Il processo per le morti di amianto era
prescritto ancora prima di iniziare. Cancellati tutti i risarcimenti alle
famiglie delle vittime
Secondo la Cassazione, il processo torinese contro Schmideiny era nato morto:
dal 1993 si sapeva che le polveri di amianto erano nocive e che i dirigenti
dovevano bonificare. Quando ci fu il rinvio a giudizio nel 2009, i 15 anni di
prescrizione erano già belli che passati...
(ANSA) - Il processo torinese per le morti da amianto era prescritto prima
ancora del rinvio a giudizio dell'imprenditore svizzero Schmideiny: lo
sottolinea la Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, del verdetto di
prescrizione che lo scorso 19 novembre ha, tra l'altro,
annullato i risarcimenti alle vittime.
Ad avviso della Cassazione "a far data dall'agosto dell'anno 1993" era
ormai acclarato l'effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in
quell'anno, era stata "definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici
di provvedere alla bonifica dei siti". "E da tale data - prosegue il verdetto -
a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado
(13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti" per "la maturazione
della prescrizione in base alla legge 251 del 2005".
(ANSA) - "Per effetto della constatazione della prescrizione del reato,
intervenuta anteriormente alla sentenza di I grado", cadono "tutte le questioni
sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni". Lo
scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi del processo Eternit
sulle morti da amianto.
Il governo svende 1500
caserme vuote. Ma paga 30 milioni per affittare i palazzi
Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria
equivalente a cento campi da calcio. A fronte di tanto patrimonio in eccesso, si
spende un milione di euro l’anno per ospitare il "rappresentante del governo"
nel prestigioso Palazzo Diotti. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la
mappa degli sprechi.
di Thomas Mackinson
Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per una superficie
fondiaria equivalente a cento campi di calcio. E tuttavia, a fronte di tanto
patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per
affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803
fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile
d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno
uno fra i più prestigiosi del centro storico. Da 156 anni questo gioiello è il
“Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la
schioda. A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a
fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare
due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo. Città
che vai, paradossi che trovi.
Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita (scarica) e lo si
incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati (scarica), il
paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola
letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi
logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di
governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure
il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie
italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anziché buttare
i soldi in un affitto. Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo
patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.
Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga. Se un sindaco prova a
sfrattare il prefetto fa subito notizia. Succede a Grosseto, dove il primo
cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di
salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli
Rosselli. Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari
si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che
appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto. L’epilogo è tutto
da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per
mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei
contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2
di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino,
Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.
Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di
fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione
della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le
città. A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una
giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora
alquanto modesti. Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobili ritenuti
non necessari dai quali prevede di incassare 220 milioni di euro quest’anno e
100 nel 2016. L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa
Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per
facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese. Da allora sono partite
girandole di tavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con
cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà. Ma quel che è certo
è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone
quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città, ci si
rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri
e pubblici.
Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo
Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato
premier ha premuto l’acceleratore. Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni
dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e
l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa. Ancora
non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato
posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del
Prefetto. Eh sì, perché la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876
l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli
uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini. Per le due locazioni lo
Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15
caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo
della Soprintendenza ai Beni Culturali perché dichiarate di pregio storico e
architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche
certe dislocate nel cuore della città. Ma neppure questo basta a far scattare la
scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al
posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.
Milano, si diceva. A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico
ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla
cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica
“Mameli” nell’area nord del capoluogo. Insieme fanno una superficie fondiaria di
720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio.
Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura?
Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato. E così mentre la Difesa dismette, il
Viminale spende. Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare
sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della
Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato. “Due mesi fa abbiamo
dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede
principale”, fanno sapere dalla Prefettura. A conferma del fatto che di spazio,
forse, ce n’era in abbondanza. Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando
sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per
quanti anni l’assegno è stato doppio.
Più paradossale ancora la situazione nella Capitale. Il 7 agosto 2014 è stato
sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre
caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la
Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente. Ma
sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il
sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni
di euro l’anno. A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal
1873. Una partita di giro tra amministrazioni. Ma c’è anche l’Ufficio
territoriale del governo di via Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e
che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e
mezzo di euro. Perché non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e
magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia?
L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il
ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più
costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno. Ma
chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali?
A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a
1,6 milioni.
Passiamo a Torino. Nel paniere delle vendite sono finite le caserme Cesare di
Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica.
A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di
assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi
militari. Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento
in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano
oltre 400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via
del Carmine.
Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il caso Napoli. Nel
capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del
Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno,
lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica
funzionale. Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in
proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che
appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di
proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per
ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato. Il Ministero dell’Interno,
a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata
dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende
la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca
qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla. Nel 2014 ha pagato 1,3 milioni
di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissima Piazza del Plebiscito che
è una delle più grandi e belle d’Italia. Difficile, del resto, trovare una
location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.
19 febbraio
I clienti di Veneto Banca:
“Costretti a comprare azioni dell’Istituto per avere prestiti”
Non solo i prestiti agli amici e vip senza
garanzie, o i conti sballati. C’è l’inchiesta per aggiotaggio: come fa una
piccola Popolare a diventare la decima banca italiana? Si rivalutano di anno in
anno le azioni. Poi si vendono allo sportello della banca, ai propri
correntisti. Con il ricavato si pagano le acquisizioni...
Gianluca Paolucci per “la Stampa”
Un investimento coi fiocchi. Che non ha paragoni
nel mondo bancario. Chi ha investito 100 euro in azioni Veneto Banca 10 anni fa,
adesso ne avrebbe poco meno di 190. Avrebbe, perché Veneto Banca non è quotata e
vendere quelle azioni non è facile.
Comunque, il risultato al momento è un’inchiesta che ipotizza il reato di
aggiotaggio sul titolo dell’istituto. Indagine coordinata dalla procura di
Treviso, separata da quella della procura di Roma, emersa martedì ma che prende
spunto, anche in questo caso, dai risultati dell’ispezione di Bankitalia. E
della faccenda si stanno occupando anche gli ispettori di Consob, da metà
gennaio nella sede di Montebelluna.
Per capire come funzionava il gioco finito nel mirino delle procure, occorre
ricostruire quanto è successo negli ultimi anni alla banca e alle sue azioni.
Problema: come finanziare una forsennata campagna di acquisizioni che porta la
piccola Popolare di Asolo e Montebelluna a diventare in un paio di lustri la
decima banca italiana, con oltre 600 sportelli che vanno dal Veneto al Piemonte,
dalle Marche alla Puglia e ramificazioni in Albania, Croazia, Romania e
Moldavia?
Risposta: si rivalutano di anno in anno le azioni con delibera dell’assemblea.
Poi si delibera un aumento di capitale e si vendono le azioni allo sportello
della banca, ai propri correntisti. Con il ricavato si pagano le acquisizioni.
Il meccanismo è semplice e consentito dalla normativa sulle popolari non
quotate. A Veneto Banca però si erano fatti prendere la mano. Nel 2004 il prezzo
è fissato a 21,25 euro. Un anno dopo il prezzo passa a 25 euro per azione e
Veneto Banca compra la banca del Garda.
Passano tre anni durante i quali le acquisizioni vanno a gonfie vele. Veneto
Banca entra nella torinese Bim e in Palladio, compra banche in Moldavia e in
Croazia e si prende la Popolare di Intra. Nel maggio 2008, la solita perizia
stabilisce che le azioni valgono 35,5 euro. Erano altri anni, certo. La finanza
andava a gonfie vele, Lehman Brothers non era ancora fallita e «spread» era un
termine per addetti ai lavori. Veneto Banca però cresce ancora: compra
CariFabriano e Banca Apulia.
Nel giugno 2010 le azioni «valgono» 38,25 euro. Non male, se si considera che
nello stesso periodo di tempo le borse sono crollate e l’indice delle 50
maggiori società europee (Stoxx50) ha perso più del 40%. Non spaventa neppure la
crisi del debito: a settembre 2011, in piena tempesta, il prezzo è 40,25 euro. A
maggio 2013 il picco: 40,75 euro. Poi arriva Bankitalia e guarda caso nel 2014
il prezzo cala per la prima volta dopo anni di corsa inarrestabile. Poco, a 39,5
euro. Ma è il pensiero che conta. Solo che nel frattempo vendere quelle azioni è
diventato sempre più complicato.
Tra il 2013 e metà 2014 all’istituto erano pervenuti 388 reclami di soci. Già
nel 2013 la Consob aveva sanzionato con 495 mila euro (ridotti a 307 mila dalla
Corte d’Appello) Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari»
nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalla clientela, in
particolare su azioni e obbligazioni» emesse dall’istituto di Montebelluna.
18 febbraio
Non so l’italiano, come
faccio? Il pasticcio delle traduzioni ad Expo
Niente traduzioni né cuffie, nemmeno i programmi tradotti: le difficoltà
degli stranieri alla tavola rotonda «Idee di Expo» . La critica del console del
Bangladesh
di Federica Cavadini
«Nessuna traduzione. Niente cuffie. Nulla. Nemmeno un programma con i titoli
delle conferenze. Possibile? Torno a mani vuote, senza poter riferire nemmeno a
grandi linee i contenuti di questa giornata». Rezina Ahmed è console generale
del Bangladesh ed è vicecommissario per Expo del suo Paese, che parteciperà
all’esposizione nel cluster del riso. Minuta, il timbro della voce basso, Rezina
Ahmed, esprime pacata il suo stupore. «Sono stata invitata a questo evento, come
altri ospiti internazionali che non parlano italiano, eppure arrivata qui scopro
che non è previsto alcun tipo di servizio di interpretariato».
Racconta dell’arrivo all’accoglienza dell’Hangar Bicocca, con la sua assistente
che un po’ di italiano lo parla: «Abbiamo chiesto dove trovare gli auricolari
per seguire la traduzione simultanea, hanno risposto che questo servizio non è
disponibile. Abbiamo chiesto almeno il programma della giornata in inglese,
hanno risposto che era stato preparato soltanto in italiano. Materiali in
inglese erano disponibili ai tavoli tematici, ai quali però noi non
partecipiamo». Non ha rinunciato alla giornata pre Expo il console del
Bangladesh, e alle due si è presentata puntuale alla conferenza su «Cooperazione
internazionale ed Expo 2015». «In sala eravamo in tanti stranieri e siamo
rimasti spiazzati, dispiaciuti, quando la presentazione è iniziata in italiano.
Nessuno di noi ha potuto seguire», racconta ancora il console. «Sono molto
riconoscente al viceministro (Lapo Pistelli, Affari esteri) che è stato così
gentile da rivolgere anche in inglese almeno il suo saluto e l’invito a venire
all’esposizione». Sorride, il console Ahmed, fa una piccola pausa e con
delicatezza aggiunge: «Non vorrei fare una critica ma a Expo spero che sarà
previsto un servizio di traduzione per i visitatori internazionali e che i
materiali saranno disponibili anche in inglese».
Authority di vigilanza,
l’esperto: “Si faccia trasparenza sui rapporti con i vigilati”
di Paolo Fior
Secondo Luca Enriques, Allen & Overy Professor of Corporate Law alla facoltà di
Legge di Oxford, ex
commissario Consob e tra i massimi esperti italiani di corporate governance,
fugare i sospetti sull'effettiva indipendenza degli arbitri è il primo punto da
mettere in agenda in un'ipotesi di revisione dei meccanismi di funzionamento e
di governo delle Autorità indipendenti: "Un modello possibile al quale rifarsi è
quello statunitense, dove i media possono richiedere l'accesso a tutto un
insieme di documenti altrimenti non disponibili pubblicamente"
“Occorrerebbe rendere immediatamente trasparenti e
controllabili i rapporti che intercorrono tra Authority e soggetti vigilati,
perché oggi ci sono contatti anche quotidiani, formali e informali, di cui non
si sa niente e che alimentano sospetti, talvolta legittimi, sull’operato delle
Autorità e sulla loro effettiva terzietà e indipendenza”. A giudizio di Luca
Enriques, Allen & Overy Professor of Corporate Law alla facoltà di Legge di
Oxford, ex commissario Consob e tra i massimi esperti italiani di corporate
governance, è questo il primo punto da mettere in agenda in un’ipotesi di
revisione dei meccanismi di funzionamento e di governo delle Autorità
indipendenti. Revisione che pare sempre più necessaria anche alla luce dei
recenti episodi di cronaca finanziaria che hanno imposto all’attenzione generale
limiti e storture delle Autorità di vigilanza. Una, l’Isvap, è stata addirittura
soppressa d’imperio in seguito allo scandalo che ha travolto il suo presidente
Giancarlo Giannini, accusato di non avere vigilato su Fondiaria Sai per quasi un
decennio in cambio della promessa di una poltronissima all’Antitrust. Un’altra,
la Consob, finita sotto i riflettori per la gestione personalistica del suo
presidente Giuseppe Vegas che, da un lato, è finito sotto inchiesta per abuso
d’ufficio per assunzioni e nomine fatte in spregio a ogni regola e, dall’altro,
ha fatto scandalo per aver minato alla radice la già peraltro flebile percezione
di indipendenza e di terzietà della Consob decidendo di dismettere i panni
dell’arbitro nella vicenda Unipol-FonSai per scendere direttamente in campo al
fianco di uno dei giocatori. E a gennaio Vegas ha deciso di nominare direttore
generale della Consob proprio quell’Angelo Apponi che all’epoca dell’iter
autorizzativo della fusione Unipol-Fonsai è stato pizzicato in più di
un’occasione a intrattenere rapporti impropri con Mediobanca. Enriques non vuole
entrare nel merito di queste vicende, ma ritiene che sia tempo di intervenire
introducendo alcune modifiche alle leggi istitutive delle Autorità indipendenti
per migliorarne la governance e assicurare il più possibile l’aderenza tra
azione e fini istituzionali.
In un’audizione alla Camera il presidente dell’Autorità nazionale
anticorruzione, Raffaele Cantone, ha invocato una regolamentazione organica
delle Autorità indipendenti, portando come esempio “la giungla retributiva che
c’è e che è inaccettabile”. Qual è il suo parere?
Ogni Authority è un animale diverso dall’altro, con le sue specificità, e non è
detto che l’adozione di un modello unitario faccia funzionare meglio le cose.
Sotto il profilo delle retribuzioni, poi, si pone il problema di riuscire ad
attirare negli organismi di vigilanza gli elementi migliori, i più preparati, i
più esperti se si vuole che l’Authority svolga i suoi compiti con competenza ed
efficacia e questo implica delle differenze retributive anche rilevanti a
seconda dei settori. Vi sono invece degli elementi comuni a tutte le Autorità
indipendenti sui quali si potrebbe utilmente intervenire.
Quali ad esempio?
Da tempo sostengo che le Authorities dovrebbero avere una governance più simile
a quella delle società per azioni. Attualmente i presidenti sono a nomina
politica e con la politica hanno inevitabilmente stretti legami avendo per ruolo
– almeno nel caso della Consob – il monopolio dei rapporti con l’esterno e il
controllo dell’attività istruttoria. Se fosse invece l’Autorità stessa a
eleggere tra i suoi componenti il presidente, ecco che si accentuerebbe
l’indipendenza dalla politica.
La legge fissa dei requisiti piuttosto generici per le nomine. Ai fini di
tutelare e rafforzare l’indipendenza delle Authorities non sarebbe il caso di
mettere paletti più stringenti anche sul fronte delle incompatibilità?
La questione non si risolve rendendo più rigidi i requisiti, perché si riescono
sempre ad aggirare in un modo o nell’altro. E’ un problema di cultura politica,
di capacità di autolimitarsi e in questo anche la società civile ha ruolo
importante: mostrandosi attenta ed esigente aiuta a fissare dei confini
obiettivi che non possono essere oltrepassati senza temere conseguenze. Nelle
nomine il problema è anche il grado di competenza che si mette in campo.
Dovrebbe esserci un maggior rigore e invece negli ultimi anni in Italia siamo
stati, per così dire, un po’ troppo “elastici”.
Oggi però non abbiamo la possibilità di revocare una nomina che si riveli
palesemente inadeguata se non addirittura dannosa per l’istituzione stessa
E’ vero. D’altro canto la possibilità di un intervento esterno, dalla sfera
politica, vanificherebbe l’indipendenza delle Autorità e dunque la loro stessa
ragione d’essere. Per contro, una governance più simile a quella delle società
per azioni permetterebbe di determinare oltre alle nomine anche dei meccanismi
di revoca interni all’organismo stesso, permettendogli così di autotutelarsi.
Un aspetto che la vicenda Isvap-FonSai ha portato alla luce è il meccanismo
delle porte girevoli: Giannini contava di passare all’Antitrust senza colpo
ferire…
Il caso specifico, se provato, è un caso fuori dal mondo, ma in linea di
principio non è del tutto assurdo che qualcuno passi da un’Authority all’altra.
Se ci sono le competenze, una precedente esperienza può essere utile a fare
meglio di altri. Per contro, quello delle poltrone è il gioco di società per
eccellenza in certi ambienti romani alla cui influenza è molto difficile
sottrarsi per qualunque governo. Se proprio non si riesce a porre un argine a
questo tipo di logiche, ha forse senso mettere dei paletti. Anzitutto adottando
sempre il metodo della pubblicità delle candidature e il ricorso a
professionisti della selezione del personale. Darebbe un minimo di oggettività
al processo.
Cosa rivedrebbe con maggiore urgenza nelle leggi istitutive delle Authorities?
Interverrei da subito sul tema dei rapporti tra controllore e controllati,
imponendo che venga fatta totale trasparenza. Il fatto che questi rapporti ci
siano e non ne venga data adeguata pubblicità alimenta un clima di sospetto che
getta ombre sull’operato delle Autorità e sulla loro effettiva terzietà ed
indipendenza. Un modello possibile al quale rifarsi è quello statunitense, dove
i media possono richiedere l’accesso a tutto un insieme di documenti altrimenti
non disponibili pubblicamente. E’ capitato ad esempio al segretario al Tesoro
Timothy Geithner che dovette produrre le sue agende in cui erano registrati
tutti i contatti e le telefonate avute con le banche durante la crisi.
9 febbraio
L'odio nero che viaggia su
internet
Gli oltraggi al neopresidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione
del suo omaggio alle Fosse Ardeatine ripropongono la piaga del dilagante
neofascismo online. Un fenomeno monitorato con attenzione e apprensione, perché
come dimostrano le ricerche, sempre più spesso il proselitismo in rete si
trasforma in mobilitazione sul territorio all'insegna di parole d'ordine
xenofobe e antisemite.
L'inafferrabile galassia dei
fascisti online
di CARMINE SAVIANO
ROMA - Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo
grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta ad entrare nel
mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture
scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della
Repubblica Italiana. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato
trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul
web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello
Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: "E' un partigiano, ho
detto tutto", "ecco un altro mafioso ebreo". E gran parte di quelle offese
provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani.
Sono in 134mila e si auto definiscono "Gruppo Fascista per la rinascita
d'Italia". La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito
Mussolini, le parole d'ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via,
sin dove il vocabolario pseudo-nazionalista può spingersi. Sono nati nel 2010 e
da queste parti, malgrado l'omaggio al Ventennio, non c'è nessuna forma di
nostalgia. Anche gli scivolosi territori storiografici del revisionismo sono
superati: si guarda al futuro, in un messianismo deformato e allucinato non si
aspetta altro che "un nuovo capo", un "uomo forte", colui che sappia
"restituirci l'onore": "Dux Mea Lux, quando tornerai?".
E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono
solo l'ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un'idea
basta cercare anche solo tra le "pagine amiche" che i Giovani Fascisti Italiani
suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla
Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e
il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi
Fedelissimi dell'Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.
Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero
prefigurare l'apologia di fascismo? "Siamo impegnati a mantenere il giusto
equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti
delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti,
che incitano all'odio o comunque contrari agli standard della nostra community",
commenta un portavoce di Facebook Italia. Come se fosse possibile ascrivere alla
categoria "gentilezze digitali" frasi del tipo: "gli zingari devono essere
integrati nel cemento" o "i comunisti sono il cancro dell'umanità".
Ma
quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti - come quello contenuto
in "Web Nero", ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel
2013 - quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si
passa al concreto: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case
editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori
dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei
forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio
fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto liquido,
naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione
delle Associazioni dei Partigiani d'Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma
era il 2002. Oggi un numero certo non c'è.
C'è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del
fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d'identità:
immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi,
forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate,
il doppio 8 che simboleggia le due H dell'Hail Hitler. La tigre di Evola, le
parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell'antisemitismo.
In definitiva la questione diventa se la libertà d'espressione possa essere
invocata per tutelare l'incitamento all'odio e alla discriminazione. Una
questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su
un terreno scivoloso "quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e
parole che possono diventare armi rischiose", dice Carlo Blengino, avvocato,
esperto proprio della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di
pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine
appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l'apologia di
fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di
tutti, visto il carattere della rete, che "possiamo trovare siti di frustrati
che inneggiano al fascismo", continua Blengino, e che non vanno oltre il loro
status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili
comportamenti "un domani possono tornare a essere realmente pericolosi".
Le frasi shock che nessuno cancella
Su Greta e Vanessa. Daniela S.: "Vi abbiamo pagato il riscatto luride t***
Vergognatevi, spero di non incontrarvi mai. Altrimenti non so cosa sarei in
grado di farvi".
Sull'elezione di Mattarella. M. N.: "Auguri per il tuo nuovo stipendio. Mi
raccomando, ingrassa come un p***. Per il resto ci siamo noi!".
Su Mussolini: Simone P.: "Dux Mea Lux".
Sulla xenofobia: Giorgio G.: "Hanno queste smocciose che chiedono elemosina e
mai nessuno dice nulla loro, ma attenzione, sono zingari, dobbiamo integrarli...
io li integrerei nel cemento".
Sull'Islam: "Perché il fascismo deve essere bandito perché provoca pericolo e
l'Islam no?"
Sulla globalizzazione: Mario P.: "Gli americani ci porteranno ben presto alla
terza e definitiva guerra mondiale".
La difesa di Facebook:
"Opinioni da rispettare"
di CARMINE SAVIANO
ROMA - Quali sono i criteri di valutazione? Perché non si interviene in
automatico per cancellare quei contenuti che possono prefigurare l'apologia di
fascismo? Quali sono i limiti della libertà d'espressione? Abbiamo chiesto a
Facebook Italia di chiarire la propria posizione in merito. "Offriamo alle
persone di tutto il mondo la possibilità di pubblicare contenuti personali,
vedere il mondo attraverso gli occhi di altre persone, connettersi e condividere
contenuti ovunque. Le conversazioni che si svolgono su Facebook e le opinioni
espresse sulla piattaforma rispecchiano la diversità degli utenti", dice un
portavoce dell'azienda.
In
questo contesto, il lavoro principale che viene svolto è quello di "mantenere il
giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei
diritti delle persone". Qui le prime indicazioni sulla policy: "Non consentiamo,
infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all'odio o
comunque contrari agli standard della nostra community. Se da un lato infatti
incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di
condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia,
nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia".
Discriminazioni che però non mancano sulle pagine legate alla diffusione
dell'ideologia di estrema destra.
Ancora: "Siamo consapevoli del fatto che a volte le persone condividono
contenuti e opinioni controverse su Facebook, così come fanno nelle proprie
conversazioni quotidiane. Le nostre regole sono state create proprio per aiutare
a mantenere un equilibrio tra la libertà di esprimersi, anche se alcune persone
potrebbero considerarlo offensivo, e la salvaguardia di un ambiente rispettoso e
sicuro". E il portavoce dell'azienda conclude così: "Facciamo forte affidamento
sulle persone appartenenti alla community affinché ci dicano quando vedono
qualcosa che non dovrebbe essere su Facebook".
"Fenomeno rilevante e non
solo virtuale"
di CARMINE SAVIANO
ROMA - Un progetto di ricerca durato cinque anni. E che ha fornito quella che
ancora oggi è l'indagine più accurata dell'intreccio tra rete ed estrema destra.
Manuela Caiani, che lavora presso l'Institute for Advanced Studies di Vienna,
insieme alla ricercatrice Linda Parenti, ha pubblicato "Web Nero" per le
edizioni Il Mulino nel 2013. Dati, raffronti, il tentativo di comprendere come i
militanti di destra utilizzano internet. E per capire quanto è profonda la tana
nera dell'estrema destra italiana.
Professoressa Caiani, oltre centotrentamila iscrizioni alla pagina Facebook
dei Giovani Fascisti Italiani. La impressiona questo numero?
"No. I social media sono la nuova frontiera di questi gruppi. Li utilizzano
molto bene e sempre di più. I tentativi di mappare gli aderenti a pagine come
quella indicata sono in corso, in ambito accademico, sin dal 2011. La volontà è
quella di capire chi sono questi simpatizzanti. Di sicuro non si tratta solo di
attivisti da poltrona: molti di loro passano anche all'offline, si impegnano in
prima persona sui territori. Il punto è capire quanti, invece, non siano
potenziali attivisti. Penso che almeno la metà degli aderenti non abbia una
motivazione ideologica".
Come bisogna leggere questo fenomeno? Derubricarlo a "politicamente
insignificante" oppure è necessario chiedersi se la diffusione di questi
contenuti è pericolosa per il tessuto democratico?
"Non sono fenomeni politicamente irrilevanti. Basta guardare all'avanzata dei
partiti di estrema destra in tutta Europa. Oramai si tratta di un trend
elettorale chiaro a tutti. E di sicuro questi strumenti mediatici aiutano questi
contenuti a diffondersi. La domanda è quanto il comportamento online influenzi i
comportamenti offline. C'è da dire che molti attivisti ritengono che questi
forum siano una seconda casa: li frequentano spesso, stabiliscono contatti, ma
poi finisce lì".
Quanto è profonda la rete dell'estrema destra italiana?
"Il punto è che questi siti vengono chiusi di continuo, è difficile avere una
mappa costantemente aggiornata. In altri paesi alcune leggi sono state
trasferite subito all'online e l'apologia di fascismo è un reato applicato
immediatamente anche in rete. Penso alla Germania e alla Spagna. In Italia la
legge Mancino pone dei paletti precisi. E penso che il numero sia quello: un
centinaio di associazioni attive in rete".
Il gruppo che più l'ha colpita?
"Casapound: hanno una strategia di acquisizione di temi di sinistra, vanno sul
sociale, anche se il loro è un welfare sciovinista. Hanno la capacità di
attrarre i cittadini con un discorso non nostalgico: del duce o del fascismo
sembra che non gli importi nulla. E sono anche molto bravi dal punto di vista
iconografico: a volte utilizzano anche simboli di sinistra".
La rete italiana è collegata con quelle di altri paesi?
"In media un terzo delle associazioni è legato ad altre sigle internazionali".
Ci potrebbe fornire l'identikit del militante di estrema destra?
"Negli studi elettorali c'è tutto un filone che guarda all'elettore di estrema
destra. L'immagine di un cittadino scarsamente educato, abitante in periferia,
con un basso salario, è un'immagine fasulla. Non si va a destra solo quando c'è
la percezione di insicurezza o quando si subisce la crisi. Il votante di estrema
destra è sempre più trasversale: intellettuali, classe media, operai. Basta
guardare al Fronte Nazionale di Marine Le Pen".
Dal punto di vista normativo quali ritiene debbano essere i passi da
compiere?
"E' necessario un adeguamento delle leggi all'online. Il problema è bilanciare
principi fondanti di uno stato democratico. C'è da tutelare la libertà
d'espressione. Penso agli Stati Uniti in cui questo principio è gerarchicamente
quasi superiore a tutti gli altri. Per questo i nostri gruppi si muovono su
server
Americani, perché lì è più difficile chiuderli”.
Da FN al Fronte
Veneto, la mappa delle sigle
di CARMINE SAVIANO
ROMA - Se la valenza politica di internet è
oramai accertata e accettata, il maggior interesse - e la questione ancora
aperta - è comprendere come avviene il passaggio dalla partecipazione online
all'impegno offline. In questo contesto i movimenti di estrema destra non fanno
eccezione: la rete è soprattutto un modello organizzativo. Diffusione di
materiali, proselitismo, l'incarnazione di una funzione di agenda collettiva per
ampliare la partecipazione alle iniziative che vengono proposte. Ovviamente ci
si riferisce a quei gruppi che hanno già una struttura interna: la capacità di
mobilitazione dei gestori di una singola pagina Facebook è sempre imprevedibile.
Ecco alcuni casi italiani: Forza Nuova. Proselitismo allo stato puro. Con tanto di vademecum in otto
punti: dall'abrogazione delle "leggi abortiste" al blocco dell'immigrazione. Poi
la messa al bando della massoneria e il ripristino del Concordato tra Stato e
Chiesa del 1929. E le campagne per l'abrogazione della Legge Scelba, la
normativa che ha instituito il reato di apologia del fascismo, e quella per
eliminare "l'ideologia gender" dalle scuole. Presente anche una web radio.
130mila i like alla pagina Facebook.
CasaPound. I report sulle inaugurazioni di nuove sedi, i materiali per la
giornata di commemorazione delle Foibe. La lotta per il mutuo sociale e quella
per uscire dall'euro. Il nucleo originario, quello romano, oramai si è diffuso
su tutto il territorio nazionale. Le sedi in Italia sono oltre cento. 112mila i
like su Facebook.
Fronte Nazionale. Dal "decalogo" del movimento ai manifesti per la
sovranità monetaria e territoriale. Il Fronte italiano fa della diffusione in
rete dell'anti-europeismo una delle proprie ragion d'essere. Commenti su tutti
(o quasi) i temi d'attualità. Sergio Mattarella definito come l'ennesimo
"presidente atlantico". La presenza sui social è costante. Su Facebook quasi
8mila like.
Fascismo e Libertà. Vendita di articoli di propaganda, download dei
materiali, elenco e contatti delle sede regionali. Il portale del movimento
ospita anche articoli su Istria e le Foibe ed estratti ispirati al negazionismo
in relazione alla Shoah.
Fuan. Azione universitaria. Insieme al Blocco Studentesco - rivolo di
CasaPound - rappresenta l'estrema destra nel mondo degli studenti. Diffuse nelle
maggiori città universitarie forniscono in rete un costante controcanto alle
posizioni delle associazioni studentesche di sinistra.
Veneto Fronte Skinheads. Qui l'uso della rete è abbastanza didascalico:
le opere e le gesta degli skinheads del Veneto dalla loro apparizione, negli
anni '80, a oggi. Poi la diffusione dei loro comunicati. Tra gli altri quello
intitolato Una, cento, mille Tor Sapienza.
Movimento Tradizionale Romano. Il versante culturale della destra
estrema: tra culto della romanità e analisi dei "classici" del '900, da Evola a
Pound. La diffusione dei materiali dei loro incontri e convegni è la principale
attività online.
E nel mondo? L'attività di monitoraggio compiuta dagli studiosi è costante.
Ancora in "Web Nero" vengono forniti alcuni numeri che riguardano oltre 500
organizzazioni. Cifre che possono illuminare il meccanismo del passaggio
dall'online
all'offline. Il 23,7% delle organizzazioni offre in rete un calendario dei
propri eventi. E il 10,8% suggerisce anche iniziative di movimenti che ritiene
affini o amici. La pubblicizzazione delle proprie campagne politiche è compiuta
nel 23,1% dei casi. Il 25,4% dei gruppi ha un archivio con i volantini e
documenti relativi alle attività svolte. Il 4,7% organizza azioni di protesta in
rete, come il mailbombing o il netstrike. E il 38,6% utilizza la rete per
vendere merci.
3 febbraio
La Corte dei Conti boccia la
nomina di Rosa De Pasquale a dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale della
Toscana
La De Pasquale, ex parlamentare Pd non
rieletta, è stato bocciata per mancanza di requisiti - Per l’incarico assegnato
alla De Pasquale avevano presentato la propria candidatura 25 dirigenti di
seconda fascia dei ruoli del Miur e 3 dirigenti di seconda fascia, che già
avevano ricoperto in precedenza incarichi di direzione generale…
Giuseppe Alberto Falci per “il Fatto quotidiano” –
a cura di Primo Di Nicola
Matteo Renzi ci ricasca. E la Corte dei conti lo
boccia di nuovo, senza riguardo. Ancora una volta per via di una nomina, in una
casella importante del sistema di potere di una regione che gli sta
particolarmente a cuore, la Toscana. Una nomina che coinvolge stavolta non una
persona qualsiasi, una sconosciuta, ma addirittura una ex parlamentare non
rieletta alle ultime elezioni del 2013.
POLTRONA
PER L’EX – La parlamentare in questione si chiama Rosa De Pasquale ed è stata
deputata, naturalmente per il Partito democratico, fino al 2013. Alle ultime
politiche è stata ricandidata dopo aver partecipato alle primarie del Pd, ma
inserita al ventinovesimo posto della lista in Toscana, non ce l’ha fatta a
riconquistare il seggio.
Da qui la nomina (per tre anni) il 4 settembre scorso, con apposito decreto del
presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), a dirigente generale dell’Ufficio
scolastico regionale della Toscana. Ebbene, pochi se ne sono accorti, ma il 30
dicembre, concedendo un clamoroso bis dopo la bocciatura di un’altra nomina
fortemente voluta dal presidente del Consiglio, quella di Antonella Manzione, ex
capo della polizia municipale di Firenze, alla guida del delicatissimo
Dipartimento per gli affari giuridici legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi
(coinvolto poi nel pasticcio del decreto fiscale Salva Berlusconi), la Sezione
centrale di controllo di legittimità sugli atti del governo e delle
amministrazioni pubbliche ha respinto ingloriosamente anche la De Pasquale.
FACCIAMO MIUR - Inutilmente, il ministero dell’Università e della Ricerca
scientifica (Miur) ha fatto appello alla sua «comprovata qualificazione
professionale, in particolar modo in materia di contenzioso del personale della
scuola, evidenziando approfondite conoscenze della legislazione in materia di
istruzione».
Anche la circostanza che la «dott.ssa De Pasquale è abilitata all’esercizio
della professione forense, avendo, tra l’altro, svolto la pratica legale presso
l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze» è servita a poco.
Così come le altre buone ragioni addotte a suo favore: per esempio, il fatto che
è stata dirigente «dell’Ufficio IX della Direzione generale dell’Ufficio
Scolastico Regionale per la Toscana, con reggenza dell’Ufficio Scolastico
Provinciale di Firenze»; la «conoscenza delle peculiarità della Regione», così
come non ha giovato il fatto che la De Pasquale «ha svolto dal 2008 a1 2013 il
proprio mandato parlamentare presso la VII Commissione Permanente della Camera
dei deputati – Cultura, Scienza e Istruzione».
Un titolo che il Miur richiama per sottolineare come «anche l’esperienza di
natura politica a così elevati livelli istituzionali in materia di istruzione,
seppur non direttamente attinente al conferimento dell’incarico in oggetto,
offra garanzie nella gestione dei rapporti istituzionali di alto profilo con la
Regione Toscana».
SCURE DEI MAGISTRATI – Tutto inutile. La Corte dei conti si è rivelata sorda a
tutte le motivazioni portate a sostegno della nomina all’importante incarico.
«La pur nutrita serie di argomentazioni articolate dal Miur», spiega il
collegio, «non dà evidenza di quell’elemento di aggiuntività rispetto alle
funzioni istituzionali e/o ordinarie» richiesto «quale presupposto per
l’attribuzione dell’incarico dirigenziale a soggetto esterno ai relativi ruoli».
Possibilità che, sottolineano i magistrati contabili, la legge consente «solo
nell’ipotesi in cui tale qualificazione non sia rinvenibile nell’ambito del
personale dirigenziale dell’amministrazione» anche per «ragioni di contenimento
della spesa pubblica». Per l’incarico assegnato alla De Pasquale «hanno
presentato la propria candidatura 25 dirigenti di seconda fascia dei ruoli del
Miur e 3 dirigenti di seconda fascia, che già avevano ricoperto in precedenza
incarichi di direzione generale».
Ma «ritenendo la conoscenza delle peculiarità della Regione requisito necessario
per l’assolvimento dell’incarico» vengono prese in considerazione solo le
domande «dei dirigenti già in servizio sul territorio toscano o con pregresse
esperienze di servizio in Toscana».
PROCEDURA VIZIATA – E così, mentre nove candidati vengono nominati ad altri
incarichi dirigenziali generali, la rosa degli aspiranti si riduce drasticamente
«ad un unico candidato» che difetta però di «competenza specifica sulle materie
di gestione del contenzioso del personale della scuola».
A questo punto non resta che attingere all’esterno e spunta il nome della De
Pasquale. Per effetto di una procedura valutativa «promiscua», cioè rivolta
contemporaneamente «ai dirigenti interni e all’esterno», che «non appare in
linea con il dettato» normativo. Motivi per i quali la Corte dei conti non ha
potuto fare altro che ricusare «il visto e la conseguente registrazione del
provvedimento» di nomina.
‘Ndrangheta Emilia, amianto
nelle scuole ricostruite dopo il terremoto del 2012
Secondo l'inchiesta Aemilia che ha portato in
carcere 117 persone, la ditta Bianchini Costruzioni ha utilizzato il materiale
in capannoni, caserme dei pompieri, campi di accoglienza per gli sfollati. A
rivelarlo è lo stesso titolare dell'azienda, ora in carcere, durante una
conversazione intercettata.
di David Marceddu
Scuole, capannoni, caserme dei pompieri, campi di
accoglienza per gli sfollati del terremoto. Nei cantieri della ricostruzione
dopo il sisma del 2012 dove è passata la ditta emiliana Bianchini Costruzioni,
non c’era solo la ’ndrangheta, ma spesso anche l’amianto. Miscelato assieme alla
terra per farne materiale da pavimentazione così da trarne, secondo i pm, “un
ingiusto profitto”. E’ questa l’accusa che emerge dalle carte della maxi
inchiesta sulle cosche in Emilia, culminata il 28 gennaio con l’arresto di 117
persone, molte delle quali indagate per associazione mafiosa, altre per concorso
esterno o altri reati tra i quali anche quelli contro l’ambiente.
L’occasione del sisma per fare affari del resto era ghiotta. Le scuole in
particolare: a luglio 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani aveva
stanziato 56 milioni di euro per costruire entro settembre, in tempo da record,
edifici scolastici temporanei al posto di quelli inagibili. La ditta di San
Felice sul Panaro, il cui capo Augusto Bianchini è ora in carcere con l’accusa,
tra le altre, di concorso esterno in associazione mafiosa, raccoglie una serie
di subappalti. A Reggiolo per esempio prende lavori per 140 mila euro per il
cortile della scuola “Carducci”. Mesi dopo però, il 9 novembre 2012, i
Carabinieri intercettano una conversazione all’interno dell’auto di Bianchini.
Con lui c’è Antonio Vignali, un consulente ambientale della ditta, e i due
parlano dell’eventualità che i funzionari dell’Arpa (l’agenzia regionale per
l’ambiente) possano trovare la sostanza killer nel giardino della scuola di
Reggiolo. Bianchini dice di “esserne certo” e teme che i controlli vengano poi
estesi a tutte le altre scuole dove la sua ditta ha lavorato e portato la terra,
con i relativi costi di bonifica che questo avrebbe comportato.
Previsione azzeccata, visto che poco dopo la Bianchini dovrà bonificare quella e
altre scuole: infatti l’amianto viene trovato fuori da una scuola di Finale
Emilia. E non solo. Il 24 novembre 2012 Bianchini commenta con sua moglie i
risultati dei controlli in due cortili scolastici di Mirandola e di Concordia
sulla Secchia. “Siamo rovinati”, replica lei. Peraltro in alcuni dei cantieri di
quelle scuole la manovalanza utilizzata dalla Bianchini era stata assoldata
direttamente da un uomo – secondo gli inquirenti – della ’ndrangheta, Michele
Bolognino. Si tratta di uno dei “promotori” della associazione a delinquere e in
contatto diretto con Bianchini, come spiegato nelle carte della maxi inchiesta
del procuratore Roberto Alfonso e del sostituto Marco Mescolini della Dda di
Bologna.
L’amianto in quei mesi è un vero e proprio assillo per la Bianchini, che ha
appalti in tutto il cratere. La Ausl trova tracce di amianto nella terra usata
per pavimentare il campo di accoglienza Trento di San Felice sul Panaro e vicino
al campo di accoglienza di Massa Finalese. Sempre a San Felice, la sostanza
viene trovata anche vicino alla caserma dei Vigili del fuoco e nel piazzale
dell’area provvisoria, denominata Piazza Italia, in cui il Comune aveva previsto
andassero i commercianti con i loro negozi. Ancora ne viene trovato nel deposito
della stessa Bianchini Costruzioni, senza l’autorizzazione per lo stoccaggio.
Il 18 ottobre 2012, nell’area della ditta Phoenix dove lavora sempre la
Bianchini Costruzioni, l’Arpa va a fare dei prelievi sul terreno. Il giorno dopo
l’ispezione, il 19 ottobre, Augusto Bianchini corre ai ripari e chiama Lauro
Alleluia. Quest’ultimo è uomo di fiducia di Michele Bolognino. Bianchini chiede
ad Alleluia di gettare sul terreno 3 centimetri di magrone, una sorta di
calcestruzzo magro. Obiettivo, secondo gli inquirenti, è quello ostacolare i
successivi controlli che sarebbero arrivati dall’Arpa. Un’operazione riuscita
quella di Bianchini, secondo il gip, visto che pochi giorni dopo, i tecnici
dell’Arpa tornano. I campioni prelevati il 18 ottobre erano risultati positivi
alla presenza di amianto, ma ora i tecnici Arpa non possono fare nuovi prelievi:
“L’area interessata risultava ricoperta da materiale fine pressato”. Il magrone
aveva funzionato e l’operaio Alleluia, secondo il gip, riscuote addirittura da
Bianchini (tramite Bolognino) un ‘premio’ di 200 ore per il lavoro di
‘copertura’ svolto.
Il 24 novembre 2012 Augusto Bianchini e la moglie vengono intercettati. Lei
sostiene che per la questione dell’amianto si trovano “in una bruttissima
situazione”. La donna – si legge nell’ordinanza del gip Alberto Ziroldi –
rinfaccia al marito “che dopo il terremoto per accaparrarsi il maggior numero di
commesse, hanno osato di più, pur essendo consapevoli che con il fibrocemento il
rischio sarebbe elevato, soprattutto per loro che si trovavano già sotto i
riflettori”. Pochi mesi dopo la Bianchini Costruzioni verrà esclusa dai lavori
per il post terremoto, dopo che il prefetto l’avrà cancellata dalla white list,
l’elenco delle ditte immuni da possibili infiltrazioni mafiose.
La
lobby del randagismo
Uno studio svela che da una cagna abbandonata in sette anni si possono ricavare
ben 67mila cuccioli. La soluzione per sconfiggere il sovraffollamento di cani ci
sarebbe. E' semplice, efficace ed è prevista dalla legge: la sterilizzazione
degli animali. Ma né i Comuni né le Asl l'hanno applicata. Si preferisce creare
migliaia di canili che hanno un costo enorme per la comunità, non risolvono il
problema e finiscono per aggravarlo. In nome del denaro che favorisce un po'
tutti, dal pubblico al privato, passando per le pseudoassociazioni intitolate
genericamente "amici degli animali". Un dossier denuncia il malaffare e svela
chi e come ci guadagna.
Così funziona "il sistema"
di MARGHERITA D'AMICO
ROMA - Qualcuno sa spiegarci perché il randagismo
seguiti a essere una piaga della società contemporanea? Come una malattia
invasiva si rigenera da sé, eppure la soluzione è talmente ovvia: contenere
decisamente le nascite. Invece, la maggior parte dei paesi sterilizza senza
convinzione, e si affronta piuttosto il problema uccidendo i milioni di animali
in esubero. Camere a gas dal Giappone agli Usa (anche il principale canile
municipale di New York è contestato per le iniezioni letali a 72 ore
dall'ingresso, in aggiunta al sospetto che parecchi esemplari spariscano), e
ancora soppressioni in quasi tutta l'Europa, dalla Spagna alla Svizzera; stragi
sommarie per mondare le strade di Romania e Ucraina. La durezza tuttavia non
paga: di animali vaganti che seguitano a moltiplicarsi è ancora pieno il mondo.
Una politica diversa la intraprende ventiquattro anni fa l'Italia con una legge
quadro civile e rara, la 281/91 , che vieta di sopprimere i randagi e pure di
destinarli alla vivisezione. La missione possibile è debellare il randagismo
attraverso sterilizzazioni a cura delle Asl, nonché educazione dei proprietari
alla medesima pratica. Ma la norma è subito disattesa al punto di favorire
incontrollabili movimentazioni di animali, battaglie feroci per ottenere la loro
amministrazione diretta, un sistema lucrativo e corrotto dove, oggi più che mai,
l'ultimo aspetto considerato è il benessere dei quattrozampe.
Anche da noi, dunque, per ogni cane o gatto senzatetto che trovi casa ne nascono
altri cento, mille. Uno studio dell'americana Doris Day Animal League stabilisce
che un cane femmina vagante e non sterilizzato sia soggetto a una media di due
parti l'anno, otto cuccioli ogni volta di cui almeno quattro femmine, se non di
più, che in cinque anni portano a 4.372 cani, pronti, in sette, a diventare
67mila. Ma nel frattempo, anziché agire di conseguenza, Comuni e Asl
(responsabili e garanti legali dei randagi) rivaleggiano per sbarazzarsene,
pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia si prospetti. Non vanno incontro a
epurazioni ufficiali di massa, i nostri animali, ma a crudeltà, traffici,
movimentazioni e lauti interessi che rischiano di far rimpiangere non sia così.
La lotta ad accaparrarsi la gestione di canili e rifugi in convenzione,
finanziati con fondi pubblici, è senza quartiere, e c'è chi oggi denuncia vizi
nelle gare d'appalto. I soldi sono parecchi, stanziati perlopiù dalle
amministrazioni locali: fino a pochi anni fa comunità montane, unioni dei comuni
e associazioni protezionistiche ricevevano cifre importanti anche dal ministero
della Salute (nel triennio 91-93 stanziava cinque miliardi di lire, trasformati
in cinque milioni di euro fra il 2005 e il 2010) nel 2014 ridotte al simbolico
importo globale di trecentomila euro.
Ridotta ai semplici materiali - bisturi, filo e anestetico - la sterilizzazione
di un animale può costare 20-25 euro e garantisce che esso non si riproduca mai
più. Perché, allora, non investire decisamente i denari in tale direzione?
Impossibile che cani e gatti si estinguano del tutto arrecandoci un dispiacere,
e si potrebbe così eliminare la loro condanna a una vita grama e, in parecchi
casi, a morte ancor più atroce.
I rapporti zoomafie della Lav-Lega antivivisezione sostengono che il randagismo
frutti un giro di 500 milioni di euro l'anno. Di sicuro non c'è Comune italiano
che non attinga alle proprie casse per la gestione, di solito indiretta, dei
propri animali vaganti. "I Comuni rimangono responsabili degli animali, anche
quando trasferiti in un'altra regione. Sono pertanto obbligati a provvedere a
regolari controlli, sia per verificare le condizioni di mantenimento e il
rispetto delle condizioni previste dal capitolato d'appalto, che per sincerarsi
dell'effettiva esistenza in vita degli animali all'interno delle strutture onde
evitare di continuare a pagare con soldi pubblici le rette di mantenimento", ha
chiarito Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, in una recente intervista a
Repubblica, mentre Piera Rosati, presidente della Lndc-Lega nazionale per la
difesa del cane, considera: "I canili debbono essere costruiti dai Comuni, alle
associazioni il ruolo di valore aggiunto a garanzia degli animali. Noi,
d'abitudine, gestiamo strutture in convenzione con i comuni, ma tante nostre
sezioni hanno rifugi di proprietà, mandate avanti con donazioni e sforzi
autonomi".
Per chi non si ponga scrupoli, il bene in gioco che frutta a più livelli è
appunto il randagio, quello che in teoria nessuno vuole: conteso, sequestrato,
scambiato, sballottato da una regione all'altra e oltrefrontiera, a opera di
innumerevoli parti in causa. Tutti si dichiarano votati alla sua salvezza, ma è
arduo districarsi fra sincerità, ingenuità, competenze, malafede. Un marasma, e
le istituzioni alimentano le tentazioni peggiori. Non sono pochi i comuni che,
invece di premiare l'adottante con visite veterinarie gratuite o forniture di
mangimi, stanziano una tantum (400-500 euro) devolute talvolta nemmeno al
cittadino che accoglie l'animale, ma all'associazione mediatrice.
Grazie a volontari eccezionali e a chi opera correttamente nel settore,
senz'altro nel nostro Paese migliaia di animali che senza colpa seguitano a
nascere trovano affettuose soluzioni, ma di tantissimi altri, troppi, si perdono
per sempre le tracce. Partono dai rifugi, vengono accalappiati per la strada,
rubati nelle abitazioni, scambiati sul web, trasferiti in massa verso adozioni
fuori regione o all'estero, simili a buchi neri. D'altronde, come verificare la
sorte di tutti? Intanto a gestire i canili - miglior bacino di raccolta di
questa merce vivente - sono, in conflittuale alternanza, associazioni, sedicenti
tali e privati: gli uni accusano gli altri, troppo spesso dimentichi della
ragion prima di cui vogliono essere arbitri: la tutela degli animali.
Canili, ecco il dossier-denuncia
di MARGHERITA D'AMICO
ROMA - "A dispetto di una buona legge, dopo
vent'anni di sovvenzioni al randagismo, ci ritroviamo in un sistema equivoco e
confuso che non garantisce nessuno, tantomeno animali e gli autentici volontari.
Bisogna lavorare in direzione dell'abolizione dei canili così come sono intesi
oggi e bisogna incominciare con il punire abusi e disonestà, chiunque ne
commetta". Michele Visone, presidente di Assocanili, Associazione nazionale
gestori strutture di ricezione di animali domestici, ha consegnato alle autorità
giudiziarie un dossier fatto di denunce e documenti riguardo le gare per
l'assegnazione di gestioni dei randagi in convenzione con i comuni.
Stando al fascicolo, si verificano rilevanti leggerezze nello scambio fra
amministrazioni e assegnatari delle convenzioni pubblich, siano essi privati o
stimate associazioni protezionistiche. Corsie preferenziali, promettenti appalti
tradirebbero gli animali, subordinando i loro interessi alla corsa al
finanziamento. I casi sono parecchi, individuati fra le realtà locali, visto che
le regioni recepiscono la legge nazionale sul randagismo 281/91 e i comuni
dirimono la questione sul territorio. "In Toscana, per esempio, l'Enpa conta su
numerosissime gestioni degli animali ben sovvenzionate dal pubblico", dice
Visone. "L'Enpa di Pistoia, presieduta da un vigile sanitario della locale Asl3
e componente della Commissione regionale, ha con dodici comuni un appalto da
centinaia di migliaia di euro, elargiti previo affidamento diretto. In tal modo
infatti, nel 2010, il Comune di Pistoia assegnò all'Enpa il servizio di
mantenimento dei cani randagi e l'accudimento del canile sanitario, per un
importo complessivo di circa 600mila euro valido tre anni, salvo rivalutazione
Istat. Ma in ordine alla cifra elevata, l'affidamento diretto non è consentito
dalla legge 163/2006 (che prevede un tetto di 40mila euro, mentre sopra i
200mila la gara assume rilevanza europea) e dalla Direttiva UE del 2014 che
regolamenta la certezza giuridica nel settore e l'assicurazione di un'effettiva
concorrenza e condizioni di parità tra gli operatori economici".
Numero di canili sanitari, 2013
17.171 ** N° totale di cani presenti al 1 gennaio 2013
97.859 * N° totale di cani entrati nel 2013
23.264 ** N° totale di cani trasferiti dal canile sanitario al canile rifugio
nel corso del 2013
29.163 ** N° totale di cani usciti dal canile sanitario e restituiti al
proprietario
nel corso del 2013
21.525 ** N° totale di cani usciti dal canile sanitario e adottatati da privati
nel corso del 2013
378 ** N° totale di cani nati nel canile sanitario nel corso del 2013
5.878 ** N° totale di cani deceduti nel canile sanitario nel corso del 2013
15.757 ** N° totale di cani presenti al 31 dicembre 2013
* I dati sono stati forniti da 21 Regioni e Provincie Autonome
** I dati sono stati forniti da 17 Regioni e Provincie Autonome
Come spiegano dal Comune di Pistoia, l'appalto coinvolge due canili adiacenti:
"Il canile sanitario, gestito per tutti i comuni coinvolti da Enpa, e il canile
rifugio di proprietà della stessa associazione". In questi vasi comunicanti
confluiscono i cani accalappiati in ulteriori comuni fra cui Scandicci, che
delibera nel 2012 lo stanziamento di 10.450 euro soltanto per "visita
veterinaria d'ingresso, eventuale tolettatura e trasporto" di 14 cani in arrivo
dall'Allevamento del Pratesi, distante pochi chilometri. Mentre il Comune di
Fucecchio, che peraltro non ha canile municipale, a inizio 2014 suggella una
convenzione sempre con Enpa, in cui si stabilisce (come nel caso di Scandicci)
una retta di 5 euro al giorno per il mantenimento di ciascun cane, in aggiunta a
220 cadauno all'entrata, salvo conguaglio, per prestazioni veterinarie, nonché
una somma forfettaria qualora vi sia penuria di animali: "300 euro mensili per
tutti i giorni in cui il numero di cani è pari a 0", 200 in presenza di un solo
cane, 120 quando gli esemplari sono due. "E' per risparmiare" chiariscono dal
Comune di Fucecchio: "Negli anni precedenti la convenzione era con altri, e
spendevamo molto di più".
Numero di canili rifugio, 2013
91.799 ** N° totale di cani presenti al 1 gennaio 2013
40.099 ** N° totale di cani entrati nel 2013
25.507 ** N° totale di cani dati in adozione a privati nel corso del 2013
279 ** N° totale di cani nati nel canile rifugio nel corso del 2013
13.868 ** N° totale di cani deceduti nel canile rifugio nel corso del 2013
91.437 ** N° totale di cani presenti al 31 dicembre 2013
** I dati sono stati forniti da 17 Regioni e Provincie Autonome
"La no profit Amici a Quattro Zampe di Pontedera ha invece stretto una quantità
di convenzioni fra le giunte della provincia di Pisa. E' recente
l'aggiudicazione dell'appalto dei cani dei dieci comuni dell'Unione Valdera per
circa 170mila euro" segnala ancora Visone "ma la struttura di proprietà della
suddetta associazione è autorizzata per circa 40 posti, quando il numero dei
cani previsti si aggira sugli 80". Secondo il dossier, anche il Comune di
Montecatini, aggiudicata la gara di accalappiamento all'associazione Amici degli
Animali, avrebbe omesso di verificare che fra gli scopi dell'assegnataria
mancava l'attività oggetto di gara".
"La legge regionale della Toscana indica senza dubbio che la gestione dei canili
pubblici va assegnata preferibilmente ad associazioni d'impronta
protezionistica, ma spesso, in mancanza di strutture municipali (soprattutto al
Sud) la gara assume un connotato diverso e si svolge solo per il servizio di
mantenimento dei randagi che non rientra in tale privilegio" prosegue Visone. "E
ora la Corte Costituzionale, a seguito del ricorso - perso - di un gestore
privato al Tar della Puglia, si è storicamente pronunciata esprimendo dubbi
sulla legittimità della normativa rispetto a tale vantaggio".
Passiamo alla Puglia, allora; una regione fra le peggiori, quanto a colpevole
mala gestione del randagismo, teatro di alcuni paradossi. "Nove anni fa
l'associazione La Nuova Lara ottiene in appalto la gestione del canile sanitario
di Lecce. Ma nel 2013 denuncia in Procura il sovraffollamento della struttura
medesima (benché municipale) assicurandosi, attraverso una procedura negoziata,
l'affidamento del servizio di trasferimento di ricovero, custodia e mantenimento
dei cani randagi per il Comune di Lecce, che prevede il trasloco di 160
esemplari nel proprio rifugio privato, appena aperto". Al punto 5 il bando
recita: "Valore dell'appalto, per tre anni, pari a 963.600 euro per 400 cani".
Ribatte Florana Catanzaro, vice presidente de La Nuova Lara: "Più volte e da
molti anni la nostra associazione e gli stessi servizi veterinari avevano
segnalato all'amministrazione comunale lo stato di assoluto degrado del canile
sanitario e le gravi carenze strutturali, non ricevendo mai alcuna risposta".
C'è poi chi, col supporto istituzionale, rinasce dalle proprie ceneri. Vedi il
gestore del canile lager di Marigliano (Napoli) sequestrato nel 2010. Oltre a
circa trecento animali maltrattati e sofferenti, furono ritrovati corpi
seppelliti che presentavano tagli sul collo, per probabile asportazione del
microchip. Ma la Asl non revocò mai l'autorizzazione sanitaria alla struttura,
consentendo così al titolare di partecipare, qualche anno dopo, alla gara di
appalto per i randagi del Comune di Pompei, affidatagli in base a un
considerevole ribasso. "Seppur reclamato da innumerevoli petizioni e proteste,
il trasferimento degli sfortunati ospiti di Marigliano non ha ancora avuto
luogo" riferisce Visone "e ci risulta che l'avvocato del gestore del canile,
presidente dell'associazione Cani Felici Onlus, sia la moglie del veterinario
della Asl di Marigliano, competente per il canile in questione. Il gestore ha
poi realizzato un'altra struttura, La Sfinge, nel vicino comune di Brusciano, di
competenza della medesima Asl. Fra le varie anomalie abbiamo appreso, nel far
richiesta di accesso agli atti, che misteriosi ladri avrebbero rubato i registri
di protocollo nella sede della Asl di Marigliano. A oggi, intanto, La Sfinge ha
acquisito appalti per circa 900 cani, superando di gran lunga la propria
autorizzazione di ricettività".
In generale, l'assenza dei necessari requisiti fra i partecipanti ai bandi di
gara sarebbe molto frequente: "Non a caso associazioni e gestori privati
pugliesi si sono riuniti nel consorzio Cpa completandosi a vicenda con scambi di
competenze". Anche a Laterza (Taranto), sia Assocanili che un'associazione
locale trasmettono segnalazione all'Autorità di vigilanza per i contratti
pubblici, contestando la legittimità dell'affidamento del canile municipale:
"Malgrado la rilevanza europea del bando, da 714mila euro, si è proceduto con
modalità e criteri di un appalto sotto la soglia comunitaria e omissioni delle
dichiarazioni previste".
Nel Lazio, addirittura, "un'associazione specializzata esclusivamente in
adozioni all'estero impone ai canili contratti di esclusiva dell'immagine dei
cani, al pari di un'operazione di marketing. Inspiegabile, quando il cane deve
andare in famiglia" conclude Visone: "dobbiamo insomma distinguere chi
dall'amore per gli animali si inventa un progetto da chi, per il progetto,
s'inventa l'amore".
A centinaia spediti verso le regioni del Nord
di MARGHERITA D'AMICO
ROMA - La promessa di un benefico Nord dove i
randagi troverebbero un porto sicuro è colma di insidie. Innegabile che le
regioni del nostro Settentrione abbiano attuato politiche migliori,
sterilizzando di più e controllando con maggior attenzione le strutture. Se per
esempio in Puglia, Sicilia, Campania, si incontrano animali in difficoltà a ogni
angolo di strada, a Milano o Torino questo non avviene. Ma la quantità di
animali che l'Italia e l'Europa del Nord dovrebbe assorbire appare strabiliante
e illogica. Basta guardare le movimentazioni: quelle verso l'estero si possono,
solo in parte, desumere dal cumulo di passaporti richiesti alle Asl da
associazioni e privati esportatori; di quelle nell'ambito del territorio
nazionale danno un'idea le quotidiane staffette annunciate sul Web. Leggete su
questo la nostra inchiesta "Sulla pelle dei randagi".
Da principio iniziative virtuose, evolute poi in redditizie manovre, queste
ultime consistono in viaggi perlopiù a pagamento. Per molti animali funziona, ma
tantissimi altri si perdono nel corso di inaccertabili passaggi. Smarriti nei
fumosi scambi ai caselli autostradali, possono morire in viaggio o poco dopo. I
rari fermi dei furgoni a opera di guardie zoofile e polizia stradale hanno
rivelato esemplari ammassati nelle gabbie e narcotizzati, anche 80 per ciascuna
tratta, scoprendo spesso che le schede di adozione erano intestate a prestanome.
Ma finisce lì e presto gli animali vengono riconsegnati a chi li ha fatti
partire, pronti a essere nuovamente imbarcati.
Due anni fa un breve incidente fra onlus vide Marco Caterino, coordinatore delle
guardie zoofle Oipa di Caserta, fermare per un controllo con la polizia stradale
una discussa staffettista professionale, in arte Mamma Chiara. La donna si
dichiarò volontaria dell'Enpa, il cui coordinatore nazionale delle guardie
zoofile, Antonio Fascì, addirittura la scortava con un altro veicolo. "In
rarissime occasioni abbiamo collaborato con la signora, la quale, sul suo
automezzo, ha utilizzato senza alcuna autorizzazione il nostro logo e, per
questo, è stata formalmente diffidata", puntualizza Michele Gualano, direttore
generale dell'Enpa.
"Qui in Sicilia viviamo un momento drammatico, c'è una corsa incredibile ad
assicurarsi randagi da inviare al Nord", commenta Antonino Giorgio, coordinatore
regionale e presidente della sezione di Trapani della Lndc-Lega nazionale per la
difesa del cane. "Non solo non si ha idea di dove questi animali realmente
finiscano, ma così facendo si deresponsabilizzano le istituzioni, già tanto
manchevoli quanto a controlli, sterilizzazioni. Ovunque spuntano sezioni locali
di grandi associazioni; tutte mandano fuori i randagi. Un sindaco del trapanese
si è persino vantato con la stampa di spedire i suoi in Germania".
Sedicenti volontari si contendono gli animali, li arraffano contro la legge e il
buon senso. L'Italia intera è afflitta da furti di cani e gatti, rapiti dentro
abitazioni e giardini, per tacere dell'indiscriminato prelevamento per strada
dei randagi, e nemmeno esiste (come per le automobili) una banca dati
centralizzata che consenta agli inquirenti di analizzare il sinistro fenomeno.
Ma dove finiscono, a decine di migliaia, questi indifesi? Ecco che il virtuoso
Nord si trasforma in zona d'ombra, dove gli animali vengono smistati,
reindirizzati, depositati in stallo, vale a dire in collocazione temporanea
prima del successivo spostamento. Magari su un comodo divano, ma si temono anche
obiettivi atroci. Mercato di carni e pelli, lotte clandestine, vivisezione
occulta, zooerastia (abusi sessuali sulle altre specie), trasporto della droga,
sadismi e rituali di vario genere. Laika è una barboncina bianca di undici anni
e vive in famiglia ad Avola (Siracusa) vicino al mare. D'estate segue in
spiaggia i padroni, e quando ne ha abbastanza rientra da sé. Il 20 agosto 2014
svanisce nel nulla, purtroppo non è microchippata. Giuseppina Nuccio, la
proprietaria, diffonde disperati annunci per tutta la contrada e su Facebook. Su
una pagina di presunto volontariato scopre una fotografia di Laika pubblicata
alcuni giorni prima della scomparsa. Per lei si richiedono fondi, definendola
abbandonata: cure, stallo e adozione. Giuseppina scrive chiedendo che le venga
restituita, ma la reazione è sbalorditiva: "E il cane nn ce più e adesso ti
attacchiiii al tram". Giuseppina denuncia alla polizia di Avola: "Confido in una
rapida indagine che mi riporti Laika". E le volontarie replicano: "Ahahah anche
la denuncia per aver salvato una cagnolina gente di m...".
Storia di Laika, così scompare un cane
Date le disastrose gestioni del Sud e la mole di sequestri in tutta la Penisola
- Trani, Catania, Roma... la lista dei canili-rifugio indegni lascia sbalorditi
- e a volte si fatica sul serio a sistemare gli animali sul territorio dove
continuano a moltiplicarsi, o comunque gli spostamenti trovano spiegazioni. "Per
garantire esecuzione all'ordine del Magistrato - in un'inchiesta che finalmente
sta portando alla luce i misfatti avvenuti fra silenzi e complicità - in
mancanza di alternative abbiamo trasferito 40 cani e 20 gatti in strutture fuori
dal Lazio" spiega Gianluca Felicetti, presidente della Lav-Lega antivivisezione
dalla cui denuncia è scaturito il sequestro del Canile Parrelli di Roma.
Riguardo poi i trasferimenti all'estero la Lav, che tramite la sua sezione
capitolina ha appoggiato nel 2011 l'invio in Germania degli inquilini del canile
di Rieti, anch'esso sequestrato, dichiara una posizione ecumenica: "A questo
tipo di adozioni non siamo favorevoli, né contrari a prescindere".
In realtà, a dispetto di crisi e cattive abitudini, l'italiano dimostra ovunque
grande disponibilità all'adozione. Ciò nonostante, movimentare gli animali è
pratica comune, lo asserisce Sara Turetta, attiva in Romania con il progetto
Save the Dogs e paladina delle adozioni internazionali, in una lettera alla
stampa in cui contesta una voce dissenziente: "Ci sono tante persone serie, qui,
che si occupano di cani, ma per tua sfortuna, tutte ne mandano all'estero".
Presidente da due anni della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, Piera
Rosati ha invece commissariato o chiuso con il suo Consiglio alcune sedi locali:
"Abbiamo riscontrato qualche gestione poco accorta e soprattutto c'era chi
inviava animali in adozione all'estero, una pratica a cui sono contrarissima.
Per carità, nessun dubbio sulla generosità straniera, ma tutto quanto non sia
ben verificabile costituisce un inaccettabile rischio per gli animali".
Una volta varcata la frontiera cani e gatti sono irrintracciabili. Secondo le
associazioni che si dedicano al profluvio di adozioni all'estero (Germania,
Austria, Svizzera, Belgio, Svezia) di cui sono oggetto i nostri randagi e quelli
di Grecia, Turchia, Spagna, Romania, le altre cittadinanze sarebbero ricche e
magnanime, pronte a fare incetta dei nostri animali meno attraenti. Invece di
salvare gli esemplari che nei patri canili vengono soppressi, i cittadini
svizzeri preferirebbero cani pugliesi o siciliani malati, mutilati, paralizzati,
coperti di rogna, avidi di importare malattie endemiche a rischio di contagio
umano come la leishmania. Lo stesso varrebbe per i tedeschi, i quali non
dispongono di anagrafe canina unitaria e per adottare sborserebbero ingenti
contributi.
Ancor prima di partire i cani sono in offerta, ciascuno abbinato a una tariffa
che varia dai 150 ai 450 euro, su siti stranieri, come pure negli appelli
diramati da una cordata di associazioni ramificata in tutta Europa. Queste
lanciano appelli e raccolgono in tutta Europa fondi sollecitati da immagini
angosciose: animali miserandi nei canili lager. L'unico, importante processo
scaturito da un'indagine sulle - appurate - false adozioni all'estero langue in
attesa di prescrizione presso il Tribunale di Napoli. Questo, a dispetto della
circolare 33 con cui già nel 1993 il ministro per la Salute Maria Pia Garavaglia
registrava con preoccupazione l'irrintracciabile flusso di randagi in uscita dal
nostro Paese e, fra le altre cose, raccomandava di "non cedere cani conto terzi,
ma direttamente all'interessato". Il contrario di quanto solitamente avviene,
visto che tante associazioni si intestano gli animali e poi li collocano presso
strutture di transito donde ripartiranno in seguito. Una piccola associazione
pugliese, Occhi Randagi, persegue un modello di trasparenza che finora non ha
emuli in virtù del paravento della privacy: pubblicano luogo di provenienza e
città di destinazione dell'animale, con il nome dell'adottante.
Quelle false associazioni che celano il businessdi MARGHERITA D'AMICO
ROMA - Nella coscienza comune, per comprensibili ragioni, le associazioni
animaliste si distinguono meritevolmente da chi, sulla gestione dei randagi, fa
impresa. All'occorrenza, però, bisogna saper rovesciare la medaglia e, di volta
in volta, distinguere. Chiunque in definitiva, e con estrema facilità, può
costituirsi in associazione e avvalersi del marchio di fabbrica, mentre cercare
di far quadrare un bilancio (affiancando di solito altre attività alla cura dei
randagi, come assistenza veterinaria o pensione per cani privati) non significa
necessariamente rifarsela sugli animali.
Partendo dal presupposto che i canili non
dovrebbero esistere, se non per accogliere transitoriamente animali destinati in
famiglia o custodire malati terminali, casi difficili, nello stato dei fatti la
valutazione dovrebbe basarsi su modi, criteri, qualità della gestione. La
normativa prospetta parametri sanitari per le strutture, ma non obbliga alla
presenza di educatori, né puntualizza con la debita severità le prassi di affido
e successiva rintracciabilità degli animali.
Una vicenda paradigmatica ha luogo in Puglia, dove il sequestro di canili
indegni, in cui gli animali sono detenuti in condizioni atroci se non
maltrattati fino alla recisione delle corde vocali, non fa quasi notizia. Capita
pure, però, che la stigmatizzazione si rivolga a strutture decentissime. È il
caso I Giardini di Pluto a Carovigno (Brindisi), canile-rifugio convenzionato
con diversi comuni della zona, contro cui nel 2013 un'indagine sollecitata
dall'associazione La Nuova Lara e seguita da un esposto della società Dog
Service si appunta sul sovraffollamento e sfocia in sequestro. I 730 cani ospiti
superano il limite di 200 fissato dalla Legge regionale pugliese del 2006, ma la
struttura è stata autorizzata prima dell'entrata in vigore della norma, che non
agisce retrospettivamente.
"L'associazione denunciante La Nuova Lara si era già presentata giusto al fianco
della Dog Service con un contratto di avvalimento concesso a titolo oneroso
nella gara d'appalto a San Vito dei Normanni, per la custodia di randagi oggi
affidati a I Giardini di Pluto. Vendendo quindi a un privato il proprio
requisito di onlus, senza cui il medesimo non avrebbe potuto partecipare" dice
Michele Visone, presidente di Assocanili. "Non ci stupiamo poi se rappresentanti
di misconosciute associazioni risultano disoccupati e invece si scoprono
titolari di società immobiliari. A danno dei veri volontari c'è un fiorire di
associazioni falsamente animaliste".
Contro la tradotta forzata di 151 cani proprio nel canile della Dog Service, non
autorizzato ad accogliere randagi, si sollevano proteste e un'interrogazione
parlamentare che lasciano indifferente il gip Maurizio Saso, caso non isolato di
una magistratura all'apparenza dimentica del benessere degli animali. È recente
la richiesta di archiviazione firmata dai sostituti procuratori Assunta Musella
e Alessia Minicò del fascicolo riguardante due strutture private nel catanese,
gestite da un veterinario con appalti milionari in convenzione con molti comuni.
Qui, secondo il report dell'Unità operativa per la tutela degli animali, lotta a
randagismo e maltrattamenti del ministero della Salute, la cui ispezione portò
al sequestro dei canili (seguito da un rapido dissequestro), aggrediti da
malattie gli animali erano stipati in recinti fra feci, cibi avariati e fango.
A volte, privati e associazioni decidono di unire le forze per assicurarsi il
successo. L'appalto di circa 94mila euro per i cani del Comune di Collesalvetti
(Livorno) è andato a un privato che si è avvalso dei requisiti di
un'associazione animalista "senza che si tenesse conto della mancata presenza di
un contratto fra le parti, obbligatorio quando si ricorre all'avvalimento, pena
esclusione dalla gara". Lo scorso anno una volontaria siciliana, Elena Caligiore,
dichiarò a una tv locale i propri dubbi riguardo il proposito di spostare decine
di cani del siracusano in Emilia Romagna da parte dell'Enpa-ente nazionale
protezione animali, la più antica associazione animalista italiana (la fondò
Garibaldi): "La loro sezione locale ha chiesto randagi anche ai comuni di Priolo,
Floridia, Lentini. Propongono di trasferirli al canile San Prospero di Modena,
dove ne perderemmo le tracce: perché? Il randagismo si risolve solo
sterilizzando". Smentisce secco Michele Gualano direttore generale dell'Enpa:
"La circostanza non risponde a verità"
D'altro canto è sempre più difficili operare distinzioni di merito fra le
associazioni, legate talvolta da intrecci inaspettati. Come per esempio
suggerisce la lettera di credenziali (di cui esistono due copie diversamente
datate, forse un uso disinvolto da parte del beneficiario) con cui Carla Rocchi,
presidente nazionale dell'Enpa, garantisce l'affidabilità di un'associazione
locale, già contestata dal commissario prefettizio Aldo Lombardo, per la
gestione del canile di Manduria (Taranto) che è oggi in via di smantellamento.
"Enpa non promuove la gestione di terzi" commenta Gualano: "In alcuni casi però
sostieniamo, con l'obiettivo del miglioramento della gestione e del benessere
degli animali, la soluzione di situazioni critiche".
Se per operare a tutto campo è utile appartenere a una categoria di settore, c'è
chi, per non sbagliare, le garanzie di qualità vede di acquisirle tutte. E' ad
esempio il caso del gestore di Dog's Town a Pastorano, in provincia di Caserta:
veterinario, guardia zoofila Enpa e membro di Assocanili; oltre a gestire gli
ospiti del canile-rifugo in convenzione, accalappia per conto dei comuni e si
occupa persino di animali esotici, ma sul sito associativo i cani proposti in
adozione si contano sulle dita di una mano.
Appalti e omissioni, le colpe dei Comuni
di MARGHERITA D'AMICO
ROMA - Per la grande maggioranza degli
amministratori italiani occuparsi del randagismo è una scocciatura marginale, se
non fosse che la tenerezza dell'elettorato verso gli animali si fa sempre più
intensa. Ma ancora, a meno che sindaco o assessore delegato non siano sensibili
e competenti in prima persona - fenomeno raro - la questione viene sbolognata in
toto alle (spesso) incanaglite Asl, oppure gestita - a volte in buona fede,
altre, si direbbe, meno - affidando il destino degli animali a interlocutori
terzi.
A Roma, per dirne una, è in ballo il rinnovo della gestione dei tre canili
municipali (il quarto, un piccolo e centralissimo presidio, è stato chiuso nel
novembre scorso) affidata dal 1997 all'Associazione volontari canile Porta
Portese, che in circa vent'anni hanno sistemato in casa circa trentamila cani e
gatti. "Abbiamo partecipato a ben tre gare d'appalto e, non certo per
responsabilità dei partecipanti, nessuna è andata buon fine", spiega Simona
Novi, presidente di Avcpp: "l'ultima è stata addirittura sospesa a causa della
presenza della Cooperativa 29 Giugno, priva di qualsiasi specifica competenza in
materia di benessere animale e coinvolta nello scandalo Mafia Capitale. In vista
della quarta gara, ci auguriamo che la giunta Marino prenda in considerazione
l'unico parametro sensato e previsto dalle normative vigenti: la capacità di
fare adozioni certificate, garantire il benessere degli ospiti e di trasformare
i canili in un semplice luogo di passaggio".
Parecchie amministrazioni cercano di svuotare i canili non già incoraggiando
adozioni consapevoli, con l'eventuale offerta di visite veterinarie o mangime
gratuito per premiare l'accoglienza di cane o gatto nella realtà domestica, ma
proponendo denari a chiunque ritiri un animale. Nell'aprile 2012 il comune di
Oristano (Cagliari), a fronte del costo annuo di 914 euro pubblici stanziati per
il mantenimento di ogni cane presso il Canile di Sandro Piras, delibera di
corrispondere "in favore dell'associazione firmataria della convenzione un
contributo una tantum di 450 euro per ciascun cane di cui venga realizzata con
successo l'adozione".
Se già appare illogico e diseducativo corrispondere denari a casaccio a fronte
dell'animale sbolognato, è doppiamente assurdo pagare il mediatore. Una
cittadina racconta di aver telefonato alla suddetta associazione per adottare un
cane: "L'operatrice mi suggerì di non recarmi al canile in prima persona. Disse
che il gestore non gradiva gli ingressi al pubblico, dunque se ne sarebbero
incaricati loro. Mi chiesero di compilare un questionario molto fitto, assieme a
cui avrei dovuto versare loro 50 euro". Somma che, in aggiunta all'una tantum
comunale, portava l'incasso dell'associazione a quota 500. "Gli stessi animali
che avevano messo in adozione erano pubblicizzati su Facebook, e si chiedevano
per loro donazioni in denaro. Mi domando quanto fruttasse ogni singolo cane".
"L'iniziativa non ha funzionato, si è spenta da sola" dichiarano oggi dal Comune
di Oristano: "Abbiamo in programma di rilanciare altrimenti le adozioni".
Dalla loro, quegli amministratori attenti al fenomeno randagismo non possono
esimersi dall'esprimere preoccupazione verso la generale confusione in cui si
pensa di affrontare il problema animali vaganti. Secondo Andrea Guido, assessore
all'Ambiente del Comune di Lecce con delega al randagismo, "si sono innescati
meccanismi perversi in un sistema costellato da associazioni che appaiono
concentrate più sugli appalti che sulla ricerca del benessere degli animali,
nella cui gestione si manca di avviare azioni serie e concrete. Occorre maggiore
attenzione all'iscrizione delle associazioni nel relativo albo regionale, come
pure sulla delicata materia delle adozioni".
La virtù, in questo ambito, non paga. Per essersi opposto all'imprudente e non
conforme adozione all'estero di un singolo cane all'estero, dopo aver ottenuto
soddisfazione dal Tar, il Comune di Terni si ritrova denunciato alla Procura
della Repubblica e alla Corte dei Conti da una motivatissima signora tedesca che
a ogni costo vuole acquisire un animale malato di epilessia e già adottato in
Umbria.
Emergenza e randagismo, oppure emergenza randagismo: la percezione di una
situazione fuori controllo non abbraccia solo la tutela degli animali, ma i più
vari interessi pubblici. Dispendio di denaro e risorse umane, pericoli (non
tanto nel merito degli occasionali branchi di cani che insieme organizzano la
sopravvivenza, quanto per gli incidenti stradali causati da soggetti vaganti o
abbandonati), sofferenza che dilania ogni specie a partire dalla nostra, nelle
persone dei volontari che spesso spendono l'intera vita a tamponare tale,
evitabile disastro. Malauguratamente, il contenimento delle nascite non è
praticato che a parole. Salvo luminose eccezioni, al bisturi le Asl preferiscono
l'ufficio, dove si timbrano montagne di passaporti perché i cani possano
sloggiare all'estero. Non ci s'interessa neppure affinché i proprietari evitino
le cucciolate e gli allevatori soggiacciano a limiti. E quando ai comuni viene
tesa una mano da chi offra sterilizzazioni gratuite o a poco prezzo per
tamponare le pubbliche inadempienze, la risposta è quasi sempre no.
"Esistono eccome gruppi di medici veterinari indipendenti e generosi, i quali si
propongono di intervenire con il solo rimborso dei materiali. Si possono
sterilizzare, se ben organizzati, anche cento animali al giorno. In un paio di
settimane si potrebbe arginare il randagismo in una città come Bari" spiega il
veterinario Antonio De Simone, il quale ha già sterilizzato pro bono a Ventotene
e in Puglia. "Ma ci si sente rispondere no grazie, sia per non indispettire gli
ordini professionali, preoccupati della concorrenza e a volte in rapporti di
collaborazione con le Asl, che per logiche, chiamiamole così, di ordine
burocratico".
Aggiunge Claudio Locuratolo, guardia zoofila Enpa di lungo corso: "Per avversare
il randagismo si sente sempre parlare dell'importanza del microchip, con cui
almeno i cani sono inseriti nell'anagrafe regionale, che dovrebbe confluire in
quella nazionale: sacrosanto, ma i controlli sono inesistenti e le sanzioni per
chi contravviene ridicole. Le cinture di sicurezza, per fare un esempio, hanno
iniziato a funzionare quando fioccavano le multe. Bene la prevenzione quindi, ma
è inevitabile passare per una fase che inculchi l'obbligo con severità".