31 marzo

 

Il Cavalier Laqualunque

di FRANCESCO MERLO

NELL'ISOLA dei disperati il più disperato è lui. Con la camicia scura aperta sul collo e il doppiopetto nero che è diventato enorme, Berlusconi a Lampedusa è più Cetto Laqualunque dello stesso Albanese.

È venuto a svuotare l'isola così come andò a svuotare Napoli. Lì i rifiuti e le lordure furono caricati sui Tir, dispersi via terra con destinazione ignota, e qui sulle navi, onda su onda il mare li porterà al largo dell'Italia degli egoismi regionali e del ricatto secessionista.

"Sono lampedusano" dice, e sembra la caricatura di Kennedy a Berlino, "stamattina ho comprato una villa su Internet, si chiama "Le due palme"". Più tardi, a un cronista che lo aspetta sulla sabbia nascosto dietro una delle due palme confesserà compiaciuto: "Ma è tutta da rifare". Le tv mandano ossessivamente l'immagine della facciata, il muro di cinta, e poi sabbia, stoppie, l'intervista ai vicini di casa. Ha già speso due milioni di euro. Il solito vento che, in qualsiasi stagione, qui fa perdere la voce, agita le piante basse e dunque anche Berlusconi, che è gonfio come una mongolfiera, per un momento perde l'equilibro e sembra migrare, lui che vorrebbe migrare lontano da tutte le regole, anche quella di gravità.

Noi italiani sappiamo che Berlusconi si butta sulle disgrazie quando sente di essere in disgrazia. Ma Lampedusa gli serve anche a dissimulare, a tenere occupata l'Italia nel giorno in cui la maggioranza parlamentare ridotta in servitù, lo sta spudoratamente liberando dei suoi processi. Le promesse ai terremotati furono le sue campagne del grano. Ma questa volta la scenografia lo tradisce. Lampedusa infatti è due volte palcoscenico, due volte finzione: è il solenne e forse fatale teatro espiatorio per attirare e distrarre la più vasta delle platee ma è anche il remake dell'autarchia del "ci penso io" come estrema risorsa per illudersi ancora. Berlusconi fa il palo a Lampedusa, mentre a Roma i suoi scassinano il Parlamento e rubano i pesi della Bilancia.

E però tra il governatore Lombardo e il sindaco De Rubeis, circondato da assessori, imprenditori locali e guardie del corpo che qui non si distinguono dai corpi che hanno in guardia, nel mezzo di una nomenklatura scaltra, truce e goffa, Berlusconi esibisce una fisicità terminale che va ben oltre Cetto Laqualunque. È quella dei dittatori africani e degli oligarchi russi. Ha portato a Lampedusa più Africa lui che gli immigrati.

È atterrato all'ora dei Tg quando i soldati avevano finito di pulire il Porto vecchio, la stazione marittima e la famosa "collina della vergogna". Il Tg3 documenta la pulizia anche degli slogan di protesta, si vede il sindaco che grida alla folla: "Basta cu 'sti minchia di cartelli". Ruspe e camion dei netturbini hanno spazzato via la tendopoli proprio come a Napoli spazzarono le strade, e ora le tv mostrano il "com'era" e il "com'è".

Resistono, a testimoniare l'inciviltà della miseria, stracci, bottiglie, escrementi accanto ai ciuffi d'erba di una primavera che a fine marzo a Lempedusa è già estate: domina il giallo che solo al tramonto si tinge di arancione. Berlusconi garantisce che porterà "il colore, come a Portofino". Promette pure il premio Nobel per la Pace, il campo da golf e il casinò che è un vecchio sogno non solo dei lampedusani più eccentrici, vale a dire la risorsa di chi non ha risorse, ma è soprattutto l'aspirazione della malavita intossicata di danaro che ha impiantato in tutti gli angoli della Sicilia le sue bische clandestine, i luoghi sordidi dove si sfogano il bisogno sociale e la pulsione individuale.

Quando Berlusconi scende dall'aereo, i disperati già avanzano sul molo in fila indiana, ciascuno con la mano sulla spalla dell'altro, "una mano sola per evitare l'effetto trenino" mi ha spiegato un funzionario degli Interni. Sono immagini che testimoniano l'umiliazione di uomini ardimentosi. Quasi tutti i primi piani li mostrano con le palpebre semichiuse forse perché non riescono più a vedere lontano. Ai lati, per tenerli in riga, ci sono i poliziotti con i guanti di gomma e le mascherina sulla bocca per proteggersi dal male fisico, per non entrare in contatto con la sofferenza dei corpi che, proprio come aveva ordinato Bossi, si stanno togliendo dalle balle.

E mentre Berlusconi si mette in gioco nella più triste di tutte le sue demagogie, giura di cacciare per sempre gli immigrati che ci sono e quelli che verranno, promette aiuti europei e corrimano, vasi di fiori, niente tasse per tutti, una scuola, investimenti turistici, trasmissioni promozionali della Rai e di Mediaset ..., mentre, insomma, Berlusconi delira, la nave da crociera sembra una carboniera del diciassettesimo secolo, con la broda sciaguattante di acqua di mare, le zaffate, un equipaggio militare efficiente a bordo e riservato a terra, e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati.

Se si mettono a confronto queste immagini che, comunque la si pensi, sono angoscianti e dolorose, con quelle della piccola folla festante attorno allo Sciamano, si capisce che non c'è solo lo stridore tra la violenza della realtà e la pappa fradicia della demagogia. Qui c'è anche il sottosviluppo di piazza, il sud di Baaria, - "santo Silvio pensaci tu" - la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del voto, del miracolo, del divo: "Silvio!, Silvio!, Silvio!". C'è la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale degli imbonitori, dello zio d'America come quel Thomas DiBenedetto che ha appena comprato la Roma, del messia e del conquistador, il mito antico dell'uomo che viene da fuori, dell'uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore e non importa chi, purché venga appunto da fuori, perché è all'interno che questo Sud non trova pace. Ed è probabile che questa visita diventi un mito rituale, la chimera di una Lampedusa protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Dev'essere per questo che i miei sciagurati paesani lo hanno applaudito invece di mandarlo. .. alla deriva nel suo cargo.

 

Quanto ancora prima di dire basta?

Afghanistan: nuove scioccanti immagini dei crimini di guerra commessi dai soldati Usa. Si moltiplicano le notizie di vittime civili dei raid aerei, soprattutto bambini

Le nuove scioccanti immagini dei crimini di guerra commessi in Afghanistan dai sadici soldati americani del cosiddetto 'Kill Team', pubblicate dal magazine Rolling Stone, scuotono un'opinione pubblica mondiale ormai assuefatta agli orrori della guerra.

Le raccapriccianti foto dei civili uccisi e mutilati per gioco dal soldato Jeremy Morlock e dai suoi compagni, e i truculenti video di presunti talebani massacrati da mitra ed elicotteri al ritmo di musica heavy metal, sono solo la punta estrema di un iceberg fatto di massacri e crimini quotidiani commessi per errore, se non peggio.

Dall'Afghanistan continuano ad arrivare, puntualmente ignorate dai mass media, notizie di civili uccisi dalle forze d'occupazione Nato. Soprattutto bambini.

Come'è accaduto domenica scorsa, quando un bambino è rimasto gravemente ferito al petto da diverse pallottole sparate dalle truppe Nato australiane impegnate in un'operazione a Deh Rafshan, nella provincia di Uruzgan.

O, peggio, venerdì scorso, quando un elicottero americano ha bombardato un convoglio sospetto di auto a Nawzad, nella provincia di Helmand, uccidendo sette civili innocenti, tra cui tre bambini e due donne, e ferendo garvemente altri tre bambini.

Il 23 marzo altri tre civili, tra cui un bambino, sono stati uccisi 'per errore' in raid aereo della Nato nella provincia di Khost.

Altri due bambini, di 9 e 15 anni, sono stati uccisi dall'aviazione Usa il 14 marzo a Sawakai, nella provincia di Kunar: armati di vanghe, stavano riparando l'argine di un canale nel campo di famiglia; i piloti li hanno scambiati per talebani che piantavano ordigni esplosivi.

Una dinamica simile al massacro avvenuto, sempre a Kunar, il 20 febbraio, quando nove bambini che stavano raccogliendo legna nei boschi sono stati fatti letteralmente a pezzi dalle mitragliatrici di due elicotteri Usa.

Due giorni prima, in un villaggio della stessa zona, un bombardamento condotto da caccia F-15 americani aveva provocato la morte di sessantacinque civili, tra cui ventidue donne e quaranta bambini.

Enrico Piovesana

 

29 marzo

 

Gaetano Azzariti

La Costituzione vittima di guerra

Le ragioni del costituzionalismo sono duramente messe alla prova dinanzi alla forza brutale e senza regole della guerra. Ammutoliamo di fronte ai fatti drammatici. Da un lato la convinzione che è dalla parte degli insorti che bisogna stare, dall'altro la consapevolezza che l'intervento delle potenze occidentali si gioca essenzialmente in base a calcoli politici ed economici per nulla "umanitari". Eppure non si può tacere. Se non si vuole accettare l'idea che ci si debba ormai affidare esclusivamente alle logiche perverse della politica di potenza, se non si vuole rinunciare al governo delle leggi delegando al governo degli uomini (buoni o malvagi che siano).
Ed allora è necessario tornare a denunciare che la scelta di sistema del nostro costituente è chiara e inequivocabile. La formula scolpita nel testo della nostra Costituzione non si presta ad ambiguità: «L'Italia ripudia la guerra». L'uso delle forze armate per fini bellici è prevista esclusivamente allo scopo di difesa dei confini (in realtà la Costituzione assegna ad ogni cittadino e non solo ai militari il "sacro dovere" di difendere la patria) ed anche in questo caso c'è una specifica procedura garantista tesa a sottrarre al governo la decisione ultima, facendo intervenire il Parlamento e il presidente della Repubblica. La nostra costituzione non prevede nessuna forma di intervento armato fuori dai confini per la risoluzione delle controversie internazionali ovvero come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Nessuna interpretazione evolutiva del testo costituzionale - per quanto autorevolmente espressa - può legittimare la tesi secondo cui le limitazioni di sovranità cui l'Italia consente per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni possano spingersi sino a comprendere l'uso della forza bellica. Anche perché l'uso della forza è espressione massima della sovranità degli Stati, non invece una sua limitazione. Nel caso della Libia, infatti, non ci si è limitati a fornire le basi militari (limitando la propria sovranità), ma si sta operando attivamente svolgendo un intervento diretto di aggressione armata contro un nemico per imporre una propria sovranità.

Questo il quadro costituzionale, dal quale emerge con nettezza la scommessa del costituente. Quella stessa sfida che, dopo la barbarie del secondo conflitto mondiale, ha innervato tutte le costituzioni nazionali e che indussero gli Stati a dar vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, con l'esplicito compito di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra». La guerra è un male in sé, questa la convinzione comune tra le Nazioni. È ancora così?
Qui è il discrimine politico, ma anche giuridico e costituzionale. Non sarà l'ipocrisia del linguaggio (chiamare l'uso della forza contro una potenza straniera "azione di polizia internazionale" ovvero negare che l'Italia si trovi in guerra) o la diversa qualificazione data alla guerra (umanitaria, giusta, legittima) a rendere meno drammatica la vera questione che la storia ci propone. L'uso della guerra torna ad essere uno strumento della politica. Il diritto può tentare di limitarlo, ma il ritorno dello ius belli se forse può rendere legittimo, in base ad una ambigua risoluzione Onu, l'intervento armato sul piano internazionale, non perciò può essere interpretato come una scelta conforme alla Costituzione, né - io credo - facilmente riconducibile alle finalità di quell'organizzazione che ha come missione di assicurare la pace tra le nazioni.

Il flagello della guerra è tornato tra noi, tra le sue vittime c'è la Costituzione. E non si affermi, per cortesia, che non poteva essere altrimenti. È invece questo un esito voluto, nessuno è esente da responsabilità. Non si dichiari che in tempi di globalizzazione l'unico modo per stare dalla parte giusta, quella dei rivoltosi di Bengasi, è fare la guerra a Gheddafi. Non si è neppure tentato di seguire una via alternativa: prima della risoluzione 1973 che ha autorizzato l'intervento armato il Consiglio di sicurezza ha adottato solo la debole risoluzione 1970 dagli effetti irrilevanti, l'Italia ha continuato sino all'ultimo (ancor oggi in verità) a blandire il rais, cercando di preservare interessi economici e rapporti commerciali. La guerra non è stata l'ultima ratio, bensì la prima scelta. Una storia antica si ripete, una storia che il costituzionalismo voleva archiviare per tutelare i diritti umani attraverso politiche di pace. Almeno dovremmo impedire a chiunque di affermare che ciò rientra pienamente nell'ordine costituzionale. Non è così, la guerra calpesta la Costituzione.
Mi chiedo da ultimo: chi crede ancora nella superiore legalità costituzionale, nel valore vincolante delle sue disposizioni, nella scommessa pacifista che vi è contenuta, è veramente disarmato di fronte alle aggressioni del potere? È vera l'accusa che viene rivolta a chi non accetta la politica delle bombe di voler sacrificare per astratti principi la vita di popolazioni oppresse? La sfida della nostra Costituzione è irrimediabilmente perduta? La mia risposta è no. Basta saper leggere la storia del costituzionalismo, una storia di ribellioni, contro i dittatori e per l'affermazione dei diritti umani. È il costituzionalismo che ha rivendicato il principio all'autodeterminazione dei popoli, ha legittimato il tirannicidio, ha affermato il diritto di resistenza. Essere pacifisti non significa essere pacifici.

 

Leggende nucleari, tutta la verità sul fabbisogno energetico nazionale

Dalle centrali atomiche francesi l'Italia importa solo l'uno per cento dell'elettricità totale che consuma

“Che senso ha continuare a snobbare il nucleare? Alla fine lo importiamo dalla Francia, tanto vale portarcelo in casa”. Lo sentiamo ripetere come un mantra ogni volta che si tocca la questione dell’atomo. Ma è veramente così? E se lo è, quanto pesa effettivamente l’energia atomica francese sul totale del nostro fabbisogno energetico? Per capirlo basta armarsi di pazienza e fare due calcoli. Partiamo dal “fabbisogno nazionale lordo” e cioè dalla richiesta totale di energia elettrica in Italia. Nel 2009, secondo i dati pubblicati da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, è stato pari a circa 317.602 Gwh (Gigawatt/ora all’anno). Di questi, circa 278.880 Gwh (87,81%) sono stati prodotti internamente, in buona parte da centrali termoelettriche (77,4% delle produzione nazionale) che funzionano principalmente a gas (65,1% del totale termoelettrico), carbone (17,6%) e derivati petroliferi (7,1%): combustibili fossili, in larga parte importati. Il gas, che è la fonte più rilevante nel mix energetico italiano, arriva per il 90% dall’estero, soprattutto da Algeria (34,44% del totale importato), Russia (29,85%) e Libia (12,49%). La parte di fabbisogno non coperta dalla produzione nazionale viene importata, tramite elettrodotti, dai paesi confinanti.

In tutto, nel 2009, sempre secondo i dati di Terna, abbiamo acquistato dall’estero circa 44.000 Gwh di energia, al netto dei 2.100 circa che abbiamo esportato. 10.701 Gwh ce li ha ceduti la Francia, 24.473 la Svizzera e 6.712 la Slovenia. Tre paesi ai nostri confini che producono elettricità anche con centrali nucleari. In base ai dati pubblicati dalla Iaea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), la Francia produce il 75,17% dell’elettricità con il nucleare, la Svizzera il 39,50% e la Slovenia circa il 38%. In termini di Gwh questo significa che importiamo circa 8.000 Gwh di energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari francesi, 9.700 Gwh dalle centrali svizzere e 2.550 Gwh dall’unica centrale slovena. Quanto pesa quindi il nucleare estero sul fabbisogno italiano? Il conto è presto fatto. Basta dividere i Gwh nucleari importati mettendo a denominatore il fabbisogno nazionale lordo. Si scopre così che solo il 2,5% del fabbisogno nazionale è coperto dal nucleare francese, il 3,05% dal nucleare svizzero e lo 0,8% da quello sloveno.

In realtà, se si considera il mix medio energetico nazionale calcolato dal Gestore servizi energetici (GSE) in collaborazione con Terna, la percentuale di energia nucleare effettivamente utilizzata in Italia è pari ad appena l’1,5% del totale. Se si scompone il dato, si scopre che il nucleare francese pesa per circa lo 0,6% sul mix energetico nazionale. Ma c’è un’altro dato da considerare. Consultando i dati pubblicati da Terna si scopre infatti che l’Italia dal punto di vista energetico è tecnicamente autosufficiente. Le nostre centrali (termoelettriche, idroelettriche, solari, eoliche, geotermiche) sono in grado di sviluppare una potenza totale di 101,45 GW, contro una richiesta massima storica di circa 56,8 GW (picco dell’estate 2007). Perché allora importiamo energia dall’estero? Perché conviene. Soprattutto di notte, quando l’elettricità prodotta dalle centrali nucleari, che strutturalmente non riescono a modulare la potenza prodotta, costa molto meno, perché l’offerta (che più o meno rimane costante) supera la domanda (che di notte scende). E quindi in Italia le centrali meno efficienti vengono spente di notte proprio perché diventa più conveniente comprare elettricità dall’estero.

“E se dovesse succedere un incidente in una delle centrali dei paesi confinanti?”. Beh, non ci sarebbe da rallegrarsi, ma ancora una volta i dati possono esserci (un po’) di conforto. Le tre centrali nucleari più vicine all’Italia sono in Francia a Creys-Malville (regione dell’Isère), in Svizzera a Mühleberg (vicino a Berna) e in Slovenia a Krško, verso il confine con la Croazia. Creys-Malville è a circa 100 Km in linea d’aria dalla Valle d’Aosta, a 250 Km da Torino e a 350 Km da Milano. Mühleberg dista circa 100 Km dal confine piemontese e 220 Km da Milano. Krško è a 140 Km da Trieste. Ammesso che si possa usare come riferimento il disastro di Černobyl‘, in caso di incidente sembra che la più alta esposizione alle radiazioni si verifichi nel raggio di 30-35 chilometri dal reattore. Quindi nelle nostre valli alpine e nelle grandi città del nord si possono dormire ancora sonni abbastanza tranquilli rispetto all’eventualità che si costruisca un reattore dentro i confini nazionali.

 

Redditi dei parlamentari, B in un anno raddoppia

Non solo si conferma il più ricco tra i politici, ma in un anno ha quasi raddoppiato il proprio reddito. Il presidente del Consiglio ha dichiarato 40.897.004 euro rispetto ai 23.057.981 dellanno precedente. A leggere le dichiarazioni patrimoniali dei deputati relative al 2009, oggi consultabili a Montecitorio, le possibili classifiche sono infinite. Tra i presidenti dei due rami del parlamento, Gianfranco Fini e Renato Schifani, è il secondo ad avere un reddito superiore. La seconda carica dello Stato ha dichiarato 229.918 euro contro gli 186.563 euro della terza carica. Mentre tra gli avvocati difensori del premier Niccolò Ghedini e Piero Longo, è il titolare del mavalà a vincere dichiarando 1.297.118 euro contro i 530.847 di Longo. Balza allocchio, fra laltro, la posizione del ministro dellEconomia. Giulio Tremonti ha dichiarato redditi pari a 301.918 euro, in netto aumento rispetto allanno precedente quando, grazie a una serie di detrazioni fiscali, aveva denunciato 39.672 euro.

Stupiscono anche i redditi dei non eletti Guido Bertolaso e Daniela Santanché. Lex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla Protezione Civile ha dichiarato un reddito imponibile di 860.195 euro. Santanché, invece, 642.517 euro.

Paperon de Paperoni Silvio Berlusconi nelle dichiarazioni dei redditi figura come separato, non risultano nuovi acquisti di auto, barche o di partecipazioni in società. Ha venduto una comproprietà al 50% di un appartamento a Milano. Tra i beni immobili a lui intestati risultano due appartamenti in uso abitazione a Milano, due box e altri tre appartamenti nella stessa città, dove ha in comproprietà anche altri due immobili. Inoltre è iscritto nella dichiarazione dei redditi un immobile nel Comune di Lesa, in provincia di Novara. Compaiono le proprietà nellisola di Antigua: un terreno, un immobile e un altro terreno acquistato il 13 marzo 2009. Infine, tre depositi di gestione patrimoniale presso la banca popolare di Sondrio, il Monte dei Paschi di Siena e la Banca Arner Italia spa.

Escluso il premier, il più ricco in Consiglio dei ministri è il titolare della Difesa, Ignazio La Russa, che nel 2010 ha dichiarato un reddito imponibile per il 2009 di 374.461 euro. La Russa tiene dietro anche il ministro dellEconomia Giulio Tremonti, con i suoi 301.918 euro. E testa a testa, poi, tra Tremonti e Renato Brunetta, che dichiara 300.894 euro. Mentre il più povero tra i ministri è il veneto Giancarlo Galan, con i suoi 149.938 euro. Tra le curiosità, si segnala il Guardasigilli Angelino Alfano, che dichiara 168.318 euro e allega la dichiarazione dei redditi della moglie, Tiziana Miceli, che guadagna più di lui, con i suoi 229.074 euro. Il primo dei leghisti è Roberto Calderoli, solo tredicesimo con 174.850 euro.

La classifica dei ministri, dunque, in ordine decrescente, vede dopo La Russa, Tremonti e Brunetta, il titolare della Sanità, Ferruccio Fazio (256.811 euro), seguito da Franco Frattini (237.219 euro), il neoministro Francesco Saverio Romano (236.295 euro) e Stefania Prestigiacomo (222.911 euro).

Sotto la soglia dei 200 mila, tutti gli altri ministri. A partire da Sandro Bondi, che però da una settimana ha lasciato la carica (dichiara 184.591 euro). Seguono Altero Matteoli (183.648 euro), Raffaele Fitto (179.787 euro), Mariastella Gelmini (176.981 euro), Roberto Calderoli (174.850 euro), Michela Vittoria Brambilla (173.818 euro), Maurizio Sacconi (172.394 euro), Gianfranco Rotondi (172.061 euro).

Nella metà bassa della classifica il ministro dellInterno Roberto Maroni (170.711 euro), seguito da Elio Vito (169.432 euro), Angelino Alfano (168.318 euro), Umberto Bossi (167.957 euro), Giorgia Meloni (165.941 euro), Mara Carfagna, che risulta dunque essere la più povera tra le ministre (165.849 euro). Chiudono la classifica il vice ministro leghista Roberto Castelli (164.358 euro), il ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani (161.911 euro) e il neoministro della Cultura Giancarlo Galan (149.938 euro).

 

Libia, il mestiere delle armi

Come Finmeccanica ha riammodernato gli apparecchi militari italiani del raìs. Sfumato - causa guerra - l'accordo per vendere a Gheddafi i droni di Galileo Avionica
"Eravamo stanziati nell'oasi di Sebha, e ai ragazzi libici abbiamo dato un addestramento completo, basico, avanzato e operativo". A parlare - dalle pagine del mensile Aermacchi World del settembre 2006 - è Clemente Fazzini, pilota italiano, in Libia dal 1981 al 1985 per addestrare i militari delle Forze Aeree Libiche. I piloti libici utilizzavano uno degli aerei più maneggevoli al mondo per l'addestramento: il Siai Marchetti SF-260. Nel 1978, l'Italia ha fornito ai libici sessanta apparecchi e 180 kit per l'assemblaggio della versione militare, l'SF-260 W (dove la 'W' sta per warrior). L'impianto di assemblaggio fu costruito a Sebha, capitale del Fezzan e feudo di Gheddafi. "La nostra versione - prosegue Fazzini sul mensile dell'Aermacchi, società proprietaria della Siai Marchetti dagli anni '80 - poteva portare come carico massimo fino a 300 chili. Sostanzialmente due mini-gun in 'pod' (supporti, ndr) alari, oppure razzi". Allora la Libia era impegnata in una guerra contro il Ciad. Vi furono voci di una presunta partecipazione al conflitto da parte di piloti italiani, ma lo stesso Fazzini le smentisce: "L'unica nostra partecipazione era condurre le loro formazioni attraverso il deserto fino agli aeroporti di rischieramento avanzato. Poi le azioni belliche vere e proprie venivano effettuate dai loro piloti". L'intervista conferma due fatti: che gli aerei venduti alla Libia erano armati, e che vennero utilizzati per bombardare il territorio ciadiano. Alcuni SF-260 persi in combattimento vennero riutilizzati dalle Forze aeree ciadiane (nella foto in alto a destra, ribelli ugandesi attorniano un SF-260 W del Ciad precipitato nel corso di una missione). Gheddafi vendette anche alcuni apparecchi a Paesi amici come il Nicaragua e il Burkhina Faso.

Oltre trent'anni dopo la fornitura, molti SF-260 erano ancora in uso dall'aviazione libica. Tuttavia, necessitavano di riammodernamento. Il 28 luglio 2007 veniva firmato un accordo per la rimessa in efficienza gli SF-260 W, dei loro impianti e sistemi, oltre alla revisione dei motori e delle eliche. Finmeccanica, che fa capo ad Aermacchi, il 24 febbraio 2011 scriveva: "In merito alle notizie di diversa fonte che attribuiscono all'industria italiana e in particolare a Finmeccanica la vendita di armi alla Libia, Finmeccanica precisa che gli ordini acquisiti non sono in ambito militare". E' importante quest'ultima frase, perché nel 2008, nella relazione della presidenza del consiglio sull'esportazione di armamenti per il 2007, figura un'autorizzazione alla vendita di 48.832 ricambi per velivolo SF-260W, oltre a 60 mesi di corsi di addestramento e 80 mesi di assistenza tecnica. Ammontare: 3.050.806 euro. La conferma sul sito di Finmeccanica, dove si riporta che "Alenia Aermacchi, una società del gruppo Finmeccanica, ha firmato il 28 luglio a Tripoli un contratto, del valore di 3 milioni di euro, con il Ministero della Difesa Libico per la rimessa in servizio di 12 velivoli da addestramento primario SF-260, già in dotazione alla Forza Aerea Libica". Stessa cosa nella relazione del 2009: 958 parti di ricambio per l'SF-260W, 72 tra manuali di volo, cataloghi, pubblicazioni tecniche e 85 mesi di addestramento ad uso e manutenzione. Ammontare 2.705.078 euro. Conclusione: dovendo riammodernare apparecchi militari, gli 'ordini acquisiti' non possono che essere in ambito militare. Finmeccanica, nella sua precisazione, ha quindi dichiarato il falso.

Ma gli affari militari di Finmeccanica con la Libia non si fermano qui. Nel 2007, la Agusta Spa, di Finmeccanica, ha incassato 54 milioni di euro per manutenzione, riparazione e ammodernamento degli aeromobili CH47, i famosi elicotteri per il trasporto truppe 'Chinook', di disegno americano ma di produzione italiana. Costruiti dalla Elicotteri Meridionali (oggi Agusta-Westland) nello stabilimento di Vergiate (Varese) ne furono acquistati venti (numero seriale da LC-001 a LC-0020) dalle Forze armate libiche. Uno di questi è stato fotografato nel 1980 proprio a Vergiate (a destra), prima della consegna alla Libia. Si tratta dell'ultimo esemplare, con numero seriale LC-0020.

Il 29 aprile 2010 è stato inaugurato presso l'aeroporto di Abou Aisha, a pochi chilometri da Tripoli, un impianto gestito dalla Liatec (Libyan Italian Advanced Technology Company, società per azioni creata nel 2006 e composta al 50 percento dall'Industria per l'aviazione libica, al 25 percento da Finmeccanica e al 25 percento da AgustaWestland). E' una struttura di assemblaggio per elicotteri (già operativa dal 2007) e svolge servizi di manutenzione di elicotteri e aeroplani, oltre alle attività di addestramento "in missione". E' qui che sono stati ammodernati gli elicotteri Chinook, come si vede dalla foto a sinistra, espunta da un video girato nel 2009. Come per gli SF-260 W, si tratta di una ristrutturazione eseguita su un velivolo militare, utilizzato per il trasporto truppe.

Purtroppo, tra un recentissimo passato di vacche grasse per Finmeccanica, e un futuro foriero di nuove esportazioni, è intercorso il conflitto. Altrimenti il colosso italiano avrebbe portato a compimento ulteriori operazioni in ambito strettamente militare. Come la fornitura del nuovo addestratore Aermacchi M-311, presentato in livrea desertica alla Lavex (la fiera dell'aviazione) del 2006 con la finalità di "coprire le necessità di addestramento della Forza Aerea libica, che ha già in linea l'SF-260". Al Lavex del 2007 si è invece esibita in volo una pattuglia di SF-260 W dell'aeronautica libica. In uno di questi, nella foto a destra, con il numero '604', si nota un supporto (il 'mini-pod') alare. A cosa serve? Il suo utilizzo è eloquentemente rappresentato nelle due foto piccole sotto, dove un Siai Marchetti italiano è fotografato con un lanciarazzi agganciato all'ala per mezzo dell'identico piloncino di supporto.

Un altro prodotto di interesse nelle transazioni commerciali militari tra Italia e Libia era costituito da un apparecchio a tecnologia avanzata: i l drone 'Falco' della Selex Galileo. Velivolo tattico senza pilota (Uav), è stato venduto alla Forza aerea pakistana nel 2009 ed è in trattativa per la fornitura alla Giordania. Svolge compiti di sorveglianza e sicurezza, ma è abbastanza grande per alloggiare un sistema di puntamento e trasporto missilistico. La versione venduta al Paese asiatico non è armata, ma nell'impianto di produzione di Kamra, nel Punjab, dove verranno costruiti i droni in co-produzione con la Selex Galileo, il Pakistan ha in mente di attrezzare i suoi Falco con sistemi missilistici laser, per condurre operazioni offensive analoghe a quelle condotte dai droni Usa che pattugliano e bombardano le aree tribali al confine con l'Afghanistan, causando un numero elevato di vittime civili.

Il negoziato con la Libia per la vendita dei Falco è iniziato nel 2007, quando l'apparecchio è stato presentato ai libici, mentre nel 2009 le manifestazioni di interesse da parte di Tripoli per il controllo delle frontiere sud (dove Selex ha già installato un sistema di sicurezza radar a terra) facevano già fregare la mani a Finmeccanica, che aveva in progetto di vendere fino a 50 apparecchi, (fonte: Flight International, marzo 2009) forse nella loro versione più recente, chiamata 'Evo' Poi, si diceva, è intervenuta la guerra. Ma non è detto che per le industrie della difesa italiane ciò non sia un bene. Anzi.

Luca Galassi

 

23 marzo

 

Luca Fazio

Il mondo ha sempre più sete

Ci sono due motivi sostanziali per cui la giornata mondiale dell'acqua quest'anno è dedicata al tema Acqua per la città: come rispondere alle sfide dell'urbanizzazione. La metà del genere umano vive in agglomerati urbani, e si calcola che tra vent'anni quasi il 60% della popolazione sarà stipata nelle principali città del mondo: 5 miliardi di persone. Essendo così decisivo il rapporto acqua-città, il problema ormai chiama direttamente in causa la responsabilità politica delle singole amministrazioni, delle aziende e di tutti i cittadini che possono influire direttamente nella gestione dell'acqua in contesti urbani - basti pensare al referendum di giugno. Di questa sfida parla il dossier preparato dal Comitato italiano Contratto Mondiale sull'acqua (www.contrattoacqua.it).

La situazione mondiale
La mancanza di acqua nelle aree più povere del pianeta (Asia e Africa) apre scenari drammatici. Almeno 5 milioni di persone ogni anno abbandonano le campagne per trasferirsi in città, 493 milioni di persone non hanno servizi sanitari, 789 milioni sopravvivono senza accesso all'acqua e il 27% della popolazione urbana nei paesi del sud del mondo non ha la rete idrica in casa. E il futuro non promette niente di buono, se è vero che nei prossimi venti anni in questa area del pianeta la popolazione è destinata a raddoppiare. Ma l'impatto dell'urbanizzazione ormai si fa sentire anche nelle città industrializzate, dove 497 milioni di persone hanno servizi igienici in comune e dove il 38% della crescita della popolazione è concentrato nelle periferie, con accampamenti totalmente sprovvisti di acqua e servizi. Sono i poveri che abitano a «casa nostra».

Acqua e povertà
La sfida più importante sarebbe quella di fornire acqua a quelle 828 milioni di persone che oggi vivono nelle baraccopoli. I poveri, oltretutto, pagano un litro d'acqua fino a 50 volte di più dei loro vicini ricchi, in quanto sono costretti a rifornirsi dai privati. Stime non proprio confortanti dicono che la popolazione dei quartieri poveri è destinata ad aumentare di 27 milioni di persone all'anno. Ma c'è chi muore di sete e chi l'acqua può sprecarla: si passa da una disponibilità media pro-capite di 425 litri al giorno per un cittadino statunitense ai 10 litri per un abitante del Madagascar (237 per un italiano e 20 per una intera famiglia africana). Allora si può ben dire, come ha scritto L'Osservatore Romano, che «l'acqua è un bene troppo prezioso per obbedire solo alle ragioni del mercato e per essere gestita con un criterio esclusivamente economico e privatistico».

Inquinamento, salute e sprechi
Ogni giorno, nelle principali città, 2 milioni di tonnellate di rifiuti umani vengono smaltiti in corsi d'acqua. La mancanza di impianti di depurazione nei paesi poveri, e gli scarichi industriali fuori controllo, provocano gravi problemi di salute (la malaria è ancora una delle principali cause di morte in molte aree urbane). La gestione degli acquedotti fa acqua da tutte le parti: i livelli di perdita delle reti idriche raggiungono anche il 70%, con una disonorevole media italiana del 47%. In totale, la quantità d'acqua potabile che ogni anno viene dispersa nelle principali città è stimata attorno ai 500 milioni di metri cubi.

Città e acque in bottiglia
Gli italiani continuano ad essere i più forti bevitori in Europa di acqua minerale (194 litri a testa, più del doppio della media europea, per un totale di 12,5 miliardi di litri imbottigliati). Le aziende produttrici gestiscono affari colossali (2,3 miliardi di euro all'anno) pagando alle Regioni pochissimi euro all'anno per lo sfruttamento delle fonti di acque minerali: sono 189, per 321 marche commercializzate. A livello di bilancio familiare, significa che una famiglia di quattro persone spende tra 320 e 720 euro all'anno per bere acqua minerale.
L'impatto ambientale di questo consumo scriteriato è presto detto: l'Italia produce 12,4 miliardi di bottiglie l'anno consumando 655 tonnellate di petrolio, scaricando in aria 910 mila tonnellate di CO2 e (nella spazzatura) 200 mila tonnellate di plastiche, il cui smaltimento è a carico degli enti locali, cioè dei cittadini. Inoltre, solo il 18% delle acque minerali imbottigliate viaggia su rotaia: significa che ogni anno 300 mila Tir fanno avanti e indietro per far aumentare i profitti stratosferici delle multinazionali o delle aziende che imbottigliano un bene comune.

Buone pratiche in città
Il Comitato italiano per un Contratto mondiale dell'acqua dieci anni fa ha lanciato l'idea di ricostruire e riattivare nelle città «punti d'acqua pubblica» come momenti di riscoperta e socializzazione del bene più prezioso. Da eventi inizialmente simbolici, oggi hanno preso corpo tre specifiche campagne che danno un prezioso contributo nella costruzione di un nuovo rapporto tra acqua e città.
1) L'etichetta dell'acqua del sindaco: si tratta di una campagna di sensibilizzazione per contrastare la tendenza a denigrare l'acqua del rubinetto, sottoscritta da diverse amministrazioni che hanno «sponsorizzato» la bontà della loro acqua, con il risultato che oggi l'acqua del rubinetto, dopo anni, è riapparsa nelle mense scolastiche di diverse città (Roma, Firenze, Milano, Bologna, Perugia...).
2) Le Case dell'Acqua: diverse amministrazioni hanno reintrodotto punti di ristoro collettivi (in giardini, piazze, scuole e stazioni) per contrastare l'uso di acque minerali.
3) Le fontanelle pubbliche: la proposta di realizzare nuove fontanelle o erogatori di acqua pubblica (anche frizzante) è stata accolta da numerosi comuni italiani, che oggi offrono ai cittadini sorsate di prodotto gratis o a prezzi stracciati. Piccole gocce di saggezza.

 

Fukushima, una storia di veleni e corruzione

Il retroscena politico-giudiziario dell'emergenza nucleare: il vecchio governatore contrario al progetto “pluthermal” fu messo fuori gioco nel 2006

Nell'agosto del 2008, l'ex governatore di Fukushima, Eisaku Sato, è condannato per corruzione a tre anni, poi ridotti a due nel 2009, con sospensione per quattro anni dai pubblici uffici. Per il politico settantenne sembrerebbe la definitiva uscita di scena, anche se siamo in una gerontocrazia come il Giappone.
È stato pescato con le mani nel sacco in uno scandalo di quelli che si vedono a ogni latitudine.
O almeno così sembra. Ma oggi, molti giapponesi si chiedono se tra quella condanna e l'emergenza nucleare di Fukushima non ci sia qualche nesso.

Il terzo reattore della centrale di Fukushima-Daiichi, quello che sta dando tanti problemi, è alimentato a mixed oxide fuel (Mox), una miscela di uranio (in tutte le sue forme) e plutonio, alternativa al combustibile di solo uranio. I giapponesi hanno coniato un termine (in inglese) per descrivere i progetti di reattori alimentati a Mox: plu-thermal, che sta per l'utilizzo di plutonio ('plu') nelle centrali commerciali ('thermal').
Il vantaggio fondamentale del Mox è che consente di riciclare il plutonio dismesso dalle armi nucleari - che altrimenti resterebbe in circolazione come spazzatura di difficile smaltimento - e riduce la percentuale (e quindi la domanda) di uranio necessario alla produzione di energia.
Tuttavia si tratta di una sostanza molto tossica. Secondo il politico ambientalista americano Ralph Nader (citato dal Fatto Quotidiano), "la sostanza più tossica conosciuta dall'uomo". I detrattori sostengono anche che, lungi dal far piazza pulita del plutonio in circolazione, i progetti pluthermal ne incentivano invece la produzione.

Nel 1999, scoppia uno scandalo internazionale che coinvolge la British Nuclear Fuels plc (Bnfl) una compagnia del governo britannico che tratta il ciclo del Mox. Tra i vari clienti della Bnfl c'è proprio il Giappone. I britannici comprano da Tokyo il plutonio di smaltimento, lo lavorano e glielo restituiscono in forma di combustibile riutilizzabile.
Ma in quei giorni il business non appare più così redditizio, perché i prezzi dell'uranio sono calati e quindi il Mox non sembra più un'alternativa così competitiva. Alcuni funzionari della Bnfl pensano allora di risparmiare sui controlli e consegnano al Giappone del combustibile accompagnato da documenti di sicurezza falsificati.
Quando la verità emerge, comincia la lotta del governatore Eisaku Sato contro il Mox che alimenta anche Fukushima: non solo non è sicuro, ma non è più neanche così economico.
Ciò nonostante, Tokyo decide che entro il 2010 almeno sedici centrali dovranno essere alimentate con la miscela.

Nel maggio del 2001, il piano pluthermal incoraggiato dal governo sbatte però contro un referendum indetto dal villaggio di Kariwa, nella prefettura di Niigata.
Poi è l'anziano governatore di Fukushima a prendere le redini dell'opposizione: entra in conflitto con i burocrati della Commissione per l'energia atomica del Giappone e con i funzionari della Tepco, l'azienda di servizio pubblico che gestisce la centrale di Fukushima.
In un'intervista del giugno 2002 al Fukushima Minpo, arriva a dire: "La Commissione per l'energia atomica del governo nazionale è una scatola nera e non fa alcun controllo [...] il governo non ascolta le autorità regionali".
In un incontro con i sindaci della prefettura sbotta: "Se non c'è un piano per il riciclo, ci sarà sempre più plutonio in circolazione". E ancora: "Nel mercato senza regole dell'energia, se si implementa il costosissimo programma pluthermal, si arriva poi ai licenziamenti dei lavoratori".
Infine, il 26 settembre dello stesso anno blocca il progetto pluthermal per la centrale di Fukushima.

A inizio settembre 2006 Eisaku Sato vince il suo quinto mandato di quattro anni. Ha corso da indipendente, appoggiato dal Partito liberaldemocratico, il Nuovo komeito e il Partito socialdemocratico. Pochi giorni dopo scoppia lo scandalo che coinvolge suo fratello minore e quindi anche lui. Yuji Sato ha ricevuto un prestito di quattrocento milioni dalla Maeda Corp, una compagnia di Tokyo, che nell'agosto del 2000 si è aggiudicata un appalto da 20.6 miliardi di yen per la costruzione di una diga nella prefettura. Secondo l'accusa, il fratello governatore sarebbe implicato nell'affare.
Eisaku Sato si dimette a fine settembre: "Intendo assumermi la responsabilità morale e ripristinare al più presto la fiducia dei cittadini nell'amministrazione della prefettura". Continuerà a dichiararsi innocente.
Ad agosto 2008, come si diceva, arriva la prima condanna; nel 2009 la seconda. Il Mox entra a Fukushima.

Oggi, molti giapponesi si chiedono se il caso di corruzione che ha messo fuori gioco Sato non sia stato abilmente costruito per far fuori il maggiore ostacolo all'adozione della famigerata miscela. L'ennesimo sospetto rafforzato da silenzi e reticenze del governo e della Tepco.
Per inciso, le "moderne" centrali di terza generazione che dovrebbero comparire in Italia sono proprio alimentate a Mox.

Gabriele Battaglia

 

18 marzo

Andrea Palladino

La lobby italiana dell'insicurezza

Immaginiamo di fermare la memoria per un secondo, cercando di focalizzare il terremoto de L'Aquila del sei aprile 2009. Proviamo a mettere a fuoco le immagini dell'Ospedale San Salvatore, con le colonne di cemento armato scoppiate, letteralmente divelte da un sisma di gran lunga inferiore a quello del Giappone. Ora, proseguendo nel nostro esercizio, trasportiamo quel cemento annacquato alla base di una centrale nucleare, con un nucleo composto dal micidiale Mox, ovvero una miscela tra uranio e plutonio, capace di contaminare un'area con un raggio di decine - se non centinaia - di chilometri. Ecco, benvenuti nell'incubo nucleare europeo, che si potrebbe nascondere sotto la sigla accattivante Epr, ovvero l'European Pressurized Reactor.
Esagerazione? Non proprio rileggendo i rapporti di sicurezza dell'agenzia del nucleare finlandese, dove una delle «nuove» centrali Epr di Areva - la stessa tecnologia e compagine societaria scelta dall'Italia con il «piano Scajola» - nel 2006 era stata bloccata. I cantieri dell'impianto Olkiluoto 3 in Finlandia erano stati aperti il 12 agosto del 2005 e fino ad oggi hanno accumulato un ritardo di almeno due anni, con uno sforamento del budget di alcuni miliardi di euro. Una disavventura che è costata ad Areva un declassamento a BBB+ del rating di Standard&Poor's, arrivato lo scorso anno. Nel rapporto del Stuk - agenzia della sicurezza nucleare finlandese - del 2006 i tecnici evidenziavano alcune gravi mancanze nella realizzazione dei lavori. Tra queste vi era una partita di cemento con «un contenuto eccessivo di acqua», utilizzato per la base del reattore, un parallelepipedo di 103,1 per 100,8 metri, destinato a sorreggere il nucleo. Una protezione vitale, che fa la differenza in caso di crisi, che deve impedire il vero incubo del nucleare: la fusione e la dispersione del nucleo.
Come si suol dire, tutto il mondo è paese. E così leggendo quanto riporta Greenpeace International in un rapporto di tre anni fa, scopriamo che le società coinvolte nella fornitura del cemento erano finlandesi doc: la base era stata disegnata dalla Finnprima, realizzata dalla Forssan Betoni, con la fornitura del cemento affidata alla Hartela Oy. Società assolutamente trasparenti, considerate al top in Finlandia, ma che su un'opera delicata come una centrale nucleare hanno incontrato qualche difficoltà di costo e di progetto, probabilmente. Difficoltà che non sono un semplice incidente di percorso, ma legate a problemi strutturali del tipo di impianto. Possiamo tentare di evitare ogni facilissima ironia immaginando cosa sarebbe avvenuto con lo stesso tipo di opera in Italia, soprattutto pensando a come funzionerà la nostrana agenzia del nucleare. Certo è che se i finlandesi non si fossero accorti di quel cemento con troppa acqua, il rischio di una apocalisse europea sarebbe aumentato notevolmente.
Problemi simili si sono poi avuti con le saldature. Da controlli effettuati dalla Stuk lo spazio tra alcuni pezzi saldati era risultato eccessivo e fuori dalle norme di sicurezza.
Il problema centrale era stato ben evidenziato da Greenpeace International. Areva non avrebbe dato istruzioni vincolanti alle centinaia di società che si erano inserite nella lunga catena dei subappalti, lasciando un margine di manovra pericoloso. Nel caso del cemento non adeguato il rischio per la sicurezza dell'impianto era notevole: secondo i test realizzati la base che sorregge il nucleo non avrebbe resistito alle sostanze corrosive nel corso dei 60 anni di durata della centrale.
I ritardi e i problemi accumulati nel cantiere finlandese mostrano nella loro crudezza i limiti degli impianti dell'European Pressurized Reactor, scelti dal governo e da Enel per il programma nucleare italiano. Accanto a questi preoccupanti problemi di sicurezza - che hanno fatto aumentare i costi in maniera esponenziale, annullando di fatto ogni vantaggio economico - i dubbi sulla cosiddetta terza generazione del nucleare compongono una lista lunghissima. Si va dal pericolo di espulsione delle barre del combustibile nucleare, al sistema di controllo, fino alla difficile gestione delle scorie radioattive: secondo la società Posiva, incaricata della gestione delle scorie dell'impianto finlandese, nei residui della fissione dei reattori Epr vi sarebbe un'alta quantità di Iodio 129, sostanza altamente radioattiva con una emivita di 16 milioni di anni.
La pessima esperienza del cantiere finlandese si aggrava guardando quanto sta accadendo in Francia, a Flamanville. Qui è la Edf - colosso del nucleare francese - ad essere coinvolta direttamente. Il 12 marzo del 2008 l'Agenzia nucleare francese ha scritto una lettera di fuoco al direttore del cantiere: «In particolare - spiegava nel report Thomas Houdré della Asn - dobbiamo rilevare che la struttura di acciaio è insufficiente». Non solo. La lunga lettera elenca diverse non conformità alle norme di sicurezza previste, chiedendo azioni urgenti alla società incaricata della costruzione. E anche in questo caso la conseguenza è l'aumento dei costi esponenziale, senza d'altra parte ottenere la piena conformità alle misure di sicurezza internazionali.
L'Enel guidata da Fulvio Conti ha firmato il 24 febbraio del 2009 un accordo con la Edf che prevede la realizzazione di quattro impianti Epr in Italia. Il coinvolgimento dell'azienda energetica italiana nella tecnologia francese è ai massimi livelli, con una partecipazione pari al 12,5% nel cantiere di Flamanville.
Le cifre fornite dall'Enel sugli impianti progettati per l'Italia, però, non tornano.
Secondo Conti ogni reattore dovrebbe costare circa 4,5 miliardi di euro, mentre alcuni analisti internazionali hanno stimato il costo minimo - salvo inconvenienti, di certo non rari - attorno ai 7 miliardi. Una differenza sostanziale, che fa sospettare accordi non del tutto trasparenti e alla luce del sole. Di certo c'è la constatazione che gli impianti Epr di terza generazione non potranno mai garantire la ventilata convenienza del nucleare, offrendo energia a costi estremamente elevati e con una filiera della sicurezza che fino ad oggi ha mostrato debolezze estremamente pericolose.

 

Gran Bretagna, il libro proibito

Il ministero della Difesa compra decine di migliaia di copie di un romanzo sull'Afghanistan che svela le brutalità dei soldati britannici

Un libro eretico, che va fatto sparire prima che possa provocare 'pericolose' conseguenze. 'Dead men risen', narrazione delle gesta delle Guardie Gallesi in combattimento, sottotitolato 'La vera storia della guerra britannica in Afghanistan', è il volume messo all'Indice dal ministero della Difesa di Sua Maestà. E' stato il generale Peter Wall, capo di Stato maggiore dell'Esercito, a sollevare il problema: acquistate tutte le stampe della prima edizione o ci saranno rischi per la sicurezza nazionale, un enorme imbarazzo politico, conseguenze per le elezioni in Estonia e il possibile ritiro delle truppe baltiche del Paese mediorientale.
Sono senza dubbio esagerazioni, ma hanno spinto il ministero della Difesa ad acquistare coi soldi dei contribuenti britannici migliaia di copie, spendendo circa 120mila euro per evitarne la pubblicazione nella versione originale. Un negoziato durato quattro mesi tra l'autore, Toby Harnden, il settore stampa e comunicazione dell'esercito e la casa editrice (la Quercus), durante il quale i militari volevano l'eliminazione di intere pagine del libro, ha portato invece alla cancellazione di cinquanta parole, ma la versione definitiva 'edulcorata' contiene comunque capitoli assai scomodi, che mettono sotto cattiva luce l'operato dei soldati del reggimento gallese.

Secondo quanto riporta il quotidiano Guardian, che ne ha ottenuta una copia, in Dead Men Risen vi sono resoconti dettagliati di episodi relativi all'uccisione di civili da parte dei militari britannici. Vi si descrive un agricoltore ucciso da un missile terra-aria, sei bambini da una bomba di 200 chili, altri cinque da un razzo lanciato da un Mirage francese chiamato in copertura dalle truppe britanniche. Ma uno degli eventi più brutali è rappresentato dalla cattura di sei talebani, addetti a piazzare ordigni esplosivi, da parte dell'esercito afghano. Gli inglesi erano impegnati nell'addestramento degli afghani, e un ufficiale delle guardie gallesi chiese a un sergente di vedere i prigioneri affinché potessero essere effettuate ricerce sui loro corpi, in cerca di esplosivo residuo, eventualmente incriminati e processati. Gli venne risposto che i prigionieri non c'erano più: tre di loro erano stati strangolati. Agli altri tre era stato sparato nella rotula, ed erano stati costretti a strisciare fino al loro villaggio perchè potessero raccontare cosa sarebbe successo a chi piazzava bombe contro i militari.

Il riferimento ai militari estoni riguarda invece l'incompetenza e la disorganizzazione che hanno contraddistinto le missioni internazionali. Appena arrivati a Camp Pimon, base britanica nella provincia di Helmand, i militari baltici volevano subito entrare in azione a Zorabad. Il capitano inglese Alex Bourne ammonì il caporale estone Toomas Mikk che sarebbe stata una missione suicida. Gli estoni partirono comunque il giorno dopo. Mikk fu crivellato di colpi pur riuscendo a sopravvivere, mentre i suoi uomini terrorizzati da ciò che si trovarono a fronteggiare. Una volta rimessosi, il caporale estone dichiarò che i talebani erano 'abili, impavidi e per nulla preoccupati dei massicci rinforzi giunti nell'area'. Dichiarazioni che certamente qualche generale avrebbe volentieri evitato di leggere.

Luca Galassi

 

16 marzo

 

Petrolio e dittature

 di Agostino Spataro

 

Il Presidente Obama s’inchina (un po’ troppo) dinnanzi al Re dell’Arabia Saudita

(foto: dal sito web “Il Jester”)

 

Sommario:

il potere petrolifero soffoca le istanze di democrazia; un più equo rapporto con i Paesi petroliferi; l’opinione pubblica fra indignazione e rassegnazione; qualità della vita: un privilegio solo per i paesi consumatori; si allarga la forbice fra consumi e produzioni; cresce il fabbisogno, calano le risorse proprie; il peso del petrolio libico; multinazionali: uno strapotere fuori controllo democratico; dittatori scomodi e dittatori amici.

 

 

1… IL POTERE PETROLIFERO SOFFOCA LE ISTANZE DI DEMOCRAZIA

Esiste una relazione di causa ed effetto fra petrolio e dittatura?

Esiste, e da sempre, in tutti i Paesi grandi esportatori d’idrocarburi. Ora, la crisi libica e più in generale le rivolte arabe la stanno facendo emergere con maggiore nettezza. Come un problema prioritario e urgente che richiede la necessità di una riflessione sulle condizioni di vita, sui diritti umani e di libertà nei principali paesi esportatori di petrolio.

Dall’esistenza di tale nefasta relazione discendono altre domande inquietanti e ineludibili:

perché fra petrolio e democrazia c’è antitesi? in che misura il potere “petrolifero”, locale e internazionale, condiziona l’economia, la politica, la finanza mondiali?

Da questi, ed altri, interrogativi insoluti derivano una sfilza di problema pratici per la vita di centinaia di milioni di uomini e donne che solo gli ipocriti e le penne servili fingono di non vedere.

Chiarisco che, qui, per “petrolio” s’intende, soprattutto, il potere derivato dalla sua gestione politica e finanziaria, a partire dalla ricerca (permessi) all’estrazione, dall’esportazione ai consumi finali, dagli incassi locali alla speculazione internazionale.

Una gestione quasi sempre dispotica, garantita da regimi autoritari, assolutistici che fanno del petrolio la loro principale merce di scambio con l’Occidente (ora anche con la Cina e l’India) e della rendita petrolifera la fonte di arricchimenti scandalosi e di un potere assoluto e arbitrario.

Per mantenere un simile “status quo” la dittatura si rende necessaria, magari accompagnata da un paternalismo corruttore che elargisce prebende e tangenti tutt’intorno.   

Come si può ben vedere nella sottostante tabella (n.1), tali processi non riguardano solo la Libia, ma la gran parte dei Paesi esportatori, arabi e no.

La Libia di Gheddafi fa parte dell’ingranaggio, ma non è sola in questo panorama desolante composto di Paesi dove la democrazia, il pluralismo o non esistono o sono solamente di facciata. Anche nell’Iraq del dopo- Saddam, grande esportatore di petrolio e importatore di democrazia.

Tab. 1

REGIMI POLITICI VIGENTI NEI PRIMI 10 PAESI OPEC ESPORTATORI PETROLIO (2011)

 

ARABIA SAUDITA

 

Indipendente dal 1932- Monarchia assoluta della tribù dei Saud. Non esistono la Costituzione né un Parlamento eletto

IRAN

 

Dal 1979, Repubblica islamica (teocratica) di tendenza sciita- Esiste il Parlamento. Le ultime elezioni politiche sono state contestate per brogli

EMIRATI ARABI

UNITI

Federazione di 7 emirati. Nel 2009, il consiglio degli emiri ha rieletto  all’unanimità presidente l’emiro Khalifa bin Zayid

 

NIGERIA

Ind. dal 1960- Repubblica pluriconfessionale. Nel 2007, il partito del presidente ha ottenuto l’85% dei voti. Nelle province del nord vige la legge islamica. Frequenti i massacri fra islamici e cristiani.

KUWAIT

 

Ind. dal 1961- Emirato da sempre governato dalla famiglia Al- Sabah.

ANGOLA

 

Ind. dal 1975- Repubblica popolare- dal 1979, presidente José Eduardo Dos Santos. Durissime guerre fra fazioni politiche e tribali.

ALGERIA

 

Ind. dal 1961- Repubblica popolare basata sul diritto islamico e francese- dal 1999 è presidente Abdelaziz Bouteflika, esponente del FLN.

LIBIA

 

Ind. dal 1951- fino al 1969 monarchia senussita- Dal 1969 Jamahiriya guidata dal colonnello Muammar Gheddafi.

VENEZUELA

 

Ind. dal 1811- Repubblica bolivariana- Presidente dal 1999 il colonnello Hugo Chavez.

 

IRAQ

Dal 1958 Repubblica. Nel 2003, occupazione militare occidentale, guidata dagli USA, ancora presente a ranghi ridotti. Governo di “unità nazionale” parziale (solo sciiti e kurdi)- Costituzione nel 2005, Parlamento eletto nel 2010.

(fonte: nostra ricostruzione su dati CIA- Central Intelligence Agency)

 

Quasi che fra petrolio e democrazia ci fosse uno iato, un’incompatibilità, evidentemente procurata.  

A parte la differenza di denominazione (petro- monarchie e “repubbliche ereditarie”), questi  Paesi si dividono fra quelli che passivamente onorano i lauti patti, purché ci sia regolarità all’incasso, e alcuni che di tanto in tanto fanno la voce grossa. A questi ultimi può capitare, com’è capitato più volte nella storia del petrolio, di essere risucchiati nel vortice del gioco fra le potenze, dei riequilibri del mercato e pertanto di entrare nel tritacarne della destabilizzazione, della guerra. Gli esempi non mancano: Iran (1952), Algeria, Iraq, e oggi, forse, la Libia; domani chissà se non di nuovo l’Iran, fino al Venezuela.

 

Tab. 2

ENTRATE E RISERVE PETROLIFERE PRIMI 10 PAESI OPEC ESPORTATORI (2010)

(valori in US $)

     Paese

 

Entrate Annue

(mld US $)

Entrate capita      (US $)

PIL capita (US $)

Riserve stimate  %  Mondo     

ARABIA Saudita

          184

      6.298

      23.742

  19,58

IRAN

            64

         959               

      11.024

  11,10

EAU

            61

    12.191

      36.973

    7,25

NIGERIA

            60

         415

        2.398

    2,69

KUWAIT

            52

    18.795

      38.293

    8,71

ANGOLA

            50

      3.824

        6.412

    0,67

ALGERIA

            50

      1.449

        7.103

    0,90

IRAQ

            43

 

      1.305

 

        n.d.

 

    9,10

LIBIA

            39

      6.124

      14.878

   3,24

VENEZUELA

            37

      1.358    

      11.889        .

  15,65   

 

           

      

       

   

OPEC Totale

         680

 

        1.814

 

(Fonte: nostra elaborazione su dati EIA, US Energy Information Administration)

  

2… UN PIU’ EQUO RAPPORTO CON I PAESI PETROLIFERI

In Occidente, in Italia, grande importatrice d’idrocarburi, la percezione delle realtà di questi Paesi è duplice o meglio inficiata da un senso di ipocrita doppiezza.

Da un lato le opinioni pubbliche, fortemente influenzate dai media, che s’indignano per gli aspetti immorali e dittatoriali dei regimi e dall’altro lato la società politica e, soprattutto, quella degli affari  che vanno diritte al sodo pur di garantirsi nuove forniture e quote di mercato sempre più appetibili.

Una doppia morale, dunque, un gioco di specchi concavi e convessi che dilatano o rimpiccioliscono le responsabilità diverse, ma in buona sostanza condivise. 

E’ inutile fingere! Tutti sappiamo che solo grazie a questi contratti, sottoscritti fra grandi multinazionali e longevi dittatori, possiamo assicurarci enormi quantitativi di petrolio a copertura del nostro crescente fabbisogno energetico.

Cinismo politico, corruzione, affarismo? Certo. Tuttavia, le grandi multinazionali dell’energia ci ricordano che al “momento” non esiste un’altra via praticabile per assicurarsi un approvvigionamento sicuro, costante e a prezzi sostenibili.

In linea teorica, ci sarebbero altre vie per un diverso rapporto di scambio con i paesi petroliferi, ma nessuno, fino ad oggi, le ha voluto percorrere.

Questo è il nodo stringente che soffoca la democrazia in tanti Paesi e che nessuno ha interesse di sciogliere. Almeno fino a quando gli idrocarburi costituiranno la base principale della nostra produzione energetica.

 

3… L’OPINIONE PUBBLICA FRA INDIGNAZIONE E RASSEGNAZIONE

D’altra parte, a parte gli annunci, poco si sta facendo per ridurre la forte dipendenza dal petrolio. Sia sul versante del risparmio energetico, sia su quello delle energie pulite e rinnovabili.

Insomma, vogliamo come si suol dire “la botte piena e la moglie ubriaca” ossia il massimo possibile di benessere e, al contempo, il diritto d’indignarci quando accade qualcosa “d’incivile” nei  Paesi nostri fornitori. Pura ipocrisia!

Accecati dalla nostra spocchia euro centrista, fingiamo di non vedere il nesso di causa ed effetto esistente fra petrolio e dittature; il ruolo decisivo giocato da questi despoti, corrotti e sanguinari quanto si vuole, che, però, continuano a soddisfare le nostre necessità.

Grazie a queste politiche, alle nostre disattenzioni è cresciuto, a dismisura, un potere petro-finanziario che condiziona le sorti politiche ed economiche del Pianeta.     

E guai a chi osa disturbare il manovratore!

Chi, avendone i mezzi, ci ha provato ci ha rimesso la carriera e talvolta anche la vita.

Le vie del petrolio sono molto scivolose e infide. Molti vi sono caduti. Anche in Italia vi potrebbero essere state vittime illustri: da Enrico Mattei, primo presidente dell’Eni, a Pier Paolo Pasolini, autore di “Petrolio”, come parrebbe dagli indizi acquisiti dalle nuove inchieste sulle loro morti violente.

 

4…QUALITA’ DELLA VITA: UN PRIVILEGIO SOLO PER I PAESI CONSUMATORI

Questo mio scritto non vuol essere un saggio sistemico o un’analisi dotta dei fattori…Bla, bla, bla.

Questo compito lo lascio volentieri ai competenti, agli studiosi ben retribuiti dai committenti e sempre ben ospitati dalle più prestigiose testate giornalistiche e televisive.

A me interessa soltanto tentare un approccio del problema-petrolio diverso rispetto ai modelli tradizionali, tentare un ragionamento di tipo introspettivo che, forse, ciascuno dovrebbe fare prima d’indignarsi per le nefandezze compiute da altri nei paesi dai quali provengono le nostre importazioni d’idrocarburi.

Poiché, a ben pensarci, il problema nasce da noi, dalle nostre esigenze, legittime o esorbitanti.

Per rendersene conto non sono necessari studi complessi: basterebbe rifletterci sopra, la mattina, davanti allo specchio, mentre ci si sbarba col rasoio elettrico.

Il rasoio elettrico, lo spazzolino elettrico, il fon, lo scaldabagno, la casa riscaldata o refrigerata secondo la stagione, una o più automobili in garage, ecc, ecc.

La chiamano “qualità della vita”. In realtà, è un privilegio cui può accedere solo una buona parte delle società occidentali.

A. Spataro “Il Mediterraneo tra conflitto e cooperazione” Edizione Centro Studi Mediterranei, 1990

 

Paradossalmente, da tale privilegio restano esclusi la gran parte degli abitanti dei Paesi nostri fornitori d’idrocarburi dove la qualità della vita è vicina allo zero.

Come se un coltivatore d’agrumi vietasse ai suoi figli di mangiare un’arancia del suo giardino perché la deve vendere al mercante. Incredibile, assurdo?

In realtà, così è fra le masse diseredate del mondo arabo e africano. Così è stato anche in Italia, in Sicilia, non molto tempo fa. Ricordo che, da bambino, un giorno, mi toccò ascoltare, fremente di rabbia, il figlio del capo dell’ufficio postale tessere le lodi delle carni, tenere e squisite, dell’unico nostro capretto, col quale giocavo spesso e volentieri, che mio padre aveva venduto al signor direttore.

 

5…SI ALLARGA LA FORBICE FRA CONSUMI E PRODUZIONE

Nel 2009, le più grandi potenze economiche e commerciali del Pianeta (Usa, UE, Cina, India, Brasile) hanno consumato 43,3 milioni di barili al giorno(mb/g) di petrolio contro una produzione propria complessiva di 18,5 mb/g. Con un saldo negativo, fra produzioni e consumi, di circa 25 milioni di b/g.

Tab. 3

PRINCIPALI PAESI PRODUTTORI E CONSUMATORI DI PETROLIO (Anno 2009)

 (valori in milioni di b/a)

                   

Produttori

      M b/g

di cui export

Consumatori

M b/g

RUSSIA

        10,1

        5,4

USA

       18,6

ARABIA Saudita

          9,7

        8,7

UE

       13,6

USA

          9,0

        1,7

CINA

         8,2

IRAN

          4,1

        2,4

GIAPPONE

         4,3

CINA

          3,9

        0,3

INDIA

         2,9

CANADA

          3,2

        n.d.

RUSSIA

         2,7

MESSICO

          3,0

        1,2

BRASILE

         2,4

EAU

          2,7

        2,7

ARABIA Saudita

         2,4

BRASILE

          2,5

        n.d.

COREA Sud

         2,1

KUWAIT

          2,4

        2,3

CANADA

         2,1

VENEZUELA

          2,4

        2,1

 

 

IRAQ

ALGERIA

LIBIA

NIGERIA

          2,3

          2,1

          1,7

          2,1

        1,9

        1,8

        1,5

        n.d.

 

 

(Fonte: nostra elaborazione su dati Cia, US Central Intelligency Agency)     

 

Un mare di petrolio che deve, comunque, arrivare nei nostri impianti, pena un’incontrollata impennata dei prezzi e il rallentamento drastico dell’economia.

Senza questi volumi importati, infatti, l’economia, la vita dei nostri Paesi si fermerebbero o, comunque, dovrebbero subire una pesante caduta di ritmo e del livello della qualità di vita.

Figuratevi se i nostri figli e nipoti accetterebbero una regressione così repentina che ci riporterebbe ai tempi dell’economia rurale primitiva: una roba non di tremila anni fa, ma una realtà che, almeno dalle mie parti, è esistita fino agli anni ’50 del secolo scorso.

Ogni tanto lo ricordo, ma quasi nessuno mi crede. Ci riprovo. A quei tempi, nel mio paese, non avevamo il gas né altri combustibili. Per accendere il lume si usava il “grassolio”, un sottoprodotto del petrolio, o l’olio d’oliva.

Non avendo legna, per alimentare il fuoco delle cucine si andava a cercare nei campi le “merdavuse” ossia le feci essiccate di bovini e equini che erano dei combustibili preziosi, ad elevato contenuto calorico. La cerca non era free, ma si poteva fare solo previa autorizzazione dei proprietari terrieri. Sì perché, allora, una cinquantina d’anni fa, in Sicilia, i padroni disponevano anche della merda animale.     

 

6…CRESCE IL FABBISOGNO, CALANO LE RISORSE PROPRIE

Per la gran massa dei poveri, braccianti e manovali, erano quelli tempi tristissimi.

La loro condizione è migliorata con l’arrivo delle prime rimesse degli emigrati e degli idrocarburi, sotto forma di gas in bombole e benzine.

Nonostante il grande balzo in avanti, il mio non vuol essere un elogio del petrolio il cui uso eccessivo tanti guasti ha provocato all’equilibrio ambientale e alla salute umana, ma solo una constatazione oggettiva della sua necessità, speriamo momentanea.

Comunque sia, il petrolio non è il combustibile del futuro. Sia a causa dei suoi effetti devastanti sull’ecosistema (e sulla democrazia) sia a causa del suo prevedibile esaurimento.

Le stime non concordano: vanno dal mezzo secolo al secolo intero. Questo sembra essere il tempo concesso all’umanità per affrancarsi da questa dipendenza.

Anche se le tragiche notizie delle esplosioni della centrale nucleare che giungono dal Giappone devastato dal terribile sisma ci dicono che non sarà agevole la via di fuoriuscita dagli idrocarburi.

Vedremo. Intanto un fatto è certo: per molti anni ancora, l’Occidente dovrà continuare a barcamenarsi tra un fabbisogno crescente di petrolio e un calo progressivo delle risorse proprie disponibili.

Tab. 4

________________________________________________________________________________

RISERVE PETROLIFERE STIMATE PRINCIPALI PAESI CONSUMATORI

(anno 2010)  Quota % mondo

USA                  1,58

CINA                1,19

BRASILE          0,94  

INDIA               0,42

EU                     0,42

________________________________________________________________________________

TOTALE          4, 55

 

(fonte: EIA, US Energy Information Administration)

 

7…IL PESO DEL PETROLIO LIBICO

Nasce da qui la corsa verso i paesi detentori delle riserve più rilevanti per accaparrarsi  permessi di ricerca, nuovi contratti pluri miliardari e stock importanti di petrolio e di gas.

Basta scorrere la lista dei primi dieci Paesi OPEC esportatori di petrolio(Tab. 2) per accorgersi dell’importanza strategica, vitale direi, che le riserve (accertate e/o stimate) di questi Paesi hanno per l’approvvigionamento futuro del mercato mondiale.

Abbiamo già notato che le 5 superpotenze commerciali accusano un deficit di 25 milioni di b/g.

E, fatto ancor più grave, anche per il futuro (50-60 anni?) dipenderanno dalle riserve dei Paesi Opec visto che le proprie sono irrisorie.

Insieme, Usa, Cina, Brasile, India e UE dispongono del 4,55% delle riserve mondiali di petrolio. Ossia un dato di poco maggiore delle riserve della sola Libia (3,24%) e circa la metà di quelle che le stime attribuiscono al piccolo emirato del Kuwait (8,71%).          

Oltre ai grandi giacimenti di gas (e di acqua sotterranea), da questi dati (di fonte USA) si evince  l’importanza delle produzioni e delle riserve libiche di petrolio, per altro di ottima qualità e di più agevole trasporto.

Inoltre, come si può osservare nel grafico sottostante, la Libia è di gran lunga il primo Paese dell’Africa per riserve petrolifere: ben 46 miliardi di barili contro i 4,4 dell’Egitto. 

Questa enorme ricchezza strategica credo un po’ spieghi le ragioni delle tante lotte ed intrighi per controllarla dall’esterno e dall’interno: dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969 all’attuale, improvvisata insurrezione armata della Cirenaica.

 

8… MULTINAZIONALI: UNO STRAPOTERE FUORI CONTROLLO

Il controllo del ciclo del petrolio è imperniato su due poli fortemente autoritari: il potere locale e quello delle grandi multinazionali euroamericane, russe e cinesi.

Entrambi i soggetti sanno perfettamente che da questa risorsa strategica, in esaurimento, dipendono le sorti dello sviluppo del pianeta per almeno un altro mezzo secolo.  

Sulla qualità di questo sviluppo ci sarebbe molto da opinare. Ma non è questa la sede.

La faccenda, comunque, ci riguarda da vicino, visto che l’Italia e in genere l’Occidente sono i consumatori finali della gran parte degli idrocarburi esportati. 

Per altro,l’Italia, a causa di una politica estera economica a dir poco disinvolta, accusa oggi una dipendenza eccessiva (46%) da regimi non certo campioni di democrazia come quelli della Russia di Putin e della Libia di Gheddafi.

 

 

Tuttavia, ad essere onesti, bisogna riconoscere che il problema o la contraddizione non riguarda soltanto questi due Paesi ma- ribadisco- tutti i principali esportatori d’idrocarburi.

E se, dunque, si volesse affrontarlo sul serio, non con le guerre ma con gli strumenti della politica e della diplomazia, bisognerebbe ampliare lo spettro delle nostre ipocrite indignazioni all’intero orizzonte delle petro- dittature.

 

9… DITTATORI SCOMODI E DITTATORI AMICI

Di converso, si richiede una verifica, una ridefinizione anche giuridica del ruolo straripante,  finanziario e politico, delle multinazionali del petrolio, per ridurre o eliminare l’influenza esercitata sulle forze politiche e sociali, sui media e perfino sui governi degli Stati.

Per altro, c’è da rilevare come in questo mondo anonimo, popolato di banche e società d’affari e di capitali, la regola è il dirigismo.

Non esiste, infatti, alcuna forma di democrazia partecipativa, a parte le assemblee dei soci che di solito ratificano, specie in presenza di buoni dividendi.

Mai il capitalismo finanziario, sovente parassitario, ha avuto tanto potere sul mondo!

La domanda che si pone è la seguente: possono queste potenze continuare a decidere i destini dell’umanità?

Nelle loro mani è concentrato un potere enorme, senza controllo democratico pubblico, spesso derivato da affari illeciti, e gestito sulla base dell’intesa oligopolistica (il cartello) per meglio dominare il mercato mondiale degli idrocarburi e condizionare i regimi dispotici e corrotti che li producono.

Fino a quando in questo campo le cose resteranno inalterate, sarà difficile sciogliere il grumo rappresentato dalla scandalosa combine petrolio/dittatura.

Se proprio lo si vuol fare, la via non è quella delle guerre preventive, umanitarie o d’altro tipo, disastrose quanto inconcludenti, che si vorrebbero scatenare, o solo minacciare, contro i dittatori scomodi, lasciando indisturbati i dittatori amici.

 

Joppolo Giancaxio (Agrigento) 16 marzo 2011.

 

Agostino Spataro, giornalista, direttore di “Informazioni online dal Mediterraneo” (www.infomedi.it), collaboratore di “la Repubblica”, è autore, fra gli altri, di:

Oltre il Canale-Ipotesi di cooperazione siculo-araba” (1986); “I Paesi del Golfo(1991);

“Il fondamentalismo islamico” (2001).

 

Nb. Diritti riservati. Si autorizza la pubblicazione, intera o in parte, di questo articolo purché si citino chiaramente i nomi dell’autore e della fonte: www.infomedi.it

 

Giappone, nucleare, 'chi rassicura racconta bugie'

Intervista a Hideki Ban, leader del movimento antinucleare

Hideki Ban è un attivista del movimento antinucleare giapponese, leader del Citizen's Nuclear Information Center (Cnic). Domenica, in una conferenza stampa, ha sostenuto che nonostante le rassicurazioni del suo governo e della Tokyo Electric Power Company (Tepco), è necessario monitorare costantemente l'area attorno la centrale di Fukushima e aggiornare la popolazione con trasparenza. Il Cnic sostiene infatti che, in passato, i dati forniti dalla stessa Tepco e relativi ai livelli di radiazioni uscite da alcune centrali, erano falsi.
PeaceReporter l'ha raggiunto telefonicamente.

Che cosa sta succedendo in questo momento nella centrale di Fukushima?

Adesso il problema si è esteso a tre reattori, ci sono state esplosioni nel reattore numero uno e nel numero tre. La fusione del nucleo è di fatto già parzialmente iniziata. Se - nel peggiore dei casi - si dovesse arrivare a una fusione completa, l'intera centrale potrebbe esplodere. La situazione che si verrebbe a creare in questo modo sarebbe molto simile a quella di Chernobyl.

E che cosa accadrebbe allora?

Se dovesse verificarsi un'esplosione nelle attuali condizioni, il territorio colpito potrebbe essere immenso, fino a 100-200 chilometri quadrati. In questo momento si stanno facendo grandi sforzi per impedire che questo accada, ma nel peggiore dei casi l'area colpita sarebbe veramente immensa, tanto da creare una situazione di emergenza persino nell'area urbana di Tokyo.

Che cosa risponde a coloro che dicono che il caso di Fukushima è isolato, e che il sistema di sicurezza delle altre centrali ha funzionato perfettamente?

Chi dice che il sistema di sicurezza delle centrali ha funzionato a dovere racconta bugie. Se vi fosse un fondamento a queste parole non ci troveremmo di fronte ad uno scenario - documentato da tutti i media - in cui una fusione del nucleo è di fatto avvenuta. Per questo non si può assolutamente dire che il sistema abbia funzionato secondo i piani. Anche se altre centrali hanno continuato regolarmente la propria attività, la popolazione si trova adesso a vivere in condizione di forte insicurezza dal momento che non sa quando e dove colpirà il prossimo incidente.

Ritiene che le notizie provenienti da Fukushima siano attendibili?

Non credo che il governo stia deliberatamente mentendo sulla situazione. Diciamo che, nonostante la situazione di forte confusione, le notizie diffuse finora sono corrette. Credo tuttavia che vi sia forte incertezza sullo sviluppo dell'attuale situazione.

Che significato ha secondo lei questo incidente per il mercato energetico giapponese?

Noi ci stiamo impegnando affinché vi sia un radicale ripensamento riguardo alle fonti energetiche. Si tratta di bloccare la produzione di energia nucleare e promuovere invece fonti di energia naturale come il settore fotovoltaico. Con un incidente di questa portata è assai probabile (ed è anche la nostra speranza) che la stretta dipendenza del Giappone dall'energia atomica abbia fine.

Cnic intende manifestare pubblicamente dopo quanto avvenuto a Fukushima?

Ci stiamo organizzando per attivare una serie di azioni di protesta. Adesso, a pochi giorni da una catastrofe così vasta come quella causata dallo Tsunami, non riteniamo che sia tuttavia il momento per scendere in piazza.

Fabio Ghelli

 

"Gelmini mente, private più ricche e 130mila posti in meno in 3 anni"

Risposta durissima della Cgil alle affermazione del ministro in tv: "I docenti sono stati falcidiati, i fondi in dieci anni sono crollati da 259 a 88 milioni mentre quelli per le paritarie sono raddoppiati". E il prossimo anno la scure si abbatterà ancora.

di SALVO INTRAVAIA

"La Gelmini "ribalta la realtà". L'uscita pubblica di ieri sera del ministro dell'Istruzione alla trasmissione "Che tempo che fa", condotta da Fabio Fazio, fa insorgere la Cgil e moltiplica le polemiche sulla scuola. Il ministro ha affermato sostanzialmente tre cose: che gli insegnanti in Italia sono troppi e che il governo si è limitato a contenere la pianta organica dei docenti; che ci sono più bidelli che carabinieri e le scuole restano sporche; che le manifestazioni di piazza a difesa della scuola pubblica sono poco credibili perché chi protesta poi manda i figli nelle paritarie.

"Siamo senza parole - commenta Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil - Una ministra senza credibilità e senza pudore, da un lato difende il presidente del consiglio quando attacca gli insegnanti e dall'altro si fa promotrice del miglioramento della qualità della scuola pubblica. Ma di quale qualità sta parlando Gelmini? I dati la smentiscono clamorosamente". E giù un lungo elenco di numeri. "Dal prossimo anno ci saranno 19 mila e 700 docenti e 14 mila 500 amministrativi in meno, che si aggiungono ai clamorosi tagli degli ultimi due anni. Altro che contenimento della pianta organica, come affermato dal ministro".

Ma la partita riguarda anche i finanziamenti alle paritarie, espressamente citate dal presidente Berlusconi nelle ultime settimane. "Le scelte politiche del governo di centro destra, in carica pressoché ininterrottamente

da 11 anni, hanno messo alle corde la scuola pubblica, impoverendola di fondi, insegnanti e personale ausiliario, tecnico e amministrativo: 130 mila posti in meno in tre anni", spiega la Cgil. Mentre i fondi per le scuole paritarie sono passati dai 297 milioni di euro del 2000 ai 528 del 2011. E le scuole statali? Gli stanziamenti per la legge 440/97, quella per il miglioramento dell'offerta formativa, sono crollati da 259 milioni, nel 2001, a quasi 88 nell'anno in corso.

Stesso discorso gli stanziamenti per il funzionamento didattico e amministrativo delle scuole: 331 milioni nel 2011 e 122 quest'anno. I dati Ocse 2010, poi - conclude Pantaleo - ci raccontano una realtà diversa: l'Italia investe meno nella scuola, il 4,5 per cento in rapporto al Pil contro una media del 5,7 per cento. E disinveste anche in ricerca e università pubblica. Le scuole sono in rosso e sono costrette a fare affidamento sui contributi volontari delle famiglie e mentre la scuola pubblica languiva, la scuola privata godeva dei finanziamenti statali pressoché inalterati".

 

Egitto, la rivoluzione comincia ora

Stefano Squarcina racconta a Peacereporter gli equilibri e i difficili negoziati di un Paese che cerca il ritorno alla democrazia

Il presidente Hosni Mubarak si è dimesso, piazza Tahrir si è svuotata e la rivoluzione egiziana è passata dalle strade alle stanze del potere, dove sono in corso i negoziati tra i rappresentanti delle forze d'opposizione e i militari, che rimangono il vero baricentro del sistema egiziano E tutto è diventato più opaco e meno decifrabile. Non è facile capire, ad un mese dalla caduta del Faraone, cosa stia accadendo dietro le quinte e a che punto sia la "rivoluzione". Peacereporter lo ha chiesto a Stefano Squarcina, consigliere politico del partito della Sinistra unitaria europea, appena rientrato a Bruxelles da una missione al Cairo, dove, spiega "la rivoluzione è appena cominciata".

A che punto è la transizione egiziana? Com'è il clima nel Paese?

Anche se tutto è relativamente calmo, è in atto uno scontro estremamente forte destinato a segnare il percorso di rifondazione democratica dell'Egitto. La cacciata di Mubarak è stato solo il primo passo di un processo di trasformazione radicale, speriamo, dell'Egitto ma non è detto che vada tutto a buon fine. I militari hanno assunto il comando politico del Paese ma un Egitto con i soldati al potere non è quello che vogliono i movimenti riuniti nel Comitato 25 gennaio, quello che ha gestito le manifestazioni di piazza Tahrir. Questi gruppi giovanili hanno coniato uno slogan che dice: "Abbiamo cacciato Mubarak, ora liquidiamo il mubarakismo", quel sistema di potere che è ancora in piedi e si è tradotto in uno stato di polizia. La rivoluzione, insomma, non è finita, è appena cominciata.

I militari hanno preso il potere promettendo di portare il Paese verso nuove elezioni entro sei mesi, per restituire il potere ai civili eppure lei parla di uno scontro in atto. Di che tipo?

Lo scontro in atto ha un carattere tattico: i militari stanno proponendo che il periodo transitorio che porterà alle nuove elezioni, duri al massimo sei mesi, mentre da parte dei movimenti rivoluzionari si chiede almeno un anno di tempo, per ricostruire la società civile egiziana. I militari, invece, mirano a chiudere rapidamente questa fase in modo che le forze dell'opposizione democratica non si possano organizzare. L'esercito ha assunto il comando politico del Paese ma un Egitto con i soldati al potere non è quello che vogliono i movimenti riuniti nel Comitato 25 gennaio, quello che ha gestito le manifestazioni di piazza Tahrir.

Sembrerebbe che ci sia una divaricazione tra le aspirazioni della piazza e quello che i militari sono disposti a concedere, è così?

Si, è proprio questo il punto. I militari hanno fatto cose molto importanti, come lo scioglimento del vecchio parlamento, la nomina di un nuovo governo, più rappresentativo delle istanze della piazza, l'arresto di fatto di Mubarak, il sequestro dei suoi beni. Hanno elaborato otto proposte di riforma della costituzione che il prossimo 19 marzo verranno sottoposte a referendum. Dall'altra parte, stanno cercando di salvaguardare il loro ruolo storico nella politica egiziana e soprattutto i loro privilegi economici.

Cosa vuole il popolo della rivoluzione?

L'apertura di un processo chiaro e trasparente che produca tre risultati fondamentali: le elezioni per un'Assemblea costituente, incaricata di elaborare una costituzione radicalmente nuova, perché gli emendamenti sui quali si voterà tra 10 giorni riguardano solo alcuni aspetti specifici che regoleranno il periodo transitorio. Poi, vogliono elezioni libere e democratiche, per le quali però non è ancora stata fissata nessuna data. Terzo punto, è il rinnovo completo del Parlamento. Tre obiettivi che necessitano di tappe intermedie, chieste a gran voce dalla popolazione, e cioè l'abolizione della legge sui partiti, della legge d'emergenza che è stata sospesa ma c'è ancora, della polizia politica e una riforma dei servizi segreti, responsabili della repressione e che sono ancora operativi, come dimostrano gli scontri di qualche giorno fa.

Chi parla con i militari? Chi partecipa ai negoziati?

Questa è una bella domanda e la risposta la dice lunga sull'atteggiamento dell'esercito. In questo momento, i soldati hanno un tipo di interlocuzione strategica con piazza Tahrir. Diciamo che spesso sentono rappresentanti del Comitato 25 Aprile ma, per quanto riguarda la preparazione del quadro istituzionale del nuovo Egitto, hanno solo due interlocutori: i Fratelli Musulmani, che non a caso hanno fatto parte del comitato ristretto che ha elaborato gli otto emendamenti costituzionali; il secondo è Amr Moussa, il Segretario generale della Lega Araba. Fino ad ora, non hanno mai incontrato o chiesto di incontrare l'opposizione politica come noi la intendiamo. Non esiste nessun negoziato ufficiale tra i militari e i partiti politici. Personalità come Mohammed El Baradei e Ayman Nour sono tenute da parte.

Moussa, a quanto pare, non ha ancora un partito di riferimento mentre i Fratelli Musulmani sono già un'organizzazione strutturata: come si stanno muovendo in questa fase di transizione?

Nel comitato ristretto, di cinque persone, che ha elaborato le modifiche costituzionali ci sono quattro militari e un esponente dei Fratelli Musulmani, invitato dopo che il gruppo aveva annunciato che non avrebbe partecipato alle elezioni presidenziali. Una parte della società civile comincia a sospettare di questo rapporto un po' complice tra i Fratelli e i militari, per andare velocemente alle elezioni e creare un cortocircuito nel processo di ricomposizione del mondo politico egiziano. Non a caso. il movimento giovanile dei Fratelli Musulmani, che fa parte del Comitato 25 Gennaio, sta contestando la leadership dell'organizzazione, la quale a sua volta ha annunciato la formazione di un nuovo partito per partecipare alle prossime politiche, il Partito per la libertà e la giustizia, che sembra avere come modello l'Akp del premier turco Tayyip Erdogan.

Politica a parte, che Egitto ha trovato? Com'è la gestione del quotidiano da parte dell'esercito?

La situazione è relativamente normale, a parte il centro del Cairo e in particolare piazza Tahrir, dove ci sono manifestazioni continue, il resto del Paese si sta mettendo in moto, anche se ci sono ancora i segni della recente tempesta, come il coprifuoco che è in vigore da mezzanotte alle sei del mattino. L'Egitto non è bloccato, sta tornando alla normalità ma, attenzione, la tensione è alta, perché alta è la posta in gioco è alta e i ragazzi, ogni volta che succede qualcosa, tornano in piazza.

Alberto Tundo

 

8 marzo

 

Un prete argentino condannato

Por opinar distinto

di Agostino Spataro

Il reverendo padre José Nicolas Alessio

 A proposito di diritti negati, violati alla democrazia, alla libertà di espressione, sentite cos’è capitato, nei giorni scorsi, a un prete argentino, Nicolas Alessio, di 53 anni.

Il fatto è accaduto nella bellissima città di Cordoba dove il Tribunale interdiocesano lo ha  condannato e cacciato dalla Chiesa e dalla casa parrocchiale, nella quale abitava da 27 anni,  per avere egli espresso un’opinione differente (opinar distinto) dalla posizione ufficiale della gerarchia cattolica a proposito delle legge (argentina) che autorizza il matrimonio gay.

Si stenta a crederci, ma così è stato. Come, ieri (7/3/11) informava il “Clarin, il più diffuso quotidiano di Buenos Aires, che riportava anche brani della sentenza sanfedista. 

“Il presbitero José Nicolas Alessio ha commesso rifiuto pertinace della dottrina….relativa al sacramento del matrimonio…” E fatto ancor più grave: “Ha divulgato il suo pensiero per iscritto e con la parola, attraverso i media di comunicazione, contro il magistero ecclesiastico…” 

Questa la colpa alla quale è seguita la condanna: “Si proibisce (al condannato n.d.r) di esercitare in pubblico la sacra potestà, di celebrare la Santissima Eucaristia, la confessione e altri sacramenti e di risiedere nella casa parrocchiale San Gaetano del barrio Altamira…”

Una sentenza grave, anzi gravissima, solo per avere espresso in pubblico un’opinione diversa o divergente. Se l’avesse tenuta per se, come fanno la gran parte dei suoi confratelli, l’avrebbe evitata. Capirete che in altri tempi, con un giudizio simile, il povero prete sarebbe finito dritto dritto sul rogo. Per questo, credenti e no, non dovremmo mai smettere di difendere e rafforzare i principi laici introdotti dalla Rivoluzione francese che, oggi, taluni vorrebbero annichilire e liquidare.  

Ma torniamo al padre Alessio il quale, conoscendo l’ambiente che lo sovrastava, certo si aspettava una sanzione, ma non così rapida e soprattutto così pesante.

“Mi hanno condannato ed espulso per avere espresso un pensiero diverso.”

Por opinar distinto, per l’appunto.

“E tenga conto che questa stessa Chiesa non ha nemmeno ammonito sacerdoti pederasti come il Vescovo (Edgardo Gabriel Storni), che vive comodamente qui in La Falda, o Julio Cesar Grassi, entrambi con condanna giudiziale per abuso sui minori. Non è stato sanzionato nemmeno Christian von Wermich, condannato per delitti di lesa umanità…Questa Chiesa tollera nelle sue fila i torturatori e i violentatori, ma non chi pensa in modo differente e osa dirlo in pubblico.”

Specialmente se esternato, il dissenso diventa imperdonabile; i tribunali ecclesiastici lo devono sanzionare per dare una lezione al reprobo e un esempio ad altri che potrebbero imitarlo.

“Nella Chiesa il nucleo del potere risiede nell’occultamento- sostiene padre Alessio nell’intervista- Mi hanno condannato perché ho parlato in pubblico, perché la Chiesa è maestra nell’occultare, nel maneggiare l’impunità del silenzio. Il matrimonio gay li disturba perché è legato alla sessualità. Loro continuano a considerare inferme o perverse le persone gay…”

Il condannato se la prende anche col cardinale Bergoglio, massima autorità della Chiesa argentina, il quale “ a ottobre, nel bel mezzo del confronto delle opinioni, in una lettera ai monaci parlava di lotta contro “il maligno”, contro “il diavolo”: come nel Medioevo. Una regressione incredibile verso l’Inquisizione. Impensabile in pieno 21° secolo”.

“Todo in terminos de Guerra Santa…” parole dure che, specie se dette in castigliano, evocano gli scritti e il pensiero di Leonardo Sciascia.

E qui mi fermo. Penso che i brani citati bastino a rendere l’idea.

Ciascuno valuti da se stesso, intimamente, ma faccia i conti in pubblico, ne parli con altri, credenti o meno, poiché la libertà di opinare in qualsiasi campo è un bene supremo che appartiene a tutti, indistintamente, e nessuno può menomarla o addirittura conculcarla.

Insomma, massimo rispetto per la religione cattolica, così come per le altre, ma non per pratiche così anacronistiche e inquietanti.

Se la storia e la sapienza servono a qualcosa, dovremo ricordarci che nel ‘700 visse in Francia un grande filosofo e giurista, allievo e ammiratore dei Gesuiti, tale Francois-Marie Arouet, più noto col nome di Voltaire, che scrisse (“Trattato sulla tolleranza”) sull’argomento parole memorabili che meritano di essere scolpite, obbligatoriamente, nei luoghi pubblici:

“Io non approvo quel che tu dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di poterlo dire”

 

Anno record di morti in Afghanistan

Circa 2800 vittime civili nel 2010

Il 75% ucciso da telebani e ribelli
Il 16% per mano degli alleati

KABUL
Con circa 2.800 morti, il 2010 è stato l'anno in cui sono morti più civili in Afghanistan dall'inizio dell'offensiva contro i talebani nel 2001. Lo rivela il rapporto annuale dell'Unama, la missione Onu di assistenza all'Afghanistan, e della commissione indipendente afghana per i diritti umani.

Le vittime civili del 2010 nel paese asiatico sono state 2.777, con un aumento del 15% rispetto all'anno precedente. I ribelli, i talebani e altri gruppi fondamentalisti sono direttamente responsabili della morte del 75% di questi civili, secondo quanto si legge sul rapporto. Per il 16% delle vittime, invece, la responsabilità è da attribuire alle forze internazionali e afgane. L'Onu e la commissione afgana non sono state in grado di attribuire responsabilità per il 9% dei civili deceduti.

L'inchiesta ha rilevato che 1.141 civili sono morti in attentati suicidi ed esplosioni di ordigni artigianali, mentre altre 171 persone sono morte in raid aerei delle forze alleate.

 

Obama, promesse da marinaio

Il presidente Usa allunga la detenzione dei prigioneri di Guantanamo, ritrattando la sua stessa decisione di chiudere il carcere 'entro il 2010'

La prigione di Guantanamo ha indebolito la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e va quindi chiusa". Con queste parole, il 21 maggio 2009, il presidente Usa Barack Obama annunciava che entro un anno il carcere sull'isola cubana avrebbe chiuso i battenti. Oggi, il presidente Usa fa un clamoroso dietrofront. Obama ha infatti firmato un ordine esecutivo che istituisce un sistema di detenzione a tempo indeterminato per i prigionieri, ritenuti una minaccia costante alla sicurezza nazionale statunitense.

Nel suo discorso Obama ha anche annunciato la creazione di nuovi tribunali militari dove processare i detenuti. Decisioni che arrivano a oltre due anni da quell'ordine esecutivo, siglato da Obama immediatamente dopo il suo insediamento, con cui il capo della Casa Bianca si impegnava a smantellare Guantanamo Bay: "Il presidente è ancora intenzionato a chiudere quella prigione", hanno spiegato ieri i funzionari dell'amministrazione, senza che però Obama nel suo intervento di ieri facesse alcun riferimento alla parola data quasi due anni fa. Su questo drastico cambio di linea della Casa Bianca - che negli ultimi due anni si è scontrata con un'opposizione bipartisan alla chiusura di Guantanamo da parte del Congresso - l'opinionista del Washington Post, Dana Milbank ha così commentato:"Il presidente Obama ha iniziato il suo mandato con la promessa di chiudere in dodici mesi il carcere militare di Guantanamo Bay, di lì a poco il capo della Casa Bianca ha capito che il suo progetto era impossibile da realizzare e adesso ha sostanzialmente formalizzato la politica detentiva del suo predecessore, George Bush". Ma la contraddizione di Obama, aggiunge Milbank, non è solo quella di aver di fatto legittimato una politica che aveva annunciato di non voler seguire, ma quella di continuare a sostenere di essere coerente: "Questo ordine esecutivo fa esattamente quello che Obama aveva detto di non dover fare, nello stile caro al suo predecessore", aggiunge sarcastico l'opinionista.

Le critiche a Obama non sono mancate neanche dall'organizzazione per la tutela dei diritti civili più importante d'America, la Aclu (American Civil Liberties Union), il cui direttore esecutivo Anthony D. Romero, interpellato da PeaceReporter, ha dichiarato che esiste un sistema penale federale per giudicare i terroristi, e non deve essere un tribunale militare a farlo. "Il modo migliore per risolvere la questione è di utilizzare lo strumento più affidabile ed efficace che abbiamo, ovvero il nostro sistema giuridico. Invece, purtroppo, l'amministrazione Obama ha fatto l'opposto, scegliendo di istituzionalizzare la detenzione a tempo indefinito, creando un precedente pericoloso, e di ridare vita alle commissioni militari". Per Romero "è virtualmente impossibile immaginare come si possa arrivare a chiudere il carcere una volta emesso questo ordine esecutivo. In quasi due anni, l'amministrazione Obama ha fatto un voltafaccia completo".

Luca Galassi

 

Spagna condannata per tortura

Spagna condannata dal Tribunale dei Diritti umani di Strasburgo per non indagare su un caso di tortura

La sentenza è stata resa nota oggi. Il caso è quello di Aritz Beristain, giovane basco arrestato insieme a una decina di giovani nel settembre del 2002 per episodi di guerriglia urbana , la cosiddetta Kale borroka. Il corpo di sicurezza che viene accusato è la Guardia civil. Beristain presentò una denuncia dopo il periodo di incomunicacion (cinque giorni senza assistenza legale prorogabili per ordine di un magistrato). Secondo il racconto del giovane gli agenti lo picchiarono procurandogli una ferita all'altezza della mandibola. Il giovane, in effetti, fu trasportato in ospedale dove gli riscontrarono una ferita lineare di 1.5 centimetri sul lato destro del viso. Nel tragitto fra San Sebastian e Madrid (i detenuti non possono essere giudicati da tribunali baschi, ma devono passare dall' Audiencia nacional competente per reati di terrorismo) il giovane ha denunciato di essere stato sottoposto alla bolsa (una specie di guaina in gomma che viene applicata sul viso in modo tale da provocare asfissia), di aver ricevuto minacce contro la famiglia, di aver ricevuto colpi con una pistola arrivato ormai a Madrid e sempre in un luogo della capitale di essere stato violentato, con l'introduzione di un oggetto nell'ano.

Il Tribunale europeo scrive che i diritti all'integrità fisica e psicologica di Beristain sono stati violati, oltre al fatto di trovarsi in una situazione in cui non è stata garantita la protezione oggettiva dovuta da giudici e tribunali. Indica, inoltre, che i referti medici elaborati nei giorni di arresto preventivo riportavano notizie di lesioni, ma che non fu svolta nessuna attività di indagine supplementare.

"Quando una persona denuncia di aver sofferto per mano della polizia o di altri servizi dello Stato, gravi danni è doverosa una indagine ufficiale", scrive la corte. Il tribunale ha condannato lo Stato spagnola a una multa di 23mila euro.

Il caso di Aritz Beristain fa notizia in maniera paradossale: sono centinaia le denunce di tortura che non arrivano nemmeno all'udienza preliminare in Spagna. Più volte organizzazioni internazionali e umanitarie hanno chiesto una riforma della legge antiterrorista, che nei cinque giorni prorogabili di incomunicacion permette che chi viene fermato venga lasciato in un limbo giuridico in cui è impossibile verificare quali siano i trattamenti messi in atto dagli agenti. Le denunce riguardano anche i cosiddetti 'avvocati di ufficio' che nella quasi totalità dei casi non osano denunciare gli effetti visibili delle denunce, con una omertà che copre i responsabili delle torture.

Il terrore che viene utilizzato dai corpi antiterrorismo della Guardia civil è lo strumento principale per ottenere la firma del fermato in fondo a un documento auto-accusatorio, in cui spesso la vittima cede psicologicamente e fisicamente arrivando a sottoscrivere dichiarazioni in cui, oltre a ad accusare sé stesso, accusa anche altre persone. Un ciclo che si propaga senza possibilità di interruzione. Il giudice Baltasar Garzon, bestia nera del nazionalismo basco, solo dopo lunghi anni arrivò a formulare una richiesta di videoregistrazione degli interrogatori. Un meccanismo che non è mai stato attuato nelle celle delle caserme della Guardia civil.

L'associazione basca contro la tortura ha denunciato che nel caso delle donne che vengono fermate e torturate, il 100 per cento dei casi dichiara di aver subito violenze di tipo sessuale o sessista.

da Cronache basche, di Matteo Scanni e Angelo Miotto

 

Rai, il premier dilaga nei Tg: a gennaio 402 minuti

I dati del monitoraggio effettuato dall'Osservatorio di Pavia sui tre telegiornali del servizio pubblico: il Cavaliere "doppia" l'intera opposizione, per Bersani 70', per Napolitano 169

di LEANDRO PALESTINI

ROMA - Silvio Berlusconi invade i tg Rai. Il servizio pubblico non garantisce più il pluralismo politico attraverso i suoi telegiornali. E' il risultato del monitoraggio di Tg1, Tg2 e Tg3 fatto dall'Osservatorio di Pavia nel mese di gennaio: il presidente del Consiglio ha totalizzato 6 ore e quaranta minuti di presenza in video, tutti gli altri leader politici messi insieme hanno la metà del suo tempo. Il Presidente della Repubblica Napolitano ottiene solo 169 minuti nei tg di Stato, contro i 402 minuti del premier.

"Il presidente del Consiglio risulta primo in ogni classifica e distanzia clamorosamente tutti gli altri leader politici. Questo primato vale per i tg del prime time, per l'insieme dei telegiornali per il tempo di parola e per il più ampio tempo di antenna", commenta Roberto Zaccaria (Pd) che denuncia da tempo il forte squilibrio nel pluralismo dell'informazione. "In tutti i telegiornali Berlusconi ha un tempo totale di oltre 400 minuti, contro i 72 di Bersani, i 54 di Casini, i 48 di Fini e i 25 di Di Pietro", spiega Zaccaria citando i numeri dell'Osservatorio, aggiungendo che "questi dati non tengono conto dei conteggi relativi ai videomessaggi e agli audio messaggi sui quali l'Agcom dovrebbe presto pronunciarsi, soprattutto in ordine alla loro natura pubblicitaria o informativa".

Roberto Rao, capogruppo Udc in Vigilanza, legge con allarme i dati dell'Osservatorio. "Non ci scandalizza che il tg1 di Minzolini sia governativo. Al di là dello spazio garantito alle opposizioni e ai minuti dati a Berlusconi, a impressionare è il fatto è che nei tg ci sono ormai tutte le voci del Pdl", segnala Rao: "Da La Russa a Gasparri, da Cicchitto a Frattini, i tg Rai danno uno spazio abnorme alla maggioranza".

Ma Giorgio Lainati (Pdl) vicepresidente della Vigilanza, la vede diversamente. "Non ho visto gli ultimi dati dell'Osservatorio di Pavia, un istituto universitario di grande professionalità, ma credo ma credo il problema vada visto da una diversa angolatura", commenta Lainati. "Io non contesto quei dati. Ma penso che la comparazione vada fatta tra i tg e i programmi di approfondimento. Può essere che Vendola non si veda molto nei Tg, ma poi totalizza due ore e passa con "Annozero". E che dire di un partito "virtuale" come il Fli di Fini che, da Mirabello in poi, era ovunque in Rai perché alzava la critica contro Berlusconi?". Quindi, "a differenza di Zaccaria, io dico che sommando le uscite di Bersani, Fini e Casini nei vari "Ballarò", le cifre darebbero ragione a chi, come noi del Pdl, propone di bilanciare l'insieme dell'informazione. Non solo i tg".

 

7 marzo

Alessandro Robecchi

L'Italia che non valorizza Bondi

È proprio vero che l'Italia non valorizza il suo patrimonio artistico. Guardate il ministro Sandro Bondi, nonostante sia stato più volte transennato e puntellato dalla maggioranza, alla fine non ha evitato il cedimento strutturale. Ora se ne va, ci lascia con una certezza difficile da scalfire: non ci mancherà. Lui, povera stella, giustifica il suo totale nullismo ministeriale con l'insensibilità dell'universo. Il mondo della cultura «di sinistra» non l'ha cagato nemmeno un po'. Il mondo della cultura «liberale» (ah, ah, ndr) non si è aggregato attorno a lui. Intanto gli è crollata addosso Pompei, qualche affaruccio famigliare è finito sui giornali, i tagli di Tremonti (quello che «la cultura non si mangia») hanno fatto il resto. Si è fatta strada nel Paese la convinzione che avere un ministro della cultura come Bondi, o non averlo, o avere al suo posto un grizzly degli Appalachi è esattamente la stessa cosa, e forse un po' meglio, dato che i grizzly non scrivono disgustose poesiole.

Eppure la triste storia del triste Bondi ci dice qualcosa del potere in Italia, dove potere significa Silvio Berlusconi. Finiti i tempi in cui bastava la piaggeria. Oggi dire «il duce ha sempre ragione» e comporre sonetti in sua lode non basta più. Ora bisogna attivarsi, presentarsi al cospetto del sovrano almeno con un disegnino di legge che lo cavi dai guai, o con la macchina dai vetri oscurati piena di ragazze, o con lo scalpo di qualche deputato razziato alle tribù vicine. Fatti, non parole. «Non ho convinto il governo del ruolo chiave che ha la cultura», ha detto, con inconsapevole umorismo. Cultura? Ruolo chiave? Ma che dice, Bondi! Porti una leggina ad personam. Porti due donzelle vestite da infermiere, oppure un «responsabile» nuovo di zecca, e vedrà la sua stella brillare di nuovo.

Comunque, grazie di tutto, si libera un posto per l'atteso rimpasto: Scilipoti, o Lele Mora, o il Gabibbo, o qualche ex del Grande Fratello, oppure, per risollevare la nostra immagine all'estero, Barbareschi o Topo Gigio. I talenti non mancano e, se sono uomini, possono pure restare vestiti

 

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