo trimestre del 2016 le attivazioni di contratti di tale tipologia sono state infatti 392.043, il 29,4% in meno rispetto all'anno scorso (-163.099). I rapporti di lavoro a tempo indeterminato cessati risultano però inferiori rispetto allo scorso anno. Sono stati 470.561, -10% rispetto allo stesso periodo del 2015. Da notare che il dato fornito dal ministero, a differenza di quello dell'Inps, tiene conto di tutto il lavoro dipendente compresi domestici, agricoli, pubblica amministrazione e anche contratti di collaborazione.

Si tratta di cifre sulle quali si riversano le preoccupazioni del sindacato. "L'occupazione continua a navigare in acque non buone" sottolinea il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, che parla di quadro "molto preoccupante". "A conti fatti, con il calo delle assunzioni nel II trimestre 2016, nella prima metà dell'anno 2016 si è registrata una forte riduzione di rapporti di lavoro attivati rispetto allo stesso periodo del 2015: oltre 360 mila i contratti di lavoro in meno, di cui ben il 41,7% è costituito da contratti a tempo indeterminato - spiega il sindacalista - è chiaro che ciò è dovuto in primis all'assenza di crescita economica che si traduce in meno assunzioni, soprattutto stabili, ma anche alla riduzione del beneficio contributivo della Legge di Stabilità, così come dichiara lo stesso ministero del Lavoro". Per Loy, la ripresa ad assumere con contratti di apprendistato è indice non tanto della bontà del contratto, "quanto della concorrenzialità in positivo di questo strumento prodotta dallo sgravio contributivo maggiore di quello dell'attuale tempo indeterminato". In attesa, conclude, "che si mettano

in atto politiche economiche, industriali e fiscali di crescita, occorre ancora dare ossigeno all'unico strumento di tutela per imprese e lavoratori, la cassa integrazione, rendendola più flessibile nella durata".

 

8 settembre

 

Dio perdona, Kim no

Viaggio negli inferi di "Camp 16", la prigione segreta fra le montagne della Corea del Nord, da cui nessuno esce vivo. Grande tre volte Washington DC, detiene 20.000 persone (ignare dei crimini commessi) che lavorano 20 ore al giorno, sono denutrite e soggette a torture, e dopo il lavoro frequentano "lezioni di ideologia"

Corey Charlton per The Sun

Dalla morte del suo tirannico padre nel 2011, il leader nordcoreano Kim Jong-un ha preso i provvedimenti per meritarsi il nome di famiglia. Come il genitore, ha punito i critici e imprigionato o ucciso chiunque sia sospettato di non lealtà. Niente è così temuto come il “Camp 16”, la prigione politica più segreta e terribile.

Si trova fra le montagne del nord e detiene circa 20.000 persone, tra ministri del governo e dissidenti. A differenza dei campi di rieducazione tipo i gulag di Stalin, qui non c’è prospettiva di uscire. lavorano fino alla morte. Non si sa cosa succeda all’interno, perché finora nessuno è sopravvissuto.

Sappiamo che è pattugliato per 75 miglia, da guardie e da veicoli. Ha 35 torri per le sentinelle, con uomini armati che hanno l’ordine di massacrare chiunque tenti la fuga. Chi è riuscito a scappare, è morto nella landa desolata.

La prigione è grande tre volte Washington D.C.. All’interno i detenuti sono divisi in tre città, e, secondo il rapporto della “Human Rights North Korea”, esiste un allevamento di pesci, campi coltivati, una centrale elettrica. Si svolgono anche attività di estrazione mineraria. I detenuti sono costretti a lavorare anche 20 ore al giorno, dopo di che frequentano “lezioni di ideologia”, dove devono dichiarare le proprie pecche e picchiare chi non lo fa.

Fuori il perimetro della prigione, c’è il Punggye-ri, il sito sotterraneo per i test nucleari. Si dice che gli schiavi del Camp 16 lo costruirono sotto la dittatura di Kim Jong-il. Una volta diretti lì, non avevano possibilità di sopravvivere. Secondo “Amnesty International” i campi sono operativi da 60 anni, il 40% dei detenuti muore per denutrizione e le esecuzioni pubbliche sono all’ordine del giorno. Dalla fame si mangiano topi e serpenti.

Fonte: Dagospia

 

L'usura colpisce 3 milioni di famiglie e fattura 82 miliardi

La fotografia scattata dall'Eurispes: il 12% delle famiglie si è rivolto a privati non potendo ottenere un prestito dalle banche. Tra le aziende, più colpite quelle del settore agricolo, del commercio e dei servizi

MILANO - La Usura Spa ha registrato un giro d'affari di 82 miliardi di euro l'anno scorso, più di quanto fattura la maggiore azienda italiana, l'Eni. Il dato emerge dall'indagine Eurispes, secondo la quale negli ultimi due anni circa il 12% per cento delle famiglie (su un totale di 24,6 milioni di famiglie) si è rivolto a soggetti privati (non parenti o amici) per ottenere un prestito, non potendolo ottenere dal sistema bancario. Restando solo sul fronte delle famiglie, la stima è che il prestito ammonti, in media, a 10.000 euro (richiesti anche in diverse occasioni), per una cifra di 30 miliardi di euro per 3 milioni di famiglie nel ruolo di vittime.

Secondo la ricerca, il fenomeno riguarda un'azienda su dieci nei settori dell'agricoltura, del commercio e dei servizi. E i carnefici non sono solo le organizzazioni criminali, mafia in testa, ma anche una serie di "insospettabili" che hanno approfittato della crisi per arricchirsi a scapito di chi è finito con l'acqua alla gola.

SETTORE

CAPITALE PRESTATO

CAPITALE RESTITUITO

FAMIGLIE

30 miliardi

66 miliardi

IMPRESE AGRICOLE

2,25 miliardi

4,95 miliardi

IMPRESE COMMERCIO E SERVIZI

5 miliardi

11 miliardi

TOTALE

37,25 miliardi

81,95 miliardi

Il Business dell'usura nel 2015, valori in euro

Il rapporto segnala che se le regioni a maggior rischio restano quelle del Sud e le Isole, il pericolo si sta estendendo in maniera significativa anche al Centro Italia e la provincia più esposta in assoluto è Parma, seguita da Crotone, Siracusa, Foggia, Trapani, Vibo Valentia e Palermo. Non è immune nemmeno il Nord visto visto che nella fascia di rischio medio alta ci sono anche Aosta e Biella. "Le organizzazioni criminali - spiega Gian Maria Fara, Presidente dell'Eurispes - hanno ben compreso che l'usura rappresenta un metodo di straordinaria efficacia: da un lato per riciclare denaro sporco e ottenere facilmente ingenti guadagni, dall'altro per impossessarsi di quelle imprese e attività che non sono in grado di far fronte ai debiti contratti. Tutto questo con rischi più contenuti rispetto a quelli connessi ad altre attività illecite come ad esempio il traffico di stupefacenti". "Oggi - osserva ancora Fara- sappiamo che la figura dell'usuraio non è rintracciabile solo tra criminali e mafiosi, ma presente anche tra gli 'insospettabili': negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che hanno sfruttato il lungo periodo di crisi economica e l'indebitamento di famiglie, commercianti ed imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. Ed è nata una nuova figura: quella dell'usuraio della stanza accanto".

GEO

IRU

GEO

IRU

GEO

IRU

Parma

100

Imperia

52,67

Pistoia

31,9

Crotone

96,79

Matera

51,3

Bologna

31,86

Siracusa

91,87

Biella

50,31

Modena

31,71

Foggia

86,07

Chieti

49,45

Firenze

31,5

Trapani

85,65

Gorizia

48,7

Ferrara

31,01

Vibo Valentia

82,15

Roma

48,58

Siena

30,38

Palermo

81,89

Terni

47,72

Piacenza

28,75

Avellino

79,73

Novara

47,44

Grosseto

28,63

Catania

77,85

L'Aquila

46,39

Varese

27,78

Caltanissetta

75,94

Rimini

44,24

Asti

27,34

Potenza

74,48

Italia

44,02

Reggio nell'Emilia

27,09

Napoli

73,45

Viterbo

42,69

Venezia

26,94

Catanzaro

73,36

Teramo

42,46

Padova

26,22

Sassari

72,79

Macerata

41,43

Verona

25,44

Caserta

72,14

Oristano

40,93

Bergamo

25,37

Reggio di Calabria

72,04

Ancona

40,48

Pesaro e Urbino

25,17

Cosenza

71,72

Livorno

40,04

Brescia

23,84

Messina

69,15

Torino

39,61

Rovigo

23,7

Benevento

68,45

Trieste

39,08

Cremona

23,5

Pescara

66,97

Verbano-Cusio-Ossola

38,73

Monza e della Brianza

21,1

Salerno

66,85

Arezzo

38,61

Pavia

19,2

Bari

66,65

Lucca

36,93

Cuneo

19,19

Isernia

66,07

Prato

36,48

Mantova

18,34

Cagliari

65,16

Milano

36,41

Forlì-Cesena

18,24

Lecce

64,53

Pisa

36,34

Lecco

17,95

Barletta-Andria-Trani

64,14

Alessandria

36,22

Lodi

15,92

Nuoro

62,43

Ascoli Piceno

35,79

Udine

15,52

Aosta

61,6

Perugia

35,79

Como

15,38

Latina

61,32

Massa-Carrara

35,18

Pordenone

14,7

Frosinone

59,86

La Spezia

34,02

Vicenza

13,73

Taranto

59,09

Ravenna

33,69

Belluno

12,46

Enna

58,7

Genova

33,51

Treviso

7,8

Ragusa

58,56

Fermo

33,48

Sondrio

7,41

Campobasso

56,67

Vercelli

33,21

Trento

3

Brindisi

56,3

Rieti

32,9

Bolzano

0

Agrigento

52,94

Savona

32,45

Olbia-Tempio

-

 

 

 

 

Ogliastra

-

 

 

 

 

Medio Campidano

-

 

 

 

 

Carbonia-Iglesias

-

InPUT (Indice di Permeabilità dell'Usura sul Territorio)

Fonte: Eurispes - La Repubblica

 

Pensioni, la rabbia per la previdenza negata

Le "buste arancioni" spedite dall'Inps iniziano a dare i loro effetti: i giovani scoprono che potranno smettere di lavorare tardissimo, portando a casa una miseria. E questa rischia di essere la prossima bomba sociale

DI GLORIA RIVA

Stupore, dubbi, angosce. È l’effetto che fa la busta arancione. L’ha spedita l’Inps a un milione di italiani, e di lettere così ne invierà altre sei milioni nei prossimi quattro mesi, per raccontare a ogni lavoratore che tipo di pensionato sarà.

L’oracolo Inps si esprime sotto forma di sei-sette fogli fronte-retro che snocciolano dati, numeri e tabelle su misura per dire a ciascuno quanti soldi ha già versato nelle casse dell’ente, quanti anni mancano al buen retiro, quale sarà il proprio futuro stipendio (sempre che tutto fili liscio) e quale l’ammontare dell’assegno pensionistico.

Il tutto firmato da Tito Boeri, presidente Inps. È stato lui a voler spedire la busta arancione agli italiani, così come si fa già nei paesi del Nord Europa, perché la gente prenda coscienza di ciò che l’aspetta. Per curiosità o necessità, ci sono altri 6 milioni di lavoratori che hanno letto il contenuto della lettera on line, accedendo al portale “La mia pensione” dalla home page del sito web Inps, un servizio che entro l’anno sarà accessibile a tutti i 23 milioni di dipendenti italiani, precari e stagionali inclusi. Nel frattempo “l’Espresso” ha raccolto le storie di dieci italiani - di cui per motivi di privacy non citeremo il vero nome - che hanno già dato una sbirciata al proprio futuro pensionistico. Hanno fra i 30 e i 45 anni: la generazione che più è andata a sbattere sul muro della crisi economica iniziata nel 2008 e che ha passato i limiti d’età per accedere ai progetti di sostegno di Garanzia Giovani.

Se 69 anni vi sembran pochi
Il copione si ripete sempre uguale. Giunti alla seconda pagina della lettera inviata dall’Inps ci si imbatte nella tabella “La previsione della sua pensione” e la prima cosa che balza all’occhio è la data del pensionamento. «Ci vado nel 2052, che è fra un sacco di tempo», racconta Vittorio, 33 anni, di Pistoia, che stropiccia il foglio agitandolo fra le mani. L’ha letto e riletto. «Avrò settant’anni. Faccio l’informatico, non so se a quell’età avrò la mente abbastanza elastica per stare al passo con l’innovazione e i futuri nerd». Vittorio ha cominciato a lavorare a 27 anni, dovrà sgobbare altri 35 anni per arrivare a una pensione di 1.900 euro lordi, sempre che nel mezzo non perda il lavoro, creando buchi contributivi che assottiglierebbero di parecchio l’assegno pensionistico.

Questo è proprio l’incubo di Chiara, 32 anni, romana, laurea in Psicologia. «I 60enni si lamentano perché dovranno lavorare qualche anno in più. E io, che non posso essere assunta stabilmente? Ho consultato la mia posizione sul sito Inps: è un disastro. Sono passata attraverso stage, contratto d’inserimento, partita iva, co.co.pro, tempo determinato. Ho fatto versamenti in casse previdenziali diverse, che fra loro non comunicano.

L’aliquota media versata è del 17 per cento, così la mia pensione equivarrà a metà del mio ultimo stipendio». Per far confluire tutto su un’unica piattaforma previdenziale, Chiara dovrebbe sborsare 24 mila euro, troppo per una giovane che ne guadagna 21 all’anno. L’ha scoperto contattando direttamente l’Inps, perché sulla busta arancione, alla voce “Contributi accantonati Gestione Separata”, c’è scritto che «per valutare come possano essere più utilmente valorizzati i contributi da Lei accantonati le consigliamo di rivolgersi ad una nostra sede per una consulenza». L’ha fatto e le hanno spiegato che o sgancia i quattrini o deve sperare che i prossimi anni di contribuzione siano più stabili di quelli precedenti. Oppure sarà un’anziana povera.

Un nuovo conto corrente
Anche Federica, 37 anni, laurea in Archeologia, insegnante a Bologna, ha chiamato l’Inps dopo aver letto la lettera. «Per poco non mi è venuto un colpo. Dall’elenco dei contributi erano spariti i sei anni di lavoro negli scavi archeologici. Ho contattato l’ente, che adesso sta verificando dove siano finiti i miei contributi. Incrocio le dita».

Situazioni così si verificano spesso, è capitato anche a Melissa, 35 anni, di Milano. Lavorava in una tv locale e si occupava della pubblicità, poi l’azienda è andata in crisi e ha perso il lavoro: «Avevo ricevuto a casa una lettera dall’Inps. C’era un codice e una procedura per verificare on line la posizione contributiva. Non è stato difficile accedere ai miei documenti digitali, ma quando ho scoperto che la mia azienda non mi aveva versato gli ultimi due anni di contributi ho avuto un tracollo. Grazie ai funzionari dell’Inps sono riuscita a recuperare quei soldi».

Da quando c’è la crisi, molte aziende hanno risparmiato sui contributi ai dipendenti per far quadrare i conti ed evitare la bancarotta. «Ci sono otto-nove miliardi l’anno di evasione da parte di imprese che non pagano i contributi alla propria manodopera, il totale è di 141 miliardi di buco. L’ente affida a Equitalia il compito di riscuotere, ma ne recupera il 5 per cento», spiega Gian Paolo Patta, membro del Civ, il comitato di indirizzo e vigilanza Inps. Fortunatamente c’è un fondo che copre quei buchi, ma funziona solo per i lavoratori dipendenti. Gli altri devono segnalare all’Inps i mancati pagamenti entro due anni, altrimenti i contributi vanno persi: «Controllare la propria posizione dovrebbe diventare un’abitudine, come si tiene sott’occhio il conto in banca», rispondono dall’istituto previdenziale.

L’Inps dal volto umano
Infatti, nell’ultima pagina della Busta Arancione c’è scritto a caratteri cubitali «Controlli il suo estratto conto e segnali eventuali errori. Le ricordiamo che eventuali anomalie dell’estratto conto incideranno negativamente sulla sua pensione». Un messaggio che Mirco, giovane impiegato di Torino, ha molto apprezzato: «La busta arancione mi è arrivata. Andrò in pensione nel 2050, a 69 anni compiuti, con un buon assegno. Grazie Boeri per quest’idea, così l’Inps non mi sembra più l’ente polveroso e marziano che pensavo. Però l’idea di finire i miei giorni dietro una scrivania non mi piace. Il governo dovrebbe fare di più per le giovani generazioni, che sgobberanno una vita».

Sono in tanti a pensarla così. E infatti, nel segreto dell’urna delle amministrative di giugno, gli italiani hanno dato una sonora mazzata al governo di Matteo Renzi, che fino all’estate non si era interessato di materia previdenziale. Forse per questo, il premier ha cambiato passo, aprendo alla revisione della materia pensionistica, tema delicatissimo. Ha così riallacciato i rapporti con quei sindacati che aveva messo alla porta e ora siedono al tavolo con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e Tommaso Nannicini, sottosegretario del Consiglio dei ministri e consigliere economico del premier, per modificare gli aspetti più dissonanti della riforma Fornero.

Precoci e usurati i più penalizzati
Il capitolo più scottante da affrontare interessa le categorie di lavoratori svantaggiati. Come le persone che hanno cominciato a lavorare giovanissime o quelle che fanno un lavoro parecchio duro (alla catena di montaggio, per esempio) che dal 2018 perderanno il diritto di andare in pensione in base agli anni di contribuzione. Infatti, con la legge Fornero, la pensione di anzianità svanisce per lasciare il campo alla sola pensione di vecchiaia, che si basa sull’età anagrafica e prevede che i 40enni di oggi andranno in pensione a 69 anni.

Improponibile per gente come Ernesto: «Il medico dice che ho un principio di artrite reumatoide. Generalmente si manifesta a 60 anni, io ne ho 44 ed eccomi qui. La malattia, almeno in parte, è colpa di questo lavoraccio». E racconta che da 25 anni leviga il legno in una falegnameria industriale di Pordenone: «Dovrei andare in pensione dopo 50 anni di fatica. Le mie mani non me lo consentiranno». La risposta che il governo ha intenzione di dare a lavoratori nella situazione di Ernesto si chiama Ape, Anticipo Pensionistico e sostanzialmente si tratta di un mutuo ventennale per ritirarsi con un po’ d’anticipo dal mondo del lavoro. «L’Ape però non risolve i problemi reali», attacca il giuslavorista Giampiero Falasca e spiega che l’anticipo pensionistico «non farà altro che sostituire la mobilità lunga, che permetteva a chi aveva perso il lavoro di stare in cassa integrazione per cinque anni o più, accedendo direttamente alla pensione».

Questa forma di assistenza è venuta meno con il riordino degli ammortizzatori sociali ed ora, se passasse l’idea dell’Ape, sarebbe di fatto reintrodotta. «Il mercato del lavoro italiano, fatto di molte professioni faticose e manuali, non è pensato per un’età pensionabile così alta. L’Ape non risolve il problema di fondo che è quello di mantenere attive le persone fino a 70 anni», sostiene Falasca.

Chi ci guadagna
E se la riforma Fornero bastona i manovali, mostra invece il suo lato migliore ai colletti bianchi e a chi ha uno stipendio alto. Fra i graziati c’è Gabriele, manager in una banca di Bari, che racconta: «È stato un po’ complesso ottenere la password per accedere alla mia pagina web, ma il sito funziona e si possono fare simulazioni, prevedere scenari di carriera differenti, buchi contributivi, svariate situazioni di crescita nazionale. Ma dubito che la previsione stimata dall’Inps si avvererà». Ha cominciato a lavorare nel 2006, guadagna 56 mila euro lordi l’anno: «Secondo i loro calcoli andrò in pensione a 69 anni con un assegno da 7 mila euro lordi», sempre che il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta dall’Italia, cresca l’1,5 per cento l’anno, così come la sua retribuzione. «E chi ci crede? Oggi il pil è allo 0,8 per cento e non vedo crescita all’orizzonte», dice Gabriele che versa 250 euro al mese in un fondo complementare privato. Perché sulla stabilità dell’Inps non ci metterebbe la mano sul fuoco.

Eppure Alberto Brambilla, presidente del centro di ricerca Itinerari Previdenziali, invita a non trarre facili conclusioni: «I conti dell’Inps sono in ordine, l’ente resisterà e i giovani devono fare bene i propri conti». Brambilla ha elaborato una serie di ipotesi su chi andrà in pensione nel 2042 a 66 anni e 9 mesi, così come dice la Fornero. «Un ragazzo che ha cominciato nel 2000 e oggi ha un reddito da 1.500 euro lordi, prevedendo sette anni di buco contributivo e un’inflazione non superiore all’1 per cento, avrà una pensione di 1.050 euro lordi, che sono 750 euro netti. Per campare serve un’integrazione privata da almeno 50 euro al mese. Così arriverà a una pensione dignitosa», spiega Brambilla, che tuttavia mette in guardia soprattutto gli autonomi, le partite Iva, che versano una percentuale contributiva del 23 per cento, e i professionisti, che pagano il 15 per cento, contro il 33 dei lavoratori dipendenti. «Sono quelli che più di tutti dovrebbero pensare a un’integrativa, ma non lo fanno. Alcuni perché guadagnano poco, altri sono probabilmente evasori che non dichiarano tutto al fisco e la pensione la stanno accumulando in nero», continua il professore.

Un futuro troppo lontano
Nonostante la busta arancione tenti di mettere in guardia i giovani da un futuro incerto, per molti il traguardo della pensione appare davvero troppo lontano. Daniele, 38 anni, quadro in una società di revisione dei conti di Milano, racconta: «Ho dieci anni di contributi, manca talmente tanto tempo (lascerò il lavoro nel 2049) che qualsiasi previsione risulterebbe prematura e imprecisa. Verso il Tfr nel fondo integrativo di settore e sto pensando di investire anche in un fondo previdenziale privato, ma al momento non me lo posso permettere e non mi fido molto di banche e assicurazioni».

Del resto, sul mercato italiano della previdenza integrativa, solo il 13 per cento delle polizze è stato stipulato da giovani tra i 25 e i 34 anni contro il 33 per cento della fascia 45-54 anni. L’altro problema è che i maggiori investitori sono lavoratori dipendenti (il 38 per cento e versano 240 euro al mese), anziché quelli che ne avrebbero più bisogno (gli autonomi sono il 34 per cento, con 170 euro in media): «La previsione è che chi lavora in proprio avrà una pensione pari al 55 per cento dell’ultimo stipendio», spiega Renato Antonini, responsabile vita e danni di Alleanza assicurazioni. «Molti giovani si rivolgono a noi, capiscono l’esigenza di integrare l’assegno pensionistico, ma hanno già troppe spese vive per accantonare denaro», spiega Antonini.

Il portafoglio piange
Silvia, 41 anni, per esempio, fa la cassiera in un supermercato di Catania e guadagna 1.050 euro al mese. Anche a lei è arrivata la busta arancione e ha scoperto che la sua pensione sarà il 68 per cento del suo ultimo stipendio. Troppo poco per vivere dignitosamente. «Spero che mio figlio, che oggi ha 7 anni, avrà una vita migliore della mia», racconta, «e per questo spendo tutti i miei risparmi per mandarlo in una buona scuola». Silvia è pessimista. Altri suoi coetanei,invece, si rifugiano nel fatalismo, come Cinzia, 35 anni, di Recanati, mamma di una bambina di 5 mesi. In tasca ha una laurea in Sociologia, ma trovare un’occupazione stabile è difficile: «Non ho il coraggio di verificare la mia situazione contributiva e spero che, come per gli esodati, qualcuno ci metta una pezza».

Una speranza. O forse solo un sogno. Perché per garantire una pensione dignitosa per tutti bisognerebbe innanzitutto tornare a creare posti di lavoro. Ma questa, nell’Italia della stagnazione e della crescita zero, è tutta un’altra storia. Purtroppo.

Fonte: L'Espresso

 

6 settembre

 

Per i morti dell'Aquila solo 9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione

Responsabilità difficili da stabilire. Perizie contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice

DI PAOLO FANTAUZZI

Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe, innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati , Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo . A meno che non intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi.

Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la ricostruzione non sia un business. Ma un valore

Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni), altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime. Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa.

Il terremoto in Irpinia inghiottì la Prima, fra soccorsi inesistenti e camorra. L'Aquila 2009 portò in scena lo show di Silvio Berlusconi e la privatizzazione della ricostruzione, con il suo seguito di inchieste e processi. Ora il sisma del 24 agosto sarà la sfida per uno Stato che si deve riformare

Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione, spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si riescono a provare condotte colpevoli».

TEMPO SCADUTO

A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni, come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le responsabilità.

Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio (costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi. Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29 vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia, condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello.

SENZA COLPEVOLI

Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio.

In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79 (nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno impugnato la sentenza.

MITI SANZIONI

Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di salute.

Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia. Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella. Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44 giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato. Ora è ai servizi sociali.

Fonte: L'Espresso

 

Fertility day, un padre scrive alla Lorenzin: "Presi a sberle dalla vostra miopia"

"Prima della giornata nazionale della fertilità voglio, pretendo da cittadino che paga le tasse, che un Ministro del mio paese lanci la giornata nazionale dei trasporti pubblici efficienti, dei nidi gratuiti, del reddito minimo garantito, della sanità e della scuola pubblica e gratuita"

DI TANCREDI TARANTINO*

Gentile Ministra Lorenzin,

Chi le scrive è papà di una bellissima bimba di quasi tre anni.

In questi tre anni, io che ho avuto la fortuna di avere una busta paga dove ho caricato mia figlia al 100%, ho ricevuto dallo Stato una detrazione complessiva di 1.200 euro lordi all'anno. Nel frattempo però mia figlia é dovuta andare al nido, un nido comunale (cioè pubblico) il cui costo mensile è stato di 550 euro. Che moltiplicato per undici mesi, fanno 6.050 euro all'anno.

Chi lavora in nero, chi ha dei contratti saltuari o ha un salario basso, non detrae nulla. Se poi un lavoro nemmeno ce l'hai, cavoli tuoi, vorrà dire che avrai tempo libero per badare a tuo figlio. E se devi cercare un lavoro, fare un colloquio, andare a fare una visita medica o quant'altro, semplicemente ti attacchi.
Per non parlare del nostro mercato del lavoro che discrimina le donne per il solo fatto di essere mamme o, peggio ancora, incinte.

Quando mia figlia ha un'influenza, un mal di pancia, la sesta malattia, la "mani bocca piedi" (che sconoscevo prima di diventare papà), la congiuntivite o la bronchite, io o mia moglie dobbiamo prendere un giorno di ferie o un giorno di malattia. In molti casi bisogna sperare in un permesso extra. Perché l'opzione baby sitter vorrebbe dire altri 10 euro l'ora che, per 10 ore passate fuori casa da noi lavoratori fertili, fanno parecchi euro al giorno. Mentre i nonni che una volta accudivano i nipoti, oggi aspettano ancora di andare in pensione.

Se poi per qualsiasi sventurato motivo devi prenotare per tua figlia una visita specialistica, le strutture pubbliche hanno spesso liste d'attesa che rendono praticamente inutile il servizio, e allora ti rivolgi al privato. Che vuol dire spendere altri 100-150 euro a visita.

E che dire del tempo libero dei nostri figli? Sport, musica, danza. Tutto privato e a pagamento, mentre le detrazioni fiscali sono irrisorie. Perché fuori da quelle stanze dove siete chiusi, signora Ministra, il pubblico ormai é ridotto al lumicino. Una luce flebile, presa a sberle dalla vostra miopia.

E poi c'é l'incognita "tempo". Perché in questa società iperconnessa, dove in molti lavori sei raggiungibile 24 ore su 24, dove sprechi il tuo tempo in mezzo al traffico o su mezzi pubblici dissestati, in ritardo o soppressi, dove gli straordinari sono spesso gratuiti e obbligatori, quanto tempo riesci a dedicare a tua figlia? Quanto tempo hai a disposizione per ascoltarla, giocare con lei, indirizzarla o, più semplicemente, godertela? Perché se dovessimo monetizzare anche il fattore tempo, il costo di un figlio sarebbe incalcolabile.

Ecco perché le scrivo, signora Ministra. Perché lei può anche lanciare una medievale giornata nazionale della fertilità (d'altra parte da questo Governo non mi aspetto niente di più che un nuovo Medioevo culturale), ma prima voglio, pretendo da cittadino che paga le tasse, che un Ministro del mio paese lanci la giornata nazionale dei trasporti pubblici efficienti, la giornata nazionale dei nidi gratuiti, la giornata nazionale del reddito minimo garantito, la giornata nazionale della sanità e della scuola pubblica e gratuita.

In attesa di tutto ciò, signora Ministra, il 22 settembre io e mia moglie faremo l'amore. E anche quel giorno useremo il preservativo.

*Tancredi Tarantino, 39 anni, cooperante internazionale

 

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