
22 settembre
Pericolanti, inaccessibili ai disabili e a rischio terremoto. Le scuole italiane
bocciate dal rapporto di Cittadinanzattiva
Il 15% degli edifici ha lesioni strutturali e
solo l'8% è stato progettato secondo le norme antisismiche. Due terzi non hanno
l'agibilità statica. La metà è priva di palestra e un quarto della mensa. Il 16%
delle aule sono off limits per gli studenti disabili
ROMA - Scuole fatiscenti e poco accessibili ai
disabili. L'associazione Cittadinanzattiva ha presentato il XIV Rapporto su
sicurezza, qualità ed accessibilità a scuola. In Italia il 15% degli istituti
presenta lesioni strutturali. Tra quelle che hanno richiesto aiuto agli enti
locali per intervenire, il 29% ha ricevuto risposta negativa. Due terzi degli
istituti non possiedono la certificazione di agibilità statica, la metà non ha
una palestra e il 23% è senza mensa. Negli ultimi 3 anni si sono verificati 112
crolli negli edifici scolastici, per un totale di 18 persone ferite. La
fotografia di Cittadinanzattiva ha preso in esame 150 scuole in 10 regioni
(Piemonte, Lombardia, Lazio, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria,
Sicilia e Sardegna).
La vetustà della struttura non è l'unico problema. Gli studenti disabili non
riescono ad accedere al 35% delle biblioteche, 28% dei bagni, 27% delle aule
computer, 24% dei laboratori, 17% delle palestre, 16% delle aule, 14% delle
mense e 9% dei cortili. In quasi una scuola su due mancano posti auto riservati
nel cortile o nel parcheggio interno. Nel 30% dei casi il percorso per
raggiungere l'ingresso non è facilmente praticabile da chi non può camminare e
solo il 23% degli edifici su più piani dispone di un ascensore. Anche quando è
presente, l'ascensore non funziona in una scuola su quattro.
Il crollo della scuola di Amatrice ha concentrato l'attenzione sulla sicurezza
degli edifici scolastici nelle zone a rischio terremoti. In Italia quasi un
istituto su tre si trova in zone ad elevata pericolosità, ma solo l'8% è stato
progettato secondo la normativa antisismica. "Il 54% degli edifici scolastici
italiani - spiega l'associazione - è situato in zone a rischio sismico; il 30%
(13.742 istituti) nelle zone a rischio 1 e 2, il più elevato. Tra gli istituti
costruiti nelle aree a rischio solo 3.745, l'8%, sono progettati secondo
normativa antisismica e, in generale, solo il 3% ha il certificato di
conformità, solo il 4% ha la relazione geotecnica e solo il 9% ha la verifica
sismica".
I casi di genitori costretti a comprare la carta igienica trovano conferma nei
risultati del rapporto. Nel 50% dei bagni manca il sapone, nel 60% gli
asciugamani, nel 37% la carta igienica. Inoltre, il 13% dei bagni presenta
sanitari danneggiati o non funzionanti.
13 settembre
La lobby dello zucchero ci ha ingannato per 50 anni. Medici pagati per mentire.
Uno studio su JAMA svela anni di "depistaggi"
Di Ilaria Betti
Per
più di cinquant'anni l'industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche,
pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento
tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l'attenzione sui
grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata
sulla rivista JAMA Internal Medicine, la bibbia della ricercatori Usa: una serie
di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California,
San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente.
"Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni", ha
detto al New York Times, Stanton Glantz, professore di medicina e autore del
report. Il "depistaggio" si sarebbe verificato a partire dagli anni '60. Stando
ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come "Sugar
research foundation", oggi divenuto "Sugar Association", avrebbe pagato alcuni
ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul New
England Journal of Medicine uno studio che distruggesse l'immagine dello
zucchero come nemico per la salute del cuore.
"La ricerca concludeva che, 'senza dubbio', l'unico modo per prevenire i
problemi cardiaci era quello di ridurre il colesterolo e i grassi saturi",
spiegano gli autori del report su JAMA. In altre parole, gli scienziati si
adoperarono per sottovalutare pubblicamente il ruolo dello zucchero nel causare
malattie cardiovascolari. Sebbene i ricercatori di allora non siano più
rintracciabili, perché ormai deceduti, si sa che uno di questi, D. Mark Hegsted,
divenne capo della divisione che si occupa di nutrizione al Dipartimento
dell'Agricoltura e che il suo gruppo pubblicò le linee guida sull'alimentazione
nel 1977. Un altro, Dr. Fredrick J. Stare, ricoprì il ruolo di presidente del
dipartimento di nutrizione di Harvard.
Nonostante i fatti risalgano a decenni fa, il tema è destinato ad aprire un
nuovo dibattito. "Questo incidente di cinquant'anni fa potrebbe sembrare storia
antica - spiega in un editoriale Marion Nestle, professoressa di 'food policy'
alla New York University - ma è rilevante perché risponde ad alcune domande che
ci poniamo ancora oggi. È vero che le lobby dello zucchero hanno manipolato la
ricerca in loro favore? Sì, è vero, e la pratica continua". "Il nostro studio
mette in luce il bisogno di fare più attenzione e non dare la ricerca sempre per
scontata - spiegano gli autori -. Ci sono molti modi in cui uno studio può
essere manipolato, dalle domande che pone e si pone al come le informazioni
vengono analizzate fino al modo in cui le conclusioni vengono riportate nel
testo".
C'è di tenere gli occhi aperti, insomma. Anche perché la Sugar Association, come
riporta Vox, continua a pubblicare le sue linee guida sul rapporto tra zuccheri
e salute del cuore. Dal canto suo, l'associazione si è difesa: "Lo studio di
JAMA cavalca il trending dell'anti-zucchero. Le ricerche degli ultimi decenni
hanno messo in luce che lo zucchero non ha una responsabilità univoca sulle
malattie del cuore - si legge in uno stato -. Siamo preoccupati per la crescente
diffusione di articoli ideati apposta per prendere click e che minano la qualità
delle ricerche scientifiche, ma siamo ancora più delusi dal fatto che un simile
report sia apparso su una rivista come JAMA".
Fonte: L'Huffington Post
Pensioni, sindacati: l'uscita anticipata anche a 63 anni
Possibile lasciare il lavoro fino a tre anni e
sette mesi prima. Al ministero del Lavoro, il punto sull'Ape, sui lavoratori
precoci e gli aiuti alle pensioni minime
ROMA - I lavoratori potranno usufruire dell'Ape,
l'anticipo pensionistico, dall'età di 63 anni: il periodo anticipato sarà dunque
di 3 anni e 7 mesi. E' il risultato dell'incontro al Ministero del lavoro tra i
sindacati e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini.
"Sessantré anni è la mediazione a cui siamo arrivati oggi, ma che era in viaggio
da un po' di tempo", ha riferito il segretario confederale Cisl, Maurizio
Petriccioli.
"Il sistema - ha riferito il segretario confederale Uil, Domenico Proietti -
avrà una sperimentazione di due anni". I sindacati insistono perché non ci siano
penalizzazioni per i disoccupati di lungo corso, le persone che hanno svolto
lavori usuranti e che hanno iniziato a lavorare molto presto. Quanto alle
pensioni in essere, i sindacati chiedono di estendere la quattordicesima a chi
ha un reddito intorno ai mille euro: "vedremo cosa dirà il governo", ha concluso
Proietti.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che non ha partecipato all'incontro ma
ne ha parlato con i giornalisti a margine di un incontro alla Camera di
Commercio italo-tedesca, a Milano, si è detto altrettanto fiducioso sul buon
esito dell'accordo con i sindacati: "Poiché parliamo di un contesto molto largo,
credo che comunque sia importante e ragionevolmente prevedibile un apprezzamento
del lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo proprio perché abbiamo portato
questo tema dentro la legge di bilancio e lo faremo in maniera condivisa o,
comunque, a seguito di un confronto molto approfondito".
L'anticipo della pensione (Ape). Il sistema di anticipo pensionistico che
dovrebbe entrare in vigore dall'anno prossimo permetterà a tutti i lavoratori
nati tra i 1951 e il 1954 di andare in pensione in anticipo di uno, due o tre
anni e sette mesi, accollandosene però in parte il costo. Infatti chi richiede
l'Ape sottoscrive un prestito previdenziale ventennale, che avrà un costo
variabile a seconda dell'ammontare della pensione e della durata dell'anticipo
(si va dal 4-5% fino al 15%). L'anticipo pensionistico sarà tuttavia
completamente gratuito per i disoccupati e i lavoratori in condizioni disagiate.
La rata di ammortamento (è un'altra novità di oggi) dovrebbe inoltre essere
azzerata per le pensioni che arrivano a 1.200 euro netti, mentre oscillerà tra i
50 e i 60 euro al mese per venti anni per tutti gli altri per gli anticipi di un
anno, e salirà ulteriormente a 150-200 euro al mese se l'anticipo sarà invece di
tre anni.
Lavoratori precoci e lavori usuranti. La riforma prevede condizioni di maggiore
vantaggio per i lavoratori precoci e per chi svolge lavori usuranti. Tuttavia su
queste materie, spiegano i sindacati, "c'è ancora un confronto in corso".
Dovrebbero allargarsi le maglie per quanto riguarda le attività usuranti,
facendovi rientrare probabilmente categorie come quelle dell'edilizia, delle
maestre d'asilo e degli infermieri.
Ricongiunzioni contributi. Da rivedere in direzione maggiormente vantaggiosa per
i lavoratori anche il sistema di ricongiunzione dei contributi, che al momento
risulta eccessivamente oneroso per la maggio parte dei lavoratori. Si ipotizza
dall'anno prossimo la ricongiunzione a titolo completamente gratuito.
Fonte: Repubblica
Lavoro, licenziamenti in aumento del 7,4 per cento
I
dati del Ministero sul secondo trimestre 2016, un milione e mezzo di cessazioni
dovute alla fine di contratti a tempo determinato. In crescita dell'8 per cento
le chiusure di contratto promosse dai datori di lavoro. Le assunzioni a tempo
indeterminato, grazie alla riduzione degli sgravi fiscali, sono in calo del 29
per cento. In crescita l'apprendistato
Roma. Calano le assunzioni e aumentano i licenziamenti: il dato arriva
direttamente dal ministero del Lavoro, riapre il dibattito sulla validità del
Jobs act e soprattutto pone l'attenzione sugli effetti della mancata crescita
dell'economia. Nel secondo trimestre del 2016, infatti il saldo resta attivo: le
attivazioni di contratto sono state 2,45 milioni a fronte di 2,19 milioni di
cessazioni e la maggioranza delle cessazioni risultano dovute al termine data di
contratto a tempo determinato (1,43 milioni). Ma tra le altre uscite sono
aumentate quelle promosse dal datore di lavoro (+8,1%) mentre si sono ridotte
quelle chieste dal lavoratore (-24,9%) e in particolare sono aumentati i
licenziamenti (+7,4% sul secondo trimestre 2015). Così certificano le
comunicazioni obbligatorie pubblicate dal ministero.
Nell periodo considerato i licenziamenti sono stati 221.186, 15.264 in più
rispetto al secondo trimestre 2015. Sono invece diminuite le chiusure di
contratto dovute alla cessazione dell'attività del datore di lavoro (-10,3%). E
tra le cessazioni richieste dal lavoratore sono in calo considerevole sia le
dimissioni (293.814, pari a -23,9%) sia i pensionamenti (13.924 , -41,4%). Per
le donne sono crollate le uscite per prepensionamento (-47%), probabilmente
anche a causa della stretta sui requisiti per la pensione di vecchiaia scattati
quest'anno. Un calo ancora più consistente si era registrato nel primo trimestre
con le cessazioni per dimissioni per pensionamento delle donne ferme a 3.169
(-64,9%). Fra le assunzioni risultano invece in netto aumento, del 26,2%, gli
avviamenti in apprendistato. "Segno dei recenti interventi volti a rafforzare
tale strumento di ingresso nel mercato del lavoro, in particolare Garanzia
Giovani" precisa il Lavoro nelle comunicazioni obbligatorie. La riduzione di
nuove attivazioni - rileva il report del ministero - si accompagna alla
stabilizzazione dei contratti in corso.
Evidenti, come nota lo stesso Ministero, gli effetti della forte riduzione degli
incentivi fiscali legate alle assunzioni stabili. I tagli hanno determinato un
deciso calo negli ingressi a tempo indeterminato. Nel secondo trimestre del 2016
le attivazioni di contratti di tale tipologia sono state infatti 392.043, il
29,4% in meno rispetto all'anno scorso (-163.099). I rapporti di lavoro a tempo
indeterminato cessati risultano però inferiori rispetto allo scorso anno. Sono
stati 470.561, -10% rispetto allo stesso periodo del 2015. Da notare che il dato
fornito dal ministero, a differenza di quello dell'Inps, tiene conto di tutto il
lavoro dipendente compresi domestici, agricoli, pubblica amministrazione e anche
contratti di collaborazione.
Si tratta di cifre sulle quali si riversano le preoccupazioni del sindacato.
"L'occupazione continua a navigare in acque non buone" sottolinea il segretario
confederale della Uil, Guglielmo Loy, che parla di quadro "molto preoccupante".
"A conti fatti, con il calo delle assunzioni nel II trimestre 2016, nella prima
metà dell'anno 2016 si è registrata una forte riduzione di rapporti di lavoro
attivati rispetto allo stesso periodo del 2015: oltre 360 mila i contratti di
lavoro in meno, di cui ben il 41,7% è costituito da contratti a tempo
indeterminato - spiega il sindacalista - è chiaro che ciò è dovuto in primis
all'assenza di crescita economica che si traduce in meno assunzioni, soprattutto
stabili, ma anche alla riduzione del beneficio contributivo della Legge di
Stabilità, così come dichiara lo stesso ministero del Lavoro". Per Loy, la
ripresa ad assumere con contratti di apprendistato è indice non tanto della
bontà del contratto, "quanto della concorrenzialità in positivo di questo
strumento prodotta dallo sgravio contributivo maggiore di quello dell'attuale
tempo indeterminato". In attesa, conclude, "che si mettano
in atto politiche economiche, industriali e fiscali di crescita, occorre ancora
dare ossigeno all'unico strumento di tutela per imprese e lavoratori, la cassa
integrazione, rendendola più flessibile nella durata".
8 settembre
Dio perdona,
Kim no
Viaggio negli inferi di "Camp 16", la prigione
segreta fra le montagne della Corea del Nord, da cui nessuno esce vivo. Grande
tre volte Washington DC, detiene 20.000 persone (ignare dei crimini commessi)
che lavorano 20 ore al giorno, sono denutrite e soggette a torture, e dopo il
lavoro frequentano "lezioni di ideologia"
Corey Charlton per The Sun
Dalla morte del suo tirannico padre nel 2011, il
leader nordcoreano Kim Jong-un ha preso i provvedimenti per meritarsi il nome di
famiglia. Come il genitore, ha punito i critici e imprigionato o ucciso chiunque
sia sospettato di non lealtà. Niente è così temuto come il “Camp 16”, la
prigione politica più segreta e terribile.
Si trova fra le montagne del nord e detiene circa 20.000 persone, tra ministri
del governo e dissidenti. A differenza dei campi di rieducazione tipo i gulag di
Stalin, qui non c’è prospettiva di uscire. lavorano fino alla morte. Non si sa
cosa succeda all’interno, perché finora nessuno è sopravvissuto.
Sappiamo che è pattugliato per 75 miglia, da guardie e da veicoli. Ha 35 torri
per le sentinelle, con uomini armati che hanno l’ordine di massacrare chiunque
tenti la fuga. Chi è riuscito a scappare, è morto nella landa desolata.
La prigione è grande tre volte Washington D.C.. All’interno i detenuti sono
divisi in tre città, e, secondo il rapporto della “Human Rights North Korea”,
esiste un allevamento di pesci, campi coltivati, una centrale elettrica. Si
svolgono anche attività di estrazione mineraria. I detenuti sono costretti a
lavorare anche 20 ore al giorno, dopo di che frequentano “lezioni di ideologia”,
dove devono dichiarare le proprie pecche e picchiare chi non lo fa.
Fuori il perimetro della prigione, c’è il Punggye-ri, il sito sotterraneo per i
test nucleari. Si dice che gli schiavi del Camp 16 lo costruirono sotto la
dittatura di Kim Jong-il. Una volta diretti lì, non avevano possibilità di
sopravvivere. Secondo “Amnesty International” i campi sono operativi da 60 anni,
il 40% dei detenuti muore per denutrizione e le esecuzioni pubbliche sono
all’ordine del giorno. Dalla fame si mangiano topi e serpenti.
Fonte: Dagospia
L'usura colpisce 3 milioni
di famiglie e fattura 82 miliardi
La fotografia scattata dall'Eurispes: il 12%
delle famiglie si è rivolto a privati non potendo ottenere un prestito dalle
banche. Tra le aziende, più colpite quelle del settore agricolo, del commercio e
dei servizi
MILANO - La Usura Spa ha registrato un giro
d'affari di 82 miliardi di euro l'anno scorso, più di quanto fattura la maggiore
azienda italiana, l'Eni. Il dato emerge dall'indagine Eurispes, secondo la quale
negli ultimi due anni circa il 12% per cento delle famiglie (su un totale di
24,6 milioni di famiglie) si è rivolto a soggetti privati (non parenti o amici)
per ottenere un prestito, non potendolo ottenere dal sistema bancario. Restando
solo sul fronte delle famiglie, la stima è che il prestito ammonti, in media, a
10.000 euro (richiesti anche in diverse occasioni), per una cifra di 30 miliardi
di euro per 3 milioni di famiglie nel ruolo di vittime.
Secondo la ricerca, il fenomeno riguarda un'azienda su dieci nei settori
dell'agricoltura, del commercio e dei servizi. E i carnefici non sono solo le
organizzazioni criminali, mafia in testa, ma anche una serie di "insospettabili"
che hanno approfittato della crisi per arricchirsi a scapito di chi è finito con
l'acqua alla gola.
SETTORE |
CAPITALE PRESTATO |
CAPITALE RESTITUITO |
FAMIGLIE |
30 miliardi |
66 miliardi |
IMPRESE AGRICOLE |
2,25 miliardi |
4,95 miliardi |
IMPRESE COMMERCIO E SERVIZI |
5 miliardi |
11 miliardi |
TOTALE |
37,25 miliardi |
81,95 miliardi |
Il Business dell'usura nel 2015, valori in euro |
Il rapporto segnala che se le regioni a maggior
rischio restano quelle del Sud e le Isole, il pericolo si sta estendendo in
maniera significativa anche al Centro Italia e la provincia più esposta in
assoluto è Parma, seguita da Crotone, Siracusa, Foggia, Trapani, Vibo Valentia e
Palermo. Non è immune nemmeno il Nord visto visto che nella fascia di rischio
medio alta ci sono anche Aosta e Biella. "Le organizzazioni criminali - spiega
Gian Maria Fara, Presidente dell'Eurispes - hanno ben compreso che l'usura
rappresenta un metodo di straordinaria efficacia: da un lato per riciclare
denaro sporco e ottenere facilmente ingenti guadagni, dall'altro per
impossessarsi di quelle imprese e attività che non sono in grado di far fronte
ai debiti contratti. Tutto questo con rischi più contenuti rispetto a quelli
connessi ad altre attività illecite come ad esempio il traffico di
stupefacenti". "Oggi - osserva ancora Fara- sappiamo che la figura dell'usuraio
non è rintracciabile solo tra criminali e mafiosi, ma presente anche tra gli
'insospettabili': negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che
hanno sfruttato il lungo periodo di crisi economica e l'indebitamento di
famiglie, commercianti ed imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti
difficoltà di accesso al credito bancario. Ed è nata una nuova figura: quella
dell'usuraio della stanza accanto".
GEO |
IRU |
GEO |
IRU |
GEO |
IRU |
Parma |
100 |
Imperia |
52,67 |
Pistoia |
31,9 |
Crotone |
96,79 |
Matera |
51,3 |
Bologna |
31,86 |
Siracusa |
91,87 |
Biella |
50,31 |
Modena |
31,71 |
Foggia |
86,07 |
Chieti |
49,45 |
Firenze |
31,5 |
Trapani |
85,65 |
Gorizia |
48,7 |
Ferrara |
31,01 |
Vibo Valentia |
82,15 |
Roma |
48,58 |
Siena |
30,38 |
Palermo |
81,89 |
Terni |
47,72 |
Piacenza |
28,75 |
Avellino |
79,73 |
Novara |
47,44 |
Grosseto |
28,63 |
Catania |
77,85 |
L'Aquila |
46,39 |
Varese |
27,78 |
Caltanissetta |
75,94 |
Rimini |
44,24 |
Asti |
27,34 |
Potenza |
74,48 |
Italia |
44,02 |
Reggio nell'Emilia |
27,09 |
Napoli |
73,45 |
Viterbo |
42,69 |
Venezia |
26,94 |
Catanzaro |
73,36 |
Teramo |
42,46 |
Padova |
26,22 |
Sassari |
72,79 |
Macerata |
41,43 |
Verona |
25,44 |
Caserta |
72,14 |
Oristano |
40,93 |
Bergamo |
25,37 |
Reggio di Calabria |
72,04 |
Ancona |
40,48 |
Pesaro e Urbino |
25,17 |
Cosenza |
71,72 |
Livorno |
40,04 |
Brescia |
23,84 |
Messina |
69,15 |
Torino |
39,61 |
Rovigo |
23,7 |
Benevento |
68,45 |
Trieste |
39,08 |
Cremona |
23,5 |
Pescara |
66,97 |
Verbano-Cusio-Ossola |
38,73 |
Monza e della Brianza |
21,1 |
Salerno |
66,85 |
Arezzo |
38,61 |
Pavia |
19,2 |
Bari |
66,65 |
Lucca |
36,93 |
Cuneo |
19,19 |
Isernia |
66,07 |
Prato |
36,48 |
Mantova |
18,34 |
Cagliari |
65,16 |
Milano |
36,41 |
Forlì-Cesena |
18,24 |
Lecce |
64,53 |
Pisa |
36,34 |
Lecco |
17,95 |
Barletta-Andria-Trani |
64,14 |
Alessandria |
36,22 |
Lodi |
15,92 |
Nuoro |
62,43 |
Ascoli Piceno |
35,79 |
Udine |
15,52 |
Aosta |
61,6 |
Perugia |
35,79 |
Como |
15,38 |
Latina |
61,32 |
Massa-Carrara |
35,18 |
Pordenone |
14,7 |
Frosinone |
59,86 |
La Spezia |
34,02 |
Vicenza |
13,73 |
Taranto |
59,09 |
Ravenna |
33,69 |
Belluno |
12,46 |
Enna |
58,7 |
Genova |
33,51 |
Treviso |
7,8 |
Ragusa |
58,56 |
Fermo |
33,48 |
Sondrio |
7,41 |
Campobasso |
56,67 |
Vercelli |
33,21 |
Trento |
3 |
Brindisi |
56,3 |
Rieti |
32,9 |
Bolzano |
0 |
Agrigento |
52,94 |
Savona |
32,45 |
Olbia-Tempio |
- |
|
|
|
|
Ogliastra |
- |
|
|
|
|
Medio Campidano |
- |
|
|
|
|
Carbonia-Iglesias |
- |
InPUT (Indice di Permeabilità dell'Usura sul Territorio) |
Fonte: Eurispes - La Repubblica
Pensioni, la rabbia per la
previdenza negata
Le "buste arancioni" spedite dall'Inps iniziano
a dare i loro effetti: i giovani scoprono che potranno smettere di lavorare
tardissimo, portando a casa una miseria. E questa rischia di essere la prossima
bomba sociale
DI GLORIA RIVA
Stupore, dubbi, angosce. È l’effetto che fa la
busta arancione. L’ha spedita l’Inps a un milione di italiani, e di lettere così
ne invierà altre sei milioni nei prossimi quattro mesi, per raccontare a ogni
lavoratore che tipo di pensionato sarà.
L’oracolo Inps si esprime sotto forma di sei-sette fogli fronte-retro che
snocciolano dati, numeri e tabelle su misura per dire a ciascuno quanti soldi ha
già versato nelle casse dell’ente, quanti anni mancano al buen retiro, quale
sarà il proprio futuro stipendio (sempre che tutto fili liscio) e quale
l’ammontare dell’assegno pensionistico.
Il tutto firmato da Tito Boeri, presidente Inps. È stato lui a voler spedire la
busta arancione agli italiani, così come si fa già nei paesi del Nord Europa,
perché la gente prenda coscienza di ciò che l’aspetta. Per curiosità o
necessità, ci sono altri 6 milioni di lavoratori che hanno letto il contenuto
della lettera on line, accedendo al portale “La mia pensione” dalla home page
del sito web Inps, un servizio che entro l’anno sarà accessibile a tutti i 23
milioni di dipendenti italiani, precari e stagionali inclusi. Nel frattempo
“l’Espresso” ha raccolto le storie di dieci italiani - di cui per motivi di
privacy non citeremo il vero nome - che hanno già dato una sbirciata al proprio
futuro pensionistico. Hanno fra i 30 e i 45 anni: la generazione che più è
andata a sbattere sul muro della crisi economica iniziata nel 2008 e che ha
passato i limiti d’età per accedere ai progetti di sostegno di Garanzia Giovani.
Se 69 anni vi sembran pochi
Il copione si ripete sempre uguale. Giunti alla seconda pagina della lettera
inviata dall’Inps ci si imbatte nella tabella “La previsione della sua pensione”
e la prima cosa che balza all’occhio è la data del pensionamento. «Ci vado nel
2052, che è fra un sacco di tempo», racconta Vittorio, 33 anni, di Pistoia, che
stropiccia il foglio agitandolo fra le mani. L’ha letto e riletto. «Avrò
settant’anni. Faccio l’informatico, non so se a quell’età avrò la mente
abbastanza elastica per stare al passo con l’innovazione e i futuri nerd».
Vittorio ha cominciato a lavorare a 27 anni, dovrà sgobbare altri 35 anni per
arrivare a una pensione di 1.900 euro lordi, sempre che nel mezzo non perda il
lavoro, creando buchi contributivi che assottiglierebbero di parecchio l’assegno
pensionistico.
Questo è proprio l’incubo di Chiara, 32 anni, romana, laurea in Psicologia. «I
60enni si lamentano perché dovranno lavorare qualche anno in più. E io, che non
posso essere assunta stabilmente? Ho consultato la mia posizione sul sito Inps:
è un disastro. Sono passata attraverso stage, contratto d’inserimento, partita
iva, co.co.pro, tempo determinato. Ho fatto versamenti in casse previdenziali
diverse, che fra loro non comunicano.
L’aliquota media versata è del 17 per cento, così la mia pensione equivarrà a
metà del mio ultimo stipendio». Per far confluire tutto su un’unica piattaforma
previdenziale, Chiara dovrebbe sborsare 24 mila euro, troppo per una giovane che
ne guadagna 21 all’anno. L’ha scoperto contattando direttamente l’Inps, perché
sulla busta arancione, alla voce “Contributi accantonati Gestione Separata”, c’è
scritto che «per valutare come possano essere più utilmente valorizzati i
contributi da Lei accantonati le consigliamo di rivolgersi ad una nostra sede
per una consulenza». L’ha fatto e le hanno spiegato che o sgancia i quattrini o
deve sperare che i prossimi anni di contribuzione siano più stabili di quelli
precedenti. Oppure sarà un’anziana povera.
Un nuovo conto corrente
Anche Federica, 37 anni, laurea in Archeologia, insegnante a Bologna, ha
chiamato l’Inps dopo aver letto la lettera. «Per poco non mi è venuto un colpo.
Dall’elenco dei contributi erano spariti i sei anni di lavoro negli scavi
archeologici. Ho contattato l’ente, che adesso sta verificando dove siano finiti
i miei contributi. Incrocio le dita».
Situazioni così si verificano spesso, è capitato anche a Melissa, 35 anni, di
Milano. Lavorava in una tv locale e si occupava della pubblicità, poi l’azienda
è andata in crisi e ha perso il lavoro: «Avevo ricevuto a casa una lettera
dall’Inps. C’era un codice e una procedura per verificare on line la posizione
contributiva. Non è stato difficile accedere ai miei documenti digitali, ma
quando ho scoperto che la mia azienda non mi aveva versato gli ultimi due anni
di contributi ho avuto un tracollo. Grazie ai funzionari dell’Inps sono riuscita
a recuperare quei soldi».
Da quando c’è la crisi, molte aziende hanno risparmiato sui contributi ai
dipendenti per far quadrare i conti ed evitare la bancarotta. «Ci sono otto-nove
miliardi l’anno di evasione da parte di imprese che non pagano i contributi alla
propria manodopera, il totale è di 141 miliardi di buco. L’ente affida a
Equitalia il compito di riscuotere, ma ne recupera il 5 per cento», spiega Gian
Paolo Patta, membro del Civ, il comitato di indirizzo e vigilanza Inps.
Fortunatamente c’è un fondo che copre quei buchi, ma funziona solo per i
lavoratori dipendenti. Gli altri devono segnalare all’Inps i mancati pagamenti
entro due anni, altrimenti i contributi vanno persi: «Controllare la propria
posizione dovrebbe diventare un’abitudine, come si tiene sott’occhio il conto in
banca», rispondono dall’istituto previdenziale.
L’Inps dal volto umano
Infatti, nell’ultima pagina della Busta Arancione c’è scritto a caratteri
cubitali «Controlli il suo estratto conto e segnali eventuali errori. Le
ricordiamo che eventuali anomalie dell’estratto conto incideranno negativamente
sulla sua pensione». Un messaggio che Mirco, giovane impiegato di Torino, ha
molto apprezzato: «La busta arancione mi è arrivata. Andrò in pensione nel 2050,
a 69 anni compiuti, con un buon assegno. Grazie Boeri per quest’idea, così
l’Inps non mi sembra più l’ente polveroso e marziano che pensavo. Però l’idea di
finire i miei giorni dietro una scrivania non mi piace. Il governo dovrebbe fare
di più per le giovani generazioni, che sgobberanno una vita».
Sono in tanti a pensarla così. E infatti, nel segreto dell’urna delle
amministrative di giugno, gli italiani hanno dato una sonora mazzata al governo
di Matteo Renzi, che fino all’estate non si era interessato di materia
previdenziale. Forse per questo, il premier ha cambiato passo, aprendo alla
revisione della materia pensionistica, tema delicatissimo. Ha così riallacciato
i rapporti con quei sindacati che aveva messo alla porta e ora siedono al tavolo
con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e Tommaso Nannicini, sottosegretario
del Consiglio dei ministri e consigliere economico del premier, per modificare
gli aspetti più dissonanti della riforma Fornero.
Precoci e usurati i più penalizzati
Il capitolo più scottante da affrontare interessa le categorie di lavoratori
svantaggiati. Come le persone che hanno cominciato a lavorare giovanissime o
quelle che fanno un lavoro parecchio duro (alla catena di montaggio, per
esempio) che dal 2018 perderanno il diritto di andare in pensione in base agli
anni di contribuzione. Infatti, con la legge Fornero, la pensione di anzianità
svanisce per lasciare il campo alla sola pensione di vecchiaia, che si basa
sull’età anagrafica e prevede che i 40enni di oggi andranno in pensione a 69
anni.
Improponibile per gente come Ernesto: «Il medico dice che ho un principio di
artrite reumatoide. Generalmente si manifesta a 60 anni, io ne ho 44 ed eccomi
qui. La malattia, almeno in parte, è colpa di questo lavoraccio». E racconta che
da 25 anni leviga il legno in una falegnameria industriale di Pordenone: «Dovrei
andare in pensione dopo 50 anni di fatica. Le mie mani non me lo consentiranno».
La risposta che il governo ha intenzione di dare a lavoratori nella situazione
di Ernesto si chiama Ape, Anticipo Pensionistico e sostanzialmente si tratta di
un mutuo ventennale per ritirarsi con un po’ d’anticipo dal mondo del lavoro.
«L’Ape però non risolve i problemi reali», attacca il giuslavorista Giampiero
Falasca e spiega che l’anticipo pensionistico «non farà altro che sostituire la
mobilità lunga, che permetteva a chi aveva perso il lavoro di stare in cassa
integrazione per cinque anni o più, accedendo direttamente alla pensione».
Questa forma di assistenza è venuta meno con il riordino degli ammortizzatori
sociali ed ora, se passasse l’idea dell’Ape, sarebbe di fatto reintrodotta. «Il
mercato del lavoro italiano, fatto di molte professioni faticose e manuali, non
è pensato per un’età pensionabile così alta. L’Ape non risolve il problema di
fondo che è quello di mantenere attive le persone fino a 70 anni», sostiene
Falasca.
Chi ci guadagna
E se la riforma Fornero bastona i manovali, mostra invece il suo lato migliore
ai colletti bianchi e a chi ha uno stipendio alto. Fra i graziati c’è Gabriele,
manager in una banca di Bari, che racconta: «È stato un po’ complesso ottenere
la password per accedere alla mia pagina web, ma il sito funziona e si possono
fare simulazioni, prevedere scenari di carriera differenti, buchi contributivi,
svariate situazioni di crescita nazionale. Ma dubito che la previsione stimata
dall’Inps si avvererà». Ha cominciato a lavorare nel 2006, guadagna 56 mila euro
lordi l’anno: «Secondo i loro calcoli andrò in pensione a 69 anni con un assegno
da 7 mila euro lordi», sempre che il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza
prodotta dall’Italia, cresca l’1,5 per cento l’anno, così come la sua
retribuzione. «E chi ci crede? Oggi il pil è allo 0,8 per cento e non vedo
crescita all’orizzonte», dice Gabriele che versa 250 euro al mese in un fondo
complementare privato. Perché sulla stabilità dell’Inps non ci metterebbe la
mano sul fuoco.
Eppure Alberto Brambilla, presidente del centro di ricerca Itinerari
Previdenziali, invita a non trarre facili conclusioni: «I conti dell’Inps sono
in ordine, l’ente resisterà e i giovani devono fare bene i propri conti».
Brambilla ha elaborato una serie di ipotesi su chi andrà in pensione nel 2042 a
66 anni e 9 mesi, così come dice la Fornero. «Un ragazzo che ha cominciato nel
2000 e oggi ha un reddito da 1.500 euro lordi, prevedendo sette anni di buco
contributivo e un’inflazione non superiore all’1 per cento, avrà una pensione di
1.050 euro lordi, che sono 750 euro netti. Per campare serve un’integrazione
privata da almeno 50 euro al mese. Così arriverà a una pensione dignitosa»,
spiega Brambilla, che tuttavia mette in guardia soprattutto gli autonomi, le
partite Iva, che versano una percentuale contributiva del 23 per cento, e i
professionisti, che pagano il 15 per cento, contro il 33 dei lavoratori
dipendenti. «Sono quelli che più di tutti dovrebbero pensare a un’integrativa,
ma non lo fanno. Alcuni perché guadagnano poco, altri sono probabilmente evasori
che non dichiarano tutto al fisco e la pensione la stanno accumulando in nero»,
continua il professore.
Un futuro troppo lontano
Nonostante la busta arancione tenti di mettere in guardia i giovani da un futuro
incerto, per molti il traguardo della pensione appare davvero troppo lontano.
Daniele, 38 anni, quadro in una società di revisione dei conti di Milano,
racconta: «Ho dieci anni di contributi, manca talmente tanto tempo (lascerò il
lavoro nel 2049) che qualsiasi previsione risulterebbe prematura e imprecisa.
Verso il Tfr nel fondo integrativo di settore e sto pensando di investire anche
in un fondo previdenziale privato, ma al momento non me lo posso permettere e
non mi fido molto di banche e assicurazioni».
Del resto, sul mercato italiano della previdenza integrativa, solo il 13 per
cento delle polizze è stato stipulato da giovani tra i 25 e i 34 anni contro il
33 per cento della fascia 45-54 anni. L’altro problema è che i maggiori
investitori sono lavoratori dipendenti (il 38 per cento e versano 240 euro al
mese), anziché quelli che ne avrebbero più bisogno (gli autonomi sono il 34 per
cento, con 170 euro in media): «La previsione è che chi lavora in proprio avrà
una pensione pari al 55 per cento dell’ultimo stipendio», spiega Renato Antonini,
responsabile vita e danni di Alleanza assicurazioni. «Molti giovani si rivolgono
a noi, capiscono l’esigenza di integrare l’assegno pensionistico, ma hanno già
troppe spese vive per accantonare denaro», spiega Antonini.
Il portafoglio piange
Silvia, 41 anni, per esempio, fa la cassiera in un supermercato di Catania e
guadagna 1.050 euro al mese. Anche a lei è arrivata la busta arancione e ha
scoperto che la sua pensione sarà il 68 per cento del suo ultimo stipendio.
Troppo poco per vivere dignitosamente. «Spero che mio figlio, che oggi ha 7
anni, avrà una vita migliore della mia», racconta, «e per questo spendo tutti i
miei risparmi per mandarlo in una buona scuola». Silvia è pessimista. Altri suoi
coetanei,invece, si rifugiano nel fatalismo, come Cinzia, 35 anni, di Recanati,
mamma di una bambina di 5 mesi. In tasca ha una laurea in Sociologia, ma trovare
un’occupazione stabile è difficile: «Non ho il coraggio di verificare la mia
situazione contributiva e spero che, come per gli esodati, qualcuno ci metta una
pezza».
Una speranza. O forse solo un sogno. Perché per garantire una pensione dignitosa
per tutti bisognerebbe innanzitutto tornare a creare posti di lavoro. Ma questa,
nell’Italia della stagnazione e della crescita zero, è tutta un’altra storia.
Purtroppo.
Fonte: L'Espresso
6 settembre
Per i morti dell'Aquila solo
9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione
Responsabilità difficili da stabilire. Perizie
contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma
del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra
poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno
scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice
DI PAOLO FANTAUZZI

Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della
Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione
pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma
che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia
si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza
è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il
terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe,
innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati
generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche
settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i
processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati ,
Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo . A meno che non
intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi.
Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla
storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a
imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la
ricostruzione non sia un business. Ma un valore
Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su
circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina
hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto
pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in
tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto
ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni),
altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo
della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due
anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che
rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime.
Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei
soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa.
Il terremoto in Irpinia inghiottì la Prima, fra soccorsi inesistenti e camorra.
L'Aquila 2009 portò in scena lo show di Silvio Berlusconi e la privatizzazione
della ricostruzione, con il suo seguito di inchieste e processi. Ora il sisma
del 24 agosto sarà la sfida per uno Stato che si deve riformare
Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione,
spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto
complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti
tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme
antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere
l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in
partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi
incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per
giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i
lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si
riescono a provare condotte colpevoli».
TEMPO SCADUTO
A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si
estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto
dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni,
come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche
interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette
anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo
Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le
responsabilità.
Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del
palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione
ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio
(costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei
rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in
appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi.
Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29
vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed
errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e
l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo
grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si
salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia,
condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello.
SENZA COLPEVOLI
Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha
ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono
in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che
sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e
secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto
con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via
XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il
collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio.
In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da
rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere
l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79
(nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i
danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile
i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati
tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno
impugnato la sentenza.
MITI SANZIONI
Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di
Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il
crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e
mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio
colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di
salute.
Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione
quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il
direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise
nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia.
Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di
inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo
la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della
Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e
l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si
sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La
governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella.
Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44
giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato.
Ora è ai servizi sociali.
Fonte: L'Espresso
Fertility day, un padre
scrive alla Lorenzin: "Presi a sberle dalla vostra miopia"
"Prima della giornata nazionale della fertilità
voglio, pretendo da cittadino che paga le tasse, che un Ministro del mio paese
lanci la giornata nazionale dei trasporti pubblici efficienti, dei nidi
gratuiti, del reddito minimo garantito, della sanità e della scuola pubblica e
gratuita"
DI TANCREDI TARANTINO*
Gentile Ministra Lorenzin,
Chi le scrive è papà di una bellissima bimba di quasi tre anni.
In questi tre anni, io che ho avuto la fortuna di avere una busta paga dove ho
caricato mia figlia al 100%, ho ricevuto dallo Stato una detrazione complessiva
di 1.200 euro lordi all'anno. Nel frattempo però mia figlia é dovuta andare al
nido, un nido comunale (cioè pubblico) il cui costo mensile è stato di 550 euro.
Che moltiplicato per undici mesi, fanno 6.050 euro all'anno.
Chi lavora in nero, chi ha dei contratti saltuari o ha un salario basso, non
detrae nulla. Se poi un lavoro nemmeno ce l'hai, cavoli tuoi, vorrà dire che
avrai tempo libero per badare a tuo figlio. E se devi cercare un lavoro, fare un
colloquio, andare a fare una visita medica o quant'altro, semplicemente ti
attacchi.
Per non parlare del nostro mercato del lavoro che discrimina le donne per il
solo fatto di essere mamme o, peggio ancora, incinte.
Quando mia figlia ha un'influenza, un mal di pancia, la sesta malattia, la "mani
bocca piedi" (che sconoscevo prima di diventare papà), la congiuntivite o la
bronchite, io o mia moglie dobbiamo prendere un giorno di ferie o un giorno di
malattia. In molti casi bisogna sperare in un permesso extra. Perché l'opzione
baby sitter vorrebbe dire altri 10 euro l'ora che, per 10 ore passate fuori casa
da noi lavoratori fertili, fanno parecchi euro al giorno. Mentre i nonni che una
volta accudivano i nipoti, oggi aspettano ancora di andare in pensione.
Se poi per qualsiasi sventurato motivo devi prenotare per tua figlia una visita
specialistica, le strutture pubbliche hanno spesso liste d'attesa che rendono
praticamente inutile il servizio, e allora ti rivolgi al privato. Che vuol dire
spendere altri 100-150 euro a visita.
E che dire del tempo libero dei nostri figli? Sport, musica, danza. Tutto
privato e a pagamento, mentre le detrazioni fiscali sono irrisorie. Perché fuori
da quelle stanze dove siete chiusi, signora Ministra, il pubblico ormai é
ridotto al lumicino. Una luce flebile, presa a sberle dalla vostra miopia.
E poi c'é l'incognita "tempo". Perché in questa società iperconnessa, dove in
molti lavori sei raggiungibile 24 ore su 24, dove sprechi il tuo tempo in mezzo
al traffico o su mezzi pubblici dissestati, in ritardo o soppressi, dove gli
straordinari sono spesso gratuiti e obbligatori, quanto tempo riesci a dedicare
a tua figlia? Quanto tempo hai a disposizione per ascoltarla, giocare con lei,
indirizzarla o, più semplicemente, godertela? Perché se dovessimo monetizzare
anche il fattore tempo, il costo di un figlio sarebbe incalcolabile.
Ecco perché le scrivo, signora Ministra. Perché lei può anche lanciare una
medievale giornata nazionale della fertilità (d'altra parte da questo Governo
non mi aspetto niente di più che un nuovo Medioevo culturale), ma prima voglio,
pretendo da cittadino che paga le tasse, che un Ministro del mio paese lanci la
giornata nazionale dei trasporti pubblici efficienti, la giornata nazionale dei
nidi gratuiti, la giornata nazionale del reddito minimo garantito, la giornata
nazionale della sanità e della scuola pubblica e gratuita.
In attesa di tutto ciò, signora Ministra, il 22 settembre io e mia moglie faremo
l'amore. E anche quel giorno useremo il preservativo.
*Tancredi Tarantino, 39 anni, cooperante
internazionale
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