Doppie
bollette, extracosti e contenziosi, quando cambiare utenza è una via crucis
Nel labirinto dei mercati liberalizzati:
risparmi sì, ma anche difficoltà e confusione. Indennizzi per 10 milioni nelle
Tlc. Luce e gas: 70 mila contratti attivati e mai richiesti
di AGNESE ANANASSO e VALENTINA CONTE
ROMA
- Due bollette per un contatore. Un telefono per due operatori. Un incubo che
vivono migliaia di italiani quando decidono di cambiare fornitore di luce, gas o
telefonia fissa. Oppure quando il cambio avviene in modo inconsapevole, con il
furto di numero di utenza o falsificazione della firma. Nel primo caso può
succedere che il precedente gestore di energia non comunichi l'ultima lettura al
nuovo fornitore, o fornisca una lettura presunta (più alta rispetto di quella
reale) o un conguaglio sbagliato, cosicché possono passare mesi prima di
ricevere la prima fattura del nuovo fornitore.
"Nel 2010 sono arrivati 70mila reclami alle associazioni di consumatori di
cittadini che si sono trovati con contratti di fornitura mai richiesti, con in
calce una firma falsa; contratti attivati nonostante l'esercizio del diritto di
recesso entro dieci giorni; mancate risposte a reclami, che devono arrivare
entro 40 giorni come previsto dal garante", spiega il vicepresidente di
Federconsumatori, Mauro Zanini: "Senza parlare di bollette gonfiate e
fatturazioni errate: lo scorso anno Enel ha emesso 450mila bollette errate,
soprattutto in Triveneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Tanti lamentano il
pessimo servizio di switch-off. Nonostante tutto, dal 2007 alla fine del 2010 il
15% delle famiglie italiane ha cambiato fornitore di energia elettrica, mentre
per il gas siamo ancora fermi all'8%".
Il problema, specialmente nel gas, è che c'è poca informazione e l'esistenza di
un'azienda, l'Eni, che, oltre
a essere proprietaria delle rete di distribuzione, di fatto vende il gas
all'ingrosso agli altri operatori concorrenti che, quindi, non possono applicare
prezzi competitivi. "Il maggior livello di concorrenzialità del mercato
all'ingrosso, il differente assetto delle infrastrutture di trasporto e
distribuzione, e la presenza di apparecchiature e sistemi di misura più avanzati
hanno favorito un maggior sviluppo del mercato elettrico rispetto a quello del
gas naturale. L'Autorità sta lavorando su questi elementi per ridurre le
asimmetrie" spiega Massimo Ricci, direttore Mercati dell'Authority dell'energia.
Nel settore elettrico c'è stata una riduzione di oneri stimabile in oltre 4,5
miliardi di euro all'anno, rispetto al 1999. Tra le proposte allo studio c'è la
revisione periodica del regime di "maggior tutela" dell'elettrico "che
consentirebbe di acquisire elementi per un'eventuale revisione degli attuali
assetti se si evidenziasse un insufficiente sviluppo della concorrenza.
Revisione che potrebbe essere su base biennale, attuata attraverso
un'istruttoria dell'Autorità, per valutare ulteriori possibili misure di
promozione della concorrenza".
Le associazioni di consumatori nel 2010 hanno inoltrato tremila domande di
conciliazione paritetica, ossia protocolli di conciliazione con i principali
operatori del mercato (Eni, Enel Sorgenia ed Edison), cui si ricorre se i
gestori non rispondono al reclamo entro 40 giorni in modo pertinente ed
esaustivo. Lo strumento della conciliazione paritetica, che nel settore
dell'energia inizia a decollare ora, è a pieno regime nel settore della
telefonia. Le azioni sanzionatorie del Garante delle comunicazioni (Agcom) nei
confronti degli operatori nel 2010 hanno fatto rientrare nelle tasche dei
consumatori 10 milioni di euro, in forma di indennizzo, grazie ai processi di
conciliazione attivati dai Corecom, gli organismi di controllo regionale delle
comunicazioni.
"Nel 70% dei casi di conciliazione paritetica si sono registrati dei successi.
Il tutto è gratuito e l'udienza di conciliazione arriva in 30-60 giorni - fanno
sapere dall'Agcom - . In questi anni è diminuita la quota di denunce all'Agcom
nei confronti di Telecom per passaggio non richiesto a nuovo operatore (15%),
sorpassata da Teletu (20%). Teletu ha richiesto di non essere sanzionata
finanziariamente ma con il cosiddetto "impegno" a tenere comportamenti
corretti", ma l'Autorità non lo ha concesso e l'operatore ha dovuto rimborsare
centinaia di migliaia di euro ai consumatori truffati.
Le azioni sanzionatorie hanno portato in soli due anni alla riduzione a un
decimo del numero delle denunce pervenute all'Autorità, passando dalle 1.167 del
primo bimestre del 2009 alle 128 dell'ultimo bimestre di quest'anno. "Anche noi
abbiamo visto ridurre del 30-40% l'avvio di procedure di conciliazione" osserva
Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori: "Però la cattiva gestione
del processo di apertura del mercato delle tlc ha condizionato negativamente i
cittadini quando hanno avuto la possibilità di cambiare gestore dell'energia,
terrorizzati di incorrere negli stessi problemi della telefonia fissa. Ora
l'intoppo è nei nuovi servizi che servono realmente ai cittadini, cioè la banda
larga, ancora troppo cara e troppo lenta, sovraccarica di contenuti. E i costi
ricadono sempre sul cittadino, non sulle aziende che sulla rete si
arricchiscono, come Google e Facebook".
India,
lo spirito dei soldi
Dopo il caso di Baba Ramdev: i nuovi guru
funzionano come imprese multinazionali. Misticismo, politica e soprattutto tanto
business. Su questo sentiero illuminato viaggiano, e non da oggi, i guru "new
age" indiani.
L'ultima notizia riguarda il maggiore yogi (asceta
che pratica lo yoga) sulla piazza: Baba Ramdev.
Il guru in questione, titolare di una seguitissima trasmissione televisiva e
appoggiato dalla destra indu, ha cominciato a inizio giugno uno sciopero della
fame nonostante le suppliche del primo ministro indiano Manmohan Singh a lasciar
perdere: vuole che sia istituita la pena di morte per i ministri corrotti.
Ramdev - il cui giro d'affari si aggira sui 245 milioni di dollari senza contare
le imprese che ha affidato a prestanome - ha tuonato contro il malaffare, ha
smesso di mangiare, è finito in ospedale e infine ne è uscito trionfante dopo
nove giorni, non senza essere stato prima gratificato dalla sfilata al suo
capezzale di una pletora di ministri e leader religiosi che lo imploravano di
bere almeno un succo di frutta.
Per inciso, il guru-forcaiolo ritiene di poter "curare" cancro, Aids e,
addirittura, "omosessualità" con le tecniche yoga. Populismo, senso mediatico e
capacità di ricattare il potere: Baba Ramdev è una macchina politico-economica a
tutto tondo.
Oltre a lui, i grandi nomi del misticismo new age sono Sri Sri Ravi Shankar -
fondatore della Art of Living (Aol) Foundation - Mata Amritanandamayi - "amma"
(madre) dei suoi discepoli - e il recentemente scomparso Satya Sai Baba.
Aggiungiamoci i defunti Maharishi Mahesh Yogi - l'uomo che iniziò i Beatles e
mezzo Occidente alla meditazione trascendentale - Acharya Rajneesh - il fu "Osho"
- e avremo chiaro il denominatore comune a tutti: un mucchio di soldi.
La collezione di Rolls Royce di Osho è arcinota, così come gli investimenti di
Maharishi Mahesh nel settore immobiliare e in altre imprese molto "profit".
Quanto a Sai Baba, il suo fondo caritatevole aveva asset per 8,8 miliardi di
dollari (stima per difetto).
Così, osserva Asia Times, si è passati da un misticismo della frugalità e del
distacco, a uno globalizzato, dove il santone è una vera e propria impresa
gestita secondo criteri di mercato. I soldi infatti non piovono dal cielo, ma da
alcune tecniche commerciali ben conosciute e sapientemente sfruttate.
Prima di tutto, il guru è un marchio con la sua Unique selling proposition (Usp),
cioè "argomentazione esclusiva di vendita". In pratica, così almeno ti lascia
intendere, solo lui può offrirti quella particolare merce. Così la tecnica di
respirazione sudarshan kriya di Sri Sri Ravi Shankar è spacciata come unica;
idem gli abbracci che "amma" Mata Amritanandamayi dispensa ai suoi figli e i
"miracoli" di Sai baba: materializzazione di orologi, collane e così via.
In secondo luogo, si esercita una sorta di marketing protezionistico: si
invitano gli adepti a consumare esclusivamente merci (spirituali ma anche no)
locali. È la riedizione dello swadeshi - la strategia anticolonialista che
spingeva a boicottare i prodotti britannici e a consumare solo indiano - ma
finalizzata al profitto. È l'indianità che si vende, o un surrogato, poco conta.
Infine, come vere e proprie aziende multinazionali, alcuni ashram (eremi)
impongono clausole di riservatezza a chi vi si reca. È questo per esempio il
caso della Aol, che fa firmare a chi frequenta i corsi di respirazione un'
impegnativa a non divulgarne le tecniche senza "una formazione personale
ricevuta da Sri Ravi Shankar e dalla Art of Living Foundation".
I guru-manager e le loro associazioni si giustificano sostenendo che senza una
gestione imprenditoriale dei propri saperi, volta al soldo, non potrebbero
neanche fare tutte le attività filantropiche per cui sono famosi.
Ma le critiche non mancano. In particolare, li si accusa di mettere il copyright
su conoscenze, tecniche che appartengono a tutti e che a tutti devono restare
accessibili. Anche qui è chiara la similitudine con il mercato vero e proprio:
si pensi solo alle multinazionali farmaceutiche che traggono formule chimiche
dalla medicina naturale (o sintetizzano sequenze genetiche di popoli tribali) e
poi ci piazzano il loro marchio.
Qualcuno poi si pone la seguente domanda: se sono così buoni, i nostri guru,
perché non lavorano gratis e tra la gente? Il fatto è che per intercettare il
flusso di turisti dello spirito provenienti da Occidente, i nuovi mistici creano
spesso ashram off-limits per la popolazione indiana. All'origine, la domanda di
chi sente un'irresistibile tensione verso l'India, sì, ma possibilmente
ripulita.
Gabriele Battaglia
Messico, un paese senza polizia
Tutti gli agenti di un commissariato di polizia
arrestati dagli uomini dell'esercito messicano. Il nord del Paese è fuori dal
controllo dello Stato
Definire
intricata, complessa, torbida la situazione messicana è davvero riduttivo. Le
ultime notizie che giungono dalla zona, poi, sono la conferma che il Paese sta
attraversando il periodo storico più difficile di sempre. E la soluzione per
uscirne sembra lontana dall'essere trovata.
Questa volta la cronaca dal nord del Messico racconta della barbara uccisione di
Josè Luis Martinez Limas, coordinatore operativo della polizia dello stato di
Chihuahua, ammazzato dai sicari dei cartelli della droga mentre stava
pattugliando le strade di Colonia Guadalupe.
I colleghi di Josè Luis Martinez Limas giunti sul posto dopo aver ricevuto la
segnalazione da parte di alcuni cittadini si sono ritrovati davanti a una scena
impressionante: il corpo senza vita del loro capo e tutt'intorno decine di
bossoli di proiettile, segno evidente che non c'è stata pietà ma tanta, tanta
violenza. La sfida che la criminalità organizzata ha lanciato allo Stato
centrale non conosce regole.
Josè Luis Martinez Limas era già stato vittima dei sicari che qualche tempo fa
era stato sequestrato e torturato allo scopo di scucirgli informazioni su alcuni
componenti del commissariato che comandava. Il sequestro finì con la sua
liberazione su una strada non lontano da Cuautìhtèmoc.
Una fatto di cronaca che purtroppo è all'ordine del giorno nelle news che
arrivano da quell'area del Messico.
Ma se vi sembra strano che possa accadere che un commando armato possa uccidere
il capo della polizia di uno Stato, senza che nessuno veda o intervenga, vi si
accapponerà la pelle sapendo che le stesse persone che hanno il compito di
mantenere l'ordine e la sicurezza oltre a dover proteggere la popolazione
civile, sono gli stessi che poi, una volta girato l'angolo, dismettono la
maschera del 'buono' per indossare quella del 'cattivo'.
E' tutto vero. Ed è successo nel municipio di Zuazua nello stato di Nuevo Leon
dove l'esercito messicano è dovuto intervenire per arrestare 28 agenti del
locale commissariato di polizia accusati di essere parte del commando che
sequestrarono e uccisero gli uomini della scorta del governatore dello Stato
Rodrigo Medina.
Una situazione assurda che mina la fiducia della popolazione nelle istituzioni e
getta in una buca molto profonda l'affidabilità delle forze dell'ordine. Ne è
convinto anche il segretario de Seguridad Municipal Pedro Munoz Zamarron, che ha
ricordato come oggi il municipio si ritrovi completamente senza forze
dell'ordine visto che in servizio ci sono solo 14 agenti che si occupano del
turno del mattino e che anche loro verranno indagati.
Nel frattempo la portavoce della AEI Agencia Estatal de Investigacion ha fatto
sapere che tutti gli agenti fermati ora si trovano sotto interrogatorio e che è
già allo studio n nuovo sistema che garantisca la presenza di nuovi agenti in
città.
Intanto, la stampa messicana diffonde alcuni dettagli dell'operazione spiegando
che gli arresti sono avvenuti tutti durante il cambio di turno fra gli agenti
del mattino e quelli della sera. Non solo. Ricorda anche che la settimana che è
appena trascorsa è stata una delle più violente vissute nello stato di frontiera
considerando i 33 morti causati dalla violenza del crimine organizzato.
Nonostante tutto, il governatore ha fatto sapere che le violenze e le continue
minacce provenienti dai cartelli non serviranno che a rafforzare i controlli di
polizia. A tal proposito non bisogna dimenticare che attualmente sono impegnati
in controlli per la riduzione della criminalità ben 3 10mila agenti di polizia.
Alessandro Grandi
16 giugno
Francesco Paternò
Il
ministro precario
Ce
l'eravamo perso per strada Renato Brunetta, ministro della Pubblica
amministrazione, tanto che pensavamo di ricorrere alla famosa trasmissione cerca
persone di Rai 3. Sempre nella polvere e mai sugli altari al contrario di
Napoleone, Brunetta era mediaticamente scomparso dopo avere insultato impiegati
e poliziotti, donne lavoratrici e magistrati, sinistra «di merda» at large. Ma è
bastato che Michele Santoro lo invitasse nella sua ultima puntata (da vero
servizio pubblico Annozero, altro che chiacchiere) e il ministro ha ripreso
fiato. Tanto che qualche giorno dopo in un convegno dal titolo sbagliatissimo,
«Giornata dell'innovazione», Brunetta ha rispolverato la sua cultura volgarmente
stantia, definendo un gruppo di precari «l'Italia peggiore». A seguire,
canovaccio noto: polemiche, lui che ci salta sopra e rivendica, altrimenti chi
ne parlerebbe?
Su Internet, il ministro e le sue gesta ovviamente impazzano. Ma a coloro che
usano «la rete come un manganello» (parole sue) andrebbe ricordato che anche
Brunetta è oggi un precario. Un precario di quella vera «Italia peggiore» che i
risultati elettorali delle amministrative e il voto referendario stanno provando
a spazzare via. Se c'è un ministro barcollante e senza futuro, è lui: stressato
da Giulio Tremonti che continua a non dargli un euro per le sue effimere
riforme, e dalla Lega che lo ignora in quanto pasdaran berlusconiano. Insomma,
un po' di pietà.
Nel 2008, all'inizio del suo mandato, è più precario che temerario il suo
attacco contro i lavoratori del pubblico impiego, chiamati «i fannulloni».
Riesce a imporre il contratto separato, ma l'Avis, per dirne una, gli fa sapere
che d'ora in poi la donazione di sangue verrà equiparata all'assenteismo, peggio
di Dracula. Agisce sempre lontano dal vaso quando definisce «panzoni» i
poliziotti (se non altro perché nemmeno lui esibisce le fisique di un Fassino) e
quando strilla che le donne dei ministeri vanno a fare la spesa in orario di
lavoro, facendo sgranare ulteriormente gli occhi alla collega di governo Mara
Carfagna. Sui temi più cari al suo padrone, quelli della giustizia, un giorno
sostiene che va sciolta l'antimafia, perché tanto (par di capire) se c'è, non
esiste. E un altro giorno chiama «mostro» il Consiglio supremo della
magistratura, aggiungendo che i magistrati «forse si sono un po' montati la
testa». Quel «forse» gli fa però vincere la palma del più moderato della
compagine governativa in fatto di giudici e giustizia, il che può anche essere
considerata l'eccezione che conferma la regola.
Ma più precario di Brunetta in questo paese c'è l'aiuto pubblico alla cultura, e
infatti il ministro coglie l'occasione per mettere in piedi una guerra tra
poveracci e se la prende con il cinema e con quel «culturame» (fine vocabolario
fascistizzante). Se poi qualcuno di sinistra alza il dito per difendere cinema e
teatro, per Brunetta ecco la «sinistra del male». O «di merda» per la
precisione. Cui augura senza tema che «vada a morire ammazzata». Nell'occasione,
sproloquia anche di «colpo di stato» e non si pente mai di quel che dice.
Eppure, il ministro è un precario anche lui. Pensate che, se si dimettesse come
ha tante volte minacciato in polemica con Tremonti senza farlo, non lo
vorrebbero nemmeno a Venezia, sua città natale, dove nel 2000 e nel 2010 è stato
sconfitto per due volte a candidato sindaco.
Solo una volta era nel giusto, quando Massimo D'Alema lo chiamò «energumeno
tascabile» e lui rispose: «Volgarità razziste». Ma è noto che da anni D'Alema
sbaglia sempre, anche quando ha ragione.
15 giugno
Maria Grazia Giannichedda
Lo
scandalo degli Opg
Solo la Commissione d'inchiesta sul servizio
sanitario nazionale e i Presidenti della Repubblica e del Senato avevano visto
integralmente il filmato di mezz'ora che il 9 giugno ha aperto il convegno sugli
ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ed è rimbalzato in quasi tutti i
telegiornali della sera. Corpi sformati, persone disperate, spazi angusti,
gabinetti rotti, letti di contenzione, storie di soprusi e violenza, non
raramente di morte fisica, sempre di incuria e morte civile: le visite a
sorpresa negli Opg, effettuate nei mesi scorsi dalla Commissione presieduta da
Ignazio Marino, hanno documentato una situazione atroce e nota. Infatti c'era
tensione palpabile ma nessuna sorpresa nel pubblico convocato a Palazzo
Giustiniani, un centinaio di addetti ai lavori tra responsabili sanitari e
penitenziari degli Opg, giudici di sorveglianza, dirigenti di dipartimenti di
salute mentale e dell'amministrazione penitenziaria, esponenti di quel mondo
associativo che da decenni presidia la questione Opg e da qualche mese ha aperto
una nuova campagna per l'abolizione di questi istituti (www.stopopg.it).
Alla fine del lungo dibattito, un'ovvia unanimità su alcuni punti: chiudere
questi Opg, intervenire sui canali che li alimentano, utilizzare gli strumenti
giuridici e le risorse da tempo disponibili per ricollocare all'esterno la gran
parte delle persone internate e prendersi cura di loro. Era però assai difficile
allontanare la sensazione che oggi nessuna autorità, dai ministri di sanità e
giustizia agli assessori regionali (tutti assenti), abbia la volontà e la forza
di rendere meno intollerabile, nel nostro paese, la distanza tra ciò che le
leggi consentono e prescrivono e ciò che le istituzioni pubbliche fanno e non
fanno. Per questo è così importante far uscire la questione Opg dalle stanze
degli addetti e includerla nell'agenda che i cittadini devono costruire sia per
cambiare il governo che per cambiare la cultura di gran parte della classe
politica su questioni che riguardano le libertà di tutti e i fondamenti della
democrazia anche se toccano gruppi ristretti e istituzioni marginali.
Gli opg sono sei (a Castiglione delle Siviere, vicino a Mantova, Reggio Emilia,
Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Goto, in provincia di
Messina) e ci sono più di 1500 persone internate. Mai negli ultimi trent'anni
era stata raggiunta questa cifra, anzi per tutti gli anni'90 gli internati erano
stati meno di 1000. La crescita attuale è l'esito di diversi fattori: nasce
certo dalle politiche recenti di crescita della carcerazione da un lato e
impoverimento dei servizi sanitari e sociali dall'altro, ma è anche il frutto
dell'aver lasciato a se stesso, com'è nel costume politico italiano, il processo
di riforma degli Opg messo in opera sia dalla Corte Costituzionale che da
diversi decreti di attuazione delle norme sul Servizio sanitario nazionale. Con
una ventina di sentenze emesse in gran parte dopo la legge 180, la Consulta ha
infatti cancellato alcuni degli automatismi più aberranti del Codice Rocco che
nel 1932 aveva disegnato gli Opg, è intervenuta sui canali di alimentazione di
questi istituti e sui meccanismi di uscita. Queste sentenze, insieme alla legge
180 e alle norme sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario
nazionale, hanno creato da tempo le condizioni per ridurre i nuovi ingressi e
portare a poche centinaia il numero degli internati. Invece gli internati
crescono, e le aberrazioni giuridiche continuano anche quando la legge consente
di evitarle.
Un esempio: 380 internati sono trattenuti illegalmente. Si tratta di persone che
hanno concluso la misura di sicurezza e sono state dichiarate non più
«pericolose», eppure il giudice rinnova la misura perché i servizi di salute
mentale non vogliono o dicono che non possono prendersi cura di questi loro
cittadini, oppure non rispondono alla lettera del magistrato, il quale
pigramente rinnova la misura. Il Comitato Stop Opg ha chiesto di conoscere la
geografia di questi internamenti illegali per poter contattare le Asl, offrire
collaborazione e suggerire le modalità di accesso ai fondi, che la metà delle
regioni neppure hanno chiesto, per costruire progetti individualizzati di
riabilitazione.
Altro esempio. Oltre la metà degli internati ha commesso «reati bagatellari», -
alterchi, minacce, piccoli danneggiamenti - che implicherebbero pene inferiori
ai due anni e sono stati perciò condannati alla misura di sicurezza di durata
più bassa, cioè due anni (all'opposto, a meno del 20% degli internati è stata
inflitta la misura di durata più alta in quanto autori di reati gravi come
l'omicidio). Dunque una buona metà degli internati, senza il giudizio di non
imputabilità, avrebbe probabilmente avuto una carcerazione più breve. Questa è
certo una scandalosa iniquità del codice penale, ma la Corte Costituzionale è
intervenuta più volte su questo punto, l'ultima nel 2003 quando ha dichiarato
l'illegittimità dell'art. 222 del codice penale «nella parte in cui non consente
al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di
sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo
di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Questa sentenza
chiarisce anche che la misura di sicurezza può essere «la libertà vigilata
accompagnata dalla prescrizione di un rapporto stabile e continuativo con il
servizio psichiatrico territoriale». Quanta parte degli internati attuali
avrebbe potuto evitare l'Opg se i servizi di salute mentale, i giudici di
sorveglianza, i poliziotti e i magistrati si fossero messi a lavorare insieme,
caso per caso, utilizzando, come si fa in alcune Asl e regioni, le leggi e le
risorse esistenti? Bisogna ricominciare a chiedere conto dei «crimini di pace»,
come li chiamava Franco Basaglia, che oggi fanno più rabbia perché sappiamo
cos'altro si potrebbe fare e invece ci ritroviamo a essere ancora testimoni
dell'illegalità, della violenza e della morte amministrate dalle istituzioni
democratiche in nome della cura e della protezione.
Una questione, a questo punto, sulla politica e sulla sua capacità di produrre e
governare innovazioni istituzionali orientate al rispetto dei diritti. Abbiamo
avuto una riforma, la 180, criticata in quanto non graduale, «violenta», nella
scelta di chiudere il manicomio. Abbiamo sotto gli occhi il processo graduale
che ha riformato gli Opg. Ma in un caso e nell'altro abbiamo una politica che
poco o nulla ha fatto per promuovere il riorientamento delle istituzioni sulle
nuove norme e per scoraggiare la persistenza delle vecchie attitudini e di
comportamenti ai margini della legalità. Avrà ben poco esito una riforma
organica degli Opg se la politica non saprà riformarsi.
Afghanistan, falsi successi
Migliaia di 'talebani' catturati nei raid
notturni dalle forze speciali Usa, secondo il generale Petraues. Ora si scopre
che oltre il 90 per cento erano civili innocenti
Allo
scopo di far credere all'opinione pubblica mondiale che la strategia militare
americana in Afganistan è efficace e vincente, il generale David Petraues e i
comandi Usa hanno deliberatamente mentito alla stampa, lasciando credere che i
contestati blitz notturni delle forze speciali abbiano portato alla cattura di
migliaia di talebani, quando invece oltre il 90 per cento dei detenuti sono
civili innocenti.
La scoperta è stata fatta dallo storico giornalista investigativo americano
Gareth Porter - famoso per le sue corrispondenze durante la guerra in Vietnam,
da anni all'agenzia Inter Press Service (Ips) - grazie a documenti militari
declassificati di cui è entrato in possesso.
Documenti della Task Force 435, il comando americano delle operazioni detentive,
che dimostrano come solo una minima percentuale degli afgani fatti prigionieri
dalle forze speciali Usa lo scorso anno fosse in realtà composta da 'Agf' (forze
anti-governative), come vengono chiamati i talebani in gergo militare.
Lo scorso dicembre il generale Petraeus dichiarò alla stampa che nella seconda
metà del 2010 erano stati catturati 4.100 'talebani', dimenticandosi di dire che
3.410 di questi erano stati rilasciati pochi giorni dopo la cattura in quanto
civili, e altri 345 erano stati successivamente scarcerati dalla prigione
militare di Bagram per mancanza di qualsiasi prova di 'militanza' a loro carico.
In conclusione, secondo le tabelle consultate da Porter, solo solo l'8,4 per
cento dei 'talebani' catturati secondo Petraeus erano realmente appartenenti
alle 'Agf'. Gli altri erano tutti civili innocenti, completamente estranei alla
guerriglia, arbitrariamente sottoposti a settimane di prigionia e duri
interrogatori.
Chissà quanti di loro, traumatizzati da questo immeritato trattamento e mossi da
sentimenti di vendetta, hanno poi deciso di entrare veramente nella resistenza
talebana. Magari dopo aver visto uccidere qualche loro familiare nel corso dello
stesso blitz in cui erano stati fatti prigionieri.
Tenuto conto che il generalissimo, nella stessa conferenza stampa dello scorso
dicembre, aveva parlato anche di circa 2.000 'talebani' uccisi nei raid delle
forze speciali, sorge spontanea la domanda: quanti di loro erano in realtà
civili innocenti?
Enrico Piovesana
Perù,
infanzia negata. E' emergenza
Sono oltre tre milioni i bambini costretti a
lavorare. Un problema sociale complesso e urgente, che necessita presa di
coscienza e azioni concrete
Sono oltre tre milioni, piccoli, piccolissimi, ma
fondamentali per l'economia di troppe famiglie poverissime. Sono i bambini
lavoratori, che in Perù rappresentano il 42 percento dei minorenni, destinati
spesso a mestieri duri e pericolosi. Si va dalla raccolta delle foglie di coca,
nelle coltivazioni clandestine, ai turni in fabbrica fino ad arrivare a quell'esercito
di venditori ambulanti in miniatura esposti alle tante insidie delle grandi
città.
Secondo uno studio pubblicato dall' Instituto de Estudios Internacionales de la
Pontificia Universidad Católica de Perú, uno degli ambienti di lavoro più
pericolosi per i minorenni sono le piantagioni di coca concentrate nella valle
dei fiumi Apurímac (centro) dove ci lavora il novanta percento dei piccoli della
zona. In particolare si tratta di donne, dai sei ai diciassette anni, residenti
in zona, che raccolgono le foglie di coca in cambio di 36 centesimi di dollaro
ogni sacchetto da un chilo riempito. Non solo. I più grandi, fra i 16 e i 17
anni, si dedicano a pestare le foglie e altri a trasportarle una volte diventate
pasta tramite processi chimici. Lavori per i quali possono ricevere fra i cento
e i duecento dollari. Ma si tratta di lavori illegali per i quali rischiano
moltissimo. E tutto questo per poi passare il proprio tempo libero in luoghi
desolanti e fuorivanti. "Non ci sono spazi di svago adeguati all'età di questi
bambini che molto spesso finiscono nei bar, a bere alcool o a prostituirsi",
spiega Rosana Vega dell'Unicef.
E questo si ripete anche nel Lambayeque e a Piura, zone del nord del paese. E
certo non si salva Lima, la capitale, dove il lavoro minorile e lo sfruttamento
sessuale dei bambini sono vere e proprie piaghe. Ed è diventato la norma anche
vedere nelle strade della metropoli piccoli che cercano di vendere di tutto un
po' o che sono impiegati come operai nei lavori più disparati. È di pochi giorni
fa la notizia di una famiglia, originaria di Puno, nel sud del Perù, arrestata
perché sfruttava diciassette adolescenti, obbligandoli a stare in strada tutto
il giorno e a vendere cianfrusaglie dietro la minaccia di non dar loro da
mangiare. Questa gente adesso rischia una pena fra i 15 e i 20 anni per il reato
di tratta di persone, per averli messo in pericolo e per aver agito contro la
salute pubblica.
Il ministro uscente del Lavoro, Manuela García, ha precisato come siano state
individuate e punite anche 3.723 imprese che facevano lavorare 10.066 minorenni
in condizioni deplorevoli.
Il sindaco di Lima, Susana Villarán, molto sensibile alle tematiche sociali, ha
per conto suo dichiarato che "le autorità e gli industriali dovranno impegnarsi
affinché i bambini siano tenuti lontano dal lavoro, iniziando con l'offrire ai
genitori un lavoro decente". E ha spiegato come sotto la sua amministrazione
saranno creati in città centri per l'infanzia, chiamati Uguaglianza, che avranno
dei dormitori, dei corsi per i genitori, il centro per prevenire la violenza,
gli spazi ludoteca e una biblioteca. E saranno rigorosamente aperti a tutti. Un
primo passo verso un cultura nuova, che dovrà arrivare a diffondere e a
garantire tutti i diritti di un'infanzia totalmente negata.
Stella Spinelli
8 giugno
La
crisi ha distrutto il welfare e i diritti. "Società disgregata, disuguaglianze
record"
Presentato nella sede del sindacato il
"Rapporto sui diritti globali 2011". Spesa sociale tagliata del 78,7%, si
aggravano povertà e vulnerabilità. "Servono quaranta miliardi di euro per
abbattere la povertà"
dI ROSARIA AMATO
Il leader della Cgil Susanna Camusso ROMA
- No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla crisi non siamo
certo passati indenni. E non si tratta solo del Pil che arranca ancora
faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli raggiunti
qualche anno fa. Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che lascia
indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare l'affitto,
sempre più penalizzate dai tagli del welfare. La crisi, insomma, ha segnato la
fine dello "stato sociale europeo". E' la tesi conclusiva del "Rapporto sui
diritti globali 2011", presentato stamane nella sede della Cgil e promosso,
oltre che dal sindacato, da diverse associazioni italiane, tra le quali Arci,
ActionAid, Antigone, Legambiente.
Gli Stati europei, si legge nel rapporto, "stanno cercando di liberarsi dagli
oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal
mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali
per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un fardello". Gli
autori del volume citano Luciano Gallino: "Negli ultimi cinquant'anni il modello
sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di
persone e ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato
migliore di quello dei genitori. Ora il modello sociale europeo è sotto attacco
nientemeno che da parte dell'Europa stessa".
La scure sul welfare: spesa tagliata del 78,7%. Un "passaggio epocale",
dunque. Che rischia di passare inosservato. E invece i segni per rendersene
conto (e per cercare di fermare questa trasformazione che appare ineluttabile)
ci sono tutti. I tagli abnormi sulla spesa sociale in Italia, per esempio. Il
"Rapporto sui diritti globali" li elenca tutti, sottolineando come "dal 2008 al
2011 i dieci principali ambiti di investimento sociale hanno avuto tagli
complessivi pari al 78,7%, passando da 2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538
milioni della legge di stabilità 2011".
Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è passato dai 584 milioni del
2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena 44 milioni. Il Fondo per la
famiglia è passato dai 346,5 milioni del 2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio
è del 71,3%). Il Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel
2007 con 100 milioni dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Sparito anche
il "piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale
dei servizi socio-educativi per la prima infanzia", che aveva avuto 446 milioni
nel triennio 2007-2209. Stessa fine per il "Fondo per la non autosufficienza".
Si è rotta la coesione sociale. Sono tagli "giustificati" in qualche modo
dalla crisi? Sorprendentemente, sono in molti a pensarla così, perché "il
welfare non è sottoposto solo ai tagli, ma anche a una crisi di consenso",
rilevano i curatori del rapporto. Infatti "una quota importante di italiani non
vuole che il welfare sia universalistico e che ne possano fruire soggetti 'non
meritevoli'". E quindi si ritiene in qualche modo legittimo che dal welfare
possano essere esclusi proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, ma che meno
possono contribuire a sostenerlo.
Poveri e "vulnerabili" in aumento. I risultati sono sotto gli occhi di
tutti, ma emergono anche dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell'Istat,
che rileva la "povertà relativa" e quella "assoluta". La povertà relativa
oscilla tra il 10,2% e l'11,4% e negli ultimi anni è stabile. Ma da un lato
peggiorano le condizioni dei poveri, la loro "deprivazione", e dall'altro
comunque si registra un aumento nel Mezzogiorno. Aumentano inoltre i
"vulnerabili", cioè i candidati a diventare i prossimi poveri. Tra loro ci sono
i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà relativa in Italia
e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.
Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di
chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione
difficile. Ma ci sono anche i "working poor", definizione statistica riferita a
chi lavora, ma guadagna troppo poco. L'incidenza della povertà nelle famiglie
con persona di riferimento occupata è dell'8,9% con oscillazioni tra il 4% del
Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E
ci sono persino i lavoratori "poveri assoluti", saliti al 3,6% dal 3,4% del
2008.
La casa sempre più un miraggio. L'Italia, si dice sempre, è il Paese dei
proprietari di casa. Lo è infatti l'81,5% della popolazione. Ma quel 17,1% in
affitto si trova spesso in grave difficoltà: l'incidenza dell'affitto sul
reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 e il 2009 l'incremento dei
canoni di mercato in città è stato pari al 105%. Chi sta in affitto appartiene
alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone "brucia" il 31,2% del
reddito. Non stupisce che quindi siano aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008
rispetto al 2007): il 78,8% sono per morosità. Spesso, poi, si trova in
difficoltà anche chi ha comprato la casa ma deve sostenere il rimborso di un
mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi all'inizio del 2010 a fine anno erano
diventati 30.868.
Il Paese delle disuguaglianze. All'impoverimento dei poveri dovuto alla
crisi e favorito dal "restringimento" del welfare si contrappone un
miglioramento delle condizioni dei più abbienti: l'Italia è al sesto posto nella
classifica Ocse della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto Cgil. Che
elenca alcune "diseguaglianze tipo": se il salario netto medio mensile è di
1.260 euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di
una piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in
meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in
meno; un lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore
(15-34 anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di
collaborazione il 33,3% in meno.
La ricetta finale del Rapporto. Si può imprimere una svolta alla politica
economica e sociale del Paese per "tenere sui diritti", come conclude il
rapporto? La proposta sembrerà a molti utopistica, e riprende quella della
"Finanziaria Possibile" dell'associazione Sbilanciamoci: 40 miliardi di euro per
abbattere la povertà, da ottenere da una riforma fiscale che tassi le rendite,
diverse tasse di scopo a cominciare da quella sui SUV, tagli alle spese militari
ma anche alle "grandi opere" inutili, e in genere da un riequilibrio e da una
razionalizzazione della spesa pubblica. Per arrivare a un "basic income", un
reddito minimo garantito che garantisca anche la dignità, oltre che
salvaguardare "un modello sociale che ambisce alla coesione".
7 giugno
Incidenti sul lavoro, 269 morti da gennaio. Nelle ultime 24 ore sei nuove
vittime
Dall'inizio dell'anno l'incremento, rispetto
allo stesso periodo del 2010 è del 21,4 %. Ma a questa cifra va aggiunta quella
degli incidenti nel percorso casa-lavoro, vittime spesso dovute a stanchezza e
stress per le condizioni lavorative: Il numero raggiunge il record drammatico di
509
di CLAUDIO GERINO
ROMA - Sei nuove "morti bianche" in meno di
ventiquattr'ore. E il tragico bilancio delle vittime di incidenti sul lavoro,
dall'inizio dell'anno, è di 269 morti. L'incremento, rispetto allo stesso
periodo dello scorso anno, è del 21,4 % (Dati Osservatorio Indipendente di
Bologna sulle morti bianche). Ma il bilancio è ancora più tragico se a questi
dati si sommano i lavoratori deceduti per incidenti sulle strade o nel percorso
casa-lavoro: il numero quasi si raddoppia (509).
Il settore più colpito dalle "morti bianche" è quello dell'edilizia: 78 vittime
dall'inizio dell'anno, il 29,4% sul totale. L'agricoltura, con 73 vittime,
registra il 28,2 %: gli agricoltori muoiono per la maggioranza in tarda età
schiacciati da trattori senza protezione che si ribaltano travolgendoli. Sono
già 41 dal primo gennaio gli incidenti di questo tipo. L'industria ha già avuto
29 morti con una percentuale del 10,1% sul totale, mentre l'autotrasporto conta
22 vittime con il 8,3%. Gli stranieri morti sono stati 29 e rappresentano, in
queste tragiche percentuali, l'11% sul totale.
Le regioni in testa a questa drammatica classifica sono la Lombardia con 31
vittime sui luoghi di lavoro (provincia di Milano 10), la Sicilia 24 (provincia
di Catania 5). l'Emilia Romagna 22 (Provincia di Bologna 6).
"Alcune regioni stanno avendo un andamento pessimo, altre sembrano avere
imboccato un trend positivo", si legge sul sito dell'
Osservatorio indipendente di Bologna 1. "All'inizio di aprile avevamo scritto
che ci sarebbero state molte morti in edilizia e in agricoltura nel centro-nord,
purtroppo le previsioni, supportate dalle analisi del materiale raccolto negli
anni passati, hanno confermato quanto paventato: la situazione è ancora più
drammatica di come l'avevamo prospettata. Ci sono in aprile 45 morti sui luoghi
di lavoro. In maggio 51 morti. Moltissimi morti sono dovuti alle condizioni
climatiche, soprattutto per le categorie che svolgono i lavori all'aperto quali
l'edilizia, l'agricoltura, la manutenzione stradale, l'autotrasporto ecc..."
Alle vittime si aggiungono centinaia e centinaia di feriti, alcuni anche in modo
grave che, per lungo tempo o, spesso, per tutto il resto della loro vita, sono
costretti a non lavorare a causa delle lesioni riportate. Una cifra esatta non
c'è, anche perché per i piccoli incidenti si ricorre frequentemente a cure
private, anche su sollecitazione dei datori di lavoro che vogliono evitare
inchieste e problemi; inoltre, le statistiche dei centri clinici riportano
normalmente dati su lesioni superiori ai 7 giorni.
Le ultime sei vittime, oggi, sono un operaio romeno di 27 anni precipitato dal
tetto dell'azienda per cui stava lavorando, a Borgo Isonzo, in provincia di
Latina, due operai di Appiano e Chermes, dipendenti di un'impresa di
manutenzione dei pozzi neri, trovati morti all'interno di un pozzo a Vipiteno 2,
un pescatore di Chioggia (Venezia) disperso in mare 3 dopo che il peschereccio
su cui stava lavorando è affondato al largo della costa veneta e un operaio
romeno, P.G., è morto folgorato mentre lavorava 4 alla costruzione di un ponte
sul fiume Giovenco nel territorio del Comune di San Benedetto dei Marsi
(L'Aquila). L'uomo era alla guida di una autogru che azionava la pompa del
calcestruzzo e, per motivi da chiarire, ha urtato i fili dell'alta tensione: il
giovane è morto all' istante. La sesta vittima è un operario romeno di 43 anni,
Gheorghe Peteleu, morto stasera schiacciato dalle ruote di un camion che stava
riparando. L'incidente mortale si è verificato all'interno della concessionaria
Volvo veicoli industriali di viale Zaccagna a Marina di Carrara.
Due operai, invece, sono rimasti feriti in un incidente sul lavoro verificatosi
in un'impresa metalmeccanica di Gela che opera nella zona industriale. Uno dei
due lavoratori, un 53enne, è stato immediatamente ricoverato all'ospedale di
Gela "Vittorio Emanuele" e sottoposto a intervento chirurgico. Le sue condizioni
sono subito apparse più gravi rispetto a quelle del suo collega. L'uomo è stato
colpito dal braccio di una gru abbattutasi sulla cabina di un mezzo pesante.
Durissimo il responsabile economia del Pd, Stefano Fassina: "Anche oggi è
arrivato il bollettino di guerra sulle morti sul lavoro. E' una situazione
insostenibile, inaccettabile. Gli occupati sono un milione in meno del 2008, ma
i numeri di caduti sul lavoro rimane oltre i tre al giorno. Il Ministro Sacconi
che fa? Che priorità indica alle sue strutture ispettive? Quali modifiche
normative intende promuovere dopo aver smantellato importanti norme di contrasto
al lavoro nero? Risponda con urgenza in Parlamento e al Paese".
Studenti a casa con mammà e costretti a lavorare
Le famiglie italiane continuano a pensare
che la laurea sia un potente fattore di mobilità sociale, almeno nel medio-lungo
periodo. E per questo si caricano di sacrifici piuttosto seri per assicurare ai
figli la agognata "laurea".
Il ritratto delle famiglie e degli studenti italiani alle prese con
l'università che emrge dalla ricerca Eurostudent realizzata dalla fondazione Rui
- in collaborazione con il ministero dell'Università e della ricerca. Ogni tre
anni la fondazione si incarica di sondare la condizione degli studenti
universitari italiani, nell'ambito di n progetto internazionale di analisi
comparata della condizione studentesca in vari paesi europei, ("Eurostudent
Report Project"). Il profilo che emerge non è esaltante. Tanto più visto che
l'indagine si riferisce agli anni 2008-2009, cioè ben prima dell'arrivo della
crisi economica. Un dato per tutti: quattro studenti su 10 lavorano mentre
studiano, il dato cresce a 6 su dieci se la famiglia è economicamente debole. Il
lavoro li occupa per circa 15-20 ore alla settimana. Mentre allo studio dedicano
41 ore alla settimana in media (il che, tra l'altro, ci racconta ancora una
volta dei nuovi corsi di studio all'"acqua di rose"). Un carico di lavoro,
comunque, che non verrebbe firmato da nessun sindacato, neanche nelle
contrattazioni "aziendali" caldeggiate da Confindustria. ovviamente, molti
studenti scelgono di tuffarsi nel mondo del lavoro anzitempo anche per
avvicinarsi quanto prima alla futura professione, e quando possono cercano di
inserirsi nel futuro campo di lavoro. Ma è indicativo che, secondo l'indagine,
ben 6 studenti su dieci rimangono fuori da qualsiasi aiuto economico per
affrontare gli studi, e nel 2009 la media del costo delle tasse universitarie è
stata di 1.160 euro per chi non accede ad alcuna borsa di studio.
Un altro elemento che spiega come l'affacciarsi al mondo dell'università
sia sempre di meno anche un "passaggio" verso l'indipendenza è che ormai tre
studenti su quattro rimangono a casa di mamma e papà anche se studiano. Gli
affitti carissimi, che si impennano nelle città universitarie, sconsigliano di
trovare una stanza tutta per sé. E questo avviene persino quando lsi frequenta
un'università ubicata in un'altra città da quella di residenza. infatti, seconod
l'indagine, se su 4 studenti tre vivono ancora a casa dei gentiori, di questi
due su tre sono pendolari. D'altronde si parla di "mobilità" sociale.