Scandalo Libor, le banche
pagheranno 5,6 mld di dollari
Gli istituti coinvolti sono Citi, Jp Morgan,
Barclays, Royal Bank of Scotland, BofA e Ubs. L'accusa è di aver manipolato a
proprio vantaggio le oscillazione del tasso di cambio
MILANO - Sei delle maggiori banche al mondo
pagheranno 5,6 miliardi di dollari per risolvere la disputa con le autorità
americane sulla manipolazione dei tassi di cambio. Quattro - Citicorp, JPMorgan,
Barclays, Royal Bank of Scotland - delle cinque banche si dichiarano anche
colpevoli di aver cospirato per manipolare il prezzo del dollaro e dell'euro. La
quinta banca, Ubs, ha ricevuto l'immunità per quanto riguarda le accuse
Antitrust, ma si dichiarerà colpevole per quanto riguarda le accuse relative a
manipolazioni del Libor (avrebbe violato i termini di un accordo precedente e
pagherà una multa aggiuntiva). A un sesto istituto, Bank of America, è stata poi
inflitta dalla Federal Reserve una multa da 205 milioni di dollari per
operazioni di trading sui cambi giudicate irregolari. Dopo le indiscrezioni dei
giorni scorsi, è arrivata la conferma. Secondo l'accusa, il 'Cartello' avrebbe
usato una chat room esclusiva e un linguaggio in codice per manipolare i cambi.
Per Citi la multa è di 925 milioni, per Jpm è da 550 milioni, per Barclays è da
650 milioni e per Rbs da 395 milioni. Ubs si dice colpevole di manipolazione del
Libor e verserà al dipartimento stesso 203 milioni. Sempre in connessione alle
indagini, la Federal reserve ha imposto multe da oltre 1,8 miliardi di dollari a
sei banche: per Ubs, Barclays, Citigroup e Jpm sono pari a 342 milioni di
dollari, per Rbs sono pari a 274 milioni e per Bank of America sono da 205
milioni. In aggiunta, Barclays ha raggiunto un accordo con il dipartimento dei
servizi finanziari dello stato di New York, la commodity futures trading
commission e la Financial conduct authority britannica per un'addizionale multa
combinata da 1,3 miliardi. Se si tengono in considerazione, spiega il
dipartimento di giustizia, i patteggimenti già annunciati con varie
agenzie americane e non, inclusi l'Office of the comptroller of the currency e
la Swiss financial market supervisory authority, le intese annunciate oggi
portano il totale delle multe e penalità pagate dalle 5 banche a quasi 9
miliardi di dollari.
14
maggio
Quando i figli dei potenti
si mettono nei guai
Ecco tutti i "delfini" che imbarazzano i padri.
C'è Verdini jr che toglie le ganasce alla sua auto, la famigerata bat-caverna di
Moratti e il leggendario 'Trota' Bossi con i suoi titoli di studio. E poi ci
sono quelli, tanti, che grazie al ruolo dei genitori ottengono poltrone
importanti e regali a cinque cifre.
Fonte: L'Espresso. Di Susanna Turco
C’è
da dire che almeno Tommaso Verdini, figlio del (già) plenipotenziario forzista
Denis, stavolta ha fatto proprio tutto da solo. L’altra sera a Firenze, ha
liberato il suo suv Mercedes in divieto di sosta dalle ganasce messe dai vigili,
le ha caricate in auto ed è ripartito allegro per la sua serata con gli amici.
La denuncia per furto aggravato, se l’è conquistata in piena e attiva autonomia.
Il che tutto sommato salta agli occhi: perché invece spesso, nella dolente e
vischiosa storia dei figli dei politici che affiorano agli onori delle cronache,
compare un che di passivo e di fatale. La prole, soprattutto nei racconti dei
genitori, pare a volte poco più che mera destinataria: di posti di lavoro, di
favori, di regali, di carriera politica, di preoccupazioni, oggetto in generale
dei pensieri altrui, siano di mamma e papà, o degli amici loro. Ma in ogni caso,
sempre meritevole di stare dove sta, ci mancherebbe.
Capolavoro di passività è il caso Lupi. Laureato al Politecnico di Milano con
110 e lode, Luca Lupi, figlio del ministro Maurizio, si vede per esempio
recapitare un Rolex da 13 mila euro. Glielo manda con tanti complimenti
l’ingegner Stefano Perotti, socio di Ercole Incalza, il capo della centrale
operativa delle grandi opere al ministero delle infrastrutture: insomma uno che
conosce papà. Così pure, due mesi dopo, Luca viene spedito, via Incalza, da
Perotti e infine dal genero di costui, Giorgio Mor, dal quale lavora per il
palazzo dell’Enel a San Donato Milanese, 1.300 euro netti al mese per un anno.
Ma insomma, lui si è laureato, è il padre che ha telefonato.
Perché i figli so’ ‘n piezz’ ‘e core, in nessun caso definibili “pirla”, come ha
fatto il papà del ribelle no-expò. Ma, prima ancora, sono oggetto di timori e
preoccupazioni. Studiano, sì, ma ce la faranno? Il genitore fa quel che può, e
del resto, se potente, per poco che faccia, fa molto. “Dico che quello oggi ha
fatto trent’anni”, si sfogava Angelo Balducci col costruttore Diego Anemone,
parlando del suo primogenito Filippo: “Io per carità non voglio nemmeno
confrontarmi con voi. Ma io dico che tu, a trent’anni, eri già capo di un
piccolo impero. Questo non c’ha manco un posto da usciere tanto per essere
chiari. Permetterai che uno è un po’ incazzato». Poi, se come ha sostenuto il
magistrato dell’accusa nel processo sulla cricca, Anemone si dà da fare per
aiutare il figlio di Balducci, che vuoi, vien da sé.
Lo stesso Tommaso Verdini, del resto, all’epoca fa finì sui giornali perché, a
margine dell’inchiesta sulla P4, venne fuori che usava l’imprenditore amico di
papà, Riccardo Fusi, come una sorta di agenzia di viaggi last minute. Peccato
veniale. Tommaso deve fare il test d’ingresso alla Bocconi? Chiama Fusi e lui
prenota subito all’Hotel Cusani di Milano. Invece di una stanza, al ragazzo ne
danno due: «Volevo sapere se anche quella è sul tuo conto». Figurarsi: «Mettile
sul mio conto». Stesso schema a Forte dei Marmi, dopo la maturità, sempre in
Versilia («siamo in otto»), a Milano prima di partire per Ibiza («sì anche il
garage è gratis»). Anche in questo caso Verdini junior mostra una certa
autonomia. Ma una volta è la mamma a chiamare: «Quell’ebete di mio figlio arriva
alla Malpensa alle undici e mezzo... ecco volevo mandarlo in albergo a Milano.
La suite, quella che hai dato a Denis».
Mio figlio, quell’ebete. Perché nella famosa storia delle colpe che ricadono, di
rado è davvero chiaro quali ricadano su chi: a volte tornano indietro, tipo
boomerang, da figlio a genitore, ma di solito è un condominio. Le colpe, o
diciamo le responsabilità, stanno in affido congiunto. Si rimpallano. Quando la
ministra Cancellieri, da Guardasigilli, fu chiamata a rispondere in Aula per
quelle telefonate di interessamento verso la figlia Ligresti, allora detenuta ma
amica di famiglia, ritagliò uno spazio per chiarire anche la posizione di suo
figlio Piergiorgio Peluso, bocconiano e banchiere dalla carriera brillante, che
aveva lavorato 12 mesi come direttore generale della Fonsai (ricevendone
peraltro oltre tre milioni di buonuscita): “Tengo a sottolineare che quando lui
ha avuto quell’incarico, io ero una tranquilla signora in pensione, che mai
avrebbe pensato di diventare ministro”, disse in Parlamento. La frase serviva a
chiarire che Piergiorgio non era là in quanto figlio di: è adesso che lui è
indagato per bancarotta proprio per il fallimento della Fonsai, si immagina
Cancellieri almeno sollevata di non essere più ministro. Sennò sai che titoli.
Sempre a proposito di rimpalli, c’è per esempio in risalto, adesso che Vincenzo
De Luca corre per la regione Campania, la simpatica tegola del suo primogenito
Piero, già componente dell’assemblea nazionale del Pd, che è indagato per
concorso in bancarotta fraudolenta nell’inchiesta sul fallimento del pastificio
Antonio Amato. Secondo i magistrati, De Luca junior, che fa l’avvocato, avrebbe
ricevuto 23mila euro da una immobiliare controllata dal pastificio, sotto forma
di biglietti aerei. Peraltro, secondo le dichiarazioni rese ai pm da Giuseppe
Amato, mentre il padre faceva il sindaco di Salerno, De Luca junior era
consulente legale, presso il pastificio, per una variante urbanistica da
approvare per trasformare l’area dell’ex stabilimento in un centro residenziale,
materia cioè che atteneva al comune. Vai a capire: De Luca senior comunque tira
dritto, come al solito.
E’ poi finita con un patteggiamento (sei mesi, convertiti in 49 mila euro di
multa), invece, la storia della Bat casa di Gabriele Moratti, esplosa quando
ancora sua madre Letizia faceva il sindaco di Milano. Gabriele – a quanto pare
senza i permessi necessari - aveva trasformato 447 metri quadri di laboratorio a
uso industriale, in una mega residenza avveniristica: si parlava di un bunker
sotterraneo cui si accedeva attraverso una botola motorizzata, un poligono di
tiro, una piscina, forni, sala fitness, vasca idromassaggio, bagno turco. Non è
vero niente, protestò Gabriele all’epoca: “E’ tutta una colossale montatura
usata contro mia madre. Noi siamo legati da un profondo e reciproco affetto, ma
io faccio la mia vita e rivendico la mia indipendenza''. Altrettanto fece poi
lei: “Mio figlio è indipendente, francamente non mi occupo delle questioni
tecniche relative alla sua casa, comunque ognuno si assumerà le sue
responsabilità”. Ad ogni buon conto, due consiglieri del Pd fecero recapitare
alla sindaca una maschera di Batman, e in ogni caso – anche se non per questo -
la sua carriera in politica finì. E ognuno si prese le sue responsabilità.
Ma insomma, il più delle volte, indistinguibili le responsabilità, la faccenda è
un impasto di meriti e familismo di potere, in una linea di continuità nella
quale è difficile, sia da dentro che da fuori, individuare un punto di frattura.
In un paese dove si trova lavoro per “segnalazione” nel 78 per cento dei casi
(dato Eurostat 2012), anche per chi, per politica o potere in genere è immerso
in un mondo nel quale nessun favore, nessun incarico è disinteressato anche
quando sia penalmente irrilevante, è più che altro una questione di gradi: a
volte la coincidenza spicca come un neon fosforescente, altre sbiadisce quasi
del tutto.
Quando la figlia dell’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero e dell’economista
Enrico Deaglio, Silvia, finì sui giornali in quanto professore associato nella
stessa università nella quale i genitori erano ordinari, e responsabile della
ricerca in una fondazione finanziata dalla Compagnia di San Paolo, di cui la
mamma era stata vicepresidente, esplosero illazioni. E, insieme, l’indignazione
della ministra: “Mia figlia ha lavorato duro e si è guadagnata tutto quel che
ha”. Quando Fabrizio Indaco, figlio di Manuela Repetti, compagna di Sandro
Bondi, fu assunto alla Direzione generale del cinema, proprio quando il forzista
– e, diciamo, patrigno - era ministro della Cultura, la mamma sbottò: “Ma
insomma in attesa di laurearsi dovrà pure guadagnare qualcosa”.
Questione di gradi, di sensibilità. Meno facile, per non dire peggio ancora se
il padre (o la madre) si mette in testa di far sì che il figlio segua le sue
orme. Su questo Renzo Bossi è caso di scuola, interessante al limite anche dal
punto di vista psicologico, oltreché giudiziario. Dopo aver fatto del suo
faticoso diploma un caso nazionale, infatti, Bossi pare si mise in testa di
farne “se non il mio delfino, almeno la trota”, affibbiandogli peraltro quella
condanna di soprannome che poi non s’è levato più. Renzo diventò consigliere
regionale in Lombardia ad appena 21 anni, e con ben 12 mila voti. Dovette
totalizzare in due anni, dal 2010 al 2012, quasi sedicimila euro di
rimborsi-spese che il magistrato ha poi definito “non inerenti” per chiarire al
padre che lui per la politica non era tagliato: caramelle, gomme da masticare,
spazzolino da denti, mojito, campari, negroni, patatine, Fonzies, barrette
ipocaloriche giornali, sigarette, un iPhone, auricolari, un computer, un libro
di Pansa. E’ stato rinviato a giudizio a fine aprile, insieme con altri 55
consiglieri del Pirellone. E’ in buona compagnia, insomma, ma non altrettanto
blasonata. Il figlio di Bossi resta lui.
Meglio è andata, alla fine, a Cristiano Di Pietro figlio di Antonio. Lui siede
ancora in consiglio regionale in Molise, dove è stato eletto al secondo mandato,
nella stessa tornata elettorale del 2013 nella quale suo padre è stato
eliminato. Prima della fine, l’assicurazione: “Non è un altro Trota, ha fatto la
gavetta, lui”, chiariva Antonio per difendersi dall’accusa di familismo. Certo
poi, anche Cristiano a un certo punto si mise nei guai: finì nell’indagine sulla
Global Service, per certe sue telefonate al provveditore alle opere pubbliche in
Campania e Molise, nelle quali pare chiedesse incarichi e consulenze per la sua
rete amicale. Ma la faccenda finì in un bicchier d’acqua, e lui, prima indagato,
fu archiviato. E chissà se magari adesso sarebbe disposto a fare staffetta col
padre: si appresta a far così Tommaso Barbato, che corre (col centrosinistra)
per il consiglio regionale campano dove per cinque anni (col centrodestra) è
stato seduto suo figlio, Francesco. Raro, ma talvolta accade anche questo.