31 marzo

 

 

di Anna Donati

La truffa delle Grandi opere

Sul sistema delle grandi opere, mostra l'inchiesta in corso, è necessario un deciso cambio di passo. A partire dagli effetti distorsivi della Legge Obiettivo, sulla sterminata lista di opere che si vorrebbe realizzare di nessuna utilità collettiva, fino alle deroghe e proroghe che diventano la regola nel sistema degli affidamenti.

La nuova inchiesta della Procura di Firenze sulla corruzione nelle grandi opere pubbliche, con 51 indagati, che ha portato all’arresto tra gli altri di Ercole Incalza ed alle dimissioni del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, rende purtroppo evidente il cronico ed endemico legame tra realizzare infrastrutture, distorsione delle regole e malaffare. Numerose sono le grandi opere nel mirino delle inchieste: tratte ad Alta velocità come il terzo valico Milano-Genova, il sottoattraversamento AV di Firenze, l’AV Brescia-Verona, o le grandi autostrade come la Orte-Mestre, la Pedemontana Veneta e quella Lombarda, la Cispadana. Ma anche linee metropolitane come la linea C di Roma, e la M4 ed M5 a Milano. Incredibilmente dieci di queste grandi opere avevano lo stesso direttore dei lavori, ora arrestato nell’ambito dell’inchiesta.

Sarà la magistratura a stabilire le responsabilità personali di tutti i soggetti indagati nel Sistema degli appalti pubblici, mentre sul piano politico ed istituzionale abbiamo l’obbligo di un cambio deciso di passo sul sistema delle grandi opere. Sugli effetti distorsivi della Legge Obiettivo, sulla sterminata lista di opere che si vorrebbe realizzare di nessuna utilità collettiva, sulle deroghe e proroghe che diventano la regola nel sistema degli affidamenti, sulla mancanza di una credibile Politica dei Trasporti sostenibile. Così, nel caso più macroscopico delle scelte per mobilità e trasporti, non si è mai valutata la qualità del servizio da offrire ai cittadini dando priorità al trasporto pendolare e nelle città, ma piuttosto si sono privilegiati gli investimenti ad alta intensità di cemento, asfalto e consumo di suolo.

E’ il 9° rapporto sullo Stato di Attuazione della Legge Obiettivo, elaborato dal Servizio Studi Camera, Cresme ed Autorità Anticorruzione che espone i numeri esatti. Dal 2001 al 2014 le grandi opere strategiche sono diventate 419 ed il costo presunto pari a 383 miliardi di euro. Di queste quelle inserite nell’Allegato Infrastrutture 2014 del Governo valgono 285 miliardi di euro, ma quelle che effettivamente hanno un progetto preliminare o definitivo approvato al Cipe sono pari a 153 miliardi di Euro. Secondo il rapporto le opere completate si fermano a 6.5 miliardi di euro pari al 4,3% del totale. Se si considerano i singoli lotti ultimati questa percentuale sale all’8,4% del totale. Per quanto riguarda la tipologia di opere il 95% del totale riguarda infrastrutture nei trasporti: tra queste ben il 52% sono strade ed autostrade, gli investimenti ferroviari il 35% e le metropolitane poco più del 6%.

Più che evidente che se le liste sono sterminate, le risorse pubbliche assai scarse, le risorse private un miraggio sventolato per farsi approvare i progetti, i sistemi di decisione accentrati e semplificatori, in assenza di valutazioni Costi Benefici accurate e senza Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere, l’unico criterio di selezione diventano le pressioni debite e soprattutto quelle indebite per fare avanzare e finanziare un’opera invece di un’altra al Cipe.

Da notare che una buona parte di grandi opere sono realizzate in concessione senza gara, (vi è solo un obbligo di porre una quota dei lavori a gara sul mercato), come il Mose, le grandi Autostrade private e pubbliche in concessione, l’Alta velocità ferroviaria: ne deriva un sistema bloccato e dei soliti noti, sia sul piano delle imprese che dei referenti politici.

La legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi nel 2001, nel corso del tempo è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e poi ancora “lotti costruttivi” tradendo quindi completamente la logica dei “tempi certi e costi certi” per le infrastrutture. E poi le semplificazioni procedurali, la Struttura Tecnica di Missione e le decisioni al Cipe, l’esclusione degli Enti locali, il General Contractor che diviene un soggetto privato impossibile da vigilare, le Valutazioni di Impatto Ambientale addomesticate.

A questo si aggiunga un Codice Appalti del 2006 con un doppio regime tra opere ordinarie e opere strategiche, con continue modifiche normative che rendono ormai impossibile comprendere cosa e come applicare le procedure, rendendo ancora più facile la vita a chi le regole le vuole evadere per i propri interessi privati.

Ed in continuità con queste distorsioni è stata anche l’approvazione nel 2014 del Decreto Sblocca Italia, dove con l’articolo 5, il Governo vuole prorogare la scadenza delle concessioni autostradali allungandogli la vita per realizzare le grandi autostrade, nonostante che robuste proroghe siano a suo tempo già state assicurate alle Concessionarie, evitando quindi le gare. Con tanto di aiuti fiscali retroattivi all’Autostrada Orte-Mestre ed ampie garanzie pubbliche verso i privati, come ben descritto nel testo di denuncia “Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro.” (Altreconomia Edizioni, 2015).

Non a caso il Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, si è scagliato contro queste proroghe delle concessioni ed ha definito la Legge Obiettivo “criminogena”.

Noi ambientalisti abbiamo contestato da sempre e duramente la Legge Obiettivo, ed ancora prima la logica dei grandi eventi come Mondiali ‘90 e Colombiane ‘92, o il sistema delle Ordinanze della Protezione Civile, delle ricostruzioni post terremoto e delle grandi emergenze, vere false o presunte, invocate per evitare gare ed una selezione trasparente gli investimenti utili. Ma fino ad oggi è stato impossibile vincere la battaglia delle "opere utili" con i mezzi delle razionali analisi tecniche su costi e benefici, della discussione aperta e democratica su cosa sia davvero necessario per realizzare trasporti e infrastrutture efficienti. E’ stato impossibile perché la commistione fra irresponsabilità politica, strapotere di funzionari pubblici inamovibili, appetiti di imprenditori senza scrupoli, “deregulation” che ha fortemente ridotto le garanzie sulla trasparenza amministrativa, la mancanza di politiche dei trasporti, hanno impedito un processo decisionale pubblico e scelte razionali nell’interesse collettivo.

Questo sistema ha di certo complicato anche la vita e l’attività delle imprese sane, quelle capaci di progettare e lavorare seriamente, di realizzare investimenti complessi e promuovere l’innovazione, che spesso per sopravvivere nel mercato, ancora di più in tempi di crisi dell’edilizia, si sono dovute “adattare” al Sistema distorto degli appalti pubblici.

Adesso è il momento di voltare pagina. E’ necessario abolire la Legge Obiettivo, il suo elenco di opere spesso inutili e insostenibili e di procedure che scavalcano procedure e regole a difesa delle finanze pubbliche e dell'ambiente: bisogna rivedere le norme sulla valutazione di impatto ambientale, permettendo un vero “dibattito pubblico” che consenta una valutazione ponderata e partecipata su cosa serva davvero al territorio, alle città e alla comunità.

Va poi rivisto il Codice Appalti del 2006, introducendo norme chiare e semplici per garantire gare trasparenti e piena concorrenza nel mercato dei lavori pubblici, impedire ogni genere di proroga o deroga rispetto alle vie ordinarie, rafforzare i poteri d’intervento dell’Autorità Anticorruzione.

È indispensabile eliminare quelle disposizioni contenute nel Decreto "Sblocca Italia" e nell’ultima Legge di Stabilità che nel solco della Legge Obiettivo aprono la strada a una nuova ondata di opere di nessuna utilità pubblica (trivellazioni petrolifere, inceneritori di rifiuti) ed elargiscono inaccettabili “favori” a lobby potenti con la proroga delle concessioni ai “signori delle autostrade”.

Insieme a tutto questo, è urgente riconsiderare le scelte su opere in corsa – dal tunnel per l’alta velocità Torino-Lione, al “terzo valico Milano-Genova, ai progetti di nuove autostrade (Lombardia e Veneto, Orte-Mestre, Autostrada della Maremma) - che a fronte di un costo per la collettività esorbitante, non servono a risolvere i problemi di mobilità dei cittadini/e ed hanno un elevato impatto ambientale.

Per scegliere le opere utili, grandi e piccole che siano, serve invece adottare un Piano dei Trasporti e della Logistica Sostenibile, applicando alle grandi opere le procedure previste dalle Direttive Europee per la Valutazione Ambientale Strategica. E’ dal 2001, quando fu messo rapidamente nel cassetto il PGTL del Ministro Bersani ed approvata dal centrodestra la Legge Obiettivo, che parliamo solo di liste e di grandi opere, senza una politica dei trasporti strategica, sostenibile e capace di futuro. Una politica di non solo infrastrutture, ma fatta di servizi di trasporto per i pendolari e le città, dove si muovono due terzi dei cittadini e che oggi non hanno un sistema di trasporto adeguato ed efficiente.

La corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Per sconfiggerla occorrono innanzitutto leggi all’altezza: rapida approvazione del 416ter e della legge sugli ecoreati; confisca dei beni ai corrotti; pene adeguate per "reati civetta" come il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, l'evasione fiscale; norme rigorose sul conflitto d’interessi. Ma le leggi da sole non bastano: serve anche l'impegno di tutti - a cominciare da quanti hanno titolo nelle decisioni pubbliche - a farle vivere attraverso le scelte e i comportamenti quotidiani.

Infine, è decisivo che la scelta del/la nuovo/a Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - che il Presidente del Consiglio Renzi si appresta a scegliere - risponda a un radicale cambio di rotta negli indirizzi e nei metodi delle politiche pubbliche in materia di infrastrutture. Occorre un/a Ministro consapevole che le grandi opere essenziali per l’Italia sono quelle dettate dall’interesse generale di tutti, non quelle imposte dalla convenienza privata di pochissimi: sono, dunque, rimettere in sesto il nostro territorio, assicurare una mobilità pubblica efficiente nelle città e rimediare allo stato arretrato del trasporto regionale, puntare sul ferro e sul cabotaggio costiero per il trasporto delle merci smettendo di favorire con regali milionari il settore dell’autotrasporto.

Questo gli ecologisti reclamano inutilmente da anni. Se il Governo vuole davvero demolire la “cupola” che da anni governa i grandi affari delle grandi opere, l’occasione è oggi.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info.

 

Appalti, come arricchirsi con l’uno per cento

Grazie a sponsor politici e protezioni aziendali, le grandi opere sono sempre un affare. Così funziona il meccanismo che assegna le direzioni dei lavori. A spese dei cittadini.

di Gianfrancesco Turano

Appalti, come arricchirsi con l’uno per cento I cantieri della metro C a Roma Lo scorso autunno una delegazione libica sbarca a Roma per discutere della Coastal road. È l’autostrada che il governo italiano ha promesso al fu Muhammar Gheddafi nel 2008, con Silvio Berlusconi premier e Altero Matteoli ministro delle Infrastrutture, per compensare i danni della colonizzazione sabaudo-fascista.

Lo schema dell’accordo, mantenuto anche dopo la caduta del Colonnello, prevede che la società pubblica Anas international enterprise, controllata al 100 per cento dall’Anas, si occupi del progetto e della direzione lavori. La Libia può scegliere le imprese, purché siano di preferenza italiane (Salini-Impregilo, Cmc, Condotte, Pizzarotti).

L’incontro romano si svolge in un’atmosfera surreale. I libici si sentono dire che alla direzione lavori sulla Ras Ejdyer-Emssad Motorway parteciperà anche la Ingegneria Spm di Stefano Perotti. No problem, rispondono. Sanno bene che in questo momento la costruzione di un’autostrada è più probabile su Marte che nella Libia devastata da tre anni di guerra civile e dall’attacco dello Stato Islamico. Ma conoscono gli italiani e sanno stare al gioco. E in gioco per adesso non ci sono i 2,3 miliardi di euro della Motorway costiera ma i 125 milioni di euro di consulenze tecniche e amministrative bandite a gara dall’ambasciata di Tripoli ma pagate con fondi degli ex colonizzatori.

L’inchiesta “Sistema” della Procura di Firenze rivelerà che la Spm è stata imposta da Ercole Incalza, il burattinaio del Mit, arrestato insieme all’ingegnere Perotti. Per l’autostrada libica è finito sotto inchiesta anche il direttore generale di Anas international, Fabrizio Averardi Ripari, che oggi si difende dicendo di avere subito le pressioni di Incalza per inserire Spm nel business libico. È la stessa tesi che ha rilanciato in termini generali Pietro Ciucci, dominus uno e trino dell’Anas secondo la definizione del capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. Secondo Ciucci, intervistato da “Repubblica”, i general contractors, ossia i grandi costruttori, sono appoggiati dai politici o dai grand commis del ministero e l’Anas è loro ostaggio. Si potrebbe eccepire che un ostaggio, al contrario di Ciucci, non riceve ricchi emolumenti e non può dimettersi quando vuole. Ma la questione esiste, e da parecchi governi.

Il Partito democratico nemmeno era alle viste nel 2003 quando il senatore dell’Ulivo Zanda e i suoi colleghi Paolo Brutti e Anna Donati presentavano la prima interrogazione parlamentare sul “Sistema” che accentra progettazione e direzione lavori delle opere pubbliche nelle mani di un oligopolio. Nell’ultimo decennio giovani e meno giovani leoni dell’ingegneria hanno prosperato. I contraenti generali li nominavano come progettisti o direttori dei lavori, spesso con l’intermediazione interessata di sponsor politici. L’effetto è stato l’asservimento della tecnica al profitto.

Dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) il settore è stato lottizzato a vantaggio di imprenditori privati dell’engineering e a scapito delle professionalità interne di società pubbliche come la stessa Anas o l’Italferr (gruppo Fs) guidata un tempo da Giulio Burchi, un altro indagato di “Sistema”.

Ha fatto comodo a tutti. Alle imprese di costruzione, che guadagnano con le perizie di variante concesse dalla committenza pubblica su imbeccata dei tecnici. Ai controllori pubblici che, invece di controllare, si sono arricchiti con i collaudi. Ai tecnici che sono nominati dai contraenti generali, che incassano fra lo 0,7 e l’1 per cento dell’importo lavori e che hanno spesso una filiale straniera per smistare il nero. Ai politici, che fabbricano consenso con le inaugurazioni e ricevono favori sotto varie forme, dal versamento estero su estero all’assunzione dei figli, com’è accaduto all’ex ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.

 

Il sistema di potere dell'ex ministro Lupi

Non ha più il sostegno della lobby di Cl. E ora l’indagine di Firenze con i favori al figlio investe il politico del Ncd. Che ha cercato di tenere insieme destra e sinistra.

Fonte: L'Espresso - DI GIANFRANCESCO TURANO

Non aspetti il tuo lavoro ideale ma ti metti in gioco. Anche per me è stata la stessa cosa. Ho venduto bibite a San Siro, ho dato ripetizioni, ho insegnato religione in una scuola media al quartiere Tessera, estrema periferia ovest di Milano, e ho fatto pure l’autista. Anche se non mi piaceva molto guidare».

Maurizio Lupi si è raccontato così alla fanzine della sua fondazione “Costruiamo il futuro” nel maggio del 2013, poco dopo essere diventato ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel governo di Enrico Letta. È sempre stato quello il lavoro ideale per lui. Il ministero delle Infrastrutture ha consentito a Lupi di fare ciò che fa meglio: creare relazioni e consenso diffuso. Il Mit non si occupa soltanto di infrastrutture e trasporti. È anche il ministero delle Inaugurazioni e del Trasversalismo, delle coop rosse, di quelle bianche e della Compagnia delle opere (Cdo), dell’Expo di Milano e di chi l’ha voluta, con Lupi fra i padri fondatori. È il ministero dei nuovi aeroporti, dei nuovi porti, delle nuove autostrade, del Mose, del tunnel del Brennero, dell’alta velocità ferroviaria a ovest, a est e a sud, dei grandi lavori in ritardo, zavorrati dai costi delle mazzette, spesso inutili ma gestiti in armonia fra un pugno di grand commis di Stato e i costruttori.

È il posto giusto per uno come Lupi, stakhanovista del lavoro e delle presenze a “Porta a Porta”. Ed è il lavoro ideale per chi non ama guidare. Il Mit fornisce autisti di primissimo ordine. È il paradiso dei gattopardi, dominato da un’alta burocrazia che non cambia col cambiare dei fattori politici.

Fino allo scorso gennaio l’autista principale era Ercole Incalza, mister sette governi, finito in carcere lunedì 16 marzo dopo oltre un quarto di secolo a fare il bello e cattivo tempo negli appalti della Prima e della Seconda Repubblica.

In gennaio Incalza si era messo in disparte, forse inquieto per un tintinnare di manette annunciato dalle interpellanze dei grillini fin dal luglio scorso. Ma non c’è stato il tempo di capire se il suo sistema di potere era davvero finito o se, più verosimilmente, proseguiva con altri mezzi. Forse lo spiegheranno i magistrati fiorentini. Forse sarà lo stesso Lupi a chiarire come mai suo figlio avesse un lavoro procacciato da Stefano Perotti, anche lui arrestato in quanto perno di un sistema tangentizio tanto efficace quanto elementare con le società di ingegneria del gruppo Spm a fare da cartiera per lavori inesistenti.

La raccomandazione “triangolata” per il figlio Luca Lupi e il Rolex da 10 mila euro come regalo di laurea sono circostanze imbarazzanti per un politico che dichiara 282 mila euro di imponibile annuo, ha una Fiat 500 di proprietà, una casa, 31 mila euro di Btp, 5 mila euro in azioni Fiera di Milano e 50 euro di quota della cooperativa Tempi, editrice presieduta da Luigi Amicone e amministrata in passato da Franco Cavallo, faccendiere in quota Cdo finito in carcere con Incalza.

Le spese per la campagna elettorale del 2013 hanno prezzi semipopolari e sfiorano i 59 mila euro. I costi di viaggio e missione fino al dicembre 2014 non raggiungono i 10 mila euro per trasferte a Bruxelles, a Genova e quattro giorni a Singapore per parlare di collaborazione fra autorità portuali. Insomma, il discepolo di don Giussani è uno che può vivere del suo, che non abusa dell’altrui e che è stato creduto senza difficoltà quando ha smentito i contatti con Gianstefano Frigerio, un altro highlander della Prima Repubblica finito in carcere per l’Expo dieci mesi fa.

Per dirla con Agatha Christie, Frigerio è un indizio, Frigerio più Incalza sono una coincidenza e solo un terzo indizio sarebbe una prova. Ma la pressione sull’esponente del Ncd è destinata a salire.

Di recente qualcuno lo ha visto immerso in preghiera nella cattedrale milanese di Sant’Ambrogio, a due passi dall’Università Cattolica dove è incominciata l’avventura politica del figlio di immigrati abruzzesi sotto le bandiere di Comunione e liberazione. Ma le bandiere invecchiano e le amicizie si logorano. Il primo incarico ministeriale, confermato da Matteo Renzi, aveva offerto all’ex venditore di bibite allo stadio la possibilità di rinnovarsi.
Da buon maratoneta e fondatore del Montecitorio running club, l’ex vicepresidente della Camera ed assessore all’Urbanistica con Gabriele Albertini sindaco stava ricostruendo la sua carriera lungo tre direttrici: una nuova identità politica, le opportunità offerte dalle grandi opere e nuove relazioni più romane che milanesi. Bisogna vedere che cosa resterà di questo lavoro. L’abbraccio con Incalza rischia di essere letale, con soddisfazione nemmeno troppo segreta di qualche compagno di strada.

ALLEATI ED EX AMICI

Lo schema delle alleanze dello “scoppiettante Lupi” (copyright Silvio Berlusconi) procede a slalom. Molte sue amicizie sono nate in ogni zona dell’emiciclo parlamentare quando, nel 2003, Lupi organizzò l’Intergruppo della sussidiarietà, parola-simbolo dell’universo Cdo (36 mila iscritti per un giro d’affari annuo stimato fra i 70 e i 100 miliardi di euro). Intorno al mantra della sussidiarietà, verticale o preferibilmente orizzontale, si sono raccolti esponenti del centrosinistra come Enrico Letta, Pier Luigi Bersani ed Ermete Realacci. Non tutti i rapporti si sono conservati. Letta ha assistito con una certa freddezza all’autoriciclo di Lupi nel governo Renzi e Realacci ha appoggiato l’Anac di Raffaele Cantone contro il ministro che avrebbe voluto allungare la durata delle concessioni autostradali senza passare per una gara, in cambio di nuovi investimenti e pedaggi calmierati.

Con Renzi non è mai stato amore anche per le radici molto differenti nel mondo cattolico dove fra Cl e gli scout Agesci cari al premier non c’è cordialità, per non parlare dell’antipatia esplicita fra ammiratori di don Giussani e ragazzi dell’Azione cattolica come il braccio destro di Renzi, Luca Lotti. Con l’ex cavaliere Berlusconi, in compenso, l’ad di Fiera Milano congressi (autosospeso) mantiene una stima che si è rafforzata nel momento del bisogno, quando Lupi non ha esitato a difendere il diritto dell’allora premier al bunga bunga. La sua veemenza è parsa fuori dal perimetro dell’etica ciellina.

Il punto dolente è proprio nei rapporti con il mondo di Comunione e liberazione che è passato dal monolitismo dei bei tempi, con Roberto Formigoni front-man per la politica, a un frazionamento degno di un movimento di estrema sinistra. Dell’amicizia di antica data fra Lupi e Mario Mauro, ministro della Difesa con Letta passato prima ai montiani e poi ai Popolari per l’Italia, rimane poco. I due hanno abbandonato il Pdl a breve distanza l’uno dall’altro ma alle Europee del 2014 Lupi si è imposto su Mauro, ex vicepresidente del parlamento di Strasburgo, come capolista della circoscrizione Nord. Gelo con Mauro significa gelo con “il Vitta”, al secolo Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà e riferimento ideologico dell’intero movimento.

Anche per tenere sotto traccia il dissidio, era stata presa la decisione di non invitare politici all’ultimo Meeting di Rimini dove Lupi è ospite fisso ab ovo. Con una manovra degna del suo passato, l’ex public relation man della Fiera di Milano ha aggirato l’ostacolo grazie alla conferenza stampa del gruppo Fs che presentava proprio nel centro congressi riminese i nuovi collegamenti dell’alta velocità con gli aeroporti di Fiumicino, Malpensa e Venezia. Mentre i cronisti si accalcavano attorno al ministro, qualche sala più in là il presidente della Cdo Bernhard Scholz guidava un dibattito sulla sfida della crescita disertato dalla stampa.
Con queste premesse la candidatura di Lupi a sindaco di Milano, che tutti danno per certa fin dai tempi di Letizia Moratti, diventa improbabile e forse nemmeno così attraente. Da un lato, la macchina del volontariato ciellino gratis et amore Dei non sembra disposta a sostenere Lupi come nelle precedenti campagne elettorali e il centrodestra è nel caos, con un Ncd guidato in tandem da Lupi e da Angelino Alfano che non si sa bene su quale base elettorale possa contare.

Dall’altro, l’aspettativa di vita del governo Renzi si è allungata fino al termine naturale del 2018. Il Mit avrà molto da fare e tanti appalti da amministrare in un’Italia dove l’economia torna a crescere. S’intende, se l’inchiesta non avrà conseguenze più pesanti.

Per minimizzare danni ulteriori, Lupi ha invocato la presunzione di innocenza nei confronti di Incalza, il capo della missione tecnica del Mit che, di fatto, aveva potere di vita o di morte sugli appalti proposti per i finanziamenti pubblici del Cipe.
Nel sito del Mit al posto del manager brindisino cresciuto alla scuola della sinistra ferroviaria Psi di Claudio Signorile e Rocco Trane c’è il nome di Paolo Emilio Signorini, incaricato ad interim. Ma il ministro ha operato altri rimpasti nello staff.

A ottobre è uscito il capo della segreteria Emmanuele Forlani, citato nell’ordinanza della Procura fiorentina per un vestito da 700 euro in regalo. Forlani, sostituito da Luca Novara (ex Fiera Milano), era un lupiano della prima ora, coinvolto nella fondazione “Costruiamo il futuro” e segretario dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà celebrato da un incontro al Meeting 2011 con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Enrico Letta e Vittadini. Forlani si è dimesso per stanchezza, dicono alcuni. Altri notano che la stanchezza è in parte dovuta all’ascesa nello staff del capo di gabinetto Giacomo Aiello, avvocato dello Stato ed ex consulente della Protezione Civile con Guido Bertolaso. Anche Aiello è citato nei documenti della Procura per i suoi scontri con l’ex provveditore di Lazio e Abruzzo, Donato Carlea.

Restano stabili le quotazioni del segretario particolare di Lupi, l’ex parlamentare Pdl Marcello Di Caterina, in passato molto vicino a Marcello Dell’Utri. Noto per avere fuso la macchina mentre correva a presentare le liste azzurre in Campania per le politiche del 2013, Di Caterina è considerato ancora oggi un buon aggancio con i berlusconiani e contribuisce a garantire quel consenso multipartisan che è il dogma di Lupi.
Nel migliore dei mondi possibili questa strategia è vincente. Nel mondo reale, il politico deve rendere conto dei suoi rapporti con gli Incalza, con i Perotti, i navigatori di lungo corso come Vito Bonsignore e Antonio Bargone, con i signori delle ruspe da Ghella a Gavio, da Navarra a Pizzarotti.

LA NUOVA AGENDA DEL MINISTERO

Sotto la guida di Lupi l’agenda del Mit si è allungata come non si vedeva dai tempi della legge obiettivo, lanciata da Berlusconi nel 2001 con Pietro Lunardi ministro.
A dispetto delle ristrettezze finanziarie, lo slancio neo-keynesiano del politico del Nuovo centrodestra ha contagiato tutti i settori di attività.

La scadenza più immediata è quella dell’Expo milanese. Nella sua città Lupi ha dovuto accettare il diktat renziano che ha messo ai comandi il democrat Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura cresciuto nelle giovanili del sistema Sesto San Giovanni alla scuola di Filippo Penati, uno degli ex comunisti più amati dal mondo Cl-Cdo.

Lupi ha accettato di mettere in secondo piano la sua primogenitura sull’Expo perché non aveva altra scelta e perché, tutto sommato, il suo passo indietro lo colloca in una posizione che i consulenti d’impresa chiamerebbero win-win. Se Expo va bene, lui ci ha creduto fin dall’inizio. Se va male, è colpa di Martina e di Renzi.

Per adesso, di sicuro hanno fatto flop la Brebemi di Beniamino Gavio, amministrata dall’indagato Giulio Burchi, e la Pedemontana lombarda (18 mila veicoli al giorno invece dei 60 mila previsti).
Restando al settore autostradale, fra le partite più spinose che Lupi ha dovuto gestire c’è l’Anas, che anche nell’inchiesta fiorentina ha una parte importante. Fra gli incarichi dati dalla società di Pietro Ciucci a Perotti c’è la direzione lavori del macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio dove è da poco crollato un pilastro uccidendo un operaio. Ciucci è stato messo sotto pressione dai parlamentari dell’ottava commissione del Senato per contestazioni che vanno dallo smottamento del viadotto Scorciavacche in Sicilia all’autoliquidazione milionaria del presidente. Alle audizioni davanti al presidente della commissione Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture indagato per il Mose, Ciucci si è fatto accompagnare dal viceministro Riccardo Nencini, segnalato negli atti dell’inchiesta fiorentina come uno dei politici sostenuti da Incalza.

Lupi, che non si presenta in commissione dallo scorso luglio, ha voluto che fosse un democrat a sostenere il suo protetto Ciucci. Così ha messo in difficoltà l’ala del Pd che chiede aria nuova all’Anas insieme a buona parte dell’opposizione, costretta a recedere dalla commissione di inchiesta sull’Anas dopo le pressioni di Matteoli sul capogruppo forzista al Senato Paolo Romani.

Le autostrade e il possibile prolungamento delle concessioni sono centrali nella politica del Mit, che ha in gestione la vigilanza delle concessionarie. Rinviare le gare è vitale per i profitti dei due maggiori imprenditori del settore, Atlantia-Autostrade del gruppo Benetton, e le holding Aurelia-Argo della famiglia Gavio. I Benetton sono anche i protagonisti, attraverso Adr, dei nuovi progetti sull’aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino, con prospettive da definire dopo l’alleanza Alitalia-Etihad, un altro accordo dove Lupi ha messo la faccia.
Il fronte alta velocità ha ripreso slancio grazie ai buoni rapporti del ministro con la dirigenza Fs, soprattutto durante il lungo regno di Mauro Moretti, oggi sostituito da Michele Mario Elia. La prospettiva è di partire con una nuova tratta al Sud, la Napoli-Bari, entro il 2018, mentre a breve termine si continuerà con la Torino-Lione e con la caduta del diaframma del tunnel del Brennero. In lista ci sarebbero anche lo snodo sotterraneo e la nuova stazione Av di Firenze. Ma si prevedono ritardi per la presenza di magistrati sui binari.

 

La Metro C di Roma ritarda un'altra volta. Simbolo di un Paese rimasto nel Medioevo

La terza linea della metropolitana della Capitale, ormai leggendaria per la durata dei lavori, non aprirà sabato 11 ottobre nonostante le tante promesse. E, come al solito, nessuno si prende la responsabilità del caso.

Tecnico molto apprezzato da Incalza, Perotti ha diretto il macrolotto 2 in Basilicata (200 milioni di euro di extracosti) per conto del consorzio italo-spagnolo Sis guidato da Claudio Dogliani. Con Pizzarotti ha gestito il macrolotto 4b e con la cooperativa Cmc il tratto Atena Lucana-Sicignano. Poco prima che l’ingegnere romano venisse arrestato, un altro intervento sulla Salerno-Reggio (macrolotto 3.2) ha creato qualche problema alla Spm, con il crollo del viadotto Italia e la morte di un operaio. Una vera maledizione visto che Spm è subentrata nella direzione lavori dopo l’esclusione di Giuseppe Marascio ingaggiato dalla Technital di Alessandro Mazzi, arrestato per l’inchiesta sul Mose. Marascio, un tempo molto vicino agli ambienti di An e all’ex ministro Matteoli, oggi indagato per il Mose, sta valutando se presentare ricorso contro la decisione dell’Anas attraverso il figlio Francesco, avvocato amministrativista e autore di un testo giuridico sulla revisione prezzi nei lavori pubblici con prefazione dello stesso Matteoli.

Nel curriculum di Perotti spicca la direzione lavori della tratta Colosseo-San Giovanni della metro C di Roma (Astaldi, Caltagirone, Ansaldo Sts e Lega coop). In ritardo di anni, esplosa nei costi, la Metro C ha una delle commissioni di collaudo più care della storia per un totale di oltre 7 milioni di euro pagati da Roma metropolitane ai tre commissari Giuseppe Ricceri (3,3 milioni), ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici e consulente per il Mose, Andrea Monorchio (1,9 milioni di euro), ex Ragioniere generale dello Stato, e Dario Zaninelli (1,9 milioni di euro), citato nell’inchiesta sulla Cricca per la consulenza alla Scuola dei marescialli di Firenze.

QUADRI E VIGNETI

L’ascesa di Perotti è avvenuta quando Antonio Bevilacqua detto Nino, 52 anni, era già il numero uno grazie alla quantità di incarichi accumulati dalle sue società: la Sis e la A&S prima, e oggi l’Italconsult. L’ingegnere palermitano è passato indenne dalla decadenza dei suoi protettori forzisti, dall’ex viceministro dell’Economia Gianfranco Miccichè a Denis Verdini. Per lui c’è stato il sostegno bipartisan di Lupi e del democrat Giuseppe Lumia, mentre il suo riferimento in Anas è Ugo Dibennardo, proconsole della spa pubblica in Sicilia dal 2008 al 2013.

Sotto il profilo economico, Bevilacqua è il più forte del settore. Può vantare un fatturato di oltre 30 milioni di euro all’anno con Italconsult. In aggiunta, ha due alleati di peso nell’azionariato. Uno è Intesa, il colosso bancario che Burchi si vantava di rappresentare nel mondo delle infrastrutture lombarde (Teem, Brebemi e Pedemontana). L’altro è Tecnoholding, la società che riunisce le camere di commercio italiane.

Appassionato di arte moderna e vitivinicoltore part-time (Terrazze dell’Etna), Bevilacqua è stato nominato presidente del porto di Palermo nel 2001 dal sindaco forzista Diego Cammarata. Si è dimesso nel 2013.
Oltre alla Catania-Siracusa con Pizzarotti, Bevilacqua ha gestito il raddoppio della statale 640, divisa in due lotti da oltre 1,5 miliardi di euro. Nel primo è stato progettista con la Sintel di Giandomenico Monorchio (figlio di Andrea)alla direzione lavori. Nel secondo ha diretto i lavori del consorzio Empedocle (Cmc, Ccc e Tecnis).
Oltre alla statale 640, Bevilacqua ha fatto la parte del leone anche con la statale 106 Jonica (Reggio Calabria-Taranto). I maxilotti 1 e 2 sono suoi. Nel maxilotto 3 l’ingegnere siciliano ha soltanto la progettazione mentre la direzione lavori è di Monorchio.

CI PENSA PAPÀ

Classe 1970, Monorchio junior ha fondato Sintel Engineering nel settembre 1998, tre mesi dopo essersi iscritto all’albo professionale e tre anni prima che il padre iniziasse a occuparsi di lavori pubblici alla guida di Infrastrutture spa (ispa), la holding di stato creata nel 2002. Prima di essere assorbita nella cassa depositi e prestiti (2005), Ispa ha finanziato il quadrilatero Marche-Umbria, i lotti 2 e 3 dell’A3, l’alta velocità ferroviaria Torino-Milano-Napoli (Sintel ha lavorato sulla Firenze-Bologna) e il tav Milano-Genova dove la Sintel ha avuto la direzione lavori dal contraente generale Cociv, passato dal controllo del gruppo Gavio a Impregilo-Condotte.

Sintel ha inoltre progettato il laboratorio del centro sperimentale dell’Anas a Cesano e l’impiantistica per il nuovo palazzo del cinema di Venezia, mai realizzato ma costato 37 milioni di euro.
Nel settore strade, Monorchio ha avuto la Torino-Novara dalla Sina del gruppo Gavio. A Sud ha diretto i lavori del macrolotto 6 dell’A3 per conto di Impregilo-Condotte. In entrambi i casi, le opere sono andate avanti fra ritardi e spese fuori controllo. Anche peggio è finita sulla Palermo-Agrigento, con lo smottamento del viadotto Scorciavacche. La Sintel era responsabile della direzione lavori con Fulvio Giovannini, rimosso dopo l’incidente su richiesta del presidente dell’Anas.
Monorchio ha tentato la carriera politica presentandosi alle ultime comunali di Roma nella lista del collega ingegnere Alfio Marchini. I suoi 537 voti non sono bastati per un seggio.

TRANSOCEANICA

Con i suoi 86 anni appena compiuti e una transoceanica in barca a vela portata a termine nel 2010 è il decano del settore. Ma non si limita a navigare e ad esibirsi ai fornelli durante le serate Masterchef al circolo Canottieri Aniene. Dopo che Perotti è stato estromesso dalla direzione lavori sul macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio, dove è sprofondato il viadotto Italia, tocca a Beomonte seguire un’opera che in fase di progettazione esecutiva ha già ottenuto un ritocco economico consistente. I lavori sono passati da 425 a 495 milioni di euro. Oltre che con la sua Cilento ingegneria, Beomonte ha spesso collaborato con un’altra primaria società di engineering, la 3Ti di Alfredo Ingletti e Giorgio Casciani. 3Ti ha ricavi superiori ai 20 milioni di euro e ha lavorato sull’A3 (macrolotti 5 e 6), sugli aeroporti di Bologna e di Fiumicino, nei paesi della penisola arabica, in Romania e in Sierra Leone.

 

27 marzo

 

Cara sinistra, basta disprezzare i poveri

Un intellettuale francese scrive un saggio durissimo contro i partiti che si sono dimenticati il popolo. A Parigi è diventato un caso. Ma potrebbe essere molto utile anche nel dibattito politico italiano

di Alessandro Gilioli

Cara sinistra, basta disprezzare i poveri
Nel 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, socialista, diceva che i profitti di oggi avrebbero costituito gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani. Forse all'epoca poteva essere vero. Nel 2015 invece i profitti di oggi costituiscono solo i dividendi di domani e la disoccupazione di dopodomani.

Peccato che la sinistra, in Europa, non se ne sia accorta. E, non essendosene accorta, crede ancora in questo mercato, pensando che sia uguale a quello di quarant'anni fa come strumento di emancipazione dalla povertà e dalla subalternità sociale. Quando invece è diventato mezzo di concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Un fenomeno più evidente nel paese in cui è iniziato, cioè gli Stati Uniti: dove da sei anni il 95 per cento della crescita viene confiscato dall'uno per cento di popolazione più ricca. Ma la stessa dinamica è presente ovunque, in Occidente: compresi gli Stati che avevano storicamente strumenti di welfare e di redistribuzione, gradualmente smantellati con le varie leggi sulla “flessibilità” e le privatizzazioni.

Le accuse qui sopra sono di Jack Dion, intellettuale e giornalista francese che ha da poco mandato in libreria il suo ultimo saggio , “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo; sottotitolo: "come l'oligarchia ha preso la società in ostaggio") che per una decina di euro si può comprare anche su Amazon in versione digitale.

È un libro che in Francia sta facendo parecchio discutere - specie dopo il recente crollo dei socialisti - e che anche in Italia potrebbe costituire utilissima lettura specie a chi parla di sinistra, ma non solo. Anzi: pur proveniente senza dubbio dalla tradizione della sinistra francese, Dion mette metaforicamente mano alla pistola quando sente questa parola, ormai diventata la foglia di fico (anche lì) per nascondere le più mercatiste e liberiste delle politiche e - soprattutto – per celare appunto il disprezzo per il popolo, verso le persone che stanno in basso nella società.

«Quando i partiti che si succedono al potere si trasformano in strumenti di difesa dell'ordine stabilito, il popolo diventa un nemico, simboleggia un pericolo potenziale», dice Dion. Che conia il termine prolofobia, per descriverli, questi socialisti alla Hollande o alla Strauss-Kahn. Prolofobia: paura e alterigia verso i proletari di oggi, divisi in mille lavori (o non lavori) diversi, intellettualmente incapaci di costituire un blocco sociale e progettuale, politicamente alla deriva tra l'astensione e (in Francia) il partito di LePen.

Ecco, LePen e il Fronte Nazionale. A cui nella propria prolofobia i partiti lasciano le masse degli esclusi e degli arrabbiati, ignorando i problemi concreti dei ceti impoveriti e limitandosi a reagire istericamente a ogni successo dell'estrema destra con la più scontata delle accuse, quella di populismo: centrodestra e centrosinistra «difendono gli stessi precetti, quelli del neoliberismo», e per occultare questa verità descrivono tutto ciò che sta fuori di loro come populismo.

Il "j'accuse" sull'uso dell'epiteto in questione come arma mediatica dell'establishment per delegittimare il popolo - cioè i cittadini, le persone - rimanda in buona parte alle riflessioni di un filosofo che in Italia ha scarsa cittadinanza nel dibattito pubblico e culturale, Ernesto Laclau , di cui invece molto si parla altrove; ma questo è un altro discorso. Ciò su cui Dion insiste invece è l'utilizzo truffaldino del termine pupulismo per indurre nell'immaginario la convinzione che non esista alcuna alternativa possibile al liberismo, per sancire il dogma secondo cui ogni possibile scarto rispetto ai binari dell'ortodossia neocapitalista sia pericoloso e “anti democratico”, quando invece ad aver annegato la democrazia sottomettendola all'élite economica sono stati proprio loro, e in un'Europa in cui ormai il primo partito vero è quasi ovunque l'astensione.

Dice Dion che «questa democrazia malata ha messo il popolo in quarantena e la rappresentanza in ibernazione» e intanto si impadronisce del linguaggio chiamando «riforme» quelle che sono invece controriforme regressive per concentrare le ricchezze nelle mani di pochi; ma anche diffondendo a piene mani una narrazione basata su competitività, flessibilità, liberalizzazioni e costo del lavoro - e mai nessuno che spenda una parola sul costo, invece, di questo estremismo del capitale.

Eppure, un altro vocabolario è possibile, dice Dion. Altre parole per ribaltare l'egemonia culturale durata almeno tre decenni: come oligarchia - ad esempio - il vero tratto caratterizzante di quest'epoca, trasversale alla politica e al mondo del lavoro; oppure sovranità, sottratta sempre di più dalle mani dei cittadini e riservata alle élite che la esercitano (e di qui l'illusione-inganno lepenista secondo cui basterebbe tornare allo stato-nazione per restituirla ai cittadini, quando invece il suo recupero può avvenire ormai solo sul campo di battaglia europeo e globale, passando per ogni luogo di vita comune). E, anche attraverso un altro vocabolario, si può e si deve tendere verso un altro ordine delle cose: ordine politico, economico, ecologico, sociale, ideologico, morale, civico.

Dion alla fine è ottimista e chiude il suo libro citando la presa della Bastiglia, «un'esplosione di collera su cui è stato costruito un nuovo edificio: e ogni epoca, ogni collera, ha il suo nuovo edificio». Può darsi che sia una previsione un po' eccessiva - o magari poco più di un auspicio. Ma il libro va comunque letto, perché come a volte capita ai pensatori francesi – ricordate “Indignatevi!”, di Stéphane Hessel ? - dice le cose che abbiamo sotto gli occhi con la forza della semplicità e senza il timore un po' snob di non essere giudicato abbastanza "accademico".


Ai politici e agli intellettuali della nostra sinistra, invece, il libro di Dion non dovrebbe essere semplicemente consigliato, ma proprio reso obbligatorio.

 

24 marzo

 

L'Agenzia spaziale ha un buco da 200 milioni. E spunta anche una parentopoli stellare

I dipendenti spostati all’Asi godono di un bonus extra sullo stipendio. E, grazie alle raccomandazioni, non mancano i cognomi noti. Mentre nei conti c’è una voragine milionaria.

di Chiara Organtini

C'è un buco nero nei bilanci dell’Asi, l’agenzia spaziale che ha il compito di portare in orbita il made in Italy nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. La Corte dei Conti ha passato al setaccio i risultati del 2013: in soli due anni, il disavanzo finanziario dell’Agenzia è triplicato, arrivando alla soglia record di 233 milioni di euro.

Un balzo stellare, con i magistrati contabili che chiedono al management dell’ente statale di provvedere a “ulteriori urgenti iniziative di contenimento della spesa e razionalizzazione dei costi della gestione”. Soprattutto a fronte degli impegni che l’Asi ha preso con l’agenzia spaziale europea (Esa), programmi che la Corte valuta a rischio sostenibilità.

È una storia antica, inarrestabile, con l’Agenzia che spende più di quanto le viene conferito per legge e i debiti si accumulano. Nel mirino sono finite le spese per la nuova sede, già bocciate dall’Autorità di vigilanza sugli appalti e l’eccesso di consulenze, definite “anomale e illegittime”.

Lo strappo con la vecchia gestione dell’ex amministratore Enrico Saggese - finito sotto processo per una storia di concussione, sprechi e malagestione - non ha sortito ancora risultati. E una nuova pagina di polemiche sta per aprirsi. Perché, nonostante i dipendenti dell’Agenzia spaziale siano obbligati per contratto alla riservatezza, il sentore di una nuova parentopoli per la caccia al posto è più di un’ipotesi. Con un motivo esplicito: all’Asi si guadagna di più rispetto agli altri enti pubblici. Un gettone extra di 600 euro al mese è il vantaggio ottenuto da chi riesce a farsi collocare “in comando” tra le file dell’Agenzia, che nei suoi ranghi conta 227 dipendenti. E se è vero che i costi per il personale sono stati ridotti nell’ultimo biennio da 24 a 19 milioni e mezzo, l’unica spesa che i magistrati contabili trovano in crescita è proprio quella relativa al personale distaccato da altre istituzioni, raddoppiato dai 690 mila euro del 2012 a ben 1,24 milioni.

Chi sono e come sono stati scelti questi “comandati”? Dall’organigramma fioccano i nomi di parenti di sindacalisti, revisori dei conti della stessa Agenzia e persino di consiglieri della Corte dei Conti. In alcuni casi, dalla documentazione interna, si capisce che il “comando” temporaneo è solo un escamotage per un posto definitivo. Una di loro sa già che verrà assorbita perché così è scritto nella lettera di nomina dell’Agenzia. Ma è un’altra funzionaria “in prestito”, in una mail interna, a confessare di aver chiesto una raccomandazione per il trasferimento all’Asi: «Ero in cerca di maggiori guadagni e mi è stata data questa possibilità». Tra i 14 comandati nel 2012, sei sono stati assunti definitivamente nello scorso luglio. Probabilmente la sorte di quei lavoratori era stata già decisa proprio al momento dell’ingaggio, all’apogeo della presidenza Saggese.

Ma il destino non sarà uguale per tutti. Federica Luciani, ritenuta “una risorsa in eccesso”, è stata rimandata al ministero della Difesa. Non ci sta e segnala all’ispettorato della Funzione pubblica quelle assunzioni. Il ministero si muove subito, scrive all’Agenzia rilevando che la procedura di quegli “assorbimenti” è in contrasto con la legge. Ma il cda dell’Asi non risponde.

Il caso finisce sul tavolo di Santo Darko Grillo, responsabile anti corruzione dell’ente spaziale. Il dirigente sostiene che occorrono rilievi oggettivi e liquida quella denuncia come un “whistleblowing”: una soffiata, che però ora è al vaglio dell’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone.

 

La Sapienza, il direttore è senza laurea. Imputato e pensionato, prende 200 mila euro

Carlo Musto D’Amore da 14 anni è il dominus dell'università di Roma. Anche se in quiescenza e sotto processo. Ma può contare sull’amicizia del rettore.

di Emiliano Fittipaldi

Nello scandalificio della Sapienza si può trovare di tutto. Cadaveri abbandonati nei corridoi dell’Istituto di medicina legale, lezioni di “psicopatologia forense” tenute dal comandante Schettino, ex rettori che hanno piazzato in cattedra moglie, figlia e primogenito. Ma al primo piano della palazzina del rettorato a piazzale Aldo Moro si può incontrare anche Carlo Musto D’Amore, un geometra nato 67 anni fa a Montoro Inferiore, vicino ad Avellino, che è riuscito a diventare direttore generale del più grande ateneo del Paese senza uno straccio di laurea, incarico che oggi gli permette di portare a casa circa 200 mila euro l’anno.

Già: l’irpino è probabilmente uno dei pochi “precari” italiani che nel 2013 è riuscito a ottenere dalla pubblica amministrazione un nuovo contratto quadriennale nonostante fosse già in pensione, e a dispetto di un processo ancora in corso (in primo grado è stato assolto) per abuso d’ufficio.

«I rettori passano, ma Musto D’Amore non lo tocca nessuno», scuotono la testa i suoi nemici. Il postulato è corretto: il dominus della Sapienza (dove gestisce un bilancio da oltre un miliardo di euro l’anno) è stato assunto infatti nel lontano 2001, e in 14 anni ha visto entrare e uscire nel suo ufficio decine di presidi e quattro rettori.

La sua carriera è da studiare: dopo il diploma da geometra diventa “ufficiale rogante” all’Università Orientale di Napoli, poi affianca «un ispettore del ministero per svolgere accurate indagini sull’Istituto pareggiato di Magistero di Catania». È lo stesso dirigente a ricordare di essere stato anche «alla Scuola autonoma di Ostetricia di Salerno per accertare la veridicità dei fatti denunciati da un professore». Ma il geometra non vuole restare un Filini qualsiasi. Così nel 1989 riesce a vincere (sempre senza laurea) «un corso-concorso nazionale per dirigenti universitari», e sei anni dopo viene chiamato alla Federico II: vicinissimo all’allora rettore Fulvio Tessitore, eletto poi senatore con i Ds, diventa «vicario del direttore amministrativo». Un titolo sufficiente per diventare qualche anno dopo capo dell’ateneo della Capitale.

Da 14 anni è lui a gestire appalti e gare. A Roma entra nei giri che contano, e nel 2007 la presidenza del Consiglio (al tempo c’era Romano Prodi) lo fa pure nominare Ufficiale della Repubblica. Nel 2013 firma il suo quarto contratto consecutivo: è stato l’ex rettore Luigi Frati a rinnovargli la fiducia, nonostante «il collocamento in quiescenza medio termine», si legge nel verbale del cda dell’università «intervenuto in qualità di dirigente di ruolo della Federico II». Alla faccia di Marianna Madia, che sogna dirigenti non più inamovibili e soprattutto non già pensionati, Musto D’Amore potrà restare sulla sua poltrona fino al 2017.

In realtà il nuovo rettore Eugenio Gaudio potrebbe rimuoverlo usando una clausola rescissoria già il prossimo giugno. Ma ci scommettono in pochi: i due sono in effetti legatissimi. Hanno anche storie familiari simili: se “l’Espresso” qualche settimana fa ha rivelato che il figlio del rettore ha vinto un dottorato nonostante avesse usato il bianchetto durante il compito (pratica vietata), alla Sapienza ha trovato lavoro anche la figlia di Musto D’Amore, Assunta.

 

La Sapienza, lo strano caso del dottorato vinto dal figlio del Rettore. Con il bianchetto

Nell'ateneo romano un episodio di sospette raccomandazioni con al centro il nuovo Magnifico Eugenio Gaudio. Che ora ha un figlio con borsa di studio ottenuta grazie a una prova molto discussa.

Nomen omen: la ragazza, anche lei sprovvista di laurea, a 22 anni ha vinto un concorso alla Seconda Università di Napoli e nel 2009 è stata chiamata alla Sapienza come impiegata («prende 1200 euro nette al mese», spiega l’ufficio stampa dell’ateneo). Assunta fino al 2011 forse avrà incontrato all’università anche suo cugino: il giovane cardiologo Sergio Musto D’Amore si è specializzato proprio a Roma, e non a caso il suo nome compare nella segreteria scientifica di alcuni corsi tenuti dal professor Carlo Gaudio, fratello dell’attuale rettore. Se lo zio aspetta l’esito del suo processo, anche Sergio è indagato a Bergamo. Ma per omicidio colposo: i pm vogliono capire come mai una donna di 46 anni sottoposta a una coronarografia sia morta dopo due minuti dall’inizio dell’esame.

 

12 marzo

 

 

Rai, denuncia dei sindacati: “Piegata a governo: precari traditi e milioni buttati”

di Franz Baraggino

Dopo il no dell'azienda sull'anticipazione delle assunzioni per "tutelare i lavoratori dal Jobs Act", i sindacati fanno i conti in tasca a Viale Mazzini: "Già sprecato un milione di euro. E si potrebbero superare i venti". Secondo le parti sociali, il prezzo che paghiamo per un servizio pubblico che preferisce compiacere il governo piuttosto che riconoscere i diritti ai suoi precari.

Il no della Rai sull’ipotesi di anticipare le assunzioni dei sui precari avrebbe già prodotto uno spreco di denaro pubblico. Lo dicono le parti sociali dopo che l’azienda ha detto no ai lavoratori che da mesi chiedevano garanzie sulle stabilizzazioni previste negli accordi siglati tra 2008 e 2013. Diritti acquisiti da anni che le rappresentanze sindacali hanno chiesto di tutelare “dagli effetti nefasti del Jobs Act”. “Per Viale Mazzini ha prevalso l’assoggettamento politico al Governo”, attaccano oggi Slc Cgil, Snater e Libersind Confsal, che in un comunicato fanno i conti in tasca alla televisione pubblica: “Negare diritti per compiacere l’esecutivo ha già prodotto uno spreco di un milione di euro”. Soldi pubblici che potrebbero moltiplicarsi se la Rai non dovesse profittare della defiscalizzazione prevista dalla riforma per il 2015. Ma al tavolo convocato il 2 marzo per discutere della questione non sono seguiti segnali. I sindacati parlano di una risposta giunta nei fatti, quando al silenzio si è aggiunta la pubblicazione del Jobs Act in Gazzetta ufficiale.

“Anticipare i termini degli accordi? I primi a impedirmelo sarebbero i sindacati”. Il direttore generale della Rai Luigi Gubitosi rispondeva così al capogruppo del M5S Alberto Airola, che lo scorso 4 marzo lo incalzava sul tema. A ben guardare, proprio i sindacati, già negli ultimi mesi del 2014, chiedevano a Gubitosi di modificare il calendario delle stabilizzazioni per garantire chi aveva accettato di attendere l’assunzione compatibilmente con le esigenze e i tempi dell’azienda. “I lavoratori avrebbero potuto fare causa e vedere immediatamente convertiti i loro contratti al tempo indeterminato, con tanto di articolo 18”, spiega a ilfattoquotidiano.it Alessio De Luca, della segreteria nazionale Slc Cgil. “Invece hanno accettato di siglare degli accordi e di attendere l’assunzione nonostante avessero maturato i requisiti da molti anni”. In particolare, i sindacati hanno chiesto che almeno le 180 assunzioni previste entro il 31 marzo venissero garantite dall’entrata in vigore della riforma del lavoro. Niente. Programmisti, registi, scenografi, impiegati, montatori e operatori, alcuni in Rai da più di quindici anni, si sentono traditi.

Decaduto ogni appello, invalidata ogni considerazione etica sul rispetto degli impegni presi dall’azienda, ai sindacati “non rimane che fare i conti in tasca alla Rai e dimostrare che non aver dato ascolto ai lavoratori ha già generato uno spreco di denaro pubblico”. Se i tempi determinati da stabilizzare secondo accordi sono 1090, ragionano Slc Cgil, Snater e Libersind nel loro comunicato, assumerli al primo gennaio 2015 (data di entrata in vigore degli sgravi fiscali previsti nella legge di stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato) avrebbe fatto risparmiare un milione di euro (1.113.0033). Ma la partita sembra decisamente più grossa. “Per permettere alla Rai di beneficiare degli sgravi previsti per il solo 2015, abbiamo proposto l’assunzione con contratti part-time (verticali) anche dei lavoratori da stabilizzare nei prossimi anni”, spiega ancora Alessio De Luca. “Questo avrebbe consentito all’azienda tutta l’elasticità necessaria e il passaggio al full-time sarebbe poi avvenuto nei tempi previsti dagli accordi”. Ma soprattutto un risparmio per le casse del servizio pubblico pari a sei milioni e mezzo di euro per il 2015 e venti milioni complessivi per il triennio 2015/2017, quello coperto dai vantaggi contributivi per chi assume entro l’anno in corso.

Insomma, se la Rai vuole risparmiare sta a lei. Ma il tempo stringe. “I fondi destinati alla riduzione del cuneo fiscale sono ad esaurimento”, fanno notare i sindacati. “Il ritardo che la Rai ha determinato potrebbe innescare la perdita di ogni riduzione di costo per delle assunzioni che, comunque, per gli accordi sottoscritti l’azienda dovrà effettuare. In ogni caso, qualunque ritardo comporterà una riduzione degli sgravi utilizzabili dalla Rai”. Conti che vanno estesi alle assunzioni di 1500 lavoratori atipici e 150 apprendisti. Problemi rinviati e risparmi di denaro pubblico che potrebbero sfumare. I diritti acquisiti dai lavoratori, nonostante gli accordi, sembrano averlo già fatto.

 

6 marzo

 

 

Il 730 precompilato, tra Pin e dati da inserire addio semplificazione delle tasse

di Patrizia De Rubertis

Dal 15 aprile 20 milioni di contribuenti potranno accedere alla propria dichiarazione dei redditi compilata, in parte, dal Fisco. E se ci sono inesattezze o bisogna aggiungere dei dati, come le spese sanitarie, meglio armarsi di pazienza per accedere al proprio cassetto fiscale online.

Pronti, pazienza e via. A 45 giorni dall’operazione ‘730 precompilato‘, in teoria la più grande rivoluzione fiscale italiana che farà evolvere il pagamento delle tasse alla versione 2.0, restano ancora aperte molte questioni sulla sua attuazione e sulla reale semplificazione introdotta da questa novità. Grazie alla quale 20 milioni di italiani, tra lavoratori dipendenti e pensionati, dovrebbero potersi compilare da soli la dichiarazione dei redditi.
Il modello sarà infatti in buona parte precompilato dalla stessa Agenzia delle Entrate che inserirà i dati presenti nell’anagrafe tributaria (i redditi da lavoro e da pensione, i parenti a carico, gli immobili, i terreni posseduti, ma anche i contributi per le colf e le detrazioni per le ristrutturazioni) e le informazioni trasmesse da banche, assicurazioni (conti correnti, mutui, polizze vite e infortuni) ed enti previdenziali.

Sarà però arduo rendere il Fisco più umano e davvero a portata di clic, come più volte annunciato dal governo. E c’è il serio rischio che l’innovazione si trasformi invece in un enorme caos. Questo perché dal 15 aprile i contribuenti non riceveranno il modello a casa, direttamente nella buca delle lettere, così come aveva annunciato il premier Renzi lanciando lo scorso ottobre questo suo cavallo di battaglia. Il 730 precompilato sarà consultabile solo su un’area del sito dell’Agenzia delle Entrate. E da lì si potrà accettarlo senza modifiche solo se non si richiede alcuna correzione. Ma nel caso sia necessario modificare o aggiungere dati, il contribuente dovrà rimetterci le mani. O meglio il mouse, visto che tutto si fa on line. I dati che non compaiono nella versione precompilata e devono essere aggiunti sono una lunga lista. In primis le spese mediche per cui si richiede la detrazione del 19%. E non sono informazioni di poco conto, visto che nel 2014 le hanno presentate quasi 12 milioni di contribuenti, vale a dire l’85% del totale. Poi va inserita quasi tutta la parte degli oneri deducibili e detraibili, come le spese per istruzione e le erogazioni liberali. Per avere il modello totalmente compilato, infatti, bisognerà aspettare il 2017.

Se questo nuovo rapporto a tu per tu con il fisco ha già scatenato dubbi e ansie, il passo successivo che si può fare per placare i timori è consultare il provvedimento di 283 pagine (di cui 267 di specifiche tecniche) elaborato dalle Entrate in cui vengono spiegate le modalità di accesso alla dichiarazione precompilata. Qui, tra rimandi a commi, punti, provvedimenti, circolari e dettagli tipici del burocratese, si spiega al contribuente come scaricare il documento dal sito delle Entrate. Due le modalità: da soli o tramite soggetti autorizzati.

Nel caso in cui si decidesse di cimentarsi con il fai da te, per affrontare il tax day bisogna compilare la dichiarazione online attraverso il proprio ‘cassetto fiscale’, al quale si può accedere solo dopo aver richiesto il Pin. Cosa che richiede uno slalom tra compilazioni di form, conferme e attese di autenticazione. Un po’ come succede quando si chiedono le password per l’home banking.

Nel dettaglio, ecco i passi da seguire. Dopo la registrazione al servizio Fisconline, si deve richiedere (gratuitamente) il codice Pin, non prima di aver scritto il reddito complessivo dichiarato lo scorso anno. Solo dopo che il sistema si è accertato che il contribuente sia in regola con le tasse viene fornita la prima parte del Pin (4 cifre). Ma per ottenere la chiave completa per entrare nel mondo digitale dell’Agenzia il richiedente deve aspettare ben due settimane, quando riceverà a casa una lettera contenente le ultime 6 cifre e la password di accesso.

Troppo complicato? Se non si vuole gettare la spugna, per i cyber contribuenti è possibile ottenere il Pin anche per telefono, al numero verde 848.800.444 o presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate dove va presentato un documento di identità. Anche così verrà consegnata solo la prima parte del codice e la seconda verrà sempre inviata per posta.

Meglio, dunque, rivolgersi ai Caf o ai commercialisti? Questa strada – a parte lo scotto da pagare, che ammonta a circa 50 euro – farà certamente dormire sonni più tranquilli ai contribuenti e soprattutto ai pensionati che rappresentano gran parte dei 20 milioni interessati dall’innovazione. Con buona pace della rivoluzione fiscale. Ma l’enorme ricorso che si farà ai centri di assistenza ha già scatenato le loro proteste: temono infatti di dover rispondere in prima persona degli eventuali errori commessi. E la paura è ben motivata: sempre nelle 283 pagine del documento pubblicato dalle Entrate è spiegato che se il 730 viene presentato, con o senza modifiche, dal Caf o dal professionista abilitato, i controlli documentali saranno effettuati proprio nei loro confronti.

In particolare le Entrate, entro sei mesi dal 7 luglio – ultimo giorno utile per presentare la dichiarazione dei redditi – effettueranno controlli sulla veridicità delle detrazioni richieste in caso di rimborso superiore a 4mila euro. Il bonus verrà erogato entro il settimo mese successivo. C’è, invece, subito il semaforo verde se si presenta il 730 precompilato senza effettuare modifiche.

Ma i sostituti d’imposta, Caf e commercialisti dovranno anche smarcarsi dai paletti fissati dal Fisco che ha imposto loro, per ricevere i 730 precompilati degli assistiti, di doverne prima acquisire la delega e poi formulare online una richiesta specifica. E i loro accessi saranno tracciati dall’Agenzia per effettuare controlli sulla correttezza delle deleghe. Tanto che tra i Caf si è già fatta avanti l’ipotesi di gestire solo i contribuenti che si sono rivolti a loro durante il 2014, visto che si tratta di dati già conosciuti.

C’è, infine, una terza e ultima via a disposizione: si può sempre presentare la dichiarazione dei redditi seguendo la vecchia strada del cartaceo con la presentazione del ‘modello 730 ordinario’ che, come al solito, può essere fatta dal sostituto d’imposta che presta l’assistenza fiscale, al Caf o al professionista abilitato.

 

3 marzo

 

Da console fascio-rock a sindacalista: Vattani chiede più soldi per diplomatici

Da rocker neofascista ad alfiere della Casta. Sospeso e richiamato dal servizio a Osaka, il figlio del potente Umberto torna alla scrivania e viene eletto membro del sindacato unico delle feluche. Lancia una campagna in difesa dei diplomatici e accredita il loro rientro in massa, causa riduzione delle indennità. Ma la Farnesina stessa lo smentisce.

di Thomas Mackinson e Alessio Schiesari

Premono alle frontiere italiane, vogliono entrare. Sono esausti del loro peregrinare in giro per il mondo, la miseria non la sopportano più. La destra è già in allarme, ma c’è un problema: non sono profughi, sono i diplomatici italiani che chiedono di tornare in massa a Roma. A darne notizia è un’autorevole fonte sindacale. Si tratta di Mario Vattani, il console fascio-rock. Ebbene sì, Katanga – come lo chiamano i sodali di Casa Pound – non solo è rientrato al ministero dopo la sospensione legata al il video che lo ritraeva a cantare “Alzeremo bandiera nera”, accompagnato dal suo gruppo Sottofasciasemplice. Dopo il reintegro, con stipendio fino a 130 mila euro l’anno, s’è preso pure la segreteria del Sndmae, il sindacato unico dei diplomatici.

Il 4 febbraio scorso Vattani è stato eletto membro della segreteria. Si affida a lui, dunque, il sindacato che al tempo dello scandalo lo trattò da reietto, diramando questa nota: “La gravità di un comportamento che risultasse riconducibile all’apologia di fascismo in luogo pubblico da parte di un alto funzionario dello Stato è tale da non poter essere minimizzata né tralasciata. Il SNDMAE ritiene non accettabile che venga gettata un’ombra sulla fedeltà dei diplomatici italiani ai valori fondanti della Repubblica”. Si dice che solo gli stupidi non cambiano idea. E così, in un attimo, Vattani è passato dal microfono alla penna. Dopo aver pubblicato su Libero un racconto sugli “uomini che hanno pestato la coda della tigre”, concede il bis presentando ai lettori la sua “piattaforma politica” che si traduce in una difesa a spada tratta dello stipendio, il suo e quello dei colleghi, che sono tra i più alti al mondo. Mai abbastanza, a quanto pare, per chi li riceve.

Ne riprendiamo qualche passaggio. “Il nostro personale inviato all’estero – quello per esempio che in questi giorni è rimasto fino all’ultimo in Libia e in Yemen per difendere gli interessi italiani – subirà decurtazioni del 20% su tutte le voci di spesa necessarie al servizio”, scrive il sindacalista Vattani. Ma sarà poi vero? Come spesso capita, la percezione degli affanni delle feluche non sembra collimare con la realtà dei numeri. E’ vero che dal primo luglio è in vigore la nuova normativa sull’indennità di servizio introdotta con la Legge di Stabilità. Ma Vattani, che lamenta campagne di disinformazione sul trattamento economico della categoria, dimentica di ricordare che la norma introduce anche un nuovo “contributo per le spese di abitazione” con il quale si copriranno i costi d’affitto di un appartamento con le dovute caratteristiche di sicurezza e “decoro”.

In tasca al diplomatico in missione restano più o meno gli stessi soldi. La riprova si ha nel fatto che il capitolo di bilancio che copre le indennità all’estero del personale del Ministero è diminuito da 300 milioni a 278 negli ultimi due anni, del 20% negli ultimi cinque ma ciò è avvenuto perché sono diminuiti i dipendenti non diplomatici. I risparmi veri sono stati in realtà ottenuti con il blocco delle assunzioni del personale non diplomatico e con i numerosi pensionamenti (1.000 dipendenti in meno di dieci anni). E sono stati tutti spesi in questi ultimi cinque anni per mantenere le altissime retribuzioni del personale diplomatico a Roma e all’estero e per finanziare le nuove assunzioni in deroga rispetto alle altre amministrazioni dello Stato (il famoso concorso per 35 posti).

Vediamo gli effetti reali della riforma con degli esempi. Il nostro ambasciatore a Londra, che ora guadagna ogni mese 16.464 euro di indennità di servizio all’estero più 5.385 euro di stipendio mensile, dal 1° luglio 2015 passerà a circa 12.500 euro, più il contributo per coniuge e figli a carico, più i 5.385 euro di stipendio. Inoltre, grazie alla nuova legge sull’attività promozionale dell’Italia all’estero (i commi 1 e 2 dell’articolo 16-bis del decreto-legge n. 66/2014 per l’abolizione dell’assegno individuale di rappresentanza) l’ambasciatore disporrà a sua discrezione di un notevole gruzzolo di denaro per cene, cocktail, feste e acquisti alimenti e bevande secondo la sua volontà senza altro controllo. Questo gruzzolo costerà al contribuente italiano 15 milioni per il 2015 e 13 milioni per il 2016. Il numero due di una nostra Ambasciata, così come il numero tre o quattro etc. (ci sono ambasciate con dodici diplomatici e più) non subirà sostanziali diminuzioni, salvo un possibile 5% in meno perché dovrà pagare più tasse, ma stiamo parlando di funzionari che guadagnano sugli 8-10mila euro al mese netti a seconda delle sedi.

Vattani però insiste sulla flagellazione dei diplomatici. E prefigura fin d’ora un’ondata di rimpatri da parte di funzionari della diplomazia con la valigia di cartone in mano. “L’unico risultato di questo risparmio (quello relativo al taglio dell’Ise, ndr) è che sarà più difficile lavorare in una situazione già insostenibile, e già arrivano le richieste di rientro anticipato dalla rete estera”, assicura Vattani. Di più, nel suo pamphlet l’ex console denuncia già “un calo delle domande di trasferimento dei diplomatici all’estero”. E qui è direttamente la Farnesina a smentire il suo dipendente assurto a megafono dei colleghi: “Non risulta alcuna diminuzione. Al contrario, nell’ultima lista diplomatici, cioè i posti disponibili oltreconfine, è aumentata la percentuale di copertura dei posti all’estero”. La fuga dalle ambasciate, quindi, l’ha vista solo Vattani. Che potrebbe prenderla da spunto per il prossimo racconto di fantasia.

 

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