30 giugno

 

Doppie bollette, extracosti e contenziosi, quando cambiare utenza è una via crucis

Nel labirinto dei mercati liberalizzati: risparmi sì, ma anche difficoltà e confusione. Indennizzi per 10 milioni nelle Tlc. Luce e gas: 70 mila contratti attivati e mai richiesti

di AGNESE ANANASSO e VALENTINA CONTE

ROMA - Due bollette per un contatore. Un telefono per due operatori. Un incubo che vivono migliaia di italiani quando decidono di cambiare fornitore di luce, gas o telefonia fissa. Oppure quando il cambio avviene in modo inconsapevole, con il furto di numero di utenza o falsificazione della firma. Nel primo caso può succedere che il precedente gestore di energia non comunichi l'ultima lettura al nuovo fornitore, o fornisca una lettura presunta (più alta rispetto di quella reale) o un conguaglio sbagliato, cosicché possono passare mesi prima di ricevere la prima fattura del nuovo fornitore.

"Nel 2010 sono arrivati 70mila reclami alle associazioni di consumatori di cittadini che si sono trovati con contratti di fornitura mai richiesti, con in calce una firma falsa; contratti attivati nonostante l'esercizio del diritto di recesso entro dieci giorni; mancate risposte a reclami, che devono arrivare entro 40 giorni come previsto dal garante", spiega il vicepresidente di Federconsumatori, Mauro Zanini: "Senza parlare di bollette gonfiate e fatturazioni errate: lo scorso anno Enel ha emesso 450mila bollette errate, soprattutto in Triveneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Tanti lamentano il pessimo servizio di switch-off. Nonostante tutto, dal 2007 alla fine del 2010 il 15% delle famiglie italiane ha cambiato fornitore di energia elettrica, mentre per il gas siamo ancora fermi all'8%".

Il problema, specialmente nel gas, è che c'è poca informazione e l'esistenza di un'azienda, l'Eni, che, oltre

a essere proprietaria delle rete di distribuzione, di fatto vende il gas all'ingrosso agli altri operatori concorrenti che, quindi, non possono applicare prezzi competitivi. "Il maggior livello di concorrenzialità del mercato all'ingrosso, il differente assetto delle infrastrutture di trasporto e distribuzione, e la presenza di apparecchiature e sistemi di misura più avanzati hanno favorito un maggior sviluppo del mercato elettrico rispetto a quello del gas naturale. L'Autorità sta lavorando su questi elementi per ridurre le asimmetrie" spiega Massimo Ricci, direttore Mercati dell'Authority dell'energia.

Nel settore elettrico c'è stata una riduzione di oneri stimabile in oltre 4,5 miliardi di euro all'anno, rispetto al 1999. Tra le proposte allo studio c'è la revisione periodica del regime di "maggior tutela" dell'elettrico "che consentirebbe di acquisire elementi per un'eventuale revisione degli attuali assetti se si evidenziasse un insufficiente sviluppo della concorrenza. Revisione che potrebbe essere su base biennale, attuata attraverso un'istruttoria dell'Autorità, per valutare ulteriori possibili misure di promozione della concorrenza".

Le associazioni di consumatori nel 2010 hanno inoltrato tremila domande di conciliazione paritetica, ossia protocolli di conciliazione con i principali operatori del mercato (Eni, Enel Sorgenia ed Edison), cui si ricorre se i gestori non rispondono al reclamo entro 40 giorni in modo pertinente ed esaustivo. Lo strumento della conciliazione paritetica, che nel settore dell'energia inizia a decollare ora, è a pieno regime nel settore della telefonia. Le azioni sanzionatorie del Garante delle comunicazioni (Agcom) nei confronti degli operatori nel 2010 hanno fatto rientrare nelle tasche dei consumatori 10 milioni di euro, in forma di indennizzo, grazie ai processi di conciliazione attivati dai Corecom, gli organismi di controllo regionale delle comunicazioni.

"Nel 70% dei casi di conciliazione paritetica si sono registrati dei successi. Il tutto è gratuito e l'udienza di conciliazione arriva in 30-60 giorni - fanno sapere dall'Agcom - . In questi anni è diminuita la quota di denunce all'Agcom nei confronti di Telecom per passaggio non richiesto a nuovo operatore (15%), sorpassata da Teletu (20%). Teletu ha richiesto di non essere sanzionata finanziariamente ma con il cosiddetto "impegno" a tenere comportamenti corretti", ma l'Autorità non lo ha concesso e l'operatore ha dovuto rimborsare centinaia di migliaia di euro ai consumatori truffati.

Le azioni sanzionatorie hanno portato in soli due anni alla riduzione a un decimo del numero delle denunce pervenute all'Autorità, passando dalle 1.167 del primo bimestre del 2009 alle 128 dell'ultimo bimestre di quest'anno. "Anche noi abbiamo visto ridurre del 30-40% l'avvio di procedure di conciliazione" osserva Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori: "Però la cattiva gestione del processo di apertura del mercato delle tlc ha condizionato negativamente i cittadini quando hanno avuto la possibilità di cambiare gestore dell'energia, terrorizzati di incorrere negli stessi problemi della telefonia fissa. Ora l'intoppo è nei nuovi servizi che servono realmente ai cittadini, cioè la banda larga, ancora troppo cara e troppo lenta, sovraccarica di contenuti. E i costi ricadono sempre sul cittadino, non sulle aziende che sulla rete si arricchiscono, come Google e Facebook".

 

India, lo spirito dei soldi

Dopo il caso di Baba Ramdev: i nuovi guru funzionano come imprese multinazionali. Misticismo, politica e soprattutto tanto business. Su questo sentiero illuminato viaggiano, e non da oggi, i guru "new age" indiani.

L'ultima notizia riguarda il maggiore yogi (asceta che pratica lo yoga) sulla piazza: Baba Ramdev.
Il guru in questione, titolare di una seguitissima trasmissione televisiva e appoggiato dalla destra indu, ha cominciato a inizio giugno uno sciopero della fame nonostante le suppliche del primo ministro indiano Manmohan Singh a lasciar perdere: vuole che sia istituita la pena di morte per i ministri corrotti. Ramdev - il cui giro d'affari si aggira sui 245 milioni di dollari senza contare le imprese che ha affidato a prestanome - ha tuonato contro il malaffare, ha smesso di mangiare, è finito in ospedale e infine ne è uscito trionfante dopo nove giorni, non senza essere stato prima gratificato dalla sfilata al suo capezzale di una pletora di ministri e leader religiosi che lo imploravano di bere almeno un succo di frutta.
Per inciso, il guru-forcaiolo ritiene di poter "curare" cancro, Aids e, addirittura, "omosessualità" con le tecniche yoga. Populismo, senso mediatico e capacità di ricattare il potere: Baba Ramdev è una macchina politico-economica a tutto tondo.

Oltre a lui, i grandi nomi del misticismo new age sono Sri Sri Ravi Shankar - fondatore della Art of Living (Aol) Foundation - Mata Amritanandamayi - "amma" (madre) dei suoi discepoli - e il recentemente scomparso Satya Sai Baba. Aggiungiamoci i defunti Maharishi Mahesh Yogi - l'uomo che iniziò i Beatles e mezzo Occidente alla meditazione trascendentale - Acharya Rajneesh - il fu "Osho" - e avremo chiaro il denominatore comune a tutti: un mucchio di soldi.
La collezione di Rolls Royce di Osho è arcinota, così come gli investimenti di Maharishi Mahesh nel settore immobiliare e in altre imprese molto "profit". Quanto a Sai Baba, il suo fondo caritatevole aveva asset per 8,8 miliardi di dollari (stima per difetto).

Così, osserva Asia Times, si è passati da un misticismo della frugalità e del distacco, a uno globalizzato, dove il santone è una vera e propria impresa gestita secondo criteri di mercato. I soldi infatti non piovono dal cielo, ma da alcune tecniche commerciali ben conosciute e sapientemente sfruttate.
Prima di tutto, il guru è un marchio con la sua Unique selling proposition (Usp), cioè "argomentazione esclusiva di vendita". In pratica, così almeno ti lascia intendere, solo lui può offrirti quella particolare merce. Così la tecnica di respirazione sudarshan kriya di Sri Sri Ravi Shankar è spacciata come unica; idem gli abbracci che "amma" Mata Amritanandamayi dispensa ai suoi figli e i "miracoli" di Sai baba: materializzazione di orologi, collane e così via.
In secondo luogo, si esercita una sorta di marketing protezionistico: si invitano gli adepti a consumare esclusivamente merci (spirituali ma anche no) locali. È la riedizione dello swadeshi - la strategia anticolonialista che spingeva a boicottare i prodotti britannici e a consumare solo indiano - ma finalizzata al profitto. È l'indianità che si vende, o un surrogato, poco conta.
Infine, come vere e proprie aziende multinazionali, alcuni ashram (eremi) impongono clausole di riservatezza a chi vi si reca. È questo per esempio il caso della Aol, che fa firmare a chi frequenta i corsi di respirazione un' impegnativa a non divulgarne le tecniche senza "una formazione personale ricevuta da Sri Ravi Shankar e dalla Art of Living Foundation".

I guru-manager e le loro associazioni si giustificano sostenendo che senza una gestione imprenditoriale dei propri saperi, volta al soldo, non potrebbero neanche fare tutte le attività filantropiche per cui sono famosi.
Ma le critiche non mancano. In particolare, li si accusa di mettere il copyright su conoscenze, tecniche che appartengono a tutti e che a tutti devono restare accessibili. Anche qui è chiara la similitudine con il mercato vero e proprio: si pensi solo alle multinazionali farmaceutiche che traggono formule chimiche dalla medicina naturale (o sintetizzano sequenze genetiche di popoli tribali) e poi ci piazzano il loro marchio.

Qualcuno poi si pone la seguente domanda: se sono così buoni, i nostri guru, perché non lavorano gratis e tra la gente? Il fatto è che per intercettare il flusso di turisti dello spirito provenienti da Occidente, i nuovi mistici creano spesso ashram off-limits per la popolazione indiana. All'origine, la domanda di chi sente un'irresistibile tensione verso l'India, sì, ma possibilmente ripulita.

Gabriele Battaglia

 

Messico, un paese senza polizia

Tutti gli agenti di un commissariato di polizia arrestati dagli uomini dell'esercito messicano. Il nord del Paese è fuori dal controllo dello Stato

Definire intricata, complessa, torbida la situazione messicana è davvero riduttivo. Le ultime notizie che giungono dalla zona, poi, sono la conferma che il Paese sta attraversando il periodo storico più difficile di sempre. E la soluzione per uscirne sembra lontana dall'essere trovata.

Questa volta la cronaca dal nord del Messico racconta della barbara uccisione di Josè Luis Martinez Limas, coordinatore operativo della polizia dello stato di Chihuahua, ammazzato dai sicari dei cartelli della droga mentre stava pattugliando le strade di Colonia Guadalupe.

I colleghi di Josè Luis Martinez Limas giunti sul posto dopo aver ricevuto la segnalazione da parte di alcuni cittadini si sono ritrovati davanti a una scena impressionante: il corpo senza vita del loro capo e tutt'intorno decine di bossoli di proiettile, segno evidente che non c'è stata pietà ma tanta, tanta violenza. La sfida che la criminalità organizzata ha lanciato allo Stato centrale non conosce regole.

Josè Luis Martinez Limas era già stato vittima dei sicari che qualche tempo fa era stato sequestrato e torturato allo scopo di scucirgli informazioni su alcuni componenti del commissariato che comandava. Il sequestro finì con la sua liberazione su una strada non lontano da Cuautìhtèmoc.

Una fatto di cronaca che purtroppo è all'ordine del giorno nelle news che arrivano da quell'area del Messico.

Ma se vi sembra strano che possa accadere che un commando armato possa uccidere il capo della polizia di uno Stato, senza che nessuno veda o intervenga, vi si accapponerà la pelle sapendo che le stesse persone che hanno il compito di mantenere l'ordine e la sicurezza oltre a dover proteggere la popolazione civile, sono gli stessi che poi, una volta girato l'angolo, dismettono la maschera del 'buono' per indossare quella del 'cattivo'.

E' tutto vero. Ed è successo nel municipio di Zuazua nello stato di Nuevo Leon dove l'esercito messicano è dovuto intervenire per arrestare 28 agenti del locale commissariato di polizia accusati di essere parte del commando che sequestrarono e uccisero gli uomini della scorta del governatore dello Stato Rodrigo Medina.

Una situazione assurda che mina la fiducia della popolazione nelle istituzioni e getta in una buca molto profonda l'affidabilità delle forze dell'ordine. Ne è convinto anche il segretario de Seguridad Municipal Pedro Munoz Zamarron, che ha ricordato come oggi il municipio si ritrovi completamente senza forze dell'ordine visto che in servizio ci sono solo 14 agenti che si occupano del turno del mattino e che anche loro verranno indagati.

Nel frattempo la portavoce della AEI Agencia Estatal de Investigacion ha fatto sapere che tutti gli agenti fermati ora si trovano sotto interrogatorio e che è già allo studio n nuovo sistema che garantisca la presenza di nuovi agenti in città.

Intanto, la stampa messicana diffonde alcuni dettagli dell'operazione spiegando che gli arresti sono avvenuti tutti durante il cambio di turno fra gli agenti del mattino e quelli della sera. Non solo. Ricorda anche che la settimana che è appena trascorsa è stata una delle più violente vissute nello stato di frontiera considerando i 33 morti causati dalla violenza del crimine organizzato. Nonostante tutto, il governatore ha fatto sapere che le violenze e le continue minacce provenienti dai cartelli non serviranno che a rafforzare i controlli di polizia. A tal proposito non bisogna dimenticare che attualmente sono impegnati in controlli per la riduzione della criminalità ben 3 10mila agenti di polizia.

Alessandro Grandi

 

16 giugno

 

Francesco Paternò

Il ministro precario

Ce l'eravamo perso per strada Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, tanto che pensavamo di ricorrere alla famosa trasmissione cerca persone di Rai 3. Sempre nella polvere e mai sugli altari al contrario di Napoleone, Brunetta era mediaticamente scomparso dopo avere insultato impiegati e poliziotti, donne lavoratrici e magistrati, sinistra «di merda» at large. Ma è bastato che Michele Santoro lo invitasse nella sua ultima puntata (da vero servizio pubblico Annozero, altro che chiacchiere) e il ministro ha ripreso fiato. Tanto che qualche giorno dopo in un convegno dal titolo sbagliatissimo, «Giornata dell'innovazione», Brunetta ha rispolverato la sua cultura volgarmente stantia, definendo un gruppo di precari «l'Italia peggiore». A seguire, canovaccio noto: polemiche, lui che ci salta sopra e rivendica, altrimenti chi ne parlerebbe?
Su Internet, il ministro e le sue gesta ovviamente impazzano. Ma a coloro che usano «la rete come un manganello» (parole sue) andrebbe ricordato che anche Brunetta è oggi un precario. Un precario di quella vera «Italia peggiore» che i risultati elettorali delle amministrative e il voto referendario stanno provando a spazzare via. Se c'è un ministro barcollante e senza futuro, è lui: stressato da Giulio Tremonti che continua a non dargli un euro per le sue effimere riforme, e dalla Lega che lo ignora in quanto pasdaran berlusconiano. Insomma, un po' di pietà.

Nel 2008, all'inizio del suo mandato, è più precario che temerario il suo attacco contro i lavoratori del pubblico impiego, chiamati «i fannulloni». Riesce a imporre il contratto separato, ma l'Avis, per dirne una, gli fa sapere che d'ora in poi la donazione di sangue verrà equiparata all'assenteismo, peggio di Dracula. Agisce sempre lontano dal vaso quando definisce «panzoni» i poliziotti (se non altro perché nemmeno lui esibisce le fisique di un Fassino) e quando strilla che le donne dei ministeri vanno a fare la spesa in orario di lavoro, facendo sgranare ulteriormente gli occhi alla collega di governo Mara Carfagna. Sui temi più cari al suo padrone, quelli della giustizia, un giorno sostiene che va sciolta l'antimafia, perché tanto (par di capire) se c'è, non esiste. E un altro giorno chiama «mostro» il Consiglio supremo della magistratura, aggiungendo che i magistrati «forse si sono un po' montati la testa». Quel «forse» gli fa però vincere la palma del più moderato della compagine governativa in fatto di giudici e giustizia, il che può anche essere considerata l'eccezione che conferma la regola.

Ma più precario di Brunetta in questo paese c'è l'aiuto pubblico alla cultura, e infatti il ministro coglie l'occasione per mettere in piedi una guerra tra poveracci e se la prende con il cinema e con quel «culturame» (fine vocabolario fascistizzante). Se poi qualcuno di sinistra alza il dito per difendere cinema e teatro, per Brunetta ecco la «sinistra del male». O «di merda» per la precisione. Cui augura senza tema che «vada a morire ammazzata». Nell'occasione, sproloquia anche di «colpo di stato» e non si pente mai di quel che dice.
Eppure, il ministro è un precario anche lui. Pensate che, se si dimettesse come ha tante volte minacciato in polemica con Tremonti senza farlo, non lo vorrebbero nemmeno a Venezia, sua città natale, dove nel 2000 e nel 2010 è stato sconfitto per due volte a candidato sindaco.
Solo una volta era nel giusto, quando Massimo D'Alema lo chiamò «energumeno tascabile» e lui rispose: «Volgarità razziste». Ma è noto che da anni D'Alema sbaglia sempre, anche quando ha ragione.

 

15 giugno

 

Maria Grazia Giannichedda

Lo scandalo degli Opg

Solo la Commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale e i Presidenti della Repubblica e del Senato avevano visto integralmente il filmato di mezz'ora che il 9 giugno ha aperto il convegno sugli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ed è rimbalzato in quasi tutti i telegiornali della sera. Corpi sformati, persone disperate, spazi angusti, gabinetti rotti, letti di contenzione, storie di soprusi e violenza, non raramente di morte fisica, sempre di incuria e morte civile: le visite a sorpresa negli Opg, effettuate nei mesi scorsi dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, hanno documentato una situazione atroce e nota. Infatti c'era tensione palpabile ma nessuna sorpresa nel pubblico convocato a Palazzo Giustiniani, un centinaio di addetti ai lavori tra responsabili sanitari e penitenziari degli Opg, giudici di sorveglianza, dirigenti di dipartimenti di salute mentale e dell'amministrazione penitenziaria, esponenti di quel mondo associativo che da decenni presidia la questione Opg e da qualche mese ha aperto una nuova campagna per l'abolizione di questi istituti (www.stopopg.it).
Alla fine del lungo dibattito, un'ovvia unanimità su alcuni punti: chiudere questi Opg, intervenire sui canali che li alimentano, utilizzare gli strumenti giuridici e le risorse da tempo disponibili per ricollocare all'esterno la gran parte delle persone internate e prendersi cura di loro. Era però assai difficile allontanare la sensazione che oggi nessuna autorità, dai ministri di sanità e giustizia agli assessori regionali (tutti assenti), abbia la volontà e la forza di rendere meno intollerabile, nel nostro paese, la distanza tra ciò che le leggi consentono e prescrivono e ciò che le istituzioni pubbliche fanno e non fanno. Per questo è così importante far uscire la questione Opg dalle stanze degli addetti e includerla nell'agenda che i cittadini devono costruire sia per cambiare il governo che per cambiare la cultura di gran parte della classe politica su questioni che riguardano le libertà di tutti e i fondamenti della democrazia anche se toccano gruppi ristretti e istituzioni marginali.
Gli opg sono sei (a Castiglione delle Siviere, vicino a Mantova, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Goto, in provincia di Messina) e ci sono più di 1500 persone internate. Mai negli ultimi trent'anni era stata raggiunta questa cifra, anzi per tutti gli anni'90 gli internati erano stati meno di 1000. La crescita attuale è l'esito di diversi fattori: nasce certo dalle politiche recenti di crescita della carcerazione da un lato e impoverimento dei servizi sanitari e sociali dall'altro, ma è anche il frutto dell'aver lasciato a se stesso, com'è nel costume politico italiano, il processo di riforma degli Opg messo in opera sia dalla Corte Costituzionale che da diversi decreti di attuazione delle norme sul Servizio sanitario nazionale. Con una ventina di sentenze emesse in gran parte dopo la legge 180, la Consulta ha infatti cancellato alcuni degli automatismi più aberranti del Codice Rocco che nel 1932 aveva disegnato gli Opg, è intervenuta sui canali di alimentazione di questi istituti e sui meccanismi di uscita. Queste sentenze, insieme alla legge 180 e alle norme sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, hanno creato da tempo le condizioni per ridurre i nuovi ingressi e portare a poche centinaia il numero degli internati. Invece gli internati crescono, e le aberrazioni giuridiche continuano anche quando la legge consente di evitarle.
Un esempio: 380 internati sono trattenuti illegalmente. Si tratta di persone che hanno concluso la misura di sicurezza e sono state dichiarate non più «pericolose», eppure il giudice rinnova la misura perché i servizi di salute mentale non vogliono o dicono che non possono prendersi cura di questi loro cittadini, oppure non rispondono alla lettera del magistrato, il quale pigramente rinnova la misura. Il Comitato Stop Opg ha chiesto di conoscere la geografia di questi internamenti illegali per poter contattare le Asl, offrire collaborazione e suggerire le modalità di accesso ai fondi, che la metà delle regioni neppure hanno chiesto, per costruire progetti individualizzati di riabilitazione.
Altro esempio. Oltre la metà degli internati ha commesso «reati bagatellari», - alterchi, minacce, piccoli danneggiamenti - che implicherebbero pene inferiori ai due anni e sono stati perciò condannati alla misura di sicurezza di durata più bassa, cioè due anni (all'opposto, a meno del 20% degli internati è stata inflitta la misura di durata più alta in quanto autori di reati gravi come l'omicidio). Dunque una buona metà degli internati, senza il giudizio di non imputabilità, avrebbe probabilmente avuto una carcerazione più breve. Questa è certo una scandalosa iniquità del codice penale, ma la Corte Costituzionale è intervenuta più volte su questo punto, l'ultima nel 2003 quando ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 222 del codice penale «nella parte in cui non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Questa sentenza chiarisce anche che la misura di sicurezza può essere «la libertà vigilata accompagnata dalla prescrizione di un rapporto stabile e continuativo con il servizio psichiatrico territoriale». Quanta parte degli internati attuali avrebbe potuto evitare l'Opg se i servizi di salute mentale, i giudici di sorveglianza, i poliziotti e i magistrati si fossero messi a lavorare insieme, caso per caso, utilizzando, come si fa in alcune Asl e regioni, le leggi e le risorse esistenti? Bisogna ricominciare a chiedere conto dei «crimini di pace», come li chiamava Franco Basaglia, che oggi fanno più rabbia perché sappiamo cos'altro si potrebbe fare e invece ci ritroviamo a essere ancora testimoni dell'illegalità, della violenza e della morte amministrate dalle istituzioni democratiche in nome della cura e della protezione.
Una questione, a questo punto, sulla politica e sulla sua capacità di produrre e governare innovazioni istituzionali orientate al rispetto dei diritti. Abbiamo avuto una riforma, la 180, criticata in quanto non graduale, «violenta», nella scelta di chiudere il manicomio. Abbiamo sotto gli occhi il processo graduale che ha riformato gli Opg. Ma in un caso e nell'altro abbiamo una politica che poco o nulla ha fatto per promuovere il riorientamento delle istituzioni sulle nuove norme e per scoraggiare la persistenza delle vecchie attitudini e di comportamenti ai margini della legalità. Avrà ben poco esito una riforma organica degli Opg se la politica non saprà riformarsi.

 

Afghanistan, falsi successi

Migliaia di 'talebani' catturati nei raid notturni dalle forze speciali Usa, secondo il generale Petraues. Ora si scopre che oltre il 90 per cento erano civili innocenti

Allo scopo di far credere all'opinione pubblica mondiale che la strategia militare americana in Afganistan è efficace e vincente, il generale David Petraues e i comandi Usa hanno deliberatamente mentito alla stampa, lasciando credere che i contestati blitz notturni delle forze speciali abbiano portato alla cattura di migliaia di talebani, quando invece oltre il 90 per cento dei detenuti sono civili innocenti.

La scoperta è stata fatta dallo storico giornalista investigativo americano Gareth Porter - famoso per le sue corrispondenze durante la guerra in Vietnam, da anni all'agenzia Inter Press Service (Ips) - grazie a documenti militari declassificati di cui è entrato in possesso.
Documenti della Task Force 435, il comando americano delle operazioni detentive, che dimostrano come solo una minima percentuale degli afgani fatti prigionieri dalle forze speciali Usa lo scorso anno fosse in realtà composta da 'Agf' (forze anti-governative), come vengono chiamati i talebani in gergo militare.

Lo scorso dicembre il generale Petraeus dichiarò alla stampa che nella seconda metà del 2010 erano stati catturati 4.100 'talebani', dimenticandosi di dire che 3.410 di questi erano stati rilasciati pochi giorni dopo la cattura in quanto civili, e altri 345 erano stati successivamente scarcerati dalla prigione militare di Bagram per mancanza di qualsiasi prova di 'militanza' a loro carico.

In conclusione, secondo le tabelle consultate da Porter, solo solo l'8,4 per cento dei 'talebani' catturati secondo Petraeus erano realmente appartenenti alle 'Agf'. Gli altri erano tutti civili innocenti, completamente estranei alla guerriglia, arbitrariamente sottoposti a settimane di prigionia e duri interrogatori.

Chissà quanti di loro, traumatizzati da questo immeritato trattamento e mossi da sentimenti di vendetta, hanno poi deciso di entrare veramente nella resistenza talebana. Magari dopo aver visto uccidere qualche loro familiare nel corso dello stesso blitz in cui erano stati fatti prigionieri.

Tenuto conto che il generalissimo, nella stessa conferenza stampa dello scorso dicembre, aveva parlato anche di circa 2.000 'talebani' uccisi nei raid delle forze speciali, sorge spontanea la domanda: quanti di loro erano in realtà civili innocenti?

Enrico Piovesana

 

Perù, infanzia negata. E' emergenza

Sono oltre tre milioni i bambini costretti a lavorare. Un problema sociale complesso e urgente, che necessita presa di coscienza e azioni concrete

Sono oltre tre milioni, piccoli, piccolissimi, ma fondamentali per l'economia di troppe famiglie poverissime. Sono i bambini lavoratori, che in Perù rappresentano il 42 percento dei minorenni, destinati spesso a mestieri duri e pericolosi. Si va dalla raccolta delle foglie di coca, nelle coltivazioni clandestine, ai turni in fabbrica fino ad arrivare a quell'esercito di venditori ambulanti in miniatura esposti alle tante insidie delle grandi città.

Secondo uno studio pubblicato dall' Instituto de Estudios Internacionales de la Pontificia Universidad Católica de Perú, uno degli ambienti di lavoro più pericolosi per i minorenni sono le piantagioni di coca concentrate nella valle dei fiumi Apurímac (centro) dove ci lavora il novanta percento dei piccoli della zona. In particolare si tratta di donne, dai sei ai diciassette anni, residenti in zona, che raccolgono le foglie di coca in cambio di 36 centesimi di dollaro ogni sacchetto da un chilo riempito. Non solo. I più grandi, fra i 16 e i 17 anni, si dedicano a pestare le foglie e altri a trasportarle una volte diventate pasta tramite processi chimici. Lavori per i quali possono ricevere fra i cento e i duecento dollari. Ma si tratta di lavori illegali per i quali rischiano moltissimo. E tutto questo per poi passare il proprio tempo libero in luoghi desolanti e fuorivanti. "Non ci sono spazi di svago adeguati all'età di questi bambini che molto spesso finiscono nei bar, a bere alcool o a prostituirsi", spiega Rosana Vega dell'Unicef.

E questo si ripete anche nel Lambayeque e a Piura, zone del nord del paese. E certo non si salva Lima, la capitale, dove il lavoro minorile e lo sfruttamento sessuale dei bambini sono vere e proprie piaghe. Ed è diventato la norma anche vedere nelle strade della metropoli piccoli che cercano di vendere di tutto un po' o che sono impiegati come operai nei lavori più disparati. È di pochi giorni fa la notizia di una famiglia, originaria di Puno, nel sud del Perù, arrestata perché sfruttava diciassette adolescenti, obbligandoli a stare in strada tutto il giorno e a vendere cianfrusaglie dietro la minaccia di non dar loro da mangiare. Questa gente adesso rischia una pena fra i 15 e i 20 anni per il reato di tratta di persone, per averli messo in pericolo e per aver agito contro la salute pubblica.

Il ministro uscente del Lavoro, Manuela García, ha precisato come siano state individuate e punite anche 3.723 imprese che facevano lavorare 10.066 minorenni in condizioni deplorevoli.

Il sindaco di Lima, Susana Villarán, molto sensibile alle tematiche sociali, ha per conto suo dichiarato che "le autorità e gli industriali dovranno impegnarsi affinché i bambini siano tenuti lontano dal lavoro, iniziando con l'offrire ai genitori un lavoro decente". E ha spiegato come sotto la sua amministrazione saranno creati in città centri per l'infanzia, chiamati Uguaglianza, che avranno dei dormitori, dei corsi per i genitori, il centro per prevenire la violenza, gli spazi ludoteca e una biblioteca. E saranno rigorosamente aperti a tutti. Un primo passo verso un cultura nuova, che dovrà arrivare a diffondere e a garantire tutti i diritti di un'infanzia totalmente negata.

Stella Spinelli

 

8 giugno

 

La crisi ha distrutto il welfare e i diritti. "Società disgregata, disuguaglianze record"

Presentato nella sede del sindacato il "Rapporto sui diritti globali 2011". Spesa sociale tagliata del 78,7%, si aggravano povertà e vulnerabilità. "Servono quaranta miliardi di euro per abbattere la povertà"

dI ROSARIA AMATO

Il leader della Cgil Susanna Camusso
ROMA - No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla crisi non siamo certo passati indenni. E non si tratta solo del Pil che arranca ancora faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli raggiunti qualche anno fa. Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che lascia indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare l'affitto, sempre più penalizzate dai tagli del welfare. La crisi, insomma, ha segnato la fine dello "stato sociale europeo". E' la tesi conclusiva del "Rapporto sui diritti globali 2011", presentato stamane nella sede della Cgil e promosso, oltre che dal sindacato, da diverse associazioni italiane, tra le quali Arci, ActionAid, Antigone, Legambiente.

Gli Stati europei, si legge nel rapporto, "stanno cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un fardello". Gli autori del volume citano Luciano Gallino: "Negli ultimi cinquant'anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone e ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell'Europa stessa".

La scure sul welfare: spesa tagliata del 78,7%. Un "passaggio epocale", dunque. Che rischia di passare inosservato. E invece i segni per rendersene conto (e per cercare di fermare questa trasformazione che appare ineluttabile) ci sono tutti. I tagli abnormi sulla spesa sociale in Italia, per esempio. Il "Rapporto sui diritti globali" li elenca tutti, sottolineando come "dal 2008 al 2011 i dieci principali ambiti di investimento sociale hanno avuto tagli complessivi pari al 78,7%, passando da 2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538 milioni della legge di stabilità 2011".

Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è passato dai 584 milioni del 2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena 44 milioni. Il Fondo per la famiglia è passato dai 346,5 milioni del 2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio è del 71,3%). Il Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel 2007 con 100 milioni dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Sparito anche il "piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia", che aveva avuto 446 milioni nel triennio 2007-2209. Stessa fine per il "Fondo per la non autosufficienza".

Si è rotta la coesione sociale. Sono tagli "giustificati" in qualche modo dalla crisi? Sorprendentemente, sono in molti a pensarla così, perché "il welfare non è sottoposto solo ai tagli, ma anche a una crisi di consenso", rilevano i curatori del rapporto. Infatti "una quota importante di italiani non vuole che il welfare sia universalistico e che ne possano fruire soggetti 'non meritevoli'". E quindi si ritiene in qualche modo legittimo che dal welfare possano essere esclusi proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, ma che meno possono contribuire a sostenerlo.

Poveri e "vulnerabili" in aumento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma emergono anche dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell'Istat, che rileva la "povertà relativa" e quella "assoluta". La povertà relativa oscilla tra il 10,2% e l'11,4% e negli ultimi anni è stabile. Ma da un lato peggiorano le condizioni dei poveri, la loro "deprivazione", e dall'altro comunque si registra un aumento nel Mezzogiorno. Aumentano inoltre i "vulnerabili", cioè i candidati a diventare i prossimi poveri. Tra loro ci sono i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà relativa in Italia e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.

Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i "working poor", definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L'incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell'8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori "poveri assoluti", saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.

La casa sempre più un miraggio. L'Italia, si dice sempre, è il Paese dei proprietari di casa. Lo è infatti l'81,5% della popolazione. Ma quel 17,1% in affitto si trova spesso in grave difficoltà: l'incidenza dell'affitto sul reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 e il 2009 l'incremento dei canoni di mercato in città è stato pari al 105%. Chi sta in affitto appartiene alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone "brucia" il 31,2% del reddito. Non stupisce che quindi siano aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008 rispetto al 2007): il 78,8% sono per morosità. Spesso, poi, si trova in difficoltà anche chi ha comprato la casa ma deve sostenere il rimborso di un mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi all'inizio del 2010 a fine anno erano diventati 30.868.

Il Paese delle disuguaglianze. All'impoverimento dei poveri dovuto alla crisi e favorito dal "restringimento" del welfare si contrappone un miglioramento delle condizioni dei più abbienti: l'Italia è al sesto posto nella classifica Ocse della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto Cgil. Che elenca alcune "diseguaglianze tipo": se il salario netto medio mensile è di 1.260 euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in meno; un lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di collaborazione il 33,3% in meno.

La ricetta finale del Rapporto. Si può imprimere una svolta alla politica economica e sociale del Paese per "tenere sui diritti", come conclude il rapporto? La proposta sembrerà a molti utopistica, e riprende quella della "Finanziaria Possibile" dell'associazione Sbilanciamoci: 40 miliardi di euro per abbattere la povertà, da ottenere da una riforma fiscale che tassi le rendite, diverse tasse di scopo a cominciare da quella sui SUV, tagli alle spese militari ma anche alle "grandi opere" inutili, e in genere da un riequilibrio e da una razionalizzazione della spesa pubblica. Per arrivare a un "basic income", un reddito minimo garantito che garantisca anche la dignità, oltre che salvaguardare "un modello sociale che ambisce alla coesione".

 

7 giugno

 

Incidenti sul lavoro, 269 morti da gennaio. Nelle ultime 24 ore sei nuove vittime

Dall'inizio dell'anno l'incremento, rispetto allo stesso periodo del 2010 è del 21,4 %. Ma a questa cifra va aggiunta quella degli incidenti nel percorso casa-lavoro, vittime spesso dovute a stanchezza e stress per le condizioni lavorative: Il numero raggiunge il record drammatico di 509

di CLAUDIO GERINO

ROMA - Sei nuove "morti bianche" in meno di ventiquattr'ore. E il tragico bilancio delle vittime di incidenti sul lavoro, dall'inizio dell'anno, è di 269 morti. L'incremento, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, è del 21,4 % (Dati Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti bianche). Ma il bilancio è ancora più tragico se a questi dati si sommano i lavoratori deceduti per incidenti sulle strade o nel percorso casa-lavoro: il numero quasi si raddoppia (509).

Il settore più colpito dalle "morti bianche" è quello dell'edilizia: 78 vittime dall'inizio dell'anno, il 29,4% sul totale. L'agricoltura, con 73 vittime, registra il 28,2 %: gli agricoltori muoiono per la maggioranza in tarda età schiacciati da trattori senza protezione che si ribaltano travolgendoli. Sono già 41 dal primo gennaio gli incidenti di questo tipo. L'industria ha già avuto 29 morti con una percentuale del 10,1% sul totale, mentre l'autotrasporto conta 22 vittime con il 8,3%. Gli stranieri morti sono stati 29 e rappresentano, in queste tragiche percentuali, l'11% sul totale.

Le regioni in testa a questa drammatica classifica sono la Lombardia con 31 vittime sui luoghi di lavoro (provincia di Milano 10), la Sicilia 24 (provincia di Catania 5). l'Emilia Romagna 22 (Provincia di Bologna 6).
"Alcune regioni stanno avendo un andamento pessimo, altre sembrano avere imboccato un trend positivo", si legge sul sito dell'

Osservatorio indipendente di Bologna 1. "All'inizio di aprile avevamo scritto che ci sarebbero state molte morti in edilizia e in agricoltura nel centro-nord, purtroppo le previsioni, supportate dalle analisi del materiale raccolto negli anni passati, hanno confermato quanto paventato: la situazione è ancora più drammatica di come l'avevamo prospettata. Ci sono in aprile 45 morti sui luoghi di lavoro. In maggio 51 morti. Moltissimi morti sono dovuti alle condizioni climatiche, soprattutto per le categorie che svolgono i lavori all'aperto quali l'edilizia, l'agricoltura, la manutenzione stradale, l'autotrasporto ecc..."

Alle vittime si aggiungono centinaia e centinaia di feriti, alcuni anche in modo grave che, per lungo tempo o, spesso, per tutto il resto della loro vita, sono costretti a non lavorare a causa delle lesioni riportate. Una cifra esatta non c'è, anche perché per i piccoli incidenti si ricorre frequentemente a cure private, anche su sollecitazione dei datori di lavoro che vogliono evitare inchieste e problemi; inoltre, le statistiche dei centri clinici riportano normalmente dati su lesioni superiori ai 7 giorni.

Le ultime sei vittime, oggi, sono un operaio romeno di 27 anni precipitato dal tetto dell'azienda per cui stava lavorando, a Borgo Isonzo, in provincia di Latina, due operai di Appiano e Chermes, dipendenti di un'impresa di manutenzione dei pozzi neri, trovati morti all'interno di un pozzo a Vipiteno 2, un pescatore di Chioggia (Venezia) disperso in mare 3 dopo che il peschereccio su cui stava lavorando è affondato al largo della costa veneta e un operaio romeno, P.G., è morto folgorato mentre lavorava 4 alla costruzione di un ponte sul fiume Giovenco nel territorio del Comune di San Benedetto dei Marsi (L'Aquila). L'uomo era alla guida di una autogru che azionava la pompa del calcestruzzo e, per motivi da chiarire, ha urtato i fili dell'alta tensione: il giovane è morto all' istante. La sesta vittima è un operario romeno di 43 anni, Gheorghe Peteleu, morto stasera schiacciato dalle ruote di un camion che stava riparando. L'incidente mortale si è verificato all'interno della concessionaria Volvo veicoli industriali di viale Zaccagna a Marina di Carrara.

Due operai, invece, sono rimasti feriti in un incidente sul lavoro verificatosi in un'impresa metalmeccanica di Gela che opera nella zona industriale. Uno dei due lavoratori, un 53enne, è stato immediatamente ricoverato all'ospedale di Gela "Vittorio Emanuele" e sottoposto a intervento chirurgico. Le sue condizioni sono subito apparse più gravi rispetto a quelle del suo collega. L'uomo è stato colpito dal braccio di una gru abbattutasi sulla cabina di un mezzo pesante.

Durissimo il responsabile economia del Pd, Stefano Fassina: "Anche oggi è arrivato il bollettino di guerra sulle morti sul lavoro. E' una situazione insostenibile, inaccettabile. Gli occupati sono un milione in meno del 2008, ma i numeri di caduti sul lavoro rimane oltre i tre al giorno. Il Ministro Sacconi che fa? Che priorità indica alle sue strutture ispettive? Quali modifiche normative intende promuovere dopo aver smantellato importanti norme di contrasto al lavoro nero? Risponda con urgenza in Parlamento e al Paese".

 

Studenti a casa con mammà e costretti a lavorare

Le famiglie italiane continuano a pensare che la laurea sia un potente fattore di mobilità sociale, almeno nel medio-lungo periodo. E per questo si caricano di sacrifici piuttosto seri per assicurare ai figli la agognata "laurea".

Il ritratto delle famiglie e degli studenti italiani alle prese con l'università che emrge dalla ricerca Eurostudent realizzata dalla fondazione Rui - in collaborazione con il ministero dell'Università e della ricerca. Ogni tre anni la fondazione si incarica di sondare la condizione degli studenti universitari italiani, nell'ambito di n progetto internazionale di analisi comparata della condizione studentesca in vari paesi europei, ("Eurostudent Report Project"). Il profilo che emerge non è esaltante. Tanto più visto che l'indagine si riferisce agli anni 2008-2009, cioè ben prima dell'arrivo della crisi economica. Un dato per tutti: quattro studenti su 10 lavorano mentre studiano, il dato cresce a 6 su dieci se la famiglia è economicamente debole. Il lavoro li occupa per circa 15-20 ore alla settimana. Mentre allo studio dedicano 41 ore alla settimana in media (il che, tra l'altro, ci racconta ancora una volta dei nuovi corsi di studio all'"acqua di rose"). Un carico di lavoro, comunque, che non verrebbe firmato da nessun sindacato, neanche nelle contrattazioni "aziendali" caldeggiate da Confindustria. ovviamente, molti studenti scelgono di tuffarsi nel mondo del lavoro anzitempo anche per avvicinarsi quanto prima alla futura professione, e quando possono cercano di inserirsi nel futuro campo di lavoro. Ma è indicativo che, secondo l'indagine, ben 6 studenti su dieci rimangono fuori da qualsiasi aiuto economico per affrontare gli studi, e nel 2009 la media del costo delle tasse universitarie è stata di 1.160 euro per chi non accede ad alcuna borsa di studio.

Un altro elemento che spiega come l'affacciarsi al mondo dell'università sia sempre di meno anche un "passaggio" verso l'indipendenza è che ormai tre studenti su quattro rimangono a casa di mamma e papà anche se studiano. Gli affitti carissimi, che si impennano nelle città universitarie, sconsigliano di trovare una stanza tutta per sé. E questo avviene persino quando lsi frequenta un'università ubicata in un'altra città da quella di residenza. infatti, seconod l'indagine, se su 4 studenti tre vivono ancora a casa dei gentiori, di questi due su tre sono pendolari. D'altronde si parla di "mobilità" sociale.

 

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