
8 agosto 2019
Puoi evitare le lista di attesa.
Vai in intramoenia e paghi solo il ticket
Le liste di attesa spesso sono troppo lunghe e tu
non puoi attendere. Se devi fare una prima visita medica o un esame
specialistico in tempi brevi puoi evitare di doverteli pagare privatamente o in
intramoenia. E’ sufficiente richiedere alla ASL l’accesso all’intramoenia
pagando solo il ticket (nel caso Tu non sia già esente).

Cosa devi fare:
Fai indicare al tuo medico la priorità della
prestazione
U (urgente entro 72 ore)
B (breve entro 10 giorni)
D (differibile entro 30 giorni se visita, entro 60 giorni se esame diagnostico)
P (programmabile entro 180 giorni)
Allo sportello del CUP o al Recup specifica il
codice di priorità indicato nella ricetta. Se l’appuntamento non è fissato entro
i tempi massimi stabiliti dal codice di priorità indicato nella tua ricetta
richiedi di effettuare la prestazione in intramoenia PAGANDO SOLO IL TICKET.
Compila il Modulo che trovi nelle sedi CGIL o
scaricandolo cliccando qui.
Consegnalo a mano o invialo via e-mail all’Ufficio Relazioni
con il pubblico (URP) della tua ASL. La ASL deve tempestivamente contattare il
cittadino che ha presentato la richiesta e fissare l’appuntamento, la visita e/o
gli esami in intramoenia.
Liste di attesa, ora cambiamole davvero,
insieme.
Se la ASL non garantisce il rispetto dei tempi
massimi previsti per erogare la prestazione sanitaria Il dlgs 124 del 1998
prevede che la stessa indichi al cittadino le strutture pubbliche o private
accreditate (convenzionate) che assicurano il rispetto della tempistica. Nel
caso nessuna struttura pubblica o accreditata sia in grado di erogare la
prestazione, l’Azienda sanitaria deve autorizzare la prestazione in regime
intramurario (intramoenia). In questo caso il cittadino non deve sostenere alcun
onere economico aggiuntivo, se non l’eventuale ticket (nel caso non ne sia
esente).
CGIL e SPI CGIL di Roma e del Lazio sono impegnati:
– a far conoscere a tutti i cittadini questo
opzione prevista dalla legge ma non resa nota dal Servizio Sanitario Regionale;
– a promuovere, con una costante azione rivolta alle istituzioni sanitarie,
tutti gli interventi necessari per far attuare in tempi rapidi l’effettiva
riduzione delle liste di attesa;
– a richiedere con la partecipazione dei cittadini, a livello regionale e ASL
per ASL, la riqualificazione e il potenziamento di personale, tecnologie e
modalità organizzative delle strutture dell’offerta pubblica di prestazioni
specialistiche ambulatoriali.
Fonte: CGIL Roma
Lazio
1 aprile 2019
I social e il (non) silenzio
elettorale
Molti politici nazionali non lo rispettano.
Fatto grave, specialmente quando il politico in questione è Salvini, a capo del
ministero che ha il compito di vigilare sulla regolarità della propaganda
elettorale

Il 2019 della politica italiana è iniziato con 3
tornate regionali che hanno riguardato, in ordine di tempo, Abruzzo, Sardegna e
Basilicata. Elezioni che hanno sempre visto vittorioso il centrodestra,
confermando soprattutto la forte ascesa politica del leader leghista Matteo
Salvini.
In tutte queste occasioni si è riproposto un problema dell’attuale sistema
politico: il non rispetto del silenzio elettorale sui social. La legge che
regola la materia risale al 1956, ed è stata modificata numerose volte negli
anni successivi. Ciò nonostante il testo non fa ancora chiari riferimenti a
internet, e grazie a questa ambiguità i politici, nazionali e non, continuano a
violare il silenzio elettorale nel giorno del voto.
Matteo Salvini è a capo dell’istituzione che deve vigilare sulla propaganda
elettorale, ma lui stesso viola il silenzio elettorale.
È successo varie volte in questi mesi, soprattutto nelle elezione regionali
appena menzionate. Un problema che ha coinvolto un po’ tutti, ma in maniera
particolare candidati e politici della coalizione di centrodestra, uno su tutti
Matteo Salvini. Il leader della Lega infatti ha utilizzato varie volte facebook
e twitter per fare appelli al voto il giorno stesso dell’elezione. Un problema
non da poco, considerando che Salvini è anche ministro dell’interno,
l’istituzione pubblica che organizza le elezioni, e che monitora il loro
svolgimento regolare.
Come funziona il silenzio elettorale
Le campagne elettorali sono normate da una serie di leggi, che ne assicurano il
funzionamento e soprattutto la regolarità. Tra queste c’è anche la legge 212 del
1956, dedicata proprio alla disciplina della propaganda elettorale. Nei diversi
articoli della norma vengono affrontati numerosi aspetti: dalle regole per
l’affissione dei manifesti, alle multe per chi li distrugge. L’articolo 9 è
dedicato proprio al silenzio elettorale:
Nel giorno precedente ed in quelli stabiliti per, le elezioni sono vietati i
comizi e le riunioni di propaganda elettorale diretta o indiretta, in luoghi
pubblici o aperti al pubblico, nonché la nuova affissione di stampati, giornali
murali od altri o manifesti di propaganda o l’applicazione di striscioni, drappi
o impianti luminosi. Nei giorni destinati alla votazione è vietata, altresì,
ogni propaganda elettorale entro il raggio di 200 metri dall’ingresso delle
sezioni elettorali.
La norma in questione è stata poi integrata con il decreto legge 807 del 1984,
che espande il divieto di diffondere propaganda elettorale il giorno del voto
anche alle emittenti radiotelevisive private. La logica dietro questa regola è
che il cittadino, dopo aver ascoltato ed analizzato le proposte fatte dalle
varie forze politiche candidate durante la campagna elettorale, possa riflettere
serenamente sul voto che sta per esprimere.
Il problema però è abbastanza evidente, ed è anche normale visto l’anno in cui i
testi sono stati prodotti: l’attuale principale mezzo di comunicazione per la
politica italiana, internet, non viene mai citato direttamente dalla norma.
Questo crea delle evidenti ambiguità, che potrebbero essere superate dal
semplice buonsenso: se c’è un divieto di fare propaganda su qualsiasi mezzo di
comunicazione, è chiaro che questo riguardi anche i social network.
Peccato però che questo collegamento non sia così evidente. Motivo per il quale
prima delle scorse elezioni politiche l’autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (Agcom), che ha lo specifico mandato in materia, aveva pubblicato
chiare linee guide per evitare questi problemi:
La normativa vigente vieta di fatto ogni forma di propaganda elettorale (in tv e
attraverso comizi pubblici) nel giorno del voto e in quello precedente. Sarebbe
pertanto auspicabile che anche sulle piattaforme in questi due giorni fosse
evitata, da parte dei soggetti politici, ogni forma di propaganda, per evitare
di influenzare con pressioni indebite l’elettorato ancora indeciso.
Chi non ha rispettato il silenzio elettorale
Da inizio anno si sono svolte 3 tornate elettorali, che hanno riguardato
altrettanti regioni: Abruzzo (10 febbraio), Sardegna (24 febbraio) e Basilicata
(24 marzo). Per analizzare la portata del problema abbiamo preso in
considerazione i profili facebook e twitter dei 9 principali candidati (3 per
tornata elettorale: centrodestra, centrosinistra e Movimento 5 stelle), come
anche quelli dei leader dei 5 principali partiti nazionali: Lega (Matteo Salvini),
Movimento 5 stelle (Luigi Di Maio), Partito Democratico (Martina e poi
Zingaretti), Forza Italia (Silvio Berlusconi) e Fratelli d’Italia (Giorgia
Meloni).
Per fare questo tipo di lavoro abbiamo differenziato post che erano dei semplici
inviti al voto, da quelli che indicavano apertamente quale candidato scegliere e
perché. È importante fare questa differenziazione, perché la prima tipologia di
post, considerata da noi lecita, ha riguardato praticamente tutti i soggetti
analizzati, dal centrosinistra al centrodestra passando per il Movimento 5
stelle.
Discorso diverso invece, soprattutto per la gravità, quando sono stati
pubblicati post nel giorno del voto, invitando apertamente gli elettori a votare
per un determinato candidato. Questo, quando è successo, è stato fatto
principalmente dai 3 leader del centrodestra: Matteo Salvini, Silvio Berlusconi
e Giorgia Meloni.
Nel giorno del voto in Sardegna per esempio (24 febbraio), sia Silvio Berlusconi
che Giorgia Meloni hanno violato il silenzio elettorale, facendo un chiaro
appello a votare per i propri partiti. Cosa che la leader di Fratelli d’Italia
aveva anche fatto per il voto di inizio Febbraio in Abruzzo, e che il fondatore
di Forza Italia ha fatto poi anche per le regionali in Basilicata. In due
tornate elettorali su 3 quindi Berlusconi e Meloni hanno violato il silenzio
elettorale.
Anche i vari candidati del centrodestra che hanno gareggiato, e vinto, durante
le elezioni regionali del 2019 non sono stati da meno. Marco Marsilio (Fdi), ex
senatore e attuale governatore dell’Abruzzo, ha utilizzato twitter per invitare
i suoi elettori al voto. Appello fatto quando i seggi erano ancora aperti.
Unico esponente del centrosinistra per cui è stato possibile ricostruire
violazioni del silenzio elettorale è stato Carlo Trerotola, candidato alla
presidenza della regione Basilicata per la coalizione guidata dal Partito
democratico. Nel giorno del voto l’esponente del centrosinistra ha fatto
numerosi post su facebook, alcuni erano semplici inviti al voto, altri, per la
precisione 6, erano evidentemente comunicazioni di propaganda elettorale.
Il caso Salvini
Attenzione particolare la merita sicuramente Matteo Salvini. Il leader della
Lega ha violato il silenzio elettorale sia per le elezioni in Sardegna, sia per
quelle in Basilicata. Come per i suoi due alleati, Berlusconi e Meloni, le
violazioni sono state quindi in 2 delle 3 tornate regionali del 2019. Qui per
esempio è stato pubblicato un video, nel giorno del voto, in cui si invitavano
gli elettori a votare Lega.
Il problema però, quando si parla di Salvini, guadagna ulteriore peso. Il leader
della Lega, oltre a svolgere l’incarico di vice presidente del consiglio, è
anche ministro dell’interno. È alla luce di quest’incarico che emergono
ulteriori questioni. Il dicastero è infatti quello responsabile per
l’organizzazione delle tornate elettorali.
È compito infatti del ministero dell’interno, ed in particolare della direzione
centrale dei servizi elettorali – incardinata nel Dipartimento per gli affari
interni e territoriali – curare gli adempimenti preparatori ed organizzativi per
lo svolgimento di tutte le consultazioni elettorali e referendarie. In
particolare, e citiamo testualmente dal sito del ministero:
la struttura svolge la funzione di supporto giuridico e tecnico-organizzativo
agli uffici elettorali delle prefetture e dei comuni sui procedimenti
elettorali, sulla tenuta e revisione delle liste elettorali ed in materia di
vigilanza sulla propaganda elettorale.
Insomma Matteo Salvini è a capo dell’istituzione che deve vigilare sulla
propaganda elettorale, ma lui stesso viola il silenzio elettorale.
Cosa si può fare
È chiaro che un problema c’è, e che in qualche modo va risolto.
Le questioni da affrontare sembrano essere principalmente due. La prima riguarda
l’ennesima prova della profonda difficoltà dell’attuale squadra di governo di
rispettare le istituzioni che rappresentano. Non è accettabile che un ministro
non rispetti le regole che il suo stesso ministero deve implementare.
In vista delle elezioni europee, il parlamento deve approvare una legge per
normare il silenzio elettorale anche sui social.
La seconda invece ci indica la chiara necessità di dover riempire il gap
normativo attualmente in essere. Non è possibile che uno dei principali mezzi
disponibili ad oggi per fare propaganda elettorale non sia incluso direttamente
nelle norme che regolano le campagne elettorali. Un problema che, come abbiamo
più volte raccontato, riguarda sia la propaganda social, che proprio il silenzio
elettorale.
Con le elezioni europee che si avvicinano il parlamento ha ormai poco tempo per
approvare nuove norme per meglio regolamentare la materia. Il tema deve
diventare una priorità per camera e senato.
Fonte:
Openpolis
20 febbraio 2019
CasaPound, Mef scrive alla Raggi:
«Sgomberate l'immobile». Ma per la Prefettura non è una priorità
Roma, il Mef scrive alla sindaca Raggi: lo
sgombero di CasaPound non è una priorità

Il Mef ha scritto al Campidoglio sollecitando lo
sgombero dell'immobile occupato, tra gli altri, da CasaPound. Ma per la
Prefettura non è una priorità. Secondo il prefetto di Roma, il palazzo di via
Napoleone III occupato da CasaPound non è a rischio crollo né presenta
particolari problemi sotto il profilo igienico e per questo «non rientra tra le
priorità sul fronte sgomberi». Questo quando riferito nella lettera che il
ministero dell'Economia ha fatto pervenire alla sindaca di Roma, Virginia Raggi,
dopo la mozione approvata in Assemblea capitolina col voto favorevole del M5s.
Nella lettera del Mef, che rivendica lo sgombero immediato dell'immobile, viene
ripercorsa la «complessa vicenda» del palazzo di via Napoleone III. «L'immobile
è in consegna per uso governatiovo al Ministero dell'Istruzione, dell'Università
e della Ricerca dal 1963 e dal 2003 è occupato abusivamente dall'associazione e
da alcune famiglie in emergenza abitativa» è riferito nella lettera. Dopo
l'occupazione lo stesso ministero ha segnalato, già dal settembre del 2003, a
Prefettura e Agenzia del demanio «l'urgenza di un immediato recupero
dell'immobile, segnalazioni nuovamente sollecitate nel 2004, 2005 e 2008». Si
specifica, poi, che nel 2007 il Comune di Roma ha stabilito un programm di
assegnazione di diecimila alloggi popolari, «prevedendo di destinarne alcuni ai
nuclei familiari collocati in immobili storicamente occupati, come quello di via
Napoleone III».
Si riporta nella lettera anche il Piano straordinario per l'emergenza abitativa
nel Lazio e nella città di Roma e, anche in questo caso, c'erano soluzioni per
gli occupanti di via Napoleone III. «Nel 2016 il commissario straordinario del
Comune di Roma ha disposto di dare attuazione a tale programma regionale, dando
atto che le priorità di intervento sugli immobili occupati erano state stabilite
a seguito delle decisioni in merito assunte dal tavolo tecnico, costituito dal
prefetto di Roma». Nell'elenco dei 74 immobili da sottoporre a sgombero «figura
l'immobile di via Napoleone III che non è stato classificato tra i 16 per i
quali è stato delineato in via prioritaria un primo piano di interventi di
sgombero».
Nel 2017 e nel 2018 è proseguito il carteggio tra enti: l'Agenzia del Demanio ha
ribadito al prefetto di Roma «l'esigenza di recuperare la disponibilità
dell'immobile per altra destinazione». Nuovo sollecito nel novembre 2018: è
sempre l'Agenzia del Demanio a interpellare la Prefettura «in merito
all'esigenza di un intervento diretto di sgombero dell'immobile chiedendo di
fornire l'esito del censimento degli occupanti per poter porre in essere nei
loro confronti azioni di risarcimento danni a tutela degli interessi erariali».
E la risposta del Prefettura è stata esaustiva. «Il prefetto di Roma ha
comunicato - scrive il Mef - che la vicenda è da tempo all'attenzione ma che, in
forza dei criteri ritenuti prioritari per gli sgomberi (in primo luogo le
condizioni di sicurezza dell'immobile), il compedio di via Napoleone III non
presenta i profili di criticità idonei a porlo in una situazione di priorità per
lo sgombero». La lettera chiude con l'aspetto danni. «Il prefetto ha segnalato,
inoltre, che sono in corso accertamenti da parte della guardia di finanza, su
delega della Corte dei Conti, in ordine all'identificazione e al numero degli
occupanti».
Immediata la reazione di Simone Di Stefano, leadre di casaPound: «Come volevasi
dimostrare, il palazzo di via Napoleone III non desta preoccupazioni, non ha
problemi di alcun genere, non ci sono provvedimenti giudiziari in corso e quindi
non ci sono motivi per sgomberarlo». Che continua: «La sede di CasaPound rimarrà
nel palazzo di via Napoleone III e lo stabile non sarà sgomberato almeno finché
esisteranno centri sociali: una volta sgomberati tutti i centri sociali, allora
vedremo - aggiunge Di Stefano - Difenderemo la nostra occupazione fino alla
fine, e su questo si mettessero tutti l'anima in pace perché la questione non
sarà risolta a breve». «Sono convinto che la questione sia solo politica -
continua il leader di CasaPound - serve ai 5Stelle per fare muscolo nei
confronti di Salvini, per questo continuo braccio di ferro con la Lega che
danneggia solo il Movimento 5 Stelle, che perde consensi. Dovevano fare una
rivoluzione nelle città dove avevano vinto, ma così non è stato e continuano a
perdere terreno a beneficio di Salvini: fanno solo la figura degli
spacchettati».
Fonte: Il
Messaggero
15 gennaio 2019
Arabia Saudita: informate del
divorzio via sms
In Arabia Saudita si può divorziare via sms: è
la recente ‘riforma’ che vuole 'condizionare' i mariti che mettono fine al loro
matrimonio all’insaputa della moglie
“Le
mogli saudite saranno informate dell’avvenuto divorzio via sms”, questa è in
sintesi la recente notizia più rilanciata dai media proveniente dall’Arabia
Saudita.
Chi segue l’attualità della vita nel regno wahabita nei mesi scorsi ha
registrato:
· Le donne possono guidare l’auto
· Le donne votano alle elezioni amministrative per la prima volta
· per la prima volta una giornalista presenta il notiziario sul canale
d’informazione nazionale (è Waem Al Dakheel, il 23 settembre 2018)
· le donne accompagnate da familiari maschi potranno assistere a eventi sportivi
negli stadi (a proposito: qualcuno ci spiega perché due italianissime squadre di
calcio di Milano e di Torino giocheranno a Gedda una importante partita il 16
gennaio? Basta la risposta per soldi, tanti, tanti soldi? A proposito di sport e
‘recinti’ per le donne negli stadi, è magnifica l’iniziativa delle giocatrici e
spettatrici del volley che a Cremona nel corso di una importante partita della
Samsung Volley Cup di serie A con un flashmob sugli spalti hanno fatto vedere
che le donne, le sportive in questo caso, non si rinchiudono in nessun recinto!)
· il 6 gennaio il Ministero della Giustizia con un suo provvedimento ha
introdotto l’informativa via sms alle mogli del divorzio richiesto e già
operativo da parte del marito.
Ma c’è molto di più di cui parlare.
Per essere dalla parte delle donne saudite è opportuno meno orientalismo
d’accatto, meno ricorso a stereotipi novecenteschi e più interrogativi di base.
1 - Dove è il rispetto per i diritti umani (delle donne, dei migranti ridotti
spesso in schiavitù anche sessuale, delle minoranze religiose)?
Ricordiamo che ancora oggi nei tribunali del regno la testimonianza di una donna
vale la metà di quella di un uomo, è previsto l’obbligo del consenso dei parenti
stretti di sesso maschile per interventi chirurgici sulle donne, molte
professioni sono precluse alle donne spesso con formazione d’eccellenza rispetto
ai corrispondenti ‘concorrenti’ maschi …)
2 - Come è rispettata la libertà di stampa e di opinione? Centinaia i
giornalisti sotto il controllo di una censura capillare, nel paese e all’estero,
decine gli arrestati di cui spesso si perdono le tracce per mesi, fino
all’efferato assassinio del giornalista Jamal Khassogi, tre mesi fa nel
consolato saudita a Istanbul.
3 - Dove finiscono le armi (anche di produzione e provenienza italiana) che i
giovani rampolli della dinastia saudita possono permettersi di continuare a
comprare in quantità inverosimili? Sono le armi che stanno facendo strage di
civili e riducono alla fame migliaia di bambini in Yemen (l’ONU stima ad oggi
85.000 vittime).
4 - Come interpretare campagne pubblicitarie in cui sessismo, maschilismo e
paternalismo imperversano, utilizzate anche da grandi marchi internazionali:
detersivo Persil della tedesca Henkel (“Tutte le cose finiscono tranne l’amore
per la famiglia e il bucato”), detersivo Tide dell’americana Procter Gamble
(“Non crederai di trovare marito se non sai usare la lavatrice!”), mobili della
svedese IKEA che ha cancellato dai suo catalogo destinato all’Arabia Saudita
ogni immagine e riferimento alle donne.
Per completezza di documentazione riportiamo la traduzione e sintesi di alcuni
articoli riportati da varie testate occidentali sul caso della notifica del
divorzio per via telematica.
Nel 2019 in Arabia Saudita si può divorziare via sms. Lo ha reso possibile un
provvedimento (presentato come ‘riforma’) del 6 gennaio del Ministero della
Giustizia, che vuole ‘condizionare’ i mariti che mettono fine al loro matrimonio
all’insaputa della moglie, pratica tuttora legale e di ampio uso da parte dei
sauditi per la quale il divorzio viene decretato su semplice
dichiarazione/richiesta del marito.
Finalmente le donne con un messaggio telefonico a cura del Ministero (che dedica
al servizio una parte del suo sito online) saranno aggiornate del loro stato
matrimoniale e quindi potranno avanzare richieste relative agli alimenti, ad
altre forme di assistenza e alla assegnazione dei figli. Non in automatico, solo
con l’apertura di una apposita procedura presso uffici e sedi competenti.
Fonte: Mediterranea, Udi Catania, a cura di
carlapecis@tiscali.it
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