24 febbraio

 

 

Il processo per le morti di amianto era prescritto ancora prima di iniziare. Cancellati tutti i risarcimenti alle famiglie delle vittime

Secondo la Cassazione, il processo torinese contro Schmideiny era nato morto: dal 1993 si sapeva che le polveri di amianto erano nocive e che i dirigenti dovevano bonificare. Quando ci fu il rinvio a giudizio nel 2009, i 15 anni di prescrizione erano già belli che passati...

(ANSA) - Il processo torinese per le morti da amianto era prescritto prima ancora del rinvio a giudizio dell'imprenditore svizzero Schmideiny: lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, del verdetto di prescrizione che lo scorso 19 novembre ha, tra l'altro, annullato i risarcimenti alle vittime.

 Ad avviso della Cassazione "a far data dall'agosto dell'anno 1993" era ormai acclarato l'effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell'anno, era stata "definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti". "E da tale data - prosegue il verdetto - a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti" per "la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005".

ETERNIT: CASSAZIONE, PRESCRIZIONE CANCELLA RISARCIMENTI

(ANSA) - "Per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di I grado", cadono "tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni". Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi del processo Eternit sulle morti da amianto.

 

Il governo svende 1500 caserme vuote. Ma paga 30 milioni per affittare i palazzi

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. A fronte di tanto patrimonio in eccesso, si spende un milione di euro l’anno per ospitare il "rappresentante del governo" nel prestigioso Palazzo Diotti. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi.

di Thomas Mackinson

Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per una superficie fondiaria equivalente a cento campi di calcio. E tuttavia, a fronte di tanto patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803 fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno uno fra i più prestigiosi del centro storico. Da 156 anni questo gioiello è il “Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la schioda. A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo. Città che vai, paradossi che trovi.

Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita (scarica) e lo si incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati (scarica), il paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anziché buttare i soldi in un affitto. Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.

Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga. Se un sindaco prova a sfrattare il prefetto fa subito notizia. Succede a Grosseto, dove il primo cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli Rosselli. Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto. L’epilogo è tutto da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2 di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino, Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.

Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le città. A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora alquanto modesti. Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobili ritenuti non necessari dai quali prevede di incassare 220 milioni di euro quest’anno e 100 nel 2016. L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese. Da allora sono partite girandole di tavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà. Ma quel che è certo è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città, ci si rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri e pubblici.

Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato premier ha premuto l’acceleratore. Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa. Ancora non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del Prefetto. Eh sì, perché la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876 l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini. Per le due locazioni lo Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15 caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali perché dichiarate di pregio storico e architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche certe dislocate nel cuore della città. Ma neppure questo basta a far scattare la scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.

Milano, si diceva. A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica “Mameli” nell’area nord del capoluogo. Insieme fanno una superficie fondiaria di 720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio. Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura? Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato. E così mentre la Difesa dismette, il Viminale spende. Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato. “Due mesi fa abbiamo dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede principale”, fanno sapere dalla Prefettura. A conferma del fatto che di spazio, forse, ce n’era in abbondanza. Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per quanti anni l’assegno è stato doppio.

Più paradossale ancora la situazione nella Capitale. Il 7 agosto 2014 è stato sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente. Ma sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni di euro l’anno. A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal 1873. Una partita di giro tra amministrazioni. Ma c’è anche l’Ufficio territoriale del governo di via Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e mezzo di euro. Perché non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia? L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno. Ma chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali? A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a 1,6 milioni.

Passiamo a Torino. Nel paniere delle vendite sono finite le caserme Cesare di Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica. A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi militari. Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano oltre 400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via del Carmine.

Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il caso Napoli. Nel capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno, lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica funzionale. Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato. Il Ministero dell’Interno, a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla. Nel 2014 ha pagato 1,3 milioni di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissima Piazza del Plebiscito che è una delle più grandi e belle d’Italia. Difficile, del resto, trovare una location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.

 

19 febbraio

 

I clienti di Veneto Banca: “Costretti a comprare azioni dell’Istituto per avere prestiti”

Non solo i prestiti agli amici e vip senza garanzie, o i conti sballati. C’è l’inchiesta per aggiotaggio: come fa una piccola Popolare a diventare la decima banca italiana? Si rivalutano di anno in anno le azioni. Poi si vendono allo sportello della banca, ai propri correntisti. Con il ricavato si pagano le acquisizioni...

Gianluca Paolucci per “la Stampa”

Un investimento coi fiocchi. Che non ha paragoni nel mondo bancario. Chi ha investito 100 euro in azioni Veneto Banca 10 anni fa, adesso ne avrebbe poco meno di 190. Avrebbe, perché Veneto Banca non è quotata e vendere quelle azioni non è facile.
Comunque, il risultato al momento è un’inchiesta che ipotizza il reato di aggiotaggio sul titolo dell’istituto. Indagine coordinata dalla procura di Treviso, separata da quella della procura di Roma, emersa martedì ma che prende spunto, anche in questo caso, dai risultati dell’ispezione di Bankitalia. E della faccenda si stanno occupando anche gli ispettori di Consob, da metà gennaio nella sede di Montebelluna.

Per capire come funzionava il gioco finito nel mirino delle procure, occorre ricostruire quanto è successo negli ultimi anni alla banca e alle sue azioni. Problema: come finanziare una forsennata campagna di acquisizioni che porta la piccola Popolare di Asolo e Montebelluna a diventare in un paio di lustri la decima banca italiana, con oltre 600 sportelli che vanno dal Veneto al Piemonte, dalle Marche alla Puglia e ramificazioni in Albania, Croazia, Romania e Moldavia?

Risposta: si rivalutano di anno in anno le azioni con delibera dell’assemblea. Poi si delibera un aumento di capitale e si vendono le azioni allo sportello della banca, ai propri correntisti. Con il ricavato si pagano le acquisizioni. Il meccanismo è semplice e consentito dalla normativa sulle popolari non quotate. A Veneto Banca però si erano fatti prendere la mano. Nel 2004 il prezzo è fissato a 21,25 euro. Un anno dopo il prezzo passa a 25 euro per azione e Veneto Banca compra la banca del Garda.

Passano tre anni durante i quali le acquisizioni vanno a gonfie vele. Veneto Banca entra nella torinese Bim e in Palladio, compra banche in Moldavia e in Croazia e si prende la Popolare di Intra. Nel maggio 2008, la solita perizia stabilisce che le azioni valgono 35,5 euro. Erano altri anni, certo. La finanza andava a gonfie vele, Lehman Brothers non era ancora fallita e «spread» era un termine per addetti ai lavori. Veneto Banca però cresce ancora: compra CariFabriano e Banca Apulia.

Nel giugno 2010 le azioni «valgono» 38,25 euro. Non male, se si considera che nello stesso periodo di tempo le borse sono crollate e l’indice delle 50 maggiori società europee (Stoxx50) ha perso più del 40%. Non spaventa neppure la crisi del debito: a settembre 2011, in piena tempesta, il prezzo è 40,25 euro. A maggio 2013 il picco: 40,75 euro. Poi arriva Bankitalia e guarda caso nel 2014 il prezzo cala per la prima volta dopo anni di corsa inarrestabile. Poco, a 39,5 euro. Ma è il pensiero che conta. Solo che nel frattempo vendere quelle azioni è diventato sempre più complicato.

Tra il 2013 e metà 2014 all’istituto erano pervenuti 388 reclami di soci. Già nel 2013 la Consob aveva sanzionato con 495 mila euro (ridotti a 307 mila dalla Corte d’Appello) Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalla clientela, in particolare su azioni e obbligazioni» emesse dall’istituto di Montebelluna.

 

18 febbraio

 

 

Non so l’italiano, come faccio? Il pasticcio delle traduzioni ad Expo

Niente traduzioni né cuffie, nemmeno i programmi tradotti: le difficoltà degli stranieri alla tavola rotonda «Idee di Expo» . La critica del console del Bangladesh

di Federica Cavadini

«Nessuna traduzione. Niente cuffie. Nulla. Nemmeno un programma con i titoli delle conferenze. Possibile? Torno a mani vuote, senza poter riferire nemmeno a grandi linee i contenuti di questa giornata». Rezina Ahmed è console generale del Bangladesh ed è vicecommissario per Expo del suo Paese, che parteciperà all’esposizione nel cluster del riso. Minuta, il timbro della voce basso, Rezina Ahmed, esprime pacata il suo stupore. «Sono stata invitata a questo evento, come altri ospiti internazionali che non parlano italiano, eppure arrivata qui scopro che non è previsto alcun tipo di servizio di interpretariato».

Racconta dell’arrivo all’accoglienza dell’Hangar Bicocca, con la sua assistente che un po’ di italiano lo parla: «Abbiamo chiesto dove trovare gli auricolari per seguire la traduzione simultanea, hanno risposto che questo servizio non è disponibile. Abbiamo chiesto almeno il programma della giornata in inglese, hanno risposto che era stato preparato soltanto in italiano. Materiali in inglese erano disponibili ai tavoli tematici, ai quali però noi non partecipiamo». Non ha rinunciato alla giornata pre Expo il console del Bangladesh, e alle due si è presentata puntuale alla conferenza su «Cooperazione internazionale ed Expo 2015». «In sala eravamo in tanti stranieri e siamo rimasti spiazzati, dispiaciuti, quando la presentazione è iniziata in italiano. Nessuno di noi ha potuto seguire», racconta ancora il console. «Sono molto riconoscente al viceministro (Lapo Pistelli, Affari esteri) che è stato così gentile da rivolgere anche in inglese almeno il suo saluto e l’invito a venire all’esposizione». Sorride, il console Ahmed, fa una piccola pausa e con delicatezza aggiunge: «Non vorrei fare una critica ma a Expo spero che sarà previsto un servizio di traduzione per i visitatori internazionali e che i materiali saranno disponibili anche in inglese».

 

Authority di vigilanza, l’esperto: “Si faccia trasparenza sui rapporti con i vigilati”

di Paolo Fior

Secondo Luca Enriques, Allen & Overy Professor of Corporate Law alla facoltà di Legge di Oxford, ex commissario Consob e tra i massimi esperti italiani di corporate governance, fugare i sospetti sull'effettiva indipendenza degli arbitri è il primo punto da mettere in agenda in un'ipotesi di revisione dei meccanismi di funzionamento e di governo delle Autorità indipendenti: "Un modello possibile al quale rifarsi è quello statunitense, dove i media possono richiedere l'accesso a tutto un insieme di documenti altrimenti non disponibili pubblicamente"

“Occorrerebbe rendere immediatamente trasparenti e controllabili i rapporti che intercorrono tra Authority e soggetti vigilati, perché oggi ci sono contatti anche quotidiani, formali e informali, di cui non si sa niente e che alimentano sospetti, talvolta legittimi, sull’operato delle Autorità e sulla loro effettiva terzietà e indipendenza”. A giudizio di Luca Enriques, Allen & Overy Professor of Corporate Law alla facoltà di Legge di Oxford, ex commissario Consob e tra i massimi esperti italiani di corporate governance, è questo il primo punto da mettere in agenda in un’ipotesi di revisione dei meccanismi di funzionamento e di governo delle Autorità indipendenti. Revisione che pare sempre più necessaria anche alla luce dei recenti episodi di cronaca finanziaria che hanno imposto all’attenzione generale limiti e storture delle Autorità di vigilanza. Una, l’Isvap, è stata addirittura soppressa d’imperio in seguito allo scandalo che ha travolto il suo presidente Giancarlo Giannini, accusato di non avere vigilato su Fondiaria Sai per quasi un decennio in cambio della promessa di una poltronissima all’Antitrust. Un’altra, la Consob, finita sotto i riflettori per la gestione personalistica del suo presidente Giuseppe Vegas che, da un lato, è finito sotto inchiesta per abuso d’ufficio per assunzioni e nomine fatte in spregio a ogni regola e, dall’altro, ha fatto scandalo per aver minato alla radice la già peraltro flebile percezione di indipendenza e di terzietà della Consob decidendo di dismettere i panni dell’arbitro nella vicenda Unipol-FonSai per scendere direttamente in campo al fianco di uno dei giocatori. E a gennaio Vegas ha deciso di nominare direttore generale della Consob proprio quell’Angelo Apponi che all’epoca dell’iter autorizzativo della fusione Unipol-Fonsai è stato pizzicato in più di un’occasione a intrattenere rapporti impropri con Mediobanca. Enriques non vuole entrare nel merito di queste vicende, ma ritiene che sia tempo di intervenire introducendo alcune modifiche alle leggi istitutive delle Autorità indipendenti per migliorarne la governance e assicurare il più possibile l’aderenza tra azione e fini istituzionali.

In un’audizione alla Camera il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ha invocato una regolamentazione organica delle Autorità indipendenti, portando come esempio “la giungla retributiva che c’è e che è inaccettabile”. Qual è il suo parere?
Ogni Authority è un animale diverso dall’altro, con le sue specificità, e non è detto che l’adozione di un modello unitario faccia funzionare meglio le cose. Sotto il profilo delle retribuzioni, poi, si pone il problema di riuscire ad attirare negli organismi di vigilanza gli elementi migliori, i più preparati, i più esperti se si vuole che l’Authority svolga i suoi compiti con competenza ed efficacia e questo implica delle differenze retributive anche rilevanti a seconda dei settori. Vi sono invece degli elementi comuni a tutte le Autorità indipendenti sui quali si potrebbe utilmente intervenire.

Quali ad esempio?
Da tempo sostengo che le Authorities dovrebbero avere una governance più simile a quella delle società per azioni. Attualmente i presidenti sono a nomina politica e con la politica hanno inevitabilmente stretti legami avendo per ruolo – almeno nel caso della Consob – il monopolio dei rapporti con l’esterno e il controllo dell’attività istruttoria. Se fosse invece l’Autorità stessa a eleggere tra i suoi componenti il presidente, ecco che si accentuerebbe l’indipendenza dalla politica.

La legge fissa dei requisiti piuttosto generici per le nomine. Ai fini di tutelare e rafforzare l’indipendenza delle Authorities non sarebbe il caso di mettere paletti più stringenti anche sul fronte delle incompatibilità?
La questione non si risolve rendendo più rigidi i requisiti, perché si riescono sempre ad aggirare in un modo o nell’altro. E’ un problema di cultura politica, di capacità di autolimitarsi e in questo anche la società civile ha ruolo importante: mostrandosi attenta ed esigente aiuta a fissare dei confini obiettivi che non possono essere oltrepassati senza temere conseguenze. Nelle nomine il problema è anche il grado di competenza che si mette in campo. Dovrebbe esserci un maggior rigore e invece negli ultimi anni in Italia siamo stati, per così dire, un po’ troppo “elastici”.

Oggi però non abbiamo la possibilità di revocare una nomina che si riveli palesemente inadeguata se non addirittura dannosa per l’istituzione stessa
E’ vero. D’altro canto la possibilità di un intervento esterno, dalla sfera politica, vanificherebbe l’indipendenza delle Autorità e dunque la loro stessa ragione d’essere. Per contro, una governance più simile a quella delle società per azioni permetterebbe di determinare oltre alle nomine anche dei meccanismi di revoca interni all’organismo stesso, permettendogli così di autotutelarsi.

Un aspetto che la vicenda Isvap-FonSai ha portato alla luce è il meccanismo delle porte girevoli: Giannini contava di passare all’Antitrust senza colpo ferire…
Il caso specifico, se provato, è un caso fuori dal mondo, ma in linea di principio non è del tutto assurdo che qualcuno passi da un’Authority all’altra. Se ci sono le competenze, una precedente esperienza può essere utile a fare meglio di altri. Per contro, quello delle poltrone è il gioco di società per eccellenza in certi ambienti romani alla cui influenza è molto difficile sottrarsi per qualunque governo. Se proprio non si riesce a porre un argine a questo tipo di logiche, ha forse senso mettere dei paletti. Anzitutto adottando sempre il metodo della pubblicità delle candidature e il ricorso a professionisti della selezione del personale. Darebbe un minimo di oggettività al processo.

Cosa rivedrebbe con maggiore urgenza nelle leggi istitutive delle Authorities?
Interverrei da subito sul tema dei rapporti tra controllore e controllati, imponendo che venga fatta totale trasparenza. Il fatto che questi rapporti ci siano e non ne venga data adeguata pubblicità alimenta un clima di sospetto che getta ombre sull’operato delle Autorità e sulla loro effettiva terzietà ed indipendenza. Un modello possibile al quale rifarsi è quello statunitense, dove i media possono richiedere l’accesso a tutto un insieme di documenti altrimenti non disponibili pubblicamente. E’ capitato ad esempio al segretario al Tesoro Timothy Geithner che dovette produrre le sue agende in cui erano registrati tutti i contatti e le telefonate avute con le banche durante la crisi.

 

 

9 febbraio

 

 

L'odio nero che viaggia su internet

Gli oltraggi al neopresidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del suo omaggio alle Fosse Ardeatine ripropongono la piaga del dilagante neofascismo online. Un fenomeno monitorato con attenzione e apprensione, perché come dimostrano le ricerche, sempre più spesso il proselitismo in rete si trasforma in mobilitazione sul territorio all'insegna di parole d'ordine xenofobe e antisemite.

L'inafferrabile galassia dei fascisti online

di CARMINE SAVIANO

ROMA - Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta ad entrare nel mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della Repubblica Italiana. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: "E' un partigiano, ho detto tutto", "ecco un altro mafioso ebreo". E gran parte di quelle offese provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani.

Sono in 134mila e si auto definiscono "Gruppo Fascista per la rinascita d'Italia". La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito Mussolini, le parole d'ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via, sin dove il vocabolario pseudo-nazionalista può spingersi. Sono nati nel 2010 e da queste parti, malgrado l'omaggio al Ventennio, non c'è nessuna forma di nostalgia. Anche gli scivolosi territori storiografici del revisionismo sono superati: si guarda al futuro, in un messianismo deformato e allucinato non si aspetta altro che "un nuovo capo", un "uomo forte", colui che sappia "restituirci l'onore": "Dux Mea Lux, quando tornerai?".

E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono solo l'ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un'idea basta cercare anche solo tra le "pagine amiche" che i Giovani Fascisti Italiani suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi Fedelissimi dell'Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.

Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero prefigurare l'apologia di fascismo? "Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all'odio o comunque contrari agli standard della nostra community", commenta un portavoce di Facebook Italia. Come se fosse possibile ascrivere alla categoria "gentilezze digitali" frasi del tipo: "gli zingari devono essere integrati nel cemento" o "i comunisti sono il cancro dell'umanità".

Ma quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti - come quello contenuto in "Web Nero", ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel 2013 - quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si passa al concreto: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto liquido, naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione delle Associazioni dei Partigiani d'Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma era il 2002. Oggi un numero certo non c'è.

C'è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d'identità: immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi, forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate, il doppio 8 che simboleggia le due H dell'Hail Hitler. La tigre di Evola, le parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell'antisemitismo.

In definitiva la questione diventa se la libertà d'espressione possa essere invocata per tutelare l'incitamento all'odio e alla discriminazione. Una questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su un terreno scivoloso "quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e parole che possono diventare armi rischiose", dice Carlo Blengino, avvocato, esperto proprio della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l'apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di tutti, visto il carattere della rete, che "possiamo trovare siti di frustrati che inneggiano al fascismo", continua Blengino, e che non vanno oltre il loro status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili comportamenti "un domani possono tornare a essere realmente pericolosi".

 

Le frasi shock che nessuno cancella

Su Greta e Vanessa. Daniela S.: "Vi abbiamo pagato il riscatto luride t*** Vergognatevi, spero di non incontrarvi mai. Altrimenti non so cosa sarei in grado di farvi".

Sull'elezione di Mattarella. M. N.: "Auguri per il tuo nuovo stipendio. Mi raccomando, ingrassa come un p***. Per il resto ci siamo noi!".

Su Mussolini: Simone P.: "Dux Mea Lux".

Sulla xenofobia: Giorgio G.: "Hanno queste smocciose che chiedono elemosina e mai nessuno dice nulla loro, ma attenzione, sono zingari, dobbiamo integrarli... io li integrerei nel cemento".

Sull'Islam: "Perché il fascismo deve essere bandito perché provoca pericolo e l'Islam no?"

Sulla globalizzazione: Mario P.: "Gli americani ci porteranno ben presto alla terza e definitiva guerra mondiale".

 

La difesa di Facebook: "Opinioni da rispettare"

di CARMINE SAVIANO

ROMA - Quali sono i criteri di valutazione? Perché non si interviene in automatico per cancellare quei contenuti che possono prefigurare l'apologia di fascismo? Quali sono i limiti della libertà d'espressione? Abbiamo chiesto a Facebook Italia di chiarire la propria posizione in merito. "Offriamo alle persone di tutto il mondo la possibilità di pubblicare contenuti personali, vedere il mondo attraverso gli occhi di altre persone, connettersi e condividere contenuti ovunque. Le conversazioni che si svolgono su Facebook e le opinioni espresse sulla piattaforma rispecchiano la diversità degli utenti", dice un portavoce dell'azienda.

In questo contesto, il lavoro principale che viene svolto è quello di "mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone". Qui le prime indicazioni sulla policy: "Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all'odio o comunque contrari agli standard della nostra community. Se da un lato infatti incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia". Discriminazioni che però non mancano sulle pagine legate alla diffusione dell'ideologia di estrema destra.

Ancora: "Siamo consapevoli del fatto che a volte le persone condividono contenuti e opinioni controverse su Facebook, così come fanno nelle proprie conversazioni quotidiane. Le nostre regole sono state create proprio per aiutare a mantenere un equilibrio tra la libertà di esprimersi, anche se alcune persone potrebbero considerarlo offensivo, e la salvaguardia di un ambiente rispettoso e sicuro". E il portavoce dell'azienda conclude così: "Facciamo forte affidamento sulle persone appartenenti alla community affinché ci dicano quando vedono qualcosa che non dovrebbe essere su Facebook".

 

"Fenomeno rilevante e non solo virtuale"

di CARMINE SAVIANO

ROMA - Un progetto di ricerca durato cinque anni. E che ha fornito quella che ancora oggi è l'indagine più accurata dell'intreccio tra rete ed estrema destra. Manuela Caiani, che lavora presso l'Institute for Advanced Studies di Vienna, insieme alla ricercatrice Linda Parenti, ha pubblicato "Web Nero" per le edizioni Il Mulino nel 2013. Dati, raffronti, il tentativo di comprendere come i militanti di destra utilizzano internet. E per capire quanto è profonda la tana nera dell'estrema destra italiana.

Professoressa Caiani, oltre centotrentamila iscrizioni alla pagina Facebook dei Giovani Fascisti Italiani. La impressiona questo numero?
"No. I social media sono la nuova frontiera di questi gruppi. Li utilizzano molto bene e sempre di più. I tentativi di mappare gli aderenti a pagine come quella indicata sono in corso, in ambito accademico, sin dal 2011. La volontà è quella di capire chi sono questi simpatizzanti. Di sicuro non si tratta solo di attivisti da poltrona: molti di loro passano anche all'offline, si impegnano in prima persona sui territori. Il punto è capire quanti, invece, non siano potenziali attivisti. Penso che almeno la metà degli aderenti non abbia una motivazione ideologica".

Come bisogna leggere questo fenomeno? Derubricarlo a "politicamente insignificante" oppure è necessario chiedersi se la diffusione di questi contenuti è pericolosa per il tessuto democratico?

"Non sono fenomeni politicamente irrilevanti. Basta guardare all'avanzata dei partiti di estrema destra in tutta Europa. Oramai si tratta di un trend elettorale chiaro a tutti. E di sicuro questi strumenti mediatici aiutano questi contenuti a diffondersi. La domanda è quanto il comportamento online influenzi i comportamenti offline. C'è da dire che molti attivisti ritengono che questi forum siano una seconda casa: li frequentano spesso, stabiliscono contatti, ma poi finisce lì".

Quanto è profonda la rete dell'estrema destra italiana?
"Il punto è che questi siti vengono chiusi di continuo, è difficile avere una mappa costantemente aggiornata. In altri paesi alcune leggi sono state trasferite subito all'online e l'apologia di fascismo è un reato applicato immediatamente anche in rete. Penso alla Germania e alla Spagna. In Italia la legge Mancino pone dei paletti precisi. E penso che il numero sia quello: un centinaio di associazioni attive in rete".

Il gruppo che più l'ha colpita?
"Casapound: hanno una strategia di acquisizione di temi di sinistra, vanno sul sociale, anche se il loro è un welfare sciovinista. Hanno la capacità di attrarre i cittadini con un discorso non nostalgico: del duce o del fascismo sembra che non gli importi nulla. E sono anche molto bravi dal punto di vista iconografico: a volte utilizzano anche simboli di sinistra".

La rete italiana è collegata con quelle di altri paesi?
"In media un terzo delle associazioni è legato ad altre sigle internazionali".

Ci potrebbe fornire l'identikit del militante di estrema destra?
"Negli studi elettorali c'è tutto un filone che guarda all'elettore di estrema destra. L'immagine di un cittadino scarsamente educato, abitante in periferia, con un basso salario, è un'immagine fasulla. Non si va a destra solo quando c'è la percezione di insicurezza o quando si subisce la crisi. Il votante di estrema destra è sempre più trasversale: intellettuali, classe media, operai. Basta guardare al Fronte Nazionale di Marine Le Pen".

Dal punto di vista normativo quali ritiene debbano essere i passi da compiere?
"E' necessario un adeguamento delle leggi all'online. Il problema è bilanciare principi fondanti di uno stato democratico. C'è da tutelare la libertà d'espressione. Penso agli Stati Uniti in cui questo principio è gerarchicamente quasi superiore a tutti gli altri. Per questo i nostri gruppi si muovono su server
Americani, perché lì è più difficile chiuderli”.

 

Da FN al Fronte Veneto, la mappa delle sigle

di CARMINE SAVIANO

ROMA - Se la valenza politica di internet è oramai accertata e accettata, il maggior interesse - e la questione ancora aperta - è comprendere come avviene il passaggio dalla partecipazione online all'impegno offline. In questo contesto i movimenti di estrema destra non fanno eccezione: la rete è soprattutto un modello organizzativo. Diffusione di materiali, proselitismo, l'incarnazione di una funzione di agenda collettiva per ampliare la partecipazione alle iniziative che vengono proposte. Ovviamente ci si riferisce a quei gruppi che hanno già una struttura interna: la capacità di mobilitazione dei gestori di una singola pagina Facebook è sempre imprevedibile.

Ecco alcuni casi italiani:
Forza Nuova. Proselitismo allo stato puro. Con tanto di vademecum in otto punti: dall'abrogazione delle "leggi abortiste" al blocco dell'immigrazione. Poi la messa al bando della massoneria e il ripristino del Concordato tra Stato e Chiesa del 1929. E le campagne per l'abrogazione della Legge Scelba, la normativa che ha instituito il reato di apologia del fascismo, e quella per eliminare "l'ideologia gender" dalle scuole. Presente anche una web radio. 130mila i like alla pagina Facebook.

CasaPound. I report sulle inaugurazioni di nuove sedi, i materiali per la giornata di commemorazione delle Foibe. La lotta per il mutuo sociale e quella per uscire dall'euro. Il nucleo originario, quello romano, oramai si è diffuso su tutto il territorio nazionale. Le sedi in Italia sono oltre cento. 112mila i like su Facebook.

Fronte Nazionale. Dal "decalogo" del movimento ai manifesti per la sovranità monetaria e territoriale. Il Fronte italiano fa della diffusione in rete dell'anti-europeismo una delle proprie ragion d'essere. Commenti su tutti (o quasi) i temi d'attualità. Sergio Mattarella definito come l'ennesimo "presidente atlantico". La presenza sui social è costante. Su Facebook quasi 8mila like.

Fascismo e Libertà. Vendita di articoli di propaganda, download dei materiali, elenco e contatti delle sede regionali. Il portale del movimento ospita anche articoli su Istria e le Foibe ed estratti ispirati al negazionismo in relazione alla Shoah.

Fuan. Azione universitaria. Insieme al Blocco Studentesco - rivolo di CasaPound - rappresenta l'estrema destra nel mondo degli studenti. Diffuse nelle maggiori città universitarie forniscono in rete un costante controcanto alle posizioni delle associazioni studentesche di sinistra.

Veneto Fronte Skinheads. Qui l'uso della rete è abbastanza didascalico: le opere e le gesta degli skinheads del Veneto dalla loro apparizione, negli anni '80, a oggi. Poi la diffusione dei loro comunicati. Tra gli altri quello intitolato Una, cento, mille Tor Sapienza.

Movimento Tradizionale Romano. Il versante culturale della destra estrema: tra culto della romanità e analisi dei "classici" del '900, da Evola a Pound. La diffusione dei materiali dei loro incontri e convegni è la principale attività online.

E nel mondo? L'attività di monitoraggio compiuta dagli studiosi è costante. Ancora in "Web Nero" vengono forniti alcuni numeri che riguardano oltre 500 organizzazioni. Cifre che possono illuminare il meccanismo del passaggio dall'online
all'offline. Il 23,7% delle organizzazioni offre in rete un calendario dei propri eventi. E il 10,8% suggerisce anche iniziative di movimenti che ritiene affini o amici. La pubblicizzazione delle proprie campagne politiche è compiuta nel 23,1% dei casi. Il 25,4% dei gruppi ha un archivio con i volantini e documenti relativi alle attività svolte. Il 4,7% organizza azioni di protesta in rete, come il mailbombing o il netstrike. E il 38,6% utilizza la rete per vendere merci.

 

3 febbraio

 

La Corte dei Conti boccia la nomina di Rosa De Pasquale a dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale della Toscana

La De Pasquale, ex parlamentare Pd non rieletta, è stato bocciata per mancanza di requisiti - Per l’incarico assegnato alla De Pasquale avevano presentato la propria candidatura 25 dirigenti di seconda fascia dei ruoli del Miur e 3 dirigenti di seconda fascia, che già avevano ricoperto in precedenza incarichi di direzione generale…

Giuseppe Alberto Falci per “il Fatto quotidiano” – a cura di Primo Di Nicola

Matteo Renzi ci ricasca. E la Corte dei conti lo boccia di nuovo, senza riguardo. Ancora una volta per via di una nomina, in una casella importante del sistema di potere di una regione che gli sta particolarmente a cuore, la Toscana. Una nomina che coinvolge stavolta non una persona qualsiasi, una sconosciuta, ma addirittura una ex parlamentare non rieletta alle ultime elezioni del 2013.

Rosa De PasqualePOLTRONA PER L’EX – La parlamentare in questione si chiama Rosa De Pasquale ed è stata deputata, naturalmente per il Partito democratico, fino al 2013. Alle ultime politiche è stata ricandidata dopo aver partecipato alle primarie del Pd, ma inserita al ventinovesimo posto della lista in Toscana, non ce l’ha fatta a riconquistare il seggio.

Da qui la nomina (per tre anni) il 4 settembre scorso, con apposito decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), a dirigente generale dell’Ufficio scolastico regionale della Toscana. Ebbene, pochi se ne sono accorti, ma il 30 dicembre, concedendo un clamoroso bis dopo la bocciatura di un’altra nomina fortemente voluta dal presidente del Consiglio, quella di Antonella Manzione, ex capo della polizia municipale di Firenze, alla guida del delicatissimo Dipartimento per gli affari giuridici legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi (coinvolto poi nel pasticcio del decreto fiscale Salva Berlusconi), la Sezione centrale di controllo di legittimità sugli atti del governo e delle amministrazioni pubbliche ha respinto ingloriosamente anche la De Pasquale.

FACCIAMO MIUR - Inutilmente, il ministero dell’Università e della Ricerca scientifica (Miur) ha fatto appello alla sua «comprovata qualificazione professionale, in particolar modo in materia di contenzioso del personale della scuola, evidenziando approfondite conoscenze della legislazione in materia di istruzione».

Anche la circostanza che la «dott.ssa De Pasquale è abilitata all’esercizio della professione forense, avendo, tra l’altro, svolto la pratica legale presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze» è servita a poco.

Così come le altre buone ragioni addotte a suo favore: per esempio, il fatto che è stata dirigente «dell’Ufficio IX della Direzione generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana, con reggenza dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Firenze»; la «conoscenza delle peculiarità della Regione», così come non ha giovato il fatto che la De Pasquale «ha svolto dal 2008 a1 2013 il proprio mandato parlamentare presso la VII Commissione Permanente della Camera dei deputati – Cultura, Scienza e Istruzione».

Un titolo che il Miur richiama per sottolineare come «anche l’esperienza di natura politica a così elevati livelli istituzionali in materia di istruzione, seppur non direttamente attinente al conferimento dell’incarico in oggetto, offra garanzie nella gestione dei rapporti istituzionali di alto profilo con la Regione Toscana».

SCURE DEI MAGISTRATI – Tutto inutile. La Corte dei conti si è rivelata sorda a tutte le motivazioni portate a sostegno della nomina all’importante incarico. «La pur nutrita serie di argomentazioni articolate dal Miur», spiega il collegio, «non dà evidenza di quell’elemento di aggiuntività rispetto alle funzioni istituzionali e/o ordinarie» richiesto «quale presupposto per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale a soggetto esterno ai relativi ruoli».

Possibilità che, sottolineano i magistrati contabili, la legge consente «solo nell’ipotesi in cui tale qualificazione non sia rinvenibile nell’ambito del personale dirigenziale dell’amministrazione» anche per «ragioni di contenimento della spesa pubblica». Per l’incarico assegnato alla De Pasquale «hanno presentato la propria candidatura 25 dirigenti di seconda fascia dei ruoli del Miur e 3 dirigenti di seconda fascia, che già avevano ricoperto in precedenza incarichi di direzione generale».

Ma «ritenendo la conoscenza delle peculiarità della Regione requisito necessario per l’assolvimento dell’incarico» vengono prese in considerazione solo le domande «dei dirigenti già in servizio sul territorio toscano o con pregresse esperienze di servizio in Toscana».

PROCEDURA VIZIATA – E così, mentre nove candidati vengono nominati ad altri incarichi dirigenziali generali, la rosa degli aspiranti si riduce drasticamente «ad un unico candidato» che difetta però di «competenza specifica sulle materie di gestione del contenzioso del personale della scuola».

A questo punto non resta che attingere all’esterno e spunta il nome della De Pasquale. Per effetto di una procedura valutativa «promiscua», cioè rivolta contemporaneamente «ai dirigenti interni e all’esterno», che «non appare in linea con il dettato» normativo. Motivi per i quali la Corte dei conti non ha potuto fare altro che ricusare «il visto e la conseguente registrazione del provvedimento» di nomina.

 

‘Ndrangheta Emilia, amianto nelle scuole ricostruite dopo il terremoto del 2012

Secondo l'inchiesta Aemilia che ha portato in carcere 117 persone, la ditta Bianchini Costruzioni ha utilizzato il materiale in capannoni, caserme dei pompieri, campi di accoglienza per gli sfollati. A rivelarlo è lo stesso titolare dell'azienda, ora in carcere, durante una conversazione intercettata.

di David Marceddu

Scuole, capannoni, caserme dei pompieri, campi di accoglienza per gli sfollati del terremoto. Nei cantieri della ricostruzione dopo il sisma del 2012 dove è passata la ditta emiliana Bianchini Costruzioni, non c’era solo la ’ndrangheta, ma spesso anche l’amianto. Miscelato assieme alla terra per farne materiale da pavimentazione così da trarne, secondo i pm, “un ingiusto profitto”. E’ questa l’accusa che emerge dalle carte della maxi inchiesta sulle cosche in Emilia, culminata il 28 gennaio con l’arresto di 117 persone, molte delle quali indagate per associazione mafiosa, altre per concorso esterno o altri reati tra i quali anche quelli contro l’ambiente.

L’occasione del sisma per fare affari del resto era ghiotta. Le scuole in particolare: a luglio 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani aveva stanziato 56 milioni di euro per costruire entro settembre, in tempo da record, edifici scolastici temporanei al posto di quelli inagibili. La ditta di San Felice sul Panaro, il cui capo Augusto Bianchini è ora in carcere con l’accusa, tra le altre, di concorso esterno in associazione mafiosa, raccoglie una serie di subappalti. A Reggiolo per esempio prende lavori per 140 mila euro per il cortile della scuola “Carducci”. Mesi dopo però, il 9 novembre 2012, i Carabinieri intercettano una conversazione all’interno dell’auto di Bianchini. Con lui c’è Antonio Vignali, un consulente ambientale della ditta, e i due parlano dell’eventualità che i funzionari dell’Arpa (l’agenzia regionale per l’ambiente) possano trovare la sostanza killer nel giardino della scuola di Reggiolo. Bianchini dice di “esserne certo” e teme che i controlli vengano poi estesi a tutte le altre scuole dove la sua ditta ha lavorato e portato la terra, con i relativi costi di bonifica che questo avrebbe comportato.

Previsione azzeccata, visto che poco dopo la Bianchini dovrà bonificare quella e altre scuole: infatti l’amianto viene trovato fuori da una scuola di Finale Emilia. E non solo. Il 24 novembre 2012 Bianchini commenta con sua moglie i risultati dei controlli in due cortili scolastici di Mirandola e di Concordia sulla Secchia. “Siamo rovinati”, replica lei. Peraltro in alcuni dei cantieri di quelle scuole la manovalanza utilizzata dalla Bianchini era stata assoldata direttamente da un uomo – secondo gli inquirenti – della ’ndrangheta, Michele Bolognino. Si tratta di uno dei “promotori” della associazione a delinquere e in contatto diretto con Bianchini, come spiegato nelle carte della maxi inchiesta del procuratore Roberto Alfonso e del sostituto Marco Mescolini della Dda di Bologna.

L’amianto in quei mesi è un vero e proprio assillo per la Bianchini, che ha appalti in tutto il cratere. La Ausl trova tracce di amianto nella terra usata per pavimentare il campo di accoglienza Trento di San Felice sul Panaro e vicino al campo di accoglienza di Massa Finalese. Sempre a San Felice, la sostanza viene trovata anche vicino alla caserma dei Vigili del fuoco e nel piazzale dell’area provvisoria, denominata Piazza Italia, in cui il Comune aveva previsto andassero i commercianti con i loro negozi. Ancora ne viene trovato nel deposito della stessa Bianchini Costruzioni, senza l’autorizzazione per lo stoccaggio.

Il 18 ottobre 2012, nell’area della ditta Phoenix dove lavora sempre la Bianchini Costruzioni, l’Arpa va a fare dei prelievi sul terreno. Il giorno dopo l’ispezione, il 19 ottobre, Augusto Bianchini corre ai ripari e chiama Lauro Alleluia. Quest’ultimo è uomo di fiducia di Michele Bolognino. Bianchini chiede ad Alleluia di gettare sul terreno 3 centimetri di magrone, una sorta di calcestruzzo magro. Obiettivo, secondo gli inquirenti, è quello ostacolare i successivi controlli che sarebbero arrivati dall’Arpa. Un’operazione riuscita quella di Bianchini, secondo il gip, visto che pochi giorni dopo, i tecnici dell’Arpa tornano. I campioni prelevati il 18 ottobre erano risultati positivi alla presenza di amianto, ma ora i tecnici Arpa non possono fare nuovi prelievi: “L’area interessata risultava ricoperta da materiale fine pressato”. Il magrone aveva funzionato e l’operaio Alleluia, secondo il gip, riscuote addirittura da Bianchini (tramite Bolognino) un ‘premio’ di 200 ore per il lavoro di ‘copertura’ svolto.

Il 24 novembre 2012 Augusto Bianchini e la moglie vengono intercettati. Lei sostiene che per la questione dell’amianto si trovano “in una bruttissima situazione”. La donna – si legge nell’ordinanza del gip Alberto Ziroldi – rinfaccia al marito “che dopo il terremoto per accaparrarsi il maggior numero di commesse, hanno osato di più, pur essendo consapevoli che con il fibrocemento il rischio sarebbe elevato, soprattutto per loro che si trovavano già sotto i riflettori”. Pochi mesi dopo la Bianchini Costruzioni verrà esclusa dai lavori per il post terremoto, dopo che il prefetto l’avrà cancellata dalla white list, l’elenco delle ditte immuni da possibili infiltrazioni mafiose.

La lobby del randagismo

Uno studio svela che da una cagna abbandonata in sette anni si possono ricavare ben 67mila cuccioli. La soluzione per sconfiggere il sovraffollamento di cani ci sarebbe. E' semplice, efficace ed è prevista dalla legge: la sterilizzazione degli animali. Ma né i Comuni né le Asl l'hanno applicata. Si preferisce creare migliaia di canili che hanno un costo enorme per la comunità, non risolvono il problema e finiscono per aggravarlo. In nome del denaro che favorisce un po' tutti, dal pubblico al privato, passando per le pseudoassociazioni intitolate genericamente "amici degli animali". Un dossier denuncia il malaffare e svela chi e come ci guadagna.

Così funziona "il sistema"

di MARGHERITA D'AMICO

ROMA - Qualcuno sa spiegarci perché il randagismo seguiti a essere una piaga della società contemporanea? Come una malattia invasiva si rigenera da sé, eppure la soluzione è talmente ovvia: contenere decisamente le nascite. Invece, la maggior parte dei paesi sterilizza senza convinzione, e si affronta piuttosto il problema uccidendo i milioni di animali in esubero. Camere a gas dal Giappone agli Usa (anche il principale canile municipale di New York è contestato per le iniezioni letali a 72 ore dall'ingresso, in aggiunta al sospetto che parecchi esemplari spariscano), e ancora soppressioni in quasi tutta l'Europa, dalla Spagna alla Svizzera; stragi sommarie per mondare le strade di Romania e Ucraina. La durezza tuttavia non paga: di animali vaganti che seguitano a moltiplicarsi è ancora pieno il mondo.

Una politica diversa la intraprende ventiquattro anni fa l'Italia con una legge quadro civile e rara, la 281/91 , che vieta di sopprimere i randagi e pure di destinarli alla vivisezione. La missione possibile è debellare il randagismo attraverso sterilizzazioni a cura delle Asl, nonché educazione dei proprietari alla medesima pratica. Ma la norma è subito disattesa al punto di favorire incontrollabili movimentazioni di animali, battaglie feroci per ottenere la loro amministrazione diretta, un sistema lucrativo e corrotto dove, oggi più che mai, l'ultimo aspetto considerato è il benessere dei quattrozampe.

Anche da noi, dunque, per ogni cane o gatto senzatetto che trovi casa ne nascono altri cento, mille. Uno studio dell'americana Doris Day Animal League stabilisce che un cane femmina vagante e non sterilizzato sia soggetto a una media di due parti l'anno, otto cuccioli ogni volta di cui almeno quattro femmine, se non di più, che in cinque anni portano a 4.372 cani, pronti, in sette, a diventare 67mila. Ma nel frattempo, anziché agire di conseguenza, Comuni e Asl (responsabili e garanti legali dei randagi) rivaleggiano per sbarazzarsene, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia si prospetti. Non vanno incontro a epurazioni ufficiali di massa, i nostri animali, ma a crudeltà, traffici, movimentazioni e lauti interessi che rischiano di far rimpiangere non sia così.

La lotta ad accaparrarsi la gestione di canili e rifugi in convenzione, finanziati con fondi pubblici, è senza quartiere, e c'è chi oggi denuncia vizi nelle gare d'appalto. I soldi sono parecchi, stanziati perlopiù dalle amministrazioni locali: fino a pochi anni fa comunità montane, unioni dei comuni e associazioni protezionistiche ricevevano cifre importanti anche dal ministero della Salute (nel triennio 91-93 stanziava cinque miliardi di lire, trasformati in cinque milioni di euro fra il 2005 e il 2010) nel 2014 ridotte al simbolico importo globale di trecentomila euro.

Ridotta ai semplici materiali - bisturi, filo e anestetico - la sterilizzazione di un animale può costare 20-25 euro e garantisce che esso non si riproduca mai più. Perché, allora, non investire decisamente i denari in tale direzione? Impossibile che cani e gatti si estinguano del tutto arrecandoci un dispiacere, e si potrebbe così eliminare la loro condanna a una vita grama e, in parecchi casi, a morte ancor più atroce.

I rapporti zoomafie della Lav-Lega antivivisezione sostengono che il randagismo frutti un giro di 500 milioni di euro l'anno. Di sicuro non c'è Comune italiano che non attinga alle proprie casse per la gestione, di solito indiretta, dei propri animali vaganti. "I Comuni rimangono responsabili degli animali, anche quando trasferiti in un'altra regione. Sono pertanto obbligati a provvedere a regolari controlli, sia per verificare le condizioni di mantenimento e il rispetto delle condizioni previste dal capitolato d'appalto, che per sincerarsi dell'effettiva esistenza in vita degli animali all'interno delle strutture onde evitare di continuare a pagare con soldi pubblici le rette di mantenimento", ha chiarito Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, in una recente intervista a Repubblica, mentre Piera Rosati, presidente della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, considera: "I canili debbono essere costruiti dai Comuni, alle associazioni il ruolo di valore aggiunto a garanzia degli animali. Noi, d'abitudine, gestiamo strutture in convenzione con i comuni, ma tante nostre sezioni hanno rifugi di proprietà, mandate avanti con donazioni e sforzi autonomi".

Per chi non si ponga scrupoli, il bene in gioco che frutta a più livelli è appunto il randagio, quello che in teoria nessuno vuole: conteso, sequestrato, scambiato, sballottato da una regione all'altra e oltrefrontiera, a opera di innumerevoli parti in causa. Tutti si dichiarano votati alla sua salvezza, ma è arduo districarsi fra sincerità, ingenuità, competenze, malafede. Un marasma, e le istituzioni alimentano le tentazioni peggiori. Non sono pochi i comuni che, invece di premiare l'adottante con visite veterinarie gratuite o forniture di mangimi, stanziano una tantum (400-500 euro) devolute talvolta nemmeno al cittadino che accoglie l'animale, ma all'associazione mediatrice.

Grazie a volontari eccezionali e a chi opera correttamente nel settore, senz'altro nel nostro Paese migliaia di animali che senza colpa seguitano a nascere trovano affettuose soluzioni, ma di tantissimi altri, troppi, si perdono per sempre le tracce. Partono dai rifugi, vengono accalappiati per la strada, rubati nelle abitazioni, scambiati sul web, trasferiti in massa verso adozioni fuori regione o all'estero, simili a buchi neri. D'altronde, come verificare la sorte di tutti? Intanto a gestire i canili - miglior bacino di raccolta di questa merce vivente - sono, in conflittuale alternanza, associazioni, sedicenti tali e privati: gli uni accusano gli altri, troppo spesso dimentichi della ragion prima di cui vogliono essere arbitri: la tutela degli animali.

Canili, ecco il dossier-denuncia

di MARGHERITA D'AMICO

ROMA - "A dispetto di una buona legge, dopo vent'anni di sovvenzioni al randagismo, ci ritroviamo in un sistema equivoco e confuso che non garantisce nessuno, tantomeno animali e gli autentici volontari. Bisogna lavorare in direzione dell'abolizione dei canili così come sono intesi oggi e bisogna incominciare con il punire abusi e disonestà, chiunque ne commetta". Michele Visone, presidente di Assocanili, Associazione nazionale gestori strutture di ricezione di animali domestici, ha consegnato alle autorità giudiziarie un dossier fatto di denunce e documenti riguardo le gare per l'assegnazione di gestioni dei randagi in convenzione con i comuni.

Stando al fascicolo, si verificano rilevanti leggerezze nello scambio fra amministrazioni e assegnatari delle convenzioni pubblich, siano essi privati o stimate associazioni protezionistiche. Corsie preferenziali, promettenti appalti tradirebbero gli animali, subordinando i loro interessi alla corsa al finanziamento. I casi sono parecchi, individuati fra le realtà locali, visto che le regioni recepiscono la legge nazionale sul randagismo 281/91 e i comuni dirimono la questione sul territorio. "In Toscana, per esempio, l'Enpa conta su numerosissime gestioni degli animali ben sovvenzionate dal pubblico", dice Visone. "L'Enpa di Pistoia, presieduta da un vigile sanitario della locale Asl3 e componente della Commissione regionale, ha con dodici comuni un appalto da centinaia di migliaia di euro, elargiti previo affidamento diretto. In tal modo infatti, nel 2010, il Comune di Pistoia assegnò all'Enpa il servizio di mantenimento dei cani randagi e l'accudimento del canile sanitario, per un importo complessivo di circa 600mila euro valido tre anni, salvo rivalutazione Istat. Ma in ordine alla cifra elevata, l'affidamento diretto non è consentito dalla legge 163/2006 (che prevede un tetto di 40mila euro, mentre sopra i 200mila la gara assume rilevanza europea) e dalla Direttiva UE del 2014 che regolamenta la certezza giuridica nel settore e l'assicurazione di un'effettiva concorrenza e condizioni di parità tra gli operatori economici".

Numero di canili sanitari, 2013
17.171 ** N° totale di cani presenti al 1 gennaio 2013
97.859 * N° totale di cani entrati nel 2013
23.264 ** N° totale di cani trasferiti dal canile sanitario al canile rifugio
nel corso del 2013
29.163 ** N° totale di cani usciti dal canile sanitario e restituiti al proprietario
nel corso del 2013
21.525 ** N° totale di cani usciti dal canile sanitario e adottatati da privati
nel corso del 2013
378 ** N° totale di cani nati nel canile sanitario nel corso del 2013
5.878 ** N° totale di cani deceduti nel canile sanitario nel corso del 2013
15.757 ** N° totale di cani presenti al 31 dicembre 2013
* I dati sono stati forniti da 21 Regioni e Provincie Autonome
** I dati sono stati forniti da 17 Regioni e Provincie Autonome

Come spiegano dal Comune di Pistoia, l'appalto coinvolge due canili adiacenti: "Il canile sanitario, gestito per tutti i comuni coinvolti da Enpa, e il canile rifugio di proprietà della stessa associazione". In questi vasi comunicanti confluiscono i cani accalappiati in ulteriori comuni fra cui Scandicci, che delibera nel 2012 lo stanziamento di 10.450 euro soltanto per "visita veterinaria d'ingresso, eventuale tolettatura e trasporto" di 14 cani in arrivo dall'Allevamento del Pratesi, distante pochi chilometri. Mentre il Comune di Fucecchio, che peraltro non ha canile municipale, a inizio 2014 suggella una convenzione sempre con Enpa, in cui si stabilisce (come nel caso di Scandicci) una retta di 5 euro al giorno per il mantenimento di ciascun cane, in aggiunta a 220 cadauno all'entrata, salvo conguaglio, per prestazioni veterinarie, nonché una somma forfettaria qualora vi sia penuria di animali: "300 euro mensili per tutti i giorni in cui il numero di cani è pari a 0", 200 in presenza di un solo cane, 120 quando gli esemplari sono due. "E' per risparmiare" chiariscono dal Comune di Fucecchio: "Negli anni precedenti la convenzione era con altri, e spendevamo molto di più".

Numero di canili rifugio, 2013
91.799 ** N° totale di cani presenti al 1 gennaio 2013
40.099 ** N° totale di cani entrati nel 2013
25.507 ** N° totale di cani dati in adozione a privati nel corso del 2013
279 ** N° totale di cani nati nel canile rifugio nel corso del 2013
13.868 ** N° totale di cani deceduti nel canile rifugio nel corso del 2013
91.437 ** N° totale di cani presenti al 31 dicembre 2013
** I dati sono stati forniti da 17 Regioni e Provincie Autonome

"La no profit Amici a Quattro Zampe di Pontedera ha invece stretto una quantità di convenzioni fra le giunte della provincia di Pisa. E' recente l'aggiudicazione dell'appalto dei cani dei dieci comuni dell'Unione Valdera per circa 170mila euro" segnala ancora Visone "ma la struttura di proprietà della suddetta associazione è autorizzata per circa 40 posti, quando il numero dei cani previsti si aggira sugli 80". Secondo il dossier, anche il Comune di Montecatini, aggiudicata la gara di accalappiamento all'associazione Amici degli Animali, avrebbe omesso di verificare che fra gli scopi dell'assegnataria mancava l'attività oggetto di gara".

"La legge regionale della Toscana indica senza dubbio che la gestione dei canili pubblici va assegnata preferibilmente ad associazioni d'impronta protezionistica, ma spesso, in mancanza di strutture municipali (soprattutto al Sud) la gara assume un connotato diverso e si svolge solo per il servizio di mantenimento dei randagi che non rientra in tale privilegio" prosegue Visone. "E ora la Corte Costituzionale, a seguito del ricorso - perso - di un gestore privato al Tar della Puglia, si è storicamente pronunciata esprimendo dubbi sulla legittimità della normativa rispetto a tale vantaggio".

Passiamo alla Puglia, allora; una regione fra le peggiori, quanto a colpevole mala gestione del randagismo, teatro di alcuni paradossi. "Nove anni fa l'associazione La Nuova Lara ottiene in appalto la gestione del canile sanitario di Lecce. Ma nel 2013 denuncia in Procura il sovraffollamento della struttura medesima (benché municipale) assicurandosi, attraverso una procedura negoziata, l'affidamento del servizio di trasferimento di ricovero, custodia e mantenimento dei cani randagi per il Comune di Lecce, che prevede il trasloco di 160 esemplari nel proprio rifugio privato, appena aperto". Al punto 5 il bando recita: "Valore dell'appalto, per tre anni, pari a 963.600 euro per 400 cani". Ribatte Florana Catanzaro, vice presidente de La Nuova Lara: "Più volte e da molti anni la nostra associazione e gli stessi servizi veterinari avevano segnalato all'amministrazione comunale lo stato di assoluto degrado del canile sanitario e le gravi carenze strutturali, non ricevendo mai alcuna risposta".

C'è poi chi, col supporto istituzionale, rinasce dalle proprie ceneri. Vedi il gestore del canile lager di Marigliano (Napoli) sequestrato nel 2010. Oltre a circa trecento animali maltrattati e sofferenti, furono ritrovati corpi seppelliti che presentavano tagli sul collo, per probabile asportazione del microchip. Ma la Asl non revocò mai l'autorizzazione sanitaria alla struttura, consentendo così al titolare di partecipare, qualche anno dopo, alla gara di appalto per i randagi del Comune di Pompei, affidatagli in base a un considerevole ribasso. "Seppur reclamato da innumerevoli petizioni e proteste, il trasferimento degli sfortunati ospiti di Marigliano non ha ancora avuto luogo" riferisce Visone "e ci risulta che l'avvocato del gestore del canile, presidente dell'associazione Cani Felici Onlus, sia la moglie del veterinario della Asl di Marigliano, competente per il canile in questione. Il gestore ha poi realizzato un'altra struttura, La Sfinge, nel vicino comune di Brusciano, di competenza della medesima Asl. Fra le varie anomalie abbiamo appreso, nel far richiesta di accesso agli atti, che misteriosi ladri avrebbero rubato i registri di protocollo nella sede della Asl di Marigliano. A oggi, intanto, La Sfinge ha acquisito appalti per circa 900 cani, superando di gran lunga la propria autorizzazione di ricettività".

In generale, l'assenza dei necessari requisiti fra i partecipanti ai bandi di gara sarebbe molto frequente: "Non a caso associazioni e gestori privati pugliesi si sono riuniti nel consorzio Cpa completandosi a vicenda con scambi di competenze". Anche a Laterza (Taranto), sia Assocanili che un'associazione locale trasmettono segnalazione all'Autorità di vigilanza per i contratti pubblici, contestando la legittimità dell'affidamento del canile municipale: "Malgrado la rilevanza europea del bando, da 714mila euro, si è proceduto con modalità e criteri di un appalto sotto la soglia comunitaria e omissioni delle dichiarazioni previste".

Nel Lazio, addirittura, "un'associazione specializzata esclusivamente in adozioni all'estero impone ai canili contratti di esclusiva dell'immagine dei cani, al pari di un'operazione di marketing. Inspiegabile, quando il cane deve andare in famiglia" conclude Visone: "dobbiamo insomma distinguere chi dall'amore per gli animali si inventa un progetto da chi, per il progetto, s'inventa l'amore".

A centinaia spediti verso le regioni del Nord

di MARGHERITA D'AMICO

ROMA - La promessa di un benefico Nord dove i randagi troverebbero un porto sicuro è colma di insidie. Innegabile che le regioni del nostro Settentrione abbiano attuato politiche migliori, sterilizzando di più e controllando con maggior attenzione le strutture. Se per esempio in Puglia, Sicilia, Campania, si incontrano animali in difficoltà a ogni angolo di strada, a Milano o Torino questo non avviene. Ma la quantità di animali che l'Italia e l'Europa del Nord dovrebbe assorbire appare strabiliante e illogica. Basta guardare le movimentazioni: quelle verso l'estero si possono, solo in parte, desumere dal cumulo di passaporti richiesti alle Asl da associazioni e privati esportatori; di quelle nell'ambito del territorio nazionale danno un'idea le quotidiane staffette annunciate sul Web. Leggete su questo la nostra inchiesta "Sulla pelle dei randagi".

Da principio iniziative virtuose, evolute poi in redditizie manovre, queste ultime consistono in viaggi perlopiù a pagamento. Per molti animali funziona, ma tantissimi altri si perdono nel corso di inaccertabili passaggi. Smarriti nei fumosi scambi ai caselli autostradali, possono morire in viaggio o poco dopo. I rari fermi dei furgoni a opera di guardie zoofile e polizia stradale hanno rivelato esemplari ammassati nelle gabbie e narcotizzati, anche 80 per ciascuna tratta, scoprendo spesso che le schede di adozione erano intestate a prestanome. Ma finisce lì e presto gli animali vengono riconsegnati a chi li ha fatti partire, pronti a essere nuovamente imbarcati.

Due anni fa un breve incidente fra onlus vide Marco Caterino, coordinatore delle guardie zoofle Oipa di Caserta, fermare per un controllo con la polizia stradale una discussa staffettista professionale, in arte Mamma Chiara. La donna si dichiarò volontaria dell'Enpa, il cui coordinatore nazionale delle guardie zoofile, Antonio Fascì, addirittura la scortava con un altro veicolo. "In rarissime occasioni abbiamo collaborato con la signora, la quale, sul suo automezzo, ha utilizzato senza alcuna autorizzazione il nostro logo e, per questo, è stata formalmente diffidata", puntualizza Michele Gualano, direttore generale dell'Enpa.

"Qui in Sicilia viviamo un momento drammatico, c'è una corsa incredibile ad assicurarsi randagi da inviare al Nord", commenta Antonino Giorgio, coordinatore regionale e presidente della sezione di Trapani della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane. "Non solo non si ha idea di dove questi animali realmente finiscano, ma così facendo si deresponsabilizzano le istituzioni, già tanto manchevoli quanto a controlli, sterilizzazioni. Ovunque spuntano sezioni locali di grandi associazioni; tutte mandano fuori i randagi. Un sindaco del trapanese si è persino vantato con la stampa di spedire i suoi in Germania".

Sedicenti volontari si contendono gli animali, li arraffano contro la legge e il buon senso. L'Italia intera è afflitta da furti di cani e gatti, rapiti dentro abitazioni e giardini, per tacere dell'indiscriminato prelevamento per strada dei randagi, e nemmeno esiste (come per le automobili) una banca dati centralizzata che consenta agli inquirenti di analizzare il sinistro fenomeno.

Ma dove finiscono, a decine di migliaia, questi indifesi? Ecco che il virtuoso Nord si trasforma in zona d'ombra, dove gli animali vengono smistati, reindirizzati, depositati in stallo, vale a dire in collocazione temporanea prima del successivo spostamento. Magari su un comodo divano, ma si temono anche obiettivi atroci. Mercato di carni e pelli, lotte clandestine, vivisezione occulta, zooerastia (abusi sessuali sulle altre specie), trasporto della droga, sadismi e rituali di vario genere. Laika è una barboncina bianca di undici anni e vive in famiglia ad Avola (Siracusa) vicino al mare. D'estate segue in spiaggia i padroni, e quando ne ha abbastanza rientra da sé. Il 20 agosto 2014 svanisce nel nulla, purtroppo non è microchippata. Giuseppina Nuccio, la proprietaria, diffonde disperati annunci per tutta la contrada e su Facebook. Su una pagina di presunto volontariato scopre una fotografia di Laika pubblicata alcuni giorni prima della scomparsa. Per lei si richiedono fondi, definendola abbandonata: cure, stallo e adozione. Giuseppina scrive chiedendo che le venga restituita, ma la reazione è sbalorditiva: "E il cane nn ce più e adesso ti attacchiiii al tram". Giuseppina denuncia alla polizia di Avola: "Confido in una rapida indagine che mi riporti Laika". E le volontarie replicano: "Ahahah anche la denuncia per aver salvato una cagnolina gente di m...".
Storia di Laika, così scompare un cane

Date le disastrose gestioni del Sud e la mole di sequestri in tutta la Penisola - Trani, Catania, Roma... la lista dei canili-rifugio indegni lascia sbalorditi - e a volte si fatica sul serio a sistemare gli animali sul territorio dove continuano a moltiplicarsi, o comunque gli spostamenti trovano spiegazioni. "Per garantire esecuzione all'ordine del Magistrato - in un'inchiesta che finalmente sta portando alla luce i misfatti avvenuti fra silenzi e complicità - in mancanza di alternative abbiamo trasferito 40 cani e 20 gatti in strutture fuori dal Lazio" spiega Gianluca Felicetti, presidente della Lav-Lega antivivisezione dalla cui denuncia è scaturito il sequestro del Canile Parrelli di Roma. Riguardo poi i trasferimenti all'estero la Lav, che tramite la sua sezione capitolina ha appoggiato nel 2011 l'invio in Germania degli inquilini del canile di Rieti, anch'esso sequestrato, dichiara una posizione ecumenica: "A questo tipo di adozioni non siamo favorevoli, né contrari a prescindere".

In realtà, a dispetto di crisi e cattive abitudini, l'italiano dimostra ovunque grande disponibilità all'adozione. Ciò nonostante, movimentare gli animali è pratica comune, lo asserisce Sara Turetta, attiva in Romania con il progetto Save the Dogs e paladina delle adozioni internazionali, in una lettera alla stampa in cui contesta una voce dissenziente: "Ci sono tante persone serie, qui, che si occupano di cani, ma per tua sfortuna, tutte ne mandano all'estero". Presidente da due anni della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, Piera Rosati ha invece commissariato o chiuso con il suo Consiglio alcune sedi locali: "Abbiamo riscontrato qualche gestione poco accorta e soprattutto c'era chi inviava animali in adozione all'estero, una pratica a cui sono contrarissima. Per carità, nessun dubbio sulla generosità straniera, ma tutto quanto non sia ben verificabile costituisce un inaccettabile rischio per gli animali".

Una volta varcata la frontiera cani e gatti sono irrintracciabili. Secondo le associazioni che si dedicano al profluvio di adozioni all'estero (Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Svezia) di cui sono oggetto i nostri randagi e quelli di Grecia, Turchia, Spagna, Romania, le altre cittadinanze sarebbero ricche e magnanime, pronte a fare incetta dei nostri animali meno attraenti. Invece di salvare gli esemplari che nei patri canili vengono soppressi, i cittadini svizzeri preferirebbero cani pugliesi o siciliani malati, mutilati, paralizzati, coperti di rogna, avidi di importare malattie endemiche a rischio di contagio umano come la leishmania. Lo stesso varrebbe per i tedeschi, i quali non dispongono di anagrafe canina unitaria e per adottare sborserebbero ingenti contributi.

Ancor prima di partire i cani sono in offerta, ciascuno abbinato a una tariffa che varia dai 150 ai 450 euro, su siti stranieri, come pure negli appelli diramati da una cordata di associazioni ramificata in tutta Europa. Queste lanciano appelli e raccolgono in tutta Europa fondi sollecitati da immagini angosciose: animali miserandi nei canili lager. L'unico, importante processo scaturito da un'indagine sulle - appurate - false adozioni all'estero langue in attesa di prescrizione presso il Tribunale di Napoli. Questo, a dispetto della circolare 33 con cui già nel 1993 il ministro per la Salute Maria Pia Garavaglia registrava con preoccupazione l'irrintracciabile flusso di randagi in uscita dal nostro Paese e, fra le altre cose, raccomandava di "non cedere cani conto terzi, ma direttamente all'interessato". Il contrario di quanto solitamente avviene, visto che tante associazioni si intestano gli animali e poi li collocano presso strutture di transito donde ripartiranno in seguito. Una piccola associazione pugliese, Occhi Randagi, persegue un modello di trasparenza che finora non ha emuli in virtù del paravento della privacy: pubblicano luogo di provenienza e città di destinazione dell'animale, con il nome dell'adottante.
Quelle false associazioni che celano il businessdi MARGHERITA D'AMICO
ROMA - Nella coscienza comune, per comprensibili ragioni, le associazioni animaliste si distinguono meritevolmente da chi, sulla gestione dei randagi, fa impresa. All'occorrenza, però, bisogna saper rovesciare la medaglia e, di volta in volta, distinguere. Chiunque in definitiva, e con estrema facilità, può costituirsi in associazione e avvalersi del marchio di fabbrica, mentre cercare di far quadrare un bilancio (affiancando di solito altre attività alla cura dei randagi, come assistenza veterinaria o pensione per cani privati) non significa necessariamente rifarsela sugli animali.

Partendo dal presupposto che i canili non dovrebbero esistere, se non per accogliere transitoriamente animali destinati in famiglia o custodire malati terminali, casi difficili, nello stato dei fatti la valutazione dovrebbe basarsi su modi, criteri, qualità della gestione. La normativa prospetta parametri sanitari per le strutture, ma non obbliga alla presenza di educatori, né puntualizza con la debita severità le prassi di affido e successiva rintracciabilità degli animali.

Una vicenda paradigmatica ha luogo in Puglia, dove il sequestro di canili indegni, in cui gli animali sono detenuti in condizioni atroci se non maltrattati fino alla recisione delle corde vocali, non fa quasi notizia. Capita pure, però, che la stigmatizzazione si rivolga a strutture decentissime. È il caso I Giardini di Pluto a Carovigno (Brindisi), canile-rifugio convenzionato con diversi comuni della zona, contro cui nel 2013 un'indagine sollecitata dall'associazione La Nuova Lara e seguita da un esposto della società Dog Service si appunta sul sovraffollamento e sfocia in sequestro. I 730 cani ospiti superano il limite di 200 fissato dalla Legge regionale pugliese del 2006, ma la struttura è stata autorizzata prima dell'entrata in vigore della norma, che non agisce retrospettivamente.

"L'associazione denunciante La Nuova Lara si era già presentata giusto al fianco della Dog Service con un contratto di avvalimento concesso a titolo oneroso nella gara d'appalto a San Vito dei Normanni, per la custodia di randagi oggi affidati a I Giardini di Pluto. Vendendo quindi a un privato il proprio requisito di onlus, senza cui il medesimo non avrebbe potuto partecipare" dice Michele Visone, presidente di Assocanili. "Non ci stupiamo poi se rappresentanti di misconosciute associazioni risultano disoccupati e invece si scoprono titolari di società immobiliari. A danno dei veri volontari c'è un fiorire di associazioni falsamente animaliste".

Contro la tradotta forzata di 151 cani proprio nel canile della Dog Service, non autorizzato ad accogliere randagi, si sollevano proteste e un'interrogazione parlamentare che lasciano indifferente il gip Maurizio Saso, caso non isolato di una magistratura all'apparenza dimentica del benessere degli animali. È recente la richiesta di archiviazione firmata dai sostituti procuratori Assunta Musella e Alessia Minicò del fascicolo riguardante due strutture private nel catanese, gestite da un veterinario con appalti milionari in convenzione con molti comuni. Qui, secondo il report dell'Unità operativa per la tutela degli animali, lotta a randagismo e maltrattamenti del ministero della Salute, la cui ispezione portò al sequestro dei canili (seguito da un rapido dissequestro), aggrediti da malattie gli animali erano stipati in recinti fra feci, cibi avariati e fango.

A volte, privati e associazioni decidono di unire le forze per assicurarsi il successo. L'appalto di circa 94mila euro per i cani del Comune di Collesalvetti (Livorno) è andato a un privato che si è avvalso dei requisiti di un'associazione animalista "senza che si tenesse conto della mancata presenza di un contratto fra le parti, obbligatorio quando si ricorre all'avvalimento, pena esclusione dalla gara". Lo scorso anno una volontaria siciliana, Elena Caligiore, dichiarò a una tv locale i propri dubbi riguardo il proposito di spostare decine di cani del siracusano in Emilia Romagna da parte dell'Enpa-ente nazionale protezione animali, la più antica associazione animalista italiana (la fondò Garibaldi): "La loro sezione locale ha chiesto randagi anche ai comuni di Priolo, Floridia, Lentini. Propongono di trasferirli al canile San Prospero di Modena, dove ne perderemmo le tracce: perché? Il randagismo si risolve solo sterilizzando". Smentisce secco Michele Gualano direttore generale dell'Enpa: "La circostanza non risponde a verità"

D'altro canto è sempre più difficili operare distinzioni di merito fra le associazioni, legate talvolta da intrecci inaspettati. Come per esempio suggerisce la lettera di credenziali (di cui esistono due copie diversamente datate, forse un uso disinvolto da parte del beneficiario) con cui Carla Rocchi, presidente nazionale dell'Enpa, garantisce l'affidabilità di un'associazione locale, già contestata dal commissario prefettizio Aldo Lombardo, per la gestione del canile di Manduria (Taranto) che è oggi in via di smantellamento.
"Enpa non promuove la gestione di terzi" commenta Gualano: "In alcuni casi però sostieniamo, con l'obiettivo del miglioramento della gestione e del benessere degli animali, la soluzione di situazioni critiche".

Se per operare a tutto campo è utile appartenere a una categoria di settore, c'è chi, per non sbagliare, le garanzie di qualità vede di acquisirle tutte. E' ad esempio il caso del gestore di Dog's Town a Pastorano, in provincia di Caserta: veterinario, guardia zoofila Enpa e membro di Assocanili; oltre a gestire gli ospiti del canile-rifugo in convenzione, accalappia per conto dei comuni e si occupa persino di animali esotici, ma sul sito associativo i cani proposti in adozione si contano sulle dita di una mano.

Appalti e omissioni, le colpe dei Comuni

di MARGHERITA D'AMICO

ROMA - Per la grande maggioranza degli amministratori italiani occuparsi del randagismo è una scocciatura marginale, se non fosse che la tenerezza dell'elettorato verso gli animali si fa sempre più intensa. Ma ancora, a meno che sindaco o assessore delegato non siano sensibili e competenti in prima persona - fenomeno raro - la questione viene sbolognata in toto alle (spesso) incanaglite Asl, oppure gestita - a volte in buona fede, altre, si direbbe, meno - affidando il destino degli animali a interlocutori terzi.
A Roma, per dirne una, è in ballo il rinnovo della gestione dei tre canili municipali (il quarto, un piccolo e centralissimo presidio, è stato chiuso nel novembre scorso) affidata dal 1997 all'Associazione volontari canile Porta Portese, che in circa vent'anni hanno sistemato in casa circa trentamila cani e gatti. "Abbiamo partecipato a ben tre gare d'appalto e, non certo per responsabilità dei partecipanti, nessuna è andata buon fine", spiega Simona Novi, presidente di Avcpp: "l'ultima è stata addirittura sospesa a causa della presenza della Cooperativa 29 Giugno, priva di qualsiasi specifica competenza in materia di benessere animale e coinvolta nello scandalo Mafia Capitale. In vista della quarta gara, ci auguriamo che la giunta Marino prenda in considerazione l'unico parametro sensato e previsto dalle normative vigenti: la capacità di fare adozioni certificate, garantire il benessere degli ospiti e di trasformare i canili in un semplice luogo di passaggio".

Parecchie amministrazioni cercano di svuotare i canili non già incoraggiando adozioni consapevoli, con l'eventuale offerta di visite veterinarie o mangime gratuito per premiare l'accoglienza di cane o gatto nella realtà domestica, ma proponendo denari a chiunque ritiri un animale. Nell'aprile 2012 il comune di Oristano (Cagliari), a fronte del costo annuo di 914 euro pubblici stanziati per il mantenimento di ogni cane presso il Canile di Sandro Piras, delibera di corrispondere "in favore dell'associazione firmataria della convenzione un contributo una tantum di 450 euro per ciascun cane di cui venga realizzata con successo l'adozione".

Se già appare illogico e diseducativo corrispondere denari a casaccio a fronte dell'animale sbolognato, è doppiamente assurdo pagare il mediatore. Una cittadina racconta di aver telefonato alla suddetta associazione per adottare un cane: "L'operatrice mi suggerì di non recarmi al canile in prima persona. Disse che il gestore non gradiva gli ingressi al pubblico, dunque se ne sarebbero incaricati loro. Mi chiesero di compilare un questionario molto fitto, assieme a cui avrei dovuto versare loro 50 euro". Somma che, in aggiunta all'una tantum comunale, portava l'incasso dell'associazione a quota 500. "Gli stessi animali che avevano messo in adozione erano pubblicizzati su Facebook, e si chiedevano per loro donazioni in denaro. Mi domando quanto fruttasse ogni singolo cane". "L'iniziativa non ha funzionato, si è spenta da sola" dichiarano oggi dal Comune di Oristano: "Abbiamo in programma di rilanciare altrimenti le adozioni".

Dalla loro, quegli amministratori attenti al fenomeno randagismo non possono esimersi dall'esprimere preoccupazione verso la generale confusione in cui si pensa di affrontare il problema animali vaganti. Secondo Andrea Guido, assessore all'Ambiente del Comune di Lecce con delega al randagismo, "si sono innescati meccanismi perversi in un sistema costellato da associazioni che appaiono concentrate più sugli appalti che sulla ricerca del benessere degli animali, nella cui gestione si manca di avviare azioni serie e concrete. Occorre maggiore attenzione all'iscrizione delle associazioni nel relativo albo regionale, come pure sulla delicata materia delle adozioni".

La virtù, in questo ambito, non paga. Per essersi opposto all'imprudente e non conforme adozione all'estero di un singolo cane all'estero, dopo aver ottenuto soddisfazione dal Tar, il Comune di Terni si ritrova denunciato alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti da una motivatissima signora tedesca che a ogni costo vuole acquisire un animale malato di epilessia e già adottato in Umbria.

Emergenza e randagismo, oppure emergenza randagismo: la percezione di una situazione fuori controllo non abbraccia solo la tutela degli animali, ma i più vari interessi pubblici. Dispendio di denaro e risorse umane, pericoli (non tanto nel merito degli occasionali branchi di cani che insieme organizzano la sopravvivenza, quanto per gli incidenti stradali causati da soggetti vaganti o abbandonati), sofferenza che dilania ogni specie a partire dalla nostra, nelle persone dei volontari che spesso spendono l'intera vita a tamponare tale, evitabile disastro. Malauguratamente, il contenimento delle nascite non è praticato che a parole. Salvo luminose eccezioni, al bisturi le Asl preferiscono l'ufficio, dove si timbrano montagne di passaporti perché i cani possano sloggiare all'estero. Non ci s'interessa neppure affinché i proprietari evitino le cucciolate e gli allevatori soggiacciano a limiti. E quando ai comuni viene tesa una mano da chi offra sterilizzazioni gratuite o a poco prezzo per tamponare le pubbliche inadempienze, la risposta è quasi sempre no.

"Esistono eccome gruppi di medici veterinari indipendenti e generosi, i quali si propongono di intervenire con il solo rimborso dei materiali. Si possono sterilizzare, se ben organizzati, anche cento animali al giorno. In un paio di settimane si potrebbe arginare il randagismo in una città come Bari" spiega il veterinario Antonio De Simone, il quale ha già sterilizzato pro bono a Ventotene e in Puglia. "Ma ci si sente rispondere no grazie, sia per non indispettire gli ordini professionali, preoccupati della concorrenza e a volte in rapporti di collaborazione con le Asl, che per logiche, chiamiamole così, di ordine burocratico".

Aggiunge Claudio Locuratolo, guardia zoofila Enpa di lungo corso: "Per avversare il randagismo si sente sempre parlare dell'importanza del microchip, con cui almeno i cani sono inseriti nell'anagrafe regionale, che dovrebbe confluire in quella nazionale: sacrosanto, ma i controlli sono inesistenti e le sanzioni per chi contravviene ridicole. Le cinture di sicurezza, per fare un esempio, hanno iniziato a funzionare quando fioccavano le multe. Bene la prevenzione quindi, ma è inevitabile passare per una fase che inculchi l'obbligo con severità".

 

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