27 luglio

 

La Questura da ricostruire, un pastrocchio tutto italiano

Le opere post-sisma. Ieri la Procura ha notificato avvisi di garanzia a dirigenti pubblici in seguito alle indagini su una vicenda di appalti affidati senza gara. Che lievitano del 450%. E poi finiscono nelle mani di aziende legate alla politica

di GIUSEPPE CAPORALE

L'AQUILA - C'è un pastrocchio tutto italiano nella storia della ricostruzione della Questura dell'Aquila. Un pastrocchio scritto nelle carte della Procura della Repubblica che ieri ha notificato gli avvisi di garanzia a dirigenti pubblici - tra cui l'ex provveditore alle Opere pubbliche di Lazio, Abruzzo e Sardegna, Giovanni Guglielmi. Una storia di appalti affidati senza gara - che lievitano del 450% - e poi finiscono nelle mani di aziende legate alla politica.

I lavori per il palazzo della Polizia gravemente lesionato dal terremoto, almeno all'inizio, dovevano costare 3 milioni di euro. Come da preventivo della società Inteco spa - la stessa che aveva ricevuto, con procedura d'urgenza, anche l'affidamento del puntellamento della struttura appena dopo il sisma. Senza gara, ma con affidamento diretto da parte dello Stato, vista "l'urgenza" della ricostruzione post-sisma. Poi però la Inteco ha presentato via via un conto diverso. I numeri sono lievitati clamorosamente, fino ad arrivare a un preventivo di spesa di 18 milioni di euro.

A bloccare la super lievitazione del prezzo è intervenuta la Corte dei Conti - sezione Controllo lavori pubblici - che ha segnalato l'anomalia della procedura, invitato il provveditorato a revocare l'affidamento diretto e a procedere con gara d'appalto. La Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti ha rilevato che l'incremento dei costi denota una modifica sostanziale dell'oggetto contrattuale, con una procedura in deroga "omissiva di qualsiasi competizione

concorrenziale". Mettendo in evidenza che i nuovi lavori senza pubblicazione del bando e gara non sono "connotati da elementi emergenziali", visto che si tratta della ricostruzione in toto di un'opera pubblica, il nuovo contratto appariva come "un'originale modalità di individuazione del contraente". Non solo, i giudici contabili hanno poi inviato le carte anche alla Procura della Repubblica. Il pm Stefano Gallo ha aperto un'indagine coadiuvato dagli uomini della Guardia di Finanza dell'Aquila. E ieri - a conclusione delle indagini - sono arrivati gli avvisi di garanzia. Nove in tutto. L'accusa, per tutti, è di abuso d'ufficio.

Gli indagati sono Giuliano Genitti, Lorenzo De Feo, ingegneri, Carlo Clementi, dirigente pubblico, attualmente in servizio nel capoluogo; Giovanni Guglielmi, ex provveditore; con loro, quattro esponenti interni ed esterni del comitato tecnico amministrativo, tutti provenienti da Roma; infine, il rappresentante legale della ditta Inteco Spa, che aveva ricevuto inizialmente l'affidamento diretto dei lavori, poi ritirato. E la questura? La gara pubblica che si è - regolarmente - svolta alcuni mesi fa è stata vinta dalla società Nicando srl (amministrata da Giuseppina Patriciello, sorella dell'europarlamentare del Pdl Aldo Patriciello). Gara vinta con un ribasso del 47%. Base d'asta quasi dieci milioni, offerta della Nicando di 4 milioni e 600 mila euro circa. Quindi da 3 milioni - poi arrivati a 18 - ora ricostruire la Questura dell'Aquila costerà quasi 5 milioni.

Se tutto procederà per il verso giusto i lavori saranno terminati entro un anno. Ma la famiglia Patriciello - ora affidataria dei lavori - con le costruzioni ha già un procedimento penale in corso per "cemento scadente". Il 24 febbraio del 2011 Aldo Patriciello, Europarlamentare del Pdl, è stato rinviato a giudizio dal gup di Isernia con l'accusa di falso ideologico, truffa e frode in pubbliche forniture. Secondo gli inquirenti molisani, Patriciello assieme al fratello Gaetano nel 2004 avrebbe fornito all'impresa Aldani di Bologna (titolare dell'appalto per la costruzione del primo lotto dell'autostrada San Vittore-Termoli) calcestruzzo scadente da utilizzare per la costruzione dei pilastri di un viadotto. L'inchiesta venne ribattezzata "Piedi d'Argilla".

Sfrattati, soli e senza soldi, la parabola discendente dei pentiti

Oltre 90 hanno perso la casa e vivono in conventi o sistemazioni di fortuna. E mancano anche i fondi per farli deporre ai processi. "Prima ci hanno spremuti poi buttati"

di ATTILIO BOLZONI

Coccolati alla bisogna, assecondati nelle loro bizze, per un bel po' qualcuno li ha creduti in tutto e per tutto. Erano le voci della verità. Quando non sono serviti più li hanno buttati via. Si sa, lo Stato italiano ha sempre avuto la memoria corta. Pentiti. A Palermo, quasi trent'anni fa era parola d'offesa. Come cornuto e sbirro. Se volevi insultare qualcuno dicevi: "Sei un Buscetta". O lo apostrofavi proprio in quel modo: pentito. Il capo dei capi di Cosa Nostra quando parlava di loro scandiva le sillabe - pen-ti-ti - e si difendeva raccontando che "quelli camminano mani per mani e sono tutta una bugiarderia". Giulio Andreotti - ce n'erano trentasette che lo accusavano - rispondeva a tutti loro così: "Vendono bufale a rate". Uno, Leonardo Messina, alla fine dell'estate del 1992 giurò che il divo Giulio era addirittura 'punciuto', cioè non un semplice simpatizzante ma un affiliato alle famiglie mafiose. Allora, se ne parlò tanto di quella rivelazione. Se Leonardo Messina la dovesse ripetere oggi, lo chiuderebbero in un manicomio giudiziario e getterebbero la chiave a mare.

In Italia, è andata come è andata anche con i pentiti. Osannati prima, "schifiati", disprezzati poi. Qualcuno di loro ha retto al cambio di passo dello Stato e qualcun altro s'è spezzato. In verità tutti, venendo da dove venivano, lo immaginavano che sarebbe finita così. Nell'abbandono, nella solitudine di chi ha scelto di buttarsi dall'altra parte. Ripudiati da mogli e perfino da madri ("Io non li ho mai partoriti quegli infami", gridò nel quartiere palermitano dello Sperone Marianna, quando i suoi due figli Emanuele e Filippo Di Pasquale si consegnarono agli agenti della Dia), spremuti dallo Stato e poi lasciati al loro destino.

È capitato perfino a Francesco Marino Mannoia, il primo dei "corleonesi" a collaborare alla fine del 1989 con il giudice Falcone, uno che aveva raccontato come funzionava il traffico di droga fra la Sicilia e gli States (lui stesso aveva imparato a raffinare la morfina base da corsi e marsigliesi) e che poi era finito nelle mani degli americani e trattato con i guanti gialli per un ventennio. Figuriamoci la sorte degli altri. Quelli semi sconosciuti e usati per incastrare il boss di un paese, quelli che non si chiamano Giovanni Brusca o Nino Giuffrè, nomi del firmamento mafioso.
Per esempio è solo di qualche giorno fa la notizia che proprio uno dei collaboratori di giustizia più ignoti, un certo Roberto Spampinato di Catania, è stato sfrattato dall'abitazione dove era agli arresti domiciliari. Insomma non può scontare neanche la sua pena perché - come ha scritto il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma, "non ha più una fissa dimora". Non ha più casa perché lo Stato non paga il suo affitto. Sono in tutto 90 i pentiti sfrattati nell'ultimo anno. Le casse del Servizio centrale di protezione sono vuote. È il crac. Alcuni sono stati dirottati in comunità religiose - conventi di suore - che li hanno accolti, altri hanno raggiunto senza auto blindata (non c'erano soldi per la benzina) la Calabria, altri ancora hanno perso l'assistenza sanitaria. E poi i loro avvocati, da un anno lavorano gratis: non ricevono più gli onorari. Lo Stato non paga nemmeno loro. Lo Stato non è più in grado di rispettare il patto che aveva fatto con quei mafiosi che avevano deciso di stare con la giustizia.

I fondi per i collaboratori erano 70 milioni di euro nel 2006 e 52 milioni nel 2008, 49 milioni nel 2010 e 34 in questo 2011. Un taglio del cinquanta per cento in cinque anni che di fatto sta mettendo in pericolo molti processi di mafia, 'ndrangheta e camorra. "Anticipiamo soldi di viaggi e alberghi, i collaboratori non vanno a colloquio nemmeno con i loro familiari perché al servizio di protezione non hanno il denaro per i trasferimenti", racconta Mariella Di Cesare, un avvocato che assiste i napoletani Giuseppe Sarno e Paolo Di Grazia e il casalese Luigi Guida.

Lo Stato non paga l'affitto ma se ne frega anche del resto. C'è un romeno, Alexandru Bodnariu - pentito di un'associazione mafiosa che regnava su Santa Maria Capua Vetere - che da mesi chiede le carte per iscriversi all'Università ma il Servizio di protezione neanche gli risponde. "Nel Servizio di protezione ci sono anche persone molto responsabili che cercano di risolvere i grandi problemi che ci sono ma è il sistema che è al collasso, lo Stato ignora le esigenze primarie di queste persone", denuncia Monica Genovese, avvocata palermitana che difende Santino Di Matteo - uno dei pentiti della strage di Capaci - e una dozzina di collaboratori di ultima generazione. Uomini che vivono con 1200 euro al mese insieme a moglie e due figli ma che ricevono lo stipendio con settimane di ritardo. O che si ritrovano con la luce tagliata a casa perché chi deve pagare non paga. O che sono costretti, per una testimonianza, a fare su e giù per l'Italia per 48 ore perché lo Stato non può permettersi un pernottamento in un albergo.

L'altro venerdì si è impiccato un esattore del "pizzo" della famiglia palermitana della Guadagna. Si chiamava Giuseppe Di Maio, la moglie l'aveva lasciato perché "spione". Non ce l'ha fatta e se n'è andato per sempre. Qualche giorno prima un altro pentito siciliano ha detto quello che pensava. Era in udienza, a Roma. Ha chiesto la parola e poi ha cominciato a parlare: "Se voi lasciate soli i collaboratori non date un buon esempio perché la mafia non li lascia mai soli i mafiosi. Cosa Nostra assicura uno stipendio ai carcerati e ai loro familiari, paga anche gli onorari agli avvocati. Io vengo qua perché sono pentito dentro, altrimenti dovrei solo scappare da questo Stato". Manuel Pasta, mafioso della famiglia di Resuttana Colli, Palermo.

 

Non è un Paese per disabili. Ledha: “Un insegnante di sostegno ogni tre alunni”

Allarme della Ledha: “A rischio l'inclusione delle persone con disabilità”. Pesano i tagli alle politiche sociali e agli enti locali, ma anche una cultura politica che vede il welfare come carità, e non come dovere dello Stato di garantire i diritti.

Gli alunni con disabilità crescono. Solo quest'anno, per motivi diversi e ancora tutti da indagare, nelle scuole si contano 30.470 disabili, oltre duemila in più rispetto all'anno scorso. Per contro, gli insegnanti di sostegno sono sempre meno. Effetto dei tagli indiscriminati alle politiche sociali. Se anche nell'ultima manovra correttiva dei conti pubblici, all'articolo 19, il rapporto 1:2 tra insegnante e alunno con disabilità è ricordato come punto di riferimento ottimale, il rischio è che questo rapporto si aggravi e diventi 1:3.

Secondo un dato reso pubblico oggi dalla Ledha, la Lega per i diritti delle persone con disabilità, in una lettera aperta al ministro Gelmini, solo nella regione Lombardia mancano all'appello 3600 insegnanti di sostegno, 42 in meno rispetto al 2010. Gli 11.622 insegnanti di sostegno assegnati dal ministero dell'Istruzione sono, secondo la Ledha, "del tutto insufficienti".

Il dato preciso per ora a disposizione riguarda la sola Lombardia, ma il fenomeno, spiega a PeaceReporter il presidente della Ledha, Fulvio Santagostini, agisce su scala nazionale. Perché i tagli agli enti locali sottraggono alle regioni la capacità di integrare con risorse proprie le spese per le politiche sociali, quali la scuola e la sanità.

Gli insegnanti di sostegno saranno sempre meno. Con quali conseguenze?

Gli insegnanti di sostegno sono strumenti fondamentali per l'inclusione degli alunni con disabilità. È chiaro che l'integrazione non si esaurisce nel sostegno, ma questo resta il canale che permette ai ragazzi con disabilità di entrare nel sistema scolastico. Senza il sostegno, molte persone non potrebbero semplicemente andare a scuola, o sarebbero costrette a frequentare i centri specializzati che però non offrono una formazione completa.

Stiamo tornando alle scuole speciali per disabili, quelle che, con una legge divenuta modello di integrazione apprezzato in tutto il mondo, l'Italia abolì nel lontano 1977?

Anche se non dovrebbero esistere, quelle scuole non hanno mai del tutto chiuso i battenti. E le famiglie dei ragazzi con disabilità sono tornate a rivolgervisi, perché per loro è sempre più difficile garantire ai propri figli percorsi inclusivi. C'è quindi il grosso rischio che si torni alle scuole speciali. Addirittura, l'anno scorso un gruppo di consiglieri provinciali e di accademici ne ha chiesto il ritorno al fine di non penalizzare gli alunni non disabili. La possibilità di inclusione dei ragazzi con disabilità verrebbe minata alla base.

Con il welfare, affonda anche la tutela dei diritti delle persone con disabilità?

Nel 2009 il governo italiano ha firmato la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Io credo che oggi ci sarebbero tutte le condizioni per denunciare l'Italia alla commissione di vigilanza delle Nazioni Unite perché siamo largamente al di sotto del limite del rispetto dei diritti fissato dalla convenzione. Stiamo continuamente facendo passi indietro, in tutti i campi, non solo nel diritto all'istruzione. I dati parlano da soli. Dal 2008 al 2011 c'è stato un taglio di oltre l'87 per cento dei fondi dedicati al sociale, e per l'anno prossimo sarà ancora peggio. Il fondo per la non autosufficienza è stato completamente, e dico completamente, azzerato.

Solo colpa dei tagli, o c'è anche una visione generale dietro a tutto questo?

Più in generale, stiamo assistendo a gravi passi indietro sul piano culturale. Siamo il Paese il cui il ministro dell'Economia ha detto più volte in televisione che i due milioni e 700mila italiani con disabilità - troppi, a detta sua - ci impediscono di competere come Paese. Si sta affermando una cultura che vede l'invalidità come un peso per la società. Si sta passando dal welfare dei diritti al welfare della carità, perchè ancora nel 2011 sentiamo dire che bisogna garantire i "bisognosi". Ma chi sono i bisognosi? Lo Stato deve garantire il rispetto dei diritti, non dispensare carità. È questa la differenza culturale profonda contro cui dobbiamo batterci.

Cora Ranci

 

Sicilia, niente tagli alla casta

Nella regione in cui assessori e consiglieri hanno gli stipendi più alti d'Italia, la giunta ha bocciato le "limature" chieste dal governatore: nessun privilegio può essere toccato, hanno deciso all'unanimità i capigruppo Pd, Mpa, Udc e Fli

Il consiglio regionale siciliano è da sempre il più caro d'Italia: 160 milioni l'anno, più del doppio - ad esempio - di quello lombardo o di quello campano. I "deputati" regionali (si chiamano così, in quanto la Sicilia è a statuto speciale) portano a casa mediamente più di quelli di Montecitorio, cioè attorno ai 15 mila euro netti al mese. La regione ha il record nazionale di consulenze, auto blu, e prebende varie.

Ma la maggioranza che governa la Sicilia (frutto di un accordo tra Raffaele Lombardo, eletto con la destra, l'Udc, i finiani e il Pd) ha appena bocciato la «manovra correttiva» che avrebbe dovuto tagliare (seppur in minima parte) gli stipendi degli assessori, ridurre alcuni dei costi della politica, accorpare alcuni enti. «Non ci sono i tempi per approvarla, se ne riparlerà a settembre», hanno detto all'unisono i capigruppo di Pd, Udc, Fli e Mpa.

Il tutto avviene mentre, a causa dei conti non brillanti della Regione, la stessa giunta ha fatto sapere di non riuscire a trovare i 30 milioni necessari a neutralizzare i ticket varati da Tremonti, che quindi in Sicilia verrano pagati.

La bozza che il governatore aveva preparato conteneva 38 pagine di piccoli tagli, compresa la riduzione delle auto blu , dei rimborsi per gli assessori, degli uffici di gabinetto e di altre voci legate al costo della politica in regione.

I capigruppo Antonello Cracolici del Pd, Giulia Adamo dell'Udc, Francesco Musotto dell'Mpa e Livio Marrocco di Fli sono stati unanimi nel respingerlo: «Questa non è una manovra correttiva ma una vera finanziaria», hanno detto, quindi non può essere approvata così in fretta, va studiata, emendata eccetera eccetera.

Intanto, naturalmente, niente tagli: i privilegi dei politici siciliani resteranno del tutto intoccati. Alcuni dei quali, ormai, sono entrati nel mito: come il caffè alla buvette che costa 36 centesimi, gli spaghetti alle vongole che al ristorante interno costano 1,85 euro, o il contributo di 5000 mila euro che la Regione siciliana assicura ai deputati, ex compresi, per una degna sepoltura.

 

Com'è molesta la Telecom

di Alessandro Longo

L'Authority ha diffuso l'elenco delle aziende che ci telefonano a casa violando il registro delle opposizioni: in testa le compagnie telefoniche, ma nella top ten dei rompiscatole ci sono anche Enel, Eni e Sky

Sta per fioccare la prima grandinata di multe, fino a 120 mila euro l'una e per un totale di 600 mila euro, per le aziende che hanno fatto telefonate pubblicitarie infischiandosene del Registro delle opposizioni (istituito nel 2010), cui si iscrivono le persone che non vogliono essere disturbate dal telemarketing (oggi 600 mila nominativi, su un totale di 17 milioni presenti negli elenchi). "Abbiamo ricevuto 1.200 segnalazioni di utenti e nei prossimi mesi apriremo centinaia di istruttorie sulle aziende", dice Francesco Pizzetti, presidente dell'Autorità per la privacy, che ha compilato un elenco degli autori delle violazioni.
Il 5 luglio l'Authority ha emanato un provvedimento secondo cui le aziende rispondono anche degli illeciti compiuti dalle agenzie di outsourcing cui hanno affidato le campagne pubblicitarie telefoniche. "Indagheremo per scoprire se le aziende prima di far partire le telefonate hanno consultato il Registro, come previsto dalle norme", dice Pizzetti, "e se non l'hanno fatto, lo segnaleremo alla magistratura". A quel punto l'illecito può diventare penale.

Chiunque può iscriversi al registro, mentre chi non figura nell'elenco non può comunque essere chiamato, se non dopo aver fornito il proprio espresso consenso.

 

25 luglio

Pranzo di lusso: sette euro

di Emiliano Fittipaldi

Risotto con rombo: 3,34 euro. Carpaccio di filetto: 2,76. Dolce: 1,74. Il tutto di servito da camerieri in livrea. E' il ristorante del Senato. Terza puntata delle confessioni all'Espresso del parlamentare Carlo Monai: dove non ci parla solo di cibo ma anche di mutui superagevolati, di terme e di massaggi shiatsu a spese del contribuente

Carlo Monai, il deputato dell'Idv che ha deciso di raccontare tutti i privilegi della Casta, continua a stupirci.

Racconta che a Montecitorio e Palazzo Madama arrivano ogni giorno inviti per mostre, happening vari, sfilate di moda. Il cibo si paga? «Dipende. Il bar della bouvette è in linea con i prezzi di mercato. Il ristorante, invece, no. Ci costa in media 15 euro, ma la tavola è apparecchiata come un tre stelle Michelin, i camerieri sono in livrea, lo chef è bravo e prepara piatti di grande qualità. Io cerco di non appesantirmi, e ci vado raramente. L'unico appunto», chiosa sorridendo, «riguarda la cantina: ci sono ottimi vini, ma nessuna bottiglia friulana».

Al Senato si può mangiare uno spaghetto alle alici a 1,60 euro, un carpaccio di filetto a 2,76 euro, un pescespada alla griglia a 3,55 euro. Prezzi ridicoli. «Anche in consiglio regionale c'era un buon self service. Primo, secondo, caffè e frutta a 10 euro». Pure uno shampoo costa poco: la nostra guida è un frequentatore della mitica barberia della Camera, dove un taglio costa 18 euro (al Senato, invece, è gratis). «In questo caso, credo che sia un servizio da conservare: consente al parlamentare di avere sempre un aspetto dignitoso, anche quando arriva il martedì con i capelli spettinati».

Ma i servizi dedicati ai politici non finiscono qui. Dentro Montecitorio c'è uno sportello del Banco di Napoli, diventato famoso perché il consigliere Marco Milanese ha movimentato, su un conto dell'agenzia Montecitorio, qualcosa come 1,8 milioni di euro in pochi anni. Non è il solo ad aver aperto un conto lì, visto che gli onorevoli possono approfittare di tassi agevolati per mutui e prestiti.

Precisa Monai: «Molti usano la diaria non per affittare la casa a Roma, ma per comprarla. L'importante è essere rieletti. Per un mutuo di 150 mila euro a cinque anni il tasso fisso è appena del 2,99 per cento, uno o due punti sotto quello di mercato. Idem per un prestito: possiamo avere un tasso agevolato al 2-3 per cento».

Anche le prestazioni sanitarie sono rimborsate: Monai dopo un incidente in cui ha distrutto una Mercedes ha ottenuto il rimborso di 580 euro di massaggi, e ammette che il Parlamento gli paga cinque giorni di cure termali l'anno.

I radicali hanno scoperto altri benefit: occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia. Tutti servizi destinati a oltre 5.500 persone, tra deputati e familiari. Alla Camera, poi, non si chiama mai il 118: ci sono anche alcuni infermieri nascosti tra gli scranni dell'Aula adibiti a "rianimare" il deputato nel caso si sentisse male. Costano al contribuente 650 mila euro l'anno.

Dopo una vita da nababbo, l'ex parlamentare o il consigliere non viene abbandonato dalla casta. L'assegno di fine mandato non si nega a nessuno, e il vitalizio scatta per tutti. Per prendere una pensione bastano cinque anni di mandato alla Camera o al Senato, (in media 6 mila euro a testa al mese), per una spesa che nel 2013 toccherà i 143,2 milioni di euro l'anno. Tra le Regioni solo l'Emilia-Romagna ha abolito il vitalizio, tutte le altre non ci pensano nemmeno: così nel Lazio può accadere che gli ex e i trombati si prendano 4 mila euro al mese ad appena 55 anni.

Non male, in tempo di crisi.

 

Argentina, il paese degli schiavi

Sono almeno cinquecentomila le persone ridotte in schiavitù, per sesso o per lavoro. Il governo corre ai ripari, ma la piaga resta

La Organizzazione non governativa argentina La Alameda ha lanciato una denuncia shock: cinquecentomila persone in Argentina sono ridotte in schiavitù. Due gli ambiti: sessuale e lavorativo. E si tratta perlopiù di immigrati irregolari senza documenti e di adolescenti. Ma la cifra potrebbe addirittura essere più cospicua.

Gustavo Vera, presidente della Ong, ha spiegato in una conferenza stampa a Buenos Aires, come la maggioranza dei lavoratori schiavi si trovino nel settore agricolo, in campi lontani dai centri urbani, e che l'Argentina conta ottomila bordelli illegali con sessantamila schiave del sesso, remunerate con somme denigranti.

Numeri che coincidono con i dati della Rete nazionale stop al traffico, alla tratta e allo sfruttamento sessuale commerciale di bambini, bambine e adolescenti (Ratt) che aggiunge come ogni anno spariscono circa 500 adolescenti poi schiavizzati.

Cifre incredibili che la Oficina de Rescate y Acompañamiento a Personas Damnificadas por el Delito de Trata e il Ministerio de Justicia y Derechos Humanos de la Nación hanno cercato di affrontare organizzando molti interventi. Ma evidentemente non sufficienti. Fra l'agosto 2008 e l'aprile scorso sono stati riscattate 2130 schiavi, di cui 303 minorenni, ma ne restano ancora troppi.

E c'è chi parla di cifre approssimate per difetto, facendo quindi intravedere uno scenario peggiore: è Viviana Caminos, coordinatrice nazionale della Ratt. "Le cifre dei minori scomparsi dovrebbero essere almeno moltiplicate per quattro per avvicinarci alla realtà", ha spiegato, sottolinenado però la difficoltà di documentare tali tragedie, che dunque restano sottostimate. Attualmente si contano almeno 8500 desaparecidos in mano agli aguzzini, contro i quali lo Stato ha ingaggiato una guerra per ora persa. Fra la gente, infatti, è tanta la paura e molti i dubbi sulle forze di sicurezza.

Una situazione che ha spinto la presidente argentina, Cristina Fernández, a correre ai ripari, almeno per arginare lo sfruttamento sessuale. Il 5 luglio ha, infatti, promulgato un decreto che proibisce la pubblicazione di avvisi sulle offerte sessuali nei mass media, amplificando la Ley de Trata de Personas. "Così abbiamo fatto un passo importante non soltanto nella lotta contro la tratta delle persone, ma anche contro la discriminazione, perché l'offerta sessuale non solo veicola il delitto di tratta di persone, ma è anche frutto di una profonda discriminazione contro le donne", ha commentato la premier. Non solo: dal 13 aprile scorso il Codice penale argentino prevede anche il delitto di sparizione forzata per mano di funzionari pubblici o individui che agiscono con l'assistenza o la protezione dello stato. "Si condanna, così, chi, agendo con l'autorizzazione, l'appoggio o la accondiscendenza dello Stato, in qualsiasi forma, priva uno o più persone della libertà", recita la normativa. Una sfida, quello di risolvere questa piaga, che per il governo è da tempo una delle più difficili. Nei primi mesi del 2011 sono state riscattate almeno 681 persone e sono già in atto i procedimenti penali per arrivare a sentenza definitiva ed esemplare contro i colpevoli.

Stella Spinelli

 

Livorno, i precari del porto

Dopo anni di contratti a giornata e nessuna certezza, gli interinali di Intempo protestano e chiedono diritti e garanzie

Sono rimasti schiacciati dalla crisi, bloccati al primo gradino della scalinata che avrebbe dovuto portarli dritti dritti nelle braccia sicure della Compagnia Portuale. Sono i lavoratori precari del porto di Livorno, imprigionati nell'interinale Intempo da cinque-sei anni, con stipendi da fame e l'incertezza dell'impiego, che impedisce loro ogni progetto di vita.

Riscuotono solo se e quando lavorano. Hanno contratti di un giorno e vivono appesi al cellulare. È con un sms che vengono avvertiti con preavvisi di poche ore di presentarsi al lavoro. E se non rispondono, è finita. Vengono messi al bando ed esclusi. Una vita in bilico, che costringe padri di famiglia a racimolare lavoretti al nero per non morire di fame e per non buttare via anni di vita e di speranza investiti nel porto. La promessa dell'assunzione li ha sempre spinti a chinare il capo, ad accettare in silenzio, a stringere i denti. Ma adesso non ce la fanno più.

E così, in ventisette hanno bloccato lo sbarco di un traghetto pieno di camion martedì sera e chiesto con forza un incontro con il presidente dell'Autorità Portuale che li ha ricevuti ieri. "Purtroppo questi ragazzi sono gli ultimi della catena occupazionale portuale - ci spiega Enzo Raugei, presidente della Compagnia portuale e vicepresidente di Intempo -. Ma fino a pochi anni fa, si entrava così: si faceva la gavetta per un po' e poi scattava l'assunzione nella Compagnia e all'Agenzia di lavoro portuale. Talvolta anche al Terminal Darsena Toscana venivano assorbiti i lavoratori. E a quel punto era fatta. Adesso con questa grave crisi, il lavoro per tutti non c'è e a rimetterci sono stati proprio loro, ai quali non spetta nemmeno uno stralcio di indennità per i giorni non lavorati". La Intempo nacque come ausilio alla catena lavorativa, per fornire manodopera nei momenti di grande picco. Era un ottimo trampolino di lancio da sempre gestito dalle medesime persone che gestiscono Agelp e Compagnia. Bastavano in media due anni e un lavoratore era al sicuro. In questi tempi di magra, invece, tutto si è sgretolato e non ci sono più certezze. Ma Raugei assicura: "Ci sono timidi segnali di ripresa del lavoro. Devono soltanto tenere duro ancora un po'. Appena questa ripresa si consolida, con il permesso dell'Autorità portuale e del Ministero, questi ragazzi saranno assunti e finirà il loro calvario".

Ma nel frattempo Giuliano, Marco, Luca e tutti gli altri come vanno avanti? Con la media di duecento euro al mese e una famiglia da campare? "Sì, 54 euro, ho preso 54 euro perché in quel mese ho lavorato un solo turno", ha raccontato al Tirreno Giuliano Giuliani, 48 anni e due figli, il più anziano degli interinali. E come lui Luca, 35 anni e una bimba piccola che quest'anno non ha fatto il 730 perché non ha raggiunto la soglia minima di entrate. "L'anno scorso ho lavorato 6-7 turni. Non abbiamo neppure la disoccupazione speciale perché non raggiungiamo i 78 turni all'anno. Ovvio che con 200 euro non si vive".

Stella Spinelli
 

13 luglio

4mila litri d'acqua a bistecca
gli sprechi che non vediamo

Miliardi di metri cubi utilizzati per coltivare cibi che poi vengono buttati via come le 177mila 479 tonnellate di mele rimaste sui campi nel 2009 perché sconveniente raccoglierle. La Ue scende il campo per il consumo responsabile

di ANTONIO CIANCIULLO ROMA - Una bella fiorentina al sangue da 3 etti costa 4.650 litri di acqua. Per il contorno di patate arrosto che l'accompagnano ce la caviamo con 25 litri. Il piatto di ciliegie fa 373 litri. E la tazzina di caffè 140. A tavola non contano solo le calorie: senza accorgercene divoriamo un fiume di acqua che è servita a coltivare e ad allevare i prodotti che finiscono nel nostro piatto. E, quando buttiamo via il cibo, buttiamo anche l'acqua che contiene.

Se ci fermiamo al singolo pasto, i numeri appaiono limitati. Ma se prendiamo le 177.479 tonnellate di mele rimaste sul campo nel 2009 perché raccoglierle non era più conveniente, scopriamo che per farle crescere c'erano voluti 124 milioni di metri cubi di acqua: gettati via. Per i pomodori è andata peggio: 3,5 milioni di tonnellate sprecate equivalgono a 644 milioni di metri cubi di acqua. E per le olive non utilizzate (3,4 milioni di tonnellate) si arriva a 6,5 miliardi di metri cubi di oro blu. In totale in Italia nel 2010 sono stati sprecati 12,6 miliardi di metri cubi di acqua per colpa di 14 milioni di tonnellate di prodotti agricoli non raccolti.

Per arginare questa emorragia, il Parlamento europeo ieri ha chiesto ufficialmente di proclamare il 2013 anno europeo contro lo spreco alimentare. "È un percorso che abbiamo iniziato nel 2010 con il Libro Nero contro lo spreco alimentare promosso da Last Minute Market e che continua quest'anno con il Libro Blu contro lo spreco idrico", spiega il presidente della Commissione agricoltura europea Paolo De Castro. "Ora, con il rapporto Caron, siamo passati a una fase operativa: dobbiamo mettere a punto misure concrete per vincere questa battaglia".

Anche se la Terra è avvolta per il 70 per cento dall'acqua, solo una piccola quota degli 8 milioni di chilometri cubi di acqua dolce è effettivamente utilizzabile e la pressione congiunta di crescita demografica, aumento dei consumi pro capite e inquinamento stanno rendendo la risorsa idrica un bene sempre più prezioso. E sempre più conteso, come dimostra la moltiplicazione dei conflitti per il controllo dei fiumi in un mondo in cui 1,4 miliardi di persone non ha accesso all'acqua potabile.

"La favola a lieto fine che ci avevano insegnato a scuola, con l'acqua che arriva al mare, poi sale sotto forma di nuvoletta e torna a scendere con la pioggia in un ciclo infinito che permette a tutti di bere, non è più vera", spiega Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria a Bologna e animatore della campagna contro lo spreco. "I conti non tornano perché stiamo usando più acqua di quella disponibile senza impoverire le riserve e, soprattutto, ne utilizziamo una quantità incredibile per produrre alimenti che poi buttiamo via al momento della raccolta, della distribuzione o del consumo: in Italia ogni anno si spreca una quantità di cibo che basterebbe a sfamare, nello stesso periodo, tutti gli spagnoli".

La dieta mediterranea aiuta a contenere il consumo idrico (500 metri cubi di acqua pro capite all'anno contro i 900 della dieta anglosassone), ma l'equilibrio tra zone assetate e zone capaci di acquistare acqua virtuale importando i cibi che la contengono si fa sempre più precario.
Nella campagna Last Minute Market contro lo spreco idrico, sostenuta da Eni e Unicredit e presentata domani a Roma, si precisa che l'88 per cento delle risorse idriche è consumato dall'11 per cento della popolazione mondiale. Un abitante di un paese povero sopravvive con 20 litri al giorno, in Italia si arriva a 213, negli Stati Uniti a 600. L'Italia, che ha il record europeo dei consumi idrici domestici, è in testa alla classifica anche per il consumo di acqua minerale che, secondo i dati di Last Minute Market, incide per il 9 per cento sul costo della dieta tipo di un uomo adulto che scelga questa opzione.

 

6 luglio

Prezzi luce e gas più alti d'Europa, penalizzate famiglie con consumi alti

ROMA - Più alti d'Europa, i prezzi di luce e gas restano più alti in Italia rispetto all'Unione Europea. Questo vale sia per le imprese che per le famiglie anche se, per queste ultime, il divario si sta riducendo. È quanto emerge dalla relazione dell'Autorità dell'energia al Parlamento, la prima relazione targata Guido Bortoni, dopo l'insediamento alla guida dell'Authority. "Senza infrastrutture l'Italia sarà condannata a diventare una 'provincia' del gas e non un Paese-snodo che assume un ruolo cruciale nel nuovo contesto sovranazionale", ha dichiarato il presidente Bortoni nella relazione.

Oggi a essere più penalizzate sono le famiglie con consumi più alti mentre per quelle con consumi più bassi il prezzo è inferiore del 12% rispetto alla media europea. "Per i consumi più elevati, l'italia presenta prezzi lordi dell'energia elettrica relativamente più elevati della media europea (+12,3% al lordo imposte), sebbene il divario si sia attenuato rispetto al passato" con un calo del 4%. Invece nel secondo semestre 2010 le imprese italiane hanno pagato prezzi dell'energia elettrica, al lordo delle imposte, "superiori alla media europea per tutte le classi di consumo". Analoga la situazione per il gas.

Il confronto con l'analogo periodo dell'anno precedente, riferito alla medesima classe di consumo, "evidenzia in Italia una diminuzione dei prezzi dell'energia elettrica per usi domestici in italia del 4%, contro un incremento medio per

i prezzi europei che si attesta intorno al 5%". Con riferimento alle classi di consumo superiori a 5.000 Kwh annui, nel secondo semestre 2010 "i prezzi lordi italiani hanno registrato riduzioni comprese tra l'8% e il 12% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, mantenendo tuttavia un differenziale notevole rispetto ai prezzi medi europei".

"Nel 2010 il prezzo italiano del gas al netto delle imposte - si legge nella relazione - per un consumatore domestico, si è collocato su livelli in linea con la media europea per tutte le classi di consumo, con scostamenti positivi o negativi inferiori o intorno al 5%. Il prezzo del gas per le utenze domestiche si è collocato a un livello superiore rispetto al prezzo medio europeo se calcolato al lordo delle imposte, con scostamenti positivi progressivamente crescenti per le classi di consumo più alte, in conseguenza di un livello di imposizione fiscale relativamente elevato rispetto alla media dei paesi europei". Un po' meglio la situazione per le imprese con alti consumi.

 

Rio, la cacciata dei poveri

In vista di Mondiali e Olimpiadi, la capitale carioca demolisce oltre 3000 case delle favelas, costringendo la gente ad andarsene lontano dal cuore cittadino

Oltre tremila case da demolire per far posto a Mondiali e Olimpiadi. È quanto stanno facendo le autorità di Rio de Janeiro per ripulire la città e far sì che sia pronta per i grandi eventi: Mondiali di Calcio del 2014 e Olimpiadi del 2016. Peccato che tutto questo comporti lo sfollamento forzato di migliaia di famiglie povere e disagiate, che in cambio avranno pochi spiccioli e il ben servito. Ottomila reais, l'equivalente di 5mila dollari, è il risarcimento previsto per coloro che dalla sera alla mattina si ritrovano senza casa, senza quartiere, senza una vita. Ottomila reais quando per avere una nuova casa ce ne vogliono almeno quattro volte tanto. Per non parlare dei disagi che un assegno con cifre e scritte può provocare in famiglie dove nessun adulto è capace né di leggere né di scrivere. E la storia di Berenice Maria De Neve la dice lunga.

Un giorno di maggio è stata convocata dal Comune, nel centro della città, a più di un'ora di autobus dalla sua favela. Lì l'avvertono che la sua casa è fra quelle da demolire e che in cambio le daranno un bell'assegno. Quando rientra, ritrova soltanto un cumulo di macerie. Nemmeno il tempo di svuotarla. "Sono arrivati e l'hanno abbattuta. Distruggendo tutto, il mio tavolo, il mio divano, il mio armadio pieno della mia roba. E quell'assegno! Ho avuto una terribile esperienza nel ercare di cambiarlo perché non so leggere né scrivere", racconta la donna disperata a BbcMundo. La sua casa è una delle mille demolite in quel quartiere dove Berenice e la sua famiglia vivevano da otto anni e dove adesso dovrà passare un'autostrada gigantesca, per supplire alla carenza di infrastrutture tipica del Brasile.

Nonostante questa politica di allontanare il più possibile i poveri da Rio, costi quel che costi, sia stata criticata sia dal relatore speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che da Amnesty Internacional, le autorità insistono nel dire che stanno trattando la gente nella forma più giusta possibile.

Secondo l'urbanista Luis Borges Ferreira, con la scusa di Mondiali e Olimpiadi, c'è una corsa a costruire nuove abitazioni in quartieri da sempre poveri per crearne nuovi che siano adatti alla crescente classe media, frutto della potente crescita economica brasiliana.

Intanto, fra coloro che come Berenice sono rimasti senza nulla, c'è chi è stato ripagato con una nuova abitazione a Campo Grande, a un'ora e mezza dal centro, nel nulla più assoluto. Le case però sono soltanto ottocento e gli altri si arrangiano. Lei infatti sta vivendo fra le rovine vicino a dove abitava prima, con tutto intorno acqua stagnante e la paura del dengue.

Cleyton Martins, un cameriere di 27 anni che è stato spostato con sua figlia e sua madre nel nuovo quartiere, è comunque molto preoccupato: "La casa dove sto vivendo ora è migliore di quella che avevo - ammette a BbcMundo- ma non ci sono negozi, non ci sono posti dove far giocare i bambini e siamo molto lontani dalla città". Niente ospedali nei dintorni, né farmacie, nessun tipo di servizio.

Per il consigliere Eliomar Coelho la maniera con la quale le autorità stanno trattando i poveri è "criminale", dato che usano la Coppa del Mondo e le Olimpiadi come pretesto per appropriarsi della terra e far fare grandi affari agli impresari edili: "E' una totale violazione dei diritti umani".

Stella Spinelli

 

Provincia di Milano, concorso con il trucco. Lo scandalo del dg per l’agenzia del Lavoro

Luigi Degan all'agenzia per il lavoro ma senza titoli. C'è un esposto in Procura. Incarico da 130mila euro l'anno all'uomo del presidente Podestà. Ma dal notaio il nome era già scritto da un mese. E intanto si licenziano i precari

Il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà
Indovina chi viene in Provincia. Un gioco facile facile: arriva l’uomo di fiducia del presidente. Facile al punto che i consiglieri sospettosi possono andare da un notaio, depositare quel nome con largo anticipo e attendere con tutta calma l’esito del concorso. Risultato: all’apertura delle buste, il più qualificato è… l’uomo del presidente. E scatta l’esposto in Procura.

Tutto questo succede in Provincia di Milano dove il 31 gennaio scorso è ufficialmente partita la procedura di evidenza pubblica per individuare il nuovo Direttore generale dell’Agenzia per la formazione e il lavoro (Afol), l’ente che gestisce gli ex sportelli provinciali del lavoro.

La nomina di Luigi Degan è stata al centro di una doppia partita, durissima, tra maggioranza e opposizione in consiglio e tra correnti dello stesso Pdl al chiuso dellufficio di presidenza. In pratica l’affaire Afol ha anticipato lo strappo tra Podestà stesso e i reggenti del centrodestra locale Casero e Mantovani, con il primo che avrebbe cercato di imporre a tutti i costi l’uomo di fiducia e gli altri intenzionati a vendere cara una poltrona che vale 130mila euro l’anno per tre anni.

Risultato: un pasticcio su tutti i fronti. Che nella puntata di oggi, grazie all’iniziativa di Matteo Mauri e Ezio Casati (Pd) ha il suo epilogo più divertente e preoccupante con dieci righe che inchiodano Podestà e il suo favorito. Il documento è una scrittura depositata con atto notarile il 9 febbraio scorso, cioé appena aperta la gara per il posto da direttore generale. Il testo non lascia spazio a dubbi: “I sottoscritti consiglieri provinciali Casati e Mauri, informati che Afol Milano ha indetto un bando per la ricerca delle figura del Direttore generale dell’Agenzia, dichiarano di essere venuti a conoscenza che il vincitore sarà il dott. Luigi Degan. (…) Se il nome scelto sarà quello indicato, si manifesterebbe una gravissima violazione delle più elementari regole di trasparenza”.

Un mese dopo, il 4 marzo, il cda di Afol nomina il nuovo direttore: Luigi Degan.

E non è tutto. Perché se nella nomina c’è il trucco, questo sembra avere un pari corrispettivo nei requisiti del bando o nelle credenziali del proponente. Così i consiglieri chiedono formalmente di ottenere tutte le carte utili a verificare le competenze del nuovo dg. Ma gli viene negato. Si rivolgono al Prefetto che impone alla Provincia di mettere a disposizione tutti gli atti. E viene fuori di tutto. Degan risulta persona qualificata, certo, peccato che il suo cv sia stato “gonfiato” ad arte perché avesse i requisiti che altrimenti non avrebbe mai avuto, secondo i consiglieri, per ricoprire quella posizione.

A dirlo non sono solo i detrattori del dirigente ma i suoi stessi datori di lavoro. L’elenco delle esperienze curricolari poi risultate false e mendaci è ora al vaglio della magistratura. Nel mirino finisce la sua esperienza presso il Centro studi Adapt, Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazione industriali, dal 2002 al 2004 e presso Confindustria Bergamo dal 2007 al 2011. Queste esperienze, riporta l’esposto, oltre ad essere evidentemente non aderenti al profilo ed ai requisiti di ammissione richiesti, risultano anche non veritiere.

Presso Confindustria, è risultato dalle indagini successive, Degan era un semplice funzionario amministrativo e presso Adapt svolgeva un lavoro di classico “assistente universitario”. Non certo quel ruolo di “coordinamento direzionale di strutture tecnico direzionali” con il quale si è assimilato il lavoro di Degan al requisito del bando nel “vantare una qualificata e pluriennale esperienza, di almeno 5 anni, nel coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse, con poteri di direttiva e spiccate competenze nel ramo del lavoro e della Formazione Professionale”.

A rivelare quanto poco aderente al vero fossero gli incarichi di Degan, si diceva, sono le lettere dei suoi datori di lavoro. Per gli anni dal 2002 al 2004, ad esempio, l’esposto presenta una dichiarazione del Professor Michele Tiraboschi, direttore scientifico di Adapt, in risposta ad una richiesta ufficiale del Presidente della Commissione Garanzia e Controllo della Consiglio provinciale che pur esprimendo apprezzamenti circa il lavoro svolto dal Degan presso Adapt, escluda che questi abbia svolto alcuna attività di coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse con poteri di direttiva e tanto meno di spesa come chiedeva il bando provinciale e attestava il cv del candidato. Adapt al tempo inoltre, per stessa dichiarazione del professor Tiraboschi, era una esile struttura che contava tre dipendenti, alcune collaborazioni e stagisti. Altro che “struttura tecnico gestionale complessa”.

Duro il commento di Matteo Mauri (Pd) che, oltre a svelare il trucco, pone l’accento sui problemi dei lavoratori Afol sui cui si è abbattuta la forbice della Provincia: “Qui c’è in ballo anche la sorte di 27 lavoratori precari di Afol che l’amministrazione guidata da Podestà ha lasciato a casa. Senza dimenticare che una riduzione di personale così elevata sta causando anche grossi problemi al servizio fornito dall’agenzia. Ne hanno fatto recentemente le spese gli insegnati precari che si sono recati nei giorni scorsi negli uffici di viale Jenner per presentare domanda di disoccupazione. Oltre 700 persone hanno fatto la fila sotto il sole. Un vero pasticcio, le cui conseguenze le stanno pagando i lavoratori precari e i disoccupati”.

Insomma, da una parte si regala e dall’altra si taglia.

di Martino Valente

 

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