13 dicembre

Portaborse, 630 deputati prendono i soldi, ma solo 230 ne hanno assunto uno

Ogni parlamentare riceve quattromila euro al mese per le spese di comunicazione e segreteria: ma a Montecitorio in 400 non hanno nessun portavoce contrattualizzato. Pd e Idv hanno presentato un'odg: i collaboratori siano assunti direttamente da Camera e Senato, così da non far passare i soldi dalle tasche dei politici. Le proposte sono state bocciate. Ma Pardi ci riprova: "Settimana prossima quando a Palazzo Madama arriverà la manovra"

Quattromila euro finiscono ogni mese nelle tasche di ciascuno dei mille parlamentari italiani per far fronte alle spese di segreteria e comunicazione, in pratica per i famosi portaborse. Ma da poche di quelle tasche escono per andare realmente in quelle dei collaboratori. Alla Camera su 630 deputati solamente 230 hanno assunto un assistente, con contratti a progetto e per importi medi di 700 euro. Il dato del Senato non si conosce: Palazzo Madama non lo ha mai comunicato, ma dei 315 senatori pochi non hanno un assistente personale.

L’unica cosa certa è che tra i mille parlamentari nessuno ha mai rinunciato a quello che un tempo si chiamava “fondo per la segreteria” e che oggi è stato ribattezzato nel molto più generico “fondo eletto-elettori”. 3690 euro affidati a ogni deputato che può farne ciò che vuole senza dover presentare giustificativi né ricevute né altro che dimostri l’uso che ne ha fatto. La presidenza della Camera è al corrente del malcostume che vige tra i deputati e nel 2009, dopo un’indagine dell’ufficio del lavoro, tentò di mettere un freno al lavoro in nero che gli stessi parlamentari alimentano. Gianfranco Fini vietò l’ingresso a Montecitorio a quanti non avevano un contratto regolare.

Il primo luglio, giorno in cui entrò in vigore la regolamentazione, ben 200 portaborse risultarono in nero: rimasero fuori dalla Camera perché i loro budget erano stati cancellati. I deputati per far entrare i propri assistenti trovarono facilmente un escamotage: farli accedere tra il pubblico, come visitatori. Norma aggirata e attenzione sulla vicenda diminuita in poche settimane. Oggi, con la manovra lacrime e sangue imposta ai cittadini, il tema è tornato più che attuale: i tanto promessi tagli alla politica in realtà si sono tradotti in misure considerate molto blande e nel maxiemendamento, che sarà presentato alla Camera domani, saranno ulteriormente ridotti gli interventi a scapito della Casta: nella migliore delle ipotesi tutto sarà rimandato alla prossima legislatura.

“Fanno tutti il gioco delle parti”, dice Sandro Gozi , il deputato del Partito Democratico che da più di un anno sta cercando di presentare un ordine del giorno per rendere più trasparente “almeno la parte di fondi che viene dato ai parlamentari senza controllo, come i quattromila euro che vengono riconosciuti per i portaborse”, spiega. Oggi Gozi si è rivolto direttamente ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani affinché intervengano. “Ieri hanno negato che saranno tutelati gli interessi della cosiddetta Casta e garantito che il trattamento economico sarà adeguato agli standard europei, allora perché non cominciare proprio dalla gestione dei portaborse?”, si chiede Gozi. Al Parlamento europeo i collaboratori dei deputati vengono assunti e stipendiati direttamente dall’amministrazione e non dai singoli politici, a cui non viene quindi versata alcuna indennità. E così funziona in quasi tutti i paesi dell’Europa: i soldi non passano per i parlamentari. In Germania è il Bundestag a pagare mentre in Inghilterra sono gestiti da un’agenzia indipendente. “In Italia vengono dati a noi quattromila euro e ognuno può farne liberamente quel che vuole”, spiega Gozi. I deputati del Pd versano “duemila euro al mese circa al gruppo del partito per far fronte alle spese di segreteria e i restanti duemila sono destinati ai collaboratori, ma nessuno deve presentare alcuna ricevuta o altro. Quindi io ho proposto di assegnare alla Camera e al Senato il compito di assumere i collaboratori e dare i soldi al partito di appartenenza e non far passare i soldi dalle mani del deputato perché la situazione è diventata indecente”, si sfoga Gozi che ha due collaboratori regolarmente assunti.

Complessivamente, solo per quanto riguarda i fondi per i collaboratori, Camera e Senato versano oltre 24 milioni di euro all’anno senza sapere dove finiscano, come e perché. La proposta di Gozi, oltre a far risparmiare fondi allo Stato, “porterebbe alla luce un giro di lavoro nero e sfruttamento davvero indecente e che si protrae da anni come malcostume diffuso”. Tra i parlamentari. Gli stessi che devono limitare il lavoro nero e portare avanti la lotta all’evasione fiscale, sono i primi, dunque, ad “alimentare un sistema totalmente privo di controlli e trasparenza”. Ma l’odg di Gozi proprio non riesca a essere approvato. “A giugno tutto il gruppo lo aveva condiviso e presentato a unanimità, ma poi mi è stato detto che non si poteva presentare per un motivo o l’altro. Adesso mi dicono che non si può inserire come emendamento a questa manovra, così mi sono rivolto direttamente a Fini e Schifani e vediamo come si comporteranno. Io voglio trasparenza. Questi quattromila euro devono essere spesi per i collaboratori? Voglio vedere i contratti di assunzione. Oppure le ricevute per cui ogni mese si spiega dove vanno quei soldi. Siano la Camera e il Senato a dare i soldi ai collaboratori assunti regolarmente. Se c’è chi oggi se li intasca o assume regolarmente i collaboratori o rinuncerà a quei fondi”.

In linea con Gozi anche l’Udc e l’Idv. Pancho Pardi ha avuto più fortuna di Gozi e al Senato è riuscito a portare in aula lo scorso agosto e far votare un ordine del giorno che invitava a equiparare al sistema Europeo la gestione dei collaboratori. Ma è stato bocciato. Non stupisce, ovviamente, che la Casta protegga se stessa. “Ma ora i tempi sembrano cambiati”, dice Pardi. Il senatore dell’Idv annuncia che settimana prossima, quando la manovra del governo Mario Monti arriverà per il voto a Palazzo Madama, lui ripresenterà l’ordine del giorno, magari camuffato da emendamento ma, spiega, “il modo per portarlo in aula lo trovo sicuramente, perché magari questa volta lo votano. Adesso sono tutti attenti e bravi, vediamo come si comportano”, dice.

“La giusta rabbia dei cittadini va fronteggiata, bisogna essere capaci noi per primi di prendere dei provvedimenti di trasparenza e sacrificio. Almeno proviamoci”, aggiunge. Così, la questione dei portaborse “potrebbe essere un primo passo importante: invece di tagliare l’indennità ai parlamentari si compie un’operazione di pulizia e trasparenza; le risorse vengono gestite dalle Camere, i parlamentari non vedono un euro, i collaboratori vengono pagati in base a contratti regolari”. Ad agosto il centrodestra votò contro. E anche oggi i segnali che arrivano dal Pdl non sono dei migliori, anche perché c’è chi, come Paniz sostiene che i soldi per i collaboratori siano pochi. “Se lo metti in regola, 3000 euro per un collaboratore non bastano. All’estero, come dimostrano tutte le statistiche serie, i parlamentari guadagnano più di quelli italiani”. Le statistiche serie dicono il contrario: gli eletti nel Belpaese sono quelli che percepiscono il compenso maggiore.

 

Classi sovraffollate, disabili penalizzati, ecco i numeri della gestione Gelmini

Il criterio della trasparenza reintrodotto dal ministro Profumo fa emergere le proporzioni di quanto accaduto negli ultimi tre anni. Nel 2008/2009 le classi con oltre 25 alunni erano l'11,6% oggi sono il 17,3%. Quelle in cui c'è più di un portatore d'handicap sono passate dal 6 al 7%

di SALVO INTRAVAIA

CLASSI-POLLAIO, disabili stipati in aule superaffollate e anche in più d'uno per classe. Ecco i numeri che inchiodano la Gelmini. Dal 2008 le proteste di insegnanti e genitori contro le misure del governo Berlusconi contro la "scuola" sono state un crescendo - classi stracolme di alunni e disabili penalizzati - ma dopo ogni "caso" scoperto dalla stampa, puntualmente, arrivava la smentita del ministero che recitava sempre lo stesso copione e parlava di accuse "destituite di ogni fondamento".

Nel frattempo, però, i numeri venivano meticolosamente occultati: niente più "sintesi dei dati" sulla scuola e niente più pubblicazioni con numeri, grafici e tabelle che potessero svelare il reale impatto della cosiddetta riforma Gelmini sulla scuola italiana. Si andava avanti solo con dichiarazioni dell'ufficio stampa. "Non è prevista l'abrogazione del tetto per il numero degli alunni nelle classi con studenti disabili. Il limite era, e resta, di 20 alunni per classe", recita la Gelmini lo scorso 30 giugno.

Ma le denunce di aule strapiene, disabili in classi troppo numerose e spesso in compagnia di altri portatori di handicap nella stessa aula continuavano. Situazioni che in teoria la normativa vigente non ammette. Ma che per racimolare qualche posto in organico tutti tolleravano: il ministero, i direttori regionali e i provveditori. Gli unici che pativano erano gli stessi alunni e gli insegnanti, costretti a gestire situazioni molto complesse. Ma senza i numeri nessuno poteva parlare. La recente glasnost avviata dal ministro Francesco Profumo svela le reali proporzioni dell'intervento gelminiano sulla scuola nostrana.

Quest'anno, le classi sono mediamente più affollate di tre anni fa e quelle fuorilegge sono in rapida ascesa. Una norma del 1992 stabilisce che per assicurare una adeguata sicurezza in caso di incendio l'affollamento massimo delle classi deve essere di 26 persone: 25 alunni e un insegnante. Nell'anno scolastico 2008/2009 le classi con più di 25 alunni erano l'11,6 per cento. Tre anni dopo, nel 2011/2012, le classi sovraffollate ammontano al 17,3 per cento: quasi sei punti in più. Nella scuola dell'infanzia una classe su tre è over 25, al superiore si scende a una su quattro.

E i disabili? La normativa stabilisce, come del resto ha recentemente chiarito l'ex ministra, che nelle classi con un portatore di handicap il numero degli alunni dovrebbe al massimo essere pari a 20. Il motivo è semplice: in classi sovraffollate l'inserimento degli alunni disabili diventa più complicato. Tre anni fa, le classi con un disabile e con più di 20 alunni erano poco meno di 11 su cento: il 10,8 per cento. Tre anni dopo, il tasso sale al 13,4 per cento con record alla scuola media, che fa segnare un 23 per cento abbondante.

La normativa appena citata non contempla neppure l'ipotesi di infilare in una classe più di un disabile. E non c'è bisogno di spiegarne il motivo. Eppure le situazioni che vedono due e tre portatori di handicap nella stessa classe sono più frequenti di quanto si pensi, specialmente da quando in viale Trastevere è passata la ministra di Leno. Dal 6 per cento dell'anno 2008/2009 si è passati al 7 per cento: qualcosa come 25 mila classi in cui un solo insegnante di sostegno spesso non basta.

 

Usa, le bugie di Obama sul traffico internazionale di cocaina

La cocaina sequestrata nel 2011 ha superato la stima della produzione mondiale fornita dal Dipartimento di Stato Usa

tratto da Narkoleaks

Nonostante Washington dica il contrario, la Colombia continua ad essere il maggior paese produttore e la stessa guardia costiera statunitense smentisce clamorosamente i dati della Casa Bianca. Le cinque domande di Narcoleaks sulle imbarazzanti contraddizioni made in Usa sul narcotraffico.

Obama, we have a problem . La cocaina sequestrata in tutto il mondo nel 2011 ha superato la stima della produzione mondiale fornita dagli Stati uniti d'America. Ad un mese dalla fine dell'anno, sono state intercettate sulle rotte mondiali oltre 734 tonnellate , ma il Dipartimento di Stato Usa afferma che al mondo se ne producono soltanto 700. Una contraddizione destinata ad ampliarsi fino alla fine dell'anno: al 31 dicembre stimiamo verranno sequestrate tra le 744-794 tonnellate di cocaina. Come dire: il contadino dice di avere dieci polli e la volpe gliene mangia 12. E tuttavia il contadino riesce a vendere comunque polli al mercato. È evidente che qualcuno sta sbagliando a fare i conti. Noi di Narcoleaks pensiamo che non si tratti soltanto di un semplice errore.

Non tornano i conti neanche con le ultime dichiarazioni ufficiali dell'Unodc (Ufficio Onu per la droga e la criminalità), delle autorità Usa e del Governo colombiano secondo cui la produzione di cocaina in Perù avrebbe superato quella colombiana. Un'affermazione smentita dai dati sui sequestri: nel 2011, circa l'80 percento della cocaina sequestrata e di cui è stato appurato e reso noto il Paese di produzione, proviene dalla Colombia, mentre dal Perù poco più del 10 percento. I dati ufficiali sulla Colombia sono ancora più sconcertanti. L'ultima stima fornita dagli americani sulla produzione annua di cocaina in Colombia parla di 290 tonnellate. Ad oggi, però, i sequestri di cocaina colombiana effettuati da diversi paesi è pari a 351.8 tonnellate, cioè al 121.3 percento della produzione colombiana stimata dal Dipartimento di Stato Usa.

A mettere un punto sulla vicenda, ironia della sorte, è la stessa Policia Nacional de Colombia con un suo dispaccio ufficiale. Lo scorso 14 ottobre, nel dipartimento di Meta, ha individuato un "maxi cristalizadero" con circa 6 tonnellate di cocaina, ma soprattutto con una capacità produttiva tra i 500 e gli 800 chili di cocaina al giorno, cioè tra le 182 e le 292 tonnellate di cocaina l'anno. Se prendiamo per vera la produzione annua stimata dal Dipartimento di Stato americano di 290 tonnellate, vuol dire che in Colombia esiste un solo laboratorio di cocaina. E questo è davvero ridicolo. In Colombia, annualmente vengono individuati e distrutti tra 250 e 300 cristalizaderos attivi e con capacità produttive spaventose , e sono solo una parte di quelli esistenti realmente.

Ma non è ancora finita. A colpire nel cuore le stime fornite dal Dipartimento di Stato americano, qualche giorno fa è stato il "fuoco amico". Il primo di dicembre, un dispaccio ufficiale della U.S. Coast Guard afferma che nel 2011 le autorità statunitensi hanno accertato un traffico di cocaina verso i propri confini di 771 tonnellate , di cui più dell'85 percento trasportate via mare. Smentendo i dati diffusi dal Dipartimento di Stato (e dalle Nazioni unite), secondo i quali il traffico verso gli Stati Uniti negli ultimi anni si sarebbe ridotto a 200 tonnellate .

Le imbarazzanti contraddizioni sono sotto gli occhi di tutti e non serve sbirciare tra i cable per vederle. Le analisi di Narcoleaks sono il frutto di un monitoraggio quotidiano compiuto da un gruppo di giornalisti e ricercatori italiani in collaborazione con l'agenzia di stampa Redattore Sociale. Oltre 100 le fonti ufficiali istituzionali e giornalistiche controllate ogni giorno dal primo gennaio scorso, più di 4.700 operazioni antidroga che hanno portato al sequestro di ingenti quantitativi di cocaina: una media di 14 importanti operazioni al giorno e di 2 tonnellate di cocaina intercettate quotidianamente in tutto il mondo. La raccolta dei dati di Narcoleaks avviene in modo minuzioso, senza tralasciare i dettagli di ogni sequestro per evitare doppie registrazioni e per cogliere le diverse dinamiche. Narcoleaks ha conteggiato unicamente i sequestri per i quali è certo l'alto grado di purezza della cocaina.

"We don't publish secrets. We collect evidence": non pubblichiamo segreti, ma raccogliamo prove. È questo il motto di Narcoleaks. Non commettiamo nessun tipo di infrazione, non sveliamo nessun segreto di Stato, non abbiamo mai neanche pensato di ottenere file top secret. La nostra forza è nell'evidenza e nella visione d'insieme che purtroppo manca per fenomeni come il traffico internazionale di cocaina. Troppo spesso i media internazionali si fidano ad occhi chiusi dei dati delle Istituzioni governative senza verificare quanto propongono nei loro report annuali. E' sgradevole, inoltre, sapere che all'interno dei grandi organismi investigativi e nelle grandi sessioni di discussione sulle politiche di contrasto al narcotraffico, ci sia una piena consapevolezza dei dati "sballati", ma che nessuno abbia il coraggio di farli emergere. Gli interessi sono enormi, i sistemi per occultare la realtà sono sofisticati ma, le bugie hanno le gambe corte e basta un errore per mandare all'aria anche la più collaudata missione spaziale.

Detto questo , al presidente degli Stati uniti d'America Barak Obama, al Segretario di Stato Hillary Clinton, e al direttore dell'Office of National Drug Control Policy, Gil Kerlikowske, chiediamo :

1. Come è possibile che la quantità di cocaina sequestrata sia superiore a quella prodotta secondo i vostri dati ufficiali?

2. Come è possibile che il Dipartimento di Stato affermi che nel mondo si producono 700 tonnellate di cocaina, quando la U.S. Guard Coast afferma che il solo traffico di cocaina dal Sud America agli Usa è di ben 771 tonnellate?

3. Come è possibile che diverse autorità americane siano in netta contraddizione tra di loro?

4. Perché si continua ad affermare che la produzione di cocaina colombiana è calata quando tutti i dati disponibili dicono il contrario?

5. Alla luce di queste contraddizioni, sono giustificati i miliardi di dollari spesi per finanziare il Plan Colombia?

 

7 dicembre

 

La politica della camorra, un voto cento euro. E spunta addirittura la scheda ballerina

L'operazione di ieri apre uno squarcio inquietante su anni di consultazioni in Casal di Principe. Qui tutto era sotto il controllo dei Casalesi. Che accumulavano preferenze con ogni metodo

Da una parte i ferrariani dall’altra i corviniani al centro Casal di Principe, il feudo da conquistare con ogni mezzo. Dall’ordinanza del gip Egle Pilla , che ha portato in carcere 52 persone, 5 ai domiciliari, emerge il sistema per rendere il voto inutile e truccato.

Le elezioni, è la fredda ricostruzione dell’ordinanza, da decenni sono controllate dal crimine che elegge suoi uomini con i sistemi più disparati. I corviniani fanno riferimento alla famiglia Corvino , da anni protagonista della politica a Casale, vicini a Nicola Cosentino , i ferrariani alla famiglia Ferraro con il capostipite Nicola sotto processo per camorra e ras dell’Udeur in terra casertana. Ma anche lo scontro tra famiglie è finto, chi vince alla fine è sempre la camorra. Lo confessa candidamente un pentito in riferimento alle comunali del 2007. Si sfidavano da un lato Cipriano Cristiano, appoggiato da Forza Italia e Alleanza Nazionale e dall’altro Sebastiano Ferraro (oggi consigliere provinciale), sostenuto da Udeur e Margherita. Nell’operazione di ieri sono stati entrambi arrestati, il collaboratore Luigi Grassia spiega nell’interrogatorio dell’aprile scorso: “ In tutta sincerità, che per noi del clan o vinceva Cipriano come poi ha vinto o vinceva Ferraro era sempre la stessa cosa, nel senso che chi comandava eravamo sempre noi e di politici di qualsiasi bandiera seguivano le nostre richieste, nel senso che eseguivano i nostri ordini specie in materia di appalti”.

Per condizionare il voto sia nel 2007 che nel 2010 ( al comune così come alla provincia) i politici al soldo del clan si inventano di tutto. Il primo strumento è la compravendita. Il racconto di testimoni e pentiti parla di un’Italia povera e umiliata come nel dopo guerra. I fratelli Corvino, figli d’arte il padre Gaetano già condannato aveva ospitato un summit di camorra, erano legatissimi a Nicola Schiavone , figlio di Sandokan. La politica nel nome dei padri. Antonio Corvino, Udc poi Pdl, da assessore e poi consigliere, forniva indicazione al clan in occasione di lavori edili o concessioni in modo da imporre i fornitori e tangente. Alle elezioni Antonio Corvino si comprava i voti con tariffe da 50 a 100 euro e Sebastiano Ferraro per tutta risposta alzava il prezzo. Ecco il racconto di Salvatore Caterino: “Ferraro Sebastiano che io ben conosco, proprio nel corso della campagna elettorale, mi disse che siccome lui sapeva per certo che Corvino Antonio offriva cento euro per ciascun voto, era disponibile ad offrirne lui stesso 150,00, a chi avesse votato lui invece che il Corvino”.

Stesse modalità nelle comunali del 2007 quando Corvino diventa assessore in quota Forza Italia e alle provinciali del 2010 quando Sebastiano Ferraro per l’Udeur varca la soglia del consiglio provinciale. Angelo Ferraro, fratello di Sebastiano, anche lui arrestato, invece, nell’ultima giunta comunale di Casale diventa addirittura assessore con delega ai beni confiscati.

Non solo soldi anche promesse di posti di lavoro, blocchetti di buoni pasto e ogni genere di mercanzie per comprare il consenso. Oltre i soldi c’era un altro sistema raffinato. In primis la scheda ballerina. Meccanismo semplice, l’organizzazione forniva al primo elettore pagato una scheda vidimata e firmata dagli scrutatori, ma già votata. Dopo averla infilata nell’urna doveva uscire con quella bianca e il giro poteva continuare all’infinito. A Casale di Principe durante le elezioni si compie un altro miracolo. Vanno a votare anche i testimoni di Geova che sono contrari così come malati gravi, disabili, persone da anni domiciliati nel Nord Italia che, in realtà, non hanno mai varcato la soglia del seggio. L’organizzazione monitora chi non vota per fede o per impossibilità fisica di malattia o lontananza, poi prepara la documentazione. Assolda persone che, tramite funzionari comunali compiacenti, ottengono un duplicato della tessera elettorale del soggetto non votante, infine si recano al seggio con una carta di identità falsa riportante le generalità dell’astensionista. Ma non solo. Dalle indagini risulta che alcune persone hanno votato sotto falso nome senza presentare neanche il documento di identità grazie al riconoscimento compiacente del presidente di seggio. Dati, infatti, che non sono riportati nella lista elettorale dove non appare neanche la firma dello scrutatore. Gli investigatori sono risaliti ad Arturo Cantiello, presidente di seggio della sezione incriminata, che copriva i falsi elettori. E’ un avvocato penalista che difende la famiglia Russo ed è un esponente locale del partito democratico che nell’occasione favoriva l’ascesa degli esponenti candidati con Udeur e Forza Italia. Dalle liste elettorali grazie a funzionari comunali compiacenti non erano stati cancellati neanche alcuni appartenenti al clan dei Casalesi pur avendo perso il diritto al voto. Per Casale di Principe suonano profetiche le parole di uno degli arrestati Demetrio Corvino che prima delle comunali del 2010 chiarì: “ Tanto anche se non vinciamo noi …. e non ci andiamo sul comune ….ma comandiamo sempre noi”.

 

Lombardia, la Regione rimborsa ai consiglieri anche i chilometri non percorsi

La legge regionale stabilisce che le percorrenze siano rimborsate arrotondando per eccesso al multiplo di 20 successivo. Se si percorrono 42 km al giorno, ad esempio, il rimborso spettante sarà su 60 km, al prezzo corrente della benzina. Un "trucchetto" che vale 800mila km in 5 anni, più di 300mila euro. E il rimborso spetta a chiunque, solo sulla base della sua residenza

In Lombardia, nell’indennità dei consiglieri regionali c’è anche il rimborso per il tragitto casa-lavoro. Ma la distanza viene arrotondata per eccesso, e a fine legislatura i chilometri in più bastano a fare venti volte il giro del mondo. È tutto in una legge regionale, eppure la maggior parte dei consiglieri non lo sa.

Non solo vitalizi. I costi della politica si annidano spesso in leggi e regolamenti sconosciuti agli stessi interessati. È il caso del rimborso per le spese di trasporto dei consiglieri regionali lombardi. Una delle voci che compongono il trattamento indennitario. A occuparsene è l’articolo 5 della legge regionale numero 17 del 1996, che dispone l’arrotondamento “per eccesso al multiplo di venti chilometri” della distanza tra il comune di residenza dichiarato dal consigliere e la sede della Regione. E sufficiente fare un esempio. I consiglieri residenti a Monza , secondo l’ufficio di presidenza del Consiglio regionale, tra andata e ritorno percorrono 42 chilometri. Ma grazie all’arrotondamento previsto dal regolamento, la Regione ne rimborsa sessanta . Diciotto in più. Per ogni chilometro, il trattamento indennitario paga un quarto di litro di benzina al prezzo corrente. Il rimborso totale è calcolato su diciotto presenze mensili. Così, al consigliere di Monza andrà un rimborso mensile di 305 euro per chilometri effettivamente percorsi, più altri 130 euro per l’arrotondamento.

Quanto avrà speso l’ente regionale a fine legislatura? Calcolati in base alle attuali residenze degli ottanta consiglieri lombardi, dopo cinque anni i chilometri rimborsati e mai percorsi sono più di 800mila . A farlo in macchina, si potrebbe raggiungere la luna e tornare per raccontarlo. Oppure, volendo rimanere con i piedi per terra, ce n’è per coprire venti volte l’equatore. Tutto questo costa più di 300mila euro. E mentre l’ufficio di presidenza arrotonda, c’è chi prende i mezzi pubblici, paga l’abbonamento, e incassa ugualmente il rimborso. Ad ammetterlo è la consigliera di Sel Chiara Cremonesi . Residente a Milano, è uno di quei consiglieri ‘a chilometri zero’ che con l’arrotondamento percepisce un rimborso di 278 euro, pari a 40 km. “Al lavoro ci vado in metropolitana”, racconta, “pagando da sempre l’abbonamento, che oggi costa circa trenta euro”. Chiara Cremonesi si è recentemente battuta in commissione Bilancio perché i tagli ai costi della politica fossero più stringenti, astenendosi dal voto finale, “perché il progetto di legge era insufficiente rispetto ai sacrifici richiesti ai cittadini di questi tempi”. Insomma, a lei basterebbe il rimborso del suo abbonamento? “Non serve, è una spesa che farei comunque”.

Conoscere esattamente i chilometri percorsi dal consiglio regionale lombardo è difficile, e non è detto che il rimborso del percorso casa-lavoro esaurisca le esigenze dei consigliere. Ma secondo Maurizio Zamponi , consigliere Idv residente a Cinisello Balsamo (21 km), è innanzitutto una questione di trasparenza. “Io non compilo nessuna richiesta di rimborso”, spiega, “tutto quello che facciamo è dichiarare la residenza all’inizio del nostro mandato. È evidente che c’è un’intero sistema da disboscare”. Un lavoro difficile, viste le resistenze incontrate in Consiglio da alcuni emendamenti alla legge sul taglio dei costi della politica approvata proprio in questi giorni. “Abbiamo proposto l’innalzamento dell’età pensionabile dei consiglieri a 65 anni, la non cumulabilità dei vitalizi con altre rendite da incarico pubblico”, racconta Zamponi, “ma l’aula ha respinto tutto”. E la stessa sorte è toccata agli emendamenti di Sel e del Pd. Insomma, in quella che il governatore Formigoni definisce “la più virtuosa tra le regioni”, la strada per eliminare i privilegi della cosiddetta Casta è ancora lunga. Chilometro più, chilometro meno
.

 

Perù, una rivolta in difesa della vita

'L'acqua è il nostro oro' è lo slogan delle popolazioni del nord del paese che hanno indetto uno sciopero indefinito contro il progetto di una miniera d'oro a cielo aperto che rovinerebbe l'ecosistema

scritto da Alessia Marucci

Il 24 novembre le organizzazioni ambientaliste, comunità contadine, autorità regionali e locali della regione peruviana di Cajamarca hanno indetto uno sciopero indefinito ed una mobilitazione pacifica permanente per ottenere la sospensione definitiva del progetto minerario Conga .

Non è la prima volta che la popolazione cajamarquina si trova a difendere il suo territorio violentemente segnato dalle attività del settore minerario le cui concessioni lo ricoprono per ben il 45,5 percento della superficie. Il progetto minerario Conga eseguito dalla compagnia Yanacocha , la più grande miniera d'oro dell'America (di proprietà della peruviana Buenaventura e della statunitense Newmont Mining ), è un investimento di 4 mila milioni di dollari, volto all'estrazione di oro e rame. Ubicato nel nord-est di Cajamarca, il progetto sconvolgerà un intero ecosistema di lagune alto-andine per un totale di 34 ettari di specchi d'acqua distrutti. Acqua per la vita, per l'agricoltura e l'allevamento, principali attività del territorio.

Questo è il primo grande conflitto che il presidente Ollanta Humala deve affrontare e, dalla sua gestione, si capirà finalmente la politica che nei prossimi anni di governo si adotterà per la gestione di eventi che ormai da tempo caratterizzano il Perù. E il fatto che abbia indetto lo stato di emergenza nazionale , inviando militari a placare la manifestazione la dice lunga. Dei 217 conflitti sociali attualmente presenti nel paese, la metà vengono definiti socio-ambientali e di questi il 70 percento è relazionato al settore minerario.

La dittatura di Fujimori diede il via libera alla svendita delle ricchezze del paese fino ad arrivare all'odierno 16 percento del territorio ricoperto da concessioni minerarie. Nessuno dei successivi presidenti ha cambiato la traiettoria, è stata semmai inasprita la criminalizzazione della protesta sociale delle comunità e dei leader che manifestano il dissenso. Secondo l'ultimo dossier dell'Osservatorio per la Protezione dei Difensori dei Diritti Umani, in Perù si continua infatti la tendenza a criminalizzare, minacciare e aggredire i difensori dei diritti ambientali e delle comunità indigene colpite dai progetti di sfruttamento delle risorse naturali, in particolare minerarie e idrocarburi.

Eppure, l'avvento di Humala faceva ben sperare . Il 7 settembre scorso è stata promulgata la legge di consulta previa che riprendeva quasi totalmente il testo proposto dalle parti sociali e approvato dal Congresso nel maggio 2010. Sono sotto esame adesso i regolamenti attuativi alla legge e dalle prime indiscrezioni si desta preoccupazione. Nel bozzetto di regolamento del Viceministro all'Intercultura non vi è traccia di un elemento fondamentale quale l'obbligo in seno allo Stato di raggiungere per determinati interventi il consenso delle popolazioni indigene , segnalato dalla giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti dell'Uomo e dall'articolo 16 della Convezione 169 dell'OIL.

Questo è il filo conduttore che unisce i casi di Conga, Tía Maria, Río Blanco e molti altri: progetti minerari autorizzati dalle istituzioni centrali di Lima ma che non godono di una "licenza sociale". La diretta conseguenza è la ferma opposizione delle organizzazioni locali, spesso riunite in "fronti per la difesa del territorio" vere e proprie reti nella quali confluiscono tutte le anime della lotta.

Nelle prime ore della protesta il governo ha risposto inviando un grande contingente di forze armate nella regione , da parte sua Yanacocha è stata accusata di armare bande di cittadini favorevoli alla costituzione della miniera. Ne risulta un altissimo livello di nervosismo, scaturito in violenti scontri che hanno lasciato 17 feriti. Il ricordo del tragico prologo allo sciopero delle popolazioni amazzoniche del giugno del 2009 a Bagua è ancora vivo: lì, tra manifestanti e forze armate morirono in 33.

Al terzo giorno di proteste in un comunicato la Buenaventura-Newmont ha dichiarato la sospensione del progetto . I manifestanti hanno risposto dicendo che, dato lo sciopero, le attività del progetto Conga erano già state paralizzate e che una sospensione non basta, ma è necessaria la cancellazione definitiva del progetto. Così lo sciopero va avanti. Altre critiche sono state mosse in quanto la nota è stato letta da un rappresentante di Yanacocha in presenza del primo ministro Salomón Lerner durante una conferenza stampa dal palazzo di Governo, rendendo pubblica l'interferenza dei poteri economici sul governo di tutti i peruviani.

Il presidente regionale Gregorio Santos in presidio in una delle quattro lagune minacciate, annuncia che se il presidente Humala non si pronuncerà sul caso, emetterà un'ordinanza che dichiari la zona riserva naturale.

L'eco della protesta è arrivato fino a Lima . Il viceministro alla gestione Ambientale, José de Echave ha lasciato il suo incarico per la mancanza nell'esecutivo di una politica di gestione dei conflitti socio-ambientali. In solidarietà con le popolazioni di Cajamarca, anche nella capitale sono state indette manifestazioni e presidi. In molte pagine web e blog si ospita la campagna per la cancellazione del progetto Conga ; un giovane attivista ha creato un disegno che riprende la morfologia che si crea nelle miniere a cielo aperto e ne ha ricavato una sorta di invito al turismo in Perù. Anche in altre regioni sono cominciate mobilitazioni, sia di solidarietà, sia per rivendicazioni analoghe, come nella regione di Apurímac , anch'essa violentemente deturpata dalle attività minerarie.

Ancora una volta si fa appello al non uso della violenza da parte dello stato e dei manifestanti affinché dal conflitto scaturiscano opportunità per cambiare il modello di sviluppo del paese basato da troppo tempo ormai sullo sfruttamento delle risorse naturali e la violazione dei diritti delle popolazioni indigene .

 

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