Fairphone2, il telefono
costruito senza minerali da zone di guerra né lavoratori sfruttati
L'omonima azienda olandese lancia la seconda
versione del suo dispositivo equo e solidale fatto con materiali ottenuti
rispettando i diritti degli uomini e dell'ambiente. I suoi componenti vengono
realizzati in fabbriche regolari e i minerali con cui sono realizzati
certificati, anche da Faitrade
di ARTURO DI CORINTO
LA
MAGGIOR parte dei nostri telefoni contiene minerali provenienti da zone di
guerra. Oppure metalli scavati a mani nude da bambini e lavoratori schiavizzati.
Fairphone non ce li mette, semplicemente. Fairphone è una piccola azienda
olandese che è nata con lo scopo di realizzare un telefono "equo e solidale", un
telefono di ultima generazione ma robusto, efficiente e open source. E
Fairphone2 è il nome del secondo modello di questo dispositivo etico appena
messo in vendita sul sito dell'azienda: è un 4G, monta il sistema operativo
Android e ha una doppia SIM. Veloce, versatile e robusto, è concepito per essere
modificato sia a livello software che a livello hardware perché le parti che si
usurano possono essere sostituite.
Ma andiamo con ordine. Qualcuno ricorderà la campagna "Niente sangue nel mio
GSM". Negli anni scorsi infatti, diverse organizzazioni umanitarie con questo
slogan avevano voluto mettere in risalto il fatto che la maggior parte delle
componenti preziose dei telefonini - oro, stagno, tungsteno - venissero da zone
di guerra. In particolare Repubblica aveva raccontato delle "guerre del coltan",
un composto, la columbite-tantalite, da cui si ricavano il tantalio e il niobio,
fondamentali per dare certe caratteristiche di conduzione e resistenza ai
telefonini. Estratti prevalentemente nella regione del Congo in Africa, e
commerciati da organizzazioni criminali e paramilitari per finanziarsi, il loro
contrabbando è stato alla base di molti conflitti bellici e secondo le Nazioni
Unite, della guerra civile nel paese.
Ecco, Fairphone pretende di usare "conflict-free minerals", ovvero minerali la
cui raccolta non produca conflitti e guerre né nella zona del Congo né altrove.
Per fare questo i giovani imprenditori di Fairphone avviato da due anni una
ricognizione sul posto del modo di operare dei loro fornitori e hanno deciso di
rifornirsi solo da quelli che davano adeguate garanzie di rispettare l'ambiente,
i diritti dei lavoratori, la libera concorrenza e le leggi statuali. Ogni volta
che questi principi non erano rispettati, facevano due cose: cambiare fornitore
spostandosi perfino dall'Africa in America Latina, oppure, dove era possibile,
avviare delle partnership scientifiche ed educative coi produttori. E scegliendo
spesso la seconda opzione per non deprimere ulteriormente l'economia di quei
paesi e facendo accordi perché ne fosse garantita una produzione legale.
Visto che gran parte dei componenti in oro che rendono resistenti ed efficienti
i nostri telefoni veniva realizzata in Cina hanno poi deciso di andare a vedere
se la loro materia prima provenisse da miniere regolari. Scoperto che quell'oro
non poteva sempre essere certificato, hanno deciso di risalirne la catena
produttiva chiedendo aiuto a FairTrade international, la fondazione che in tutto
il mondo garantisce se caffè, zucchero, cacao, giocattoli e artigianato sono
prodotti secondo i principi dell'altromercato, cioè del mercato equo e solidale.
E oggi ne hanno realizzato una prima mappatura pronti a certificare i proprio
telefonini come "puliti" e "senza sangue".
Il primo Fairphone ha visto la luce nel 2013: usava solo stagno e tantalio
congolesi certificati. Ma prima Fairphone aveva stretto un accordo etico e
commerciale coi suoi produttori in Cina (a Guohong e poi a Suzhou), ottenendo
migliori condizioni di lavoro per gli operai. Poi ne hanno studiato l'impronta
ecologica, e in base all'analisi del ciclo di vita hanno organizzato sia le
modalità produttive che l'esportazione e il riciclo (aprile 2014) del telefono
per arrivare a un design che fosse in grado di supportare delle modifiche al
telefono stesso. Dal Ghana hanno cominciato a importare telefonini buttati per
recuperarne i materiali da usare nel Fairphone e hanno cominciato a vendere
attraverso il proprio sito i ricambi per il telefonino offrendo insieme ad
iFixit dei tutorial per imparare a sostituirne le parti usurate. Adesso sono
arrivati a fornire le istruzioni per stampare in 3D la cover dei telefonini e
sono pronti al rilascio del codice sorgente del software che fa funzionare i
telefonini. Hanno già prevenduto oltre ottomila Fairphone2 dal loro sito. "È
bello, funziona bene e - spiega Valentina, volontaria di una Onlus che si occupa
di migranti che si trova in in Puglia - mi fa sentire meglio sapere che è
garantito da giovani come noi che mettono il valore delle vita umana davanti al
profitto". In questo momento nel mondo ci sono 60.000 Fairphone. E un po' di
bontà in più.
Fonte: La Repubblica
11
agosto
Il tesoro degli stranieri
d'Italia: pagano tasse per 45 miliardi. "Una risorsa per il paese"
di VLADIMIRO POLCHI
ROMA. È la dote che gli immigrati portano al
Paese: un bottino di 6,8 miliardi di euro che ogni anno finisce nelle casse
dell'Agenzia delle entrate. Sì, perché tra i 5 milioni di "nuovi italiani" si
cela un popolo di contribuenti: 3 milioni e mezzo di persone, che dichiarano al
fisco oltre 45 miliardi di euro l'anno.
A mappare le dichiarazioni dei redditi 2014 dei nati all'estero è la fondazione
Leone Moressa. I risultati? I contribuenti immigrati rappresentano oggi l'8,6%
del totale e dichiarano 45,6 miliardi di euro. In testa ci sono i romeni (con
oltre 6,4 miliardi), seguiti da albanesi (3,2), svizzeri (2,8) e marocchini
(2,4). Le donne sono meno della metà: 43,9% (rispetto al 48% delle italiane),
visto la presenza di molte straniere inattive. Per alcune nazionalità dell'Est
Europa, impiegate prevalentemente come colf e badanti, si raggiungono invece
percentuali ben più alte: è il caso dell'Ucraina (le donne contribuenti sono il
75,9%) e della Moldavia (60,7%). Non è tutto. Nonostante la
crisi, i redditi dichiarati dai nati all'estero sono aumentati dell'1,8%
nell'ultimo anno. Il record di crescita? Quello dei cinesi (più 8%) e moldavi
(più 7,3%).
Fonte: La Repubblica
Da Bergamo ai narcos,
l'impero di Locatelli: la primula rossa del traffico di cocaina
Una carriera criminale iniziata a 20 anni
riciclando auto rubate. Poi il salto e gli affari col cartello colombiano,
l’arresto, l’evasione e la latitanza Ma il “Diabolik” della droga torna in
Italia, estradato
di ROBERTO SAVIANO
BERGAMO
fa finta di niente, ma c'è una notizia importante che la riguarda da vicino. Il
principale broker di cocaina d'Europa è stato estradato dalle prigioni spagnole
e torna finalmente in Italia (anche grazie al lavoro del pm Maria Cristina Rota
che non ha mai mollato e ha ottenuto un risultato per molti insperato). Si
chiama Pasquale Claudio Locatelli. Ed è di Bergamo. La città sembra volerlo
rimuovere, ma se dovesse pentirsi potrebbe raccontare una delle storie più
complesse e intricate che lega la ricchezza imprenditoriale di quel territorio
al narcotraffico, una storia sconosciuta e cruciale, una storia di un Nord
segreto e, purtroppo, ignorato. È il criminale più sottovalutato degli ultimi
decenni e anche il meno raccontato. Uomo di riferimento dei narcos sudamericani
nel Vecchio Continente, proprietario di un'intera flotta di navi per il traffico
internazionale di droga, manager capace - attraverso uomini di fiducia - di
servirsi a suo piacimento di una banca italiana e di tentare la scalata a una
banca croata.
L'ultima volta che ho avuto a che fare con la vicenda Locatelli è stato qualche
mese fa. Dallo studio legale Mariacarla Giorgetti, professore universitario di
Diritto processuale civile dell'Università di Bergamo, ricevo la richiesta del
ritiro immediato dalle librerie di tutt'Italia di "ZeroZeroZero". Vedo il
cognome sul documento legale: Locatelli. A lui è dedicato un capitolo del libro.
Cerco di capire. Quale arroganza poteva spingere un uomo in cella per
narcotraffico a un gesto del genere? Ma a chiedere il ritiro del libro non è lui
direttamente, bensì la sua famiglia, precisamente il figlio Massimiliano: è un
tentativo che i familiari dei criminali fanno spesso, quello di provare a
sfruttare qualche cavillo, o qualche falla della giustizia civile, per ottenere
qualche vantaggio. Ma in questo caso falliscono, il giudice rigetta la
richiesta.
Dunque ecco la storia di Pasquale Claudio Locatelli, il re della cocaina che
nessuno conosce, anche perché non è né calabrese né napoletano né siciliano né
casalese. È bergamasco, e questo gli ha giovato molto per mantenere il silenzio
sui suoi affari. Nasce sessantuno anni fa ad Almenno San Bartolomeo, un paesino
lombardo a una manciata di chilometri da Bergamo. È un ragazzo di vent'anni
quando comincia a farsi le ossa con incursioni nelle province ricche, tra Milano
e Verona, per rubare macchine di grossa cilindrata. Pensa subito in grande:
organizza una rete imponente di riciclaggio di auto rubate allacciando contatti
anche all'estero, dall'Austria alla Francia, impara lingue straniere (finirà per
padroneggiarne quattro). Ragiona già come un imprenditore proiettato su uno
scenario internazionale. È sveglio - presto verrà soprannominato anche
"Diabolik" - e capisce prima di altri che la coca è il futuro. Per i suoi
traffici passati è in libertà vigilata, e sono le restrizioni al suo raggio di
movimento che lo inducono a cominciare la vita del latitante. Cerca di allargare
la sua fortuna là dove sa di poter trovare facilmente nuovi clienti, in Costa
Azzurra. Si stabilisce in una villa a Saint-Raphaël, località più esclusiva e
tranquilla della vicina Saint-Tropez. Lì Locatelli è conosciuto come Italo
Salomone, i suoi ricchi vicini non sanno che la polizia francese lo sta
braccando da quando ha sequestrato all'aeroporto di Nizza una valigia
proveniente dalla Colombia zeppa di coca nascosta in un doppiofondo.
Solo dopo tre anni di ricerche i flic riescono ad arrestarlo nella sua villa,
dove trovano anche una provvista di 41 chili di cocaina. È il 1989. Condannato
per narcotraffico internazionale, finisce nel carcere di Grasse per scontare una
pena di dieci anni. Ma Diabolik è un uomo di pensiero e d'azione rapida. Si
rompe un braccio. Bisogna ricoverarlo, però i francesi sospettano che
quell'incidente possa non essere casuale. Per precauzione non lo mandano a
Nizza, ma a Lione, a quasi cinquecento chilometri di distanza dalla costa che ha
battuto palmo a palmo. Accorgimento inutile. Quando il detenuto scende dal
cellulare e si avvia verso l'ospedale, si materializzano tre uomini armati e
mascherati che disarmano gli agenti e spariscono in un lampo assieme al
detenuto. Locatelli varca il confine con la Spagna. D'ora in poi non sarà più
Italo, ma Mario di Madrid, il broker dei due mondi.
Gira con una guardia del corpo e una segretaria personale, ha imparato a non
dormire mai più di due notti nello stesso posto, cambia cellulari con la
frequenza con cui le persone normali si cambiano i calzini. Ma non è un uomo del
cartello di Medellín né del cartello di Cali. Questa è la sua caratteristica. Il
bergamasco è il padrone della propria impresa, libero di stabilire da solo ogni
nuovo investimento, unico responsabile dei rischi che si accolla. Non è un
affiliato. Non uccide e non ordina omicidi. Lui raccoglie capitali, li investe
comprando cocaina in grande quantità e nel momento più conveniente, e riesce a
movimentarla ovunque. Tratta con tutti: le famiglie di Bagheria e di Gela, le 'ndrine
di San Luca e di Platì, i clan più potenti dell'area nord di Napoli.
Pasquale Locatelli e l'altro grande broker italiano Bebé Pannunzi (arrestato in
Colombia) sono il Copernico e il Galileo del commercio di cocaina. Con loro
cambia il modello di rotazione degli affari. Prima era la coca che ruotava
intorno al danaro. Ora è il danaro che è entrato nell'orbita della coca,
risucchiato dal suo campo gravitazionale. Tra una consegna di coca e un lavaggio
di denaro sporco, Mario di Madrid fa crescere il suo impero indisturbato fino al
1994, ignaro del fatto che le forze dell'ordine di mezzo mondo da qualche tempo
lo tengono sotto controllo. Sta maturando, infatti, l'ultima fase di una
maxioperazione coordinata tra le polizie internazionali, inclusi la Dea
statunitense e l'Fbi, che porta il nome di Operation Dinero. Due anni di
indagini e di operazioni segretissime, agenti infiltrati in due continenti e,
come esca centrale, una banca aperta ad hoc su un'isola offshore dei Caraibi,
Anguilla, per ripulire i narcodollari dei trafficanti. Una banca vera,
registrata come si deve, con una sede elegante, dipendenti qualificati e
competenti che sanno accogliere i clienti in molte lingue. Ma controllata
integralmente dalla Dea. La Rhm Trust Bank offre tassi d'interesse da sogno,
soprattutto ai clienti più facoltosi.
I narcos colombiani si fanno ingolosire. Un consulente finanziario della Dea
riesce a entrare in rapporto con Carlos Alberto Mejía detto "Pipe", legato al
cartello di Cali. Mejía ci casca in pieno. Ci sarebbero, per cominciare, quasi
due milioni e mezzo di dollari provenienti dal narcotraffico in Italia da
reinvestire, soldi che arriveranno attraverso un socio italiano di Mejía che
opera in Spagna e in Italia. Un "socio italiano". È così che gli agenti della
Dea si trovano all'improvviso e senza averlo messo in conto sulle tracce di
Pasquale Locatelli. Proprio a causa di questo "socio italiano" - abilissimo nel
cancellare le sue tracce ogni volta - le indagini toccano un punto morto. Gli
inquirenti decidono allora di mettergli alle costole un agente "undercover", un
agente assai particolare. È ispettore del Servizio centrale operativo della
polizia italiana. Ha una formazione finanziaria affinata in anni di indagini,
anche se non ha mai svolto una missione sotto copertura. È giovane, nemmeno
ventisette anni, ma di presenza impeccabile. Parla fluidamente diverse lingue.
Conosce i metodi più sofisticati del riciclaggio. Ma, soprattutto, è una donna.
Quindi insospettabile.
Dopo un corso accelerato e personalizzato della Dea, nasce Maria Monti,
un'esperta di finanza internazionale con un enorme desiderio di farsi largo in
mezzo alla spietata concorrenza maschile. Maria viene catapultata in un vortice
di voli in business class, trasferimenti in taxi o macchine di grossa
cilindrata, alberghi e ristoranti per pochi eletti, incontri con narcos
sudamericani su yacht di lusso al largo di Miami o della Costa del Sol per
proporre loro servizi di riciclaggio sicuri e veloci presso la Rhm Trust Bank.
Maria riesce a guadagnarsi la fiducia dei narcos e di Locatelli. Vengono fissate
le prime consegne di denaro da reinvestire attraverso la banca nelle Antille:
gli incontri avvengono in posti molto frequentati, come l'Hotel Jolly di Roma o
il Bar Palombini all'Eur: 671.800.000 lire più cinquantamila dollari la prima
volta, poi ancora due tranche da 398.350.000 e 369.450.000 lire, il tutto nel
giro di un mese e mezzo.
Ma colui che ha permesso alle forze dell'ordine di arrivare fisicamente a
Locatelli è un personaggio dall'aspetto rassicurante dell'avvocato di provincia,
Pasquale Ciola, pugliese. È lui il vero perno degli affari di Locatelli in
Italia. Grazie a Ciola, che siede nel Cda, riesce a servirsi di un'intera banca,
la Cassa rurale ed artigiana di Ostuni. Seguendo Pasquale Ciola fino a Madrid,
il 6 settembre 1994 la polizia arresta Locatelli al ristorante Adriano: ha con
sé documenti falsi e una borsa con 130 milioni in contanti. Al suo tavolo
siedono tra gli altri l'immancabile segretaria svizzera Heidi e il sostituto
procuratore di Brindisi, Domenico Catenacci.
Mario di Madrid perde così oltre alla libertà anche quattro navi della sua
flotta, già pronte per raggiungere le coste della Croazia cariche di droga e di
armi, e molti altri pezzi del suo impero. L'Operazione Dinero, secondo i
documenti della Dea, porta all'arresto di centosedici persone in Italia, Spagna,
Stati Uniti e Canada. Alla fine dei conteggi, tra un continente e l'altro,
vengono sequestrati circa novanta milioni di dollari in contanti e una quantità
incredibile di cocaina: nove tonnellate. L'avvocato Pasquale Ciola per
diciassette anni ha continuato a vivere nella sua casa di Ostuni: solo a
febbraio del 2011 arriva il verdetto definitivo della Cassazione che lo condanna
a sette anni e due mesi. Il magistrato Domenico Catenacci, invece, ha subito la
sospensione dalle sue funzioni e un processo per associazione a delinquere, ma è
riuscito a dimostrare di non aver avuto idea di chi fosse Pasquale Locatelli ed
è stato prosciolto.
Mario di Madrid resiste invece ad anni di galera come un capo mafioso di antica
stirpe. Passa da una cella spagnola ad una francese, ma dieci anni dopo
l'arresto viene estradato a Napoli per un processo, dove incredibilmente la
Corte di Cassazione ne ordina la scarcerazione: un cavillo gli dà il tempo
necessario a sparire di nuovo. E infatti Locatelli non perde un minuto e si
rifugia nuovamente in Spagna. E lì rimane tra fermi, scarcerazioni, libertà
vigilata e latitanza. Ma mantiene i contatti con i suoi figli rimasti in Italia,
come dimostrano varie intercettazioni. Ed è pedinando il figlio Massimiliano -
lo stesso che poi avrebbe chiesto il ritiro del mio libro da tutta Italia - che
gli investigatori sono giunti all'ultimo e speriamo definitivo arresto di
Locatelli avvenuto all'aeroporto di Madrid nel maggio del 2010 su mandato di
cattura spiccato dalla Dda di Napoli. Anche Patrizio e Massimiliano vengono
condotti in carcere, con l'accusa, fondata su diverse intercettazioni, di aver
avuto una parte molto attiva sia nel riciclaggio che nei pagamenti stratosferici
consegnati nelle mani dei trafficanti. Entrambi saranno poi scarcerati, e sono
tuttora in attesa di giudizio a piede libero. I Locatelli hanno un saldo legame
con la borghesia bergamasca. Domenica 19 settembre 2010 alle Ghiaie di Bonate
organizzarono a nome della loro ditta un party con molti ospiti. C'erano
l'arcivescovo (che verrà per altre vicende coinvolto in un indagine sul
ricoclaggio Ior) poi ben tre magistrati, un ispettore di polizia in servizio in
Procura, il direttore del carcere di Bergamo e un sottoufficiale della Guardia
di Finanza.
Si capisce ovviamente perché i Locatelli abbiano cercato di scongiurare
l'estradizione del padre. Se parlasse cadrebbe un impero. La domanda centrale è:
dove sono i soldi di Locatelli? Dove si nasconde il suo immenso patrimonio? In
questo momento ha i riflettori accesi su di lui, i suoi uomini di fiducia e i
suoi affari, e quindi sa che non può muovere nulla. Ma il danaro di Pasquale
Claudio Locatelli deve essere trovato e deve tornare al nostro Paese. La
ricchezza del narcotraffico è una delle risorse principali che la democrazia
italiana dovrebbe saper sottrarre gli imprenditori della droga. La cocaina è il
petrolio nascosto della nostra economia. Togliere il danaro al mercato
globalizzato della droga e reimmetterlo nel sistema economico sarebbe una grande
risorsa: porterebbe molti più soldi di una nuova tassa.
Ci vuole una nuova politica e non soltanto deleghe a poliziotti e giudici. Serve
nuova creatività in materia di leggi economiche per fermare l'infinito
riciclaggio dei soldi sporchi. Trascurare queste risorse, come le autorità
politiche stanno facendo, è una colpa di cui un giorno saranno chiamate a
rispondere.
Fonte: La Repubblica
4
agosto
Porto Rico in default sul
debito. E’ il primo territorio Usa che fallisce
Il Paese, che non fa parte della federazione ma
ha chiesto l'ammissione, non ha rimborsato 58 milioni di dollari di prestiti in
scadenza lunedì. La presidente della Government development bank ha spiegato che
la decisione è stata presa tenendo conto degli "obblighi verso i creditori e
degli obblighi altrettanto importanti verso la popolazione". Il governatore
studia un piano di ristrutturazione
Il Porto Rico è ufficialmente in default dopo che
lunedì 3 agosto ha rimborsato ai creditori solo 628mila dollari su un prestito
in scadenza che valeva 58 milioni. E’ la prima volta nella storia che un
territorio statunitense non riesce a ripagare i propri debiti e “fallisce”.
L’agenzia di rating Moody’s ha ufficializzato lo stato di default e prevede che
l’arcipelago, che non fa parte degli Stati Uniti ma ha chiesto l’ammissione alla
federazione per diventarne il 51esimo Stato, “non abbia le risorse per fare
fronte a tutti i prossimi pagamenti”.
La presidente della Government Development Bank, Melba Acosta-Febo, ha spiegato
che il mancato pagamento è stato dovuto alla “mancanza di fondi sufficienti per
l’anno fiscale in corso” e la decisione è stata presa tenendo conto degli
“obblighi verso i creditori e degli obblighi altrettanto importanti verso la
popolazione di Porto Rico per garantire i servizi essenziali che si meritano”.
Già a fine giugno il governatore Alejandro Garcia Padilla aveva annunciato che
il Paese non sarebbe stato in grado di fare fronte al proprio debito di 72
miliardi di dollari, pari circa al 70% del pil, e aveva lanciato un appello ai
creditori affinché “condividessero i sacrifici“. La Casa Bianca ha fatto però
sapere di non aver intenzione di varare piani di salvataggio. Padilla sta
lavorando a un piano di ristrutturazione da concordare con i creditori i cui
dettagli sono attesi per il primo settembre.
Il tema è stato anche al centro di un botta e risposta tra il segretario al
tesoro Jack Lew e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaueble durante
le trattative sulla crisi della Grecia: il 9 luglio, pochi giorni prima della
firma dell’accordo tra i leader dell’Eurozona e Alexis Tsipras, Schaeuble ha
reagito a quelle che ha letto come “ingerenze” statunitensi nella gestione del
dossier dicendo in conferenza stampa: “Noi accoglieremo nell’euro Porto Rico se
loro accetteranno la Grecia nel sistema dollaro”. Diversamente dal debito
sovrano greco, però, gran parte dei bond di Porto Rico è in mano non a Stati
sovrani ma ai risparmiatori americani che hanno sottoscritto fondi comuni di
investimento. Questi ultimi avevano puntato sui bond di Porto Rico non appena
furono emessi perché all’epoca avevano il rating più alto (investment grade) ma
pagavano rendimenti sopra la media. Ora però sono classificati come “junk”,
spazzatura.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
Sud, 90 miliardi bloccati e
quelli spesi si sono dispersi in 907mila microprogetti
Vecchie risorse inutilizzate, nuovi fondi senza
delibere. Nessun sottosegretario con delega e l'Agenzia resta fantasma
di VALENTINA CONTE
ROMA. Un mare di soldi bloccato. Fermo.
Centoquattro miliardi da spendere subito. E di questi, oltre 87 col bollino del
Sud. Destinati cioè a quel meridione d'Italia "a rischio di sottosviluppo
permanente" e che cresce la metà della Grecia, ricorda lo Svimez. Com'è
possibile? Colpa solo delle amministrazioni locali lente e incapaci, magari sin
troppo propense ai "piagnistei" rimproverati da Renzi? In parte, certo. Ma la
macchina miliardaria dei fondi, europei e nazionali, si è inceppata dalla testa.
Burocrazia, ma anche e soprattutto politica.
L'analisi cruda dei numeri racconta un "piano Marshall" per il Mezzogiorno,
evocato ieri dalla ministra dello Sviluppo Federica Guidi nell'intervista a
Repubblica, che nei fatti e nei denari già esiste. Non solo. Si scopre che la
metà del non speso, ben 50 miliardi, si riferisce addirittura al periodo
2007-2013. In questi nove anni l'Italia è riuscita a utilizzare appena il 46%
delle risorse a disposizione, polverizzandole tra l'altro in un milione di
progetti. Per la precisione, 907 mila 372. Dall'America's Cup di Napoli (5,8
milioni) alla campagna "Voglio vivere così" della Toscana (13,4 milioni).
Avanzano dunque 50 miliardi della vecchia programmazione (dei 91 totali
iniziali). E se non si corre, una parte andrà restituita.
Entro Capodanno, il governo deve difatti spedire a Bruxelles un maxi-scontrino
da 12,3 miliardi di fondi europei (cofinanziati dall'Italia) con la data di
scadenza. Il resto dei 50 miliardi - fondi nazionali, questi - non rischia
invece il binario morto, dunque non andranno perduti né saranno richieste
fatture. Ma la stasi sì. Si tratta del Fondo sviluppo e coesione e del Piano di
azione e coesione. Sigle non certo popolari (Fsc e Pac), ma fondamentali bacini
per gli investimenti nel Sud in infrastrutture, inclusione, formazione,
occupazione. Eredi di quel fondo Fas per le aree sottoutilizzate (dunque il
meridione), saccheggiato nel recente passato come bancomat di Stato da governi
d'ogni colore, per alimentare un po' di tutto: cassa integrazione in deroga,
multe per le quote latte, la Brebemi, il G8 doppio (Maddalena e L'Aquila). Da
buona ultima, anche la legge di Stabilità per il 2015 ne ha prelevato una
fettina da tre miliardi e mezzo per finanziare gli sgravi contributivi (soldi
del Sud che hanno di fatto beneficiato soprattutto il Nord, il più vivace nelle
assunzioni).
Centoquattro miliardi fermi, si diceva. Cinquanta per il passato, come visto.
Altri 54 per il nuovo periodo di programmazione, 2014-2020. Parliamo dell'Fsc
(Fondo sviluppo e coesione): soldi nazionali tradizionalmente destinati alle
grandi opere, le infrastrutture strategiche del Paese. L'ultima legge di
Stabilità ne ha cambiato la mission , dirottandoli alla "specializzazione
intelligente", dunque ricerca e innovazione e agenda digitale. Non riusciamo a
spendere i denari per fare le strade, mettiamoli sulle infrastrutture
immateriali, è stato il ragionamento. Tra marzo e aprile, però, l'iter si è
congelato. Il Cipe avrebbe dovuto procedere con le delibere (la torta di questo
Fondo è gestita in toto dal Comitato interministeriale per la programmazione
economica). Ma non l'ha fatto. Graziano Delrio, l'allora sottosegretario di
Palazzo Chigi con delega proprio ai fondi europei, è stato spostato alla guida
del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (ha giurato il 2 aprile).
Ottenendo di portarsi dietro proprio quel fondo, l'Fsc con i suoi 54 miliardi (e
sperando di tornare alla mission originaria, cioè le infrastrutture). Una
promessa politica del premier Renzi, ad oggi ancora non attuata. Come pure la
delega ai fondi Ue, in teoria slittata nelle mani del nuovo sottosegretario
Claudio De Vincenti, mai formalizzata. Tutto fermo.
Chi sovraintende da Roma dunque i fondi Ue? Non certo l'Agenzia della coesione,
diretta da Maria Ludovica Agrò, di fatto insediata da appena tre mesi (dopo un
anno di gestazione). E ancora alle prese con le assunzioni. Dunque Palazzo
Chigi. Il premier Renzi ha ereditato il buon lavoro impostato da Delrio, ma poi
forse l'ha un po' accantonato. Di qui la stasi. Certo, va detto che 40 dei 50
programmi di spesa dei nuovi fondi Ue sono stati già approvati da Bruxelles e il
governo intende accelerare sui restanti 10. La partita per il 2014-2020 vale in
tutto però 138 miliardi (fondi europei più nazionali, Fsc incluso). Una cifra
davvero enorme. Da governare.
"Un Paese normale si può permettere di avere ancora il 50% di vecchi fondi da
spendere a meno di sei mesi dalla scadenza, con la più grande area depressa
d'Europa?", si chiede Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. La Uil tra
l'altro calcola che dei 12 miliardi di fondi Ue in scadenza, almeno 2 sono a
rischio concreto di restituzione. Si vedrà.