La
Questura da ricostruire, un pastrocchio tutto italiano
Le opere post-sisma. Ieri la Procura ha
notificato avvisi di garanzia a dirigenti pubblici in seguito alle indagini su
una vicenda di appalti affidati senza gara. Che lievitano del 450%. E poi
finiscono nelle mani di aziende legate alla politica
di GIUSEPPE CAPORALE
L'AQUILA - C'è un pastrocchio tutto italiano nella storia della ricostruzione
della Questura dell'Aquila. Un pastrocchio scritto nelle carte della Procura
della Repubblica che ieri ha notificato gli avvisi di garanzia a dirigenti
pubblici - tra cui l'ex provveditore alle Opere pubbliche di Lazio, Abruzzo e
Sardegna, Giovanni Guglielmi. Una storia di appalti affidati senza gara - che
lievitano del 450% - e poi finiscono nelle mani di aziende legate alla politica.
I lavori per il palazzo della Polizia gravemente lesionato dal terremoto, almeno
all'inizio, dovevano costare 3 milioni di euro. Come da preventivo della società
Inteco spa - la stessa che aveva ricevuto, con procedura d'urgenza, anche
l'affidamento del puntellamento della struttura appena dopo il sisma. Senza
gara, ma con affidamento diretto da parte dello Stato, vista "l'urgenza" della
ricostruzione post-sisma. Poi però la Inteco ha presentato via via un conto
diverso. I numeri sono lievitati clamorosamente, fino ad arrivare a un
preventivo di spesa di 18 milioni di euro.
A bloccare la super lievitazione del prezzo è intervenuta la Corte dei Conti -
sezione Controllo lavori pubblici - che ha segnalato l'anomalia della procedura,
invitato il provveditorato a revocare l'affidamento diretto e a procedere con
gara d'appalto. La Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti ha
rilevato che l'incremento dei costi denota una modifica sostanziale dell'oggetto
contrattuale, con una procedura in deroga "omissiva di qualsiasi competizione
concorrenziale". Mettendo in evidenza che i nuovi lavori senza pubblicazione del
bando e gara non sono "connotati da elementi emergenziali", visto che si tratta
della ricostruzione in toto di un'opera pubblica, il nuovo contratto appariva
come "un'originale modalità di individuazione del contraente". Non solo, i
giudici contabili hanno poi inviato le carte anche alla Procura della
Repubblica. Il pm Stefano Gallo ha aperto un'indagine coadiuvato dagli uomini
della Guardia di Finanza dell'Aquila. E ieri - a conclusione delle indagini -
sono arrivati gli avvisi di garanzia. Nove in tutto. L'accusa, per tutti, è di
abuso d'ufficio.
Gli indagati sono Giuliano Genitti, Lorenzo De Feo, ingegneri, Carlo Clementi,
dirigente pubblico, attualmente in servizio nel capoluogo; Giovanni Guglielmi,
ex provveditore; con loro, quattro esponenti interni ed esterni del comitato
tecnico amministrativo, tutti provenienti da Roma; infine, il rappresentante
legale della ditta Inteco Spa, che aveva ricevuto inizialmente l'affidamento
diretto dei lavori, poi ritirato. E la questura? La gara pubblica che si è -
regolarmente - svolta alcuni mesi fa è stata vinta dalla società Nicando srl
(amministrata da Giuseppina Patriciello, sorella dell'europarlamentare del Pdl
Aldo Patriciello). Gara vinta con un ribasso del 47%. Base d'asta quasi dieci
milioni, offerta della Nicando di 4 milioni e 600 mila euro circa. Quindi da 3
milioni - poi arrivati a 18 - ora ricostruire la Questura dell'Aquila costerà
quasi 5 milioni.
Se tutto procederà per il verso giusto i lavori saranno terminati entro un anno.
Ma la famiglia Patriciello - ora affidataria dei lavori - con le costruzioni ha
già un procedimento penale in corso per "cemento scadente". Il 24 febbraio del
2011 Aldo Patriciello, Europarlamentare del Pdl, è stato rinviato a giudizio dal
gup di Isernia con l'accusa di falso ideologico, truffa e frode in pubbliche
forniture. Secondo gli inquirenti molisani, Patriciello assieme al fratello
Gaetano nel 2004 avrebbe fornito all'impresa Aldani di Bologna (titolare
dell'appalto per la costruzione del primo lotto dell'autostrada San
Vittore-Termoli) calcestruzzo scadente da utilizzare per la costruzione dei
pilastri di un viadotto. L'inchiesta venne ribattezzata "Piedi d'Argilla".
Sfrattati, soli e senza soldi, la parabola discendente dei pentiti
Oltre 90 hanno perso la casa e vivono in
conventi o sistemazioni di fortuna. E mancano anche i fondi per farli deporre ai
processi. "Prima ci hanno spremuti poi buttati"
di ATTILIO BOLZONI
Coccolati alla bisogna, assecondati nelle loro
bizze, per un bel po' qualcuno li ha creduti in tutto e per tutto. Erano le voci
della verità. Quando non sono serviti più li hanno buttati via. Si sa, lo Stato
italiano ha sempre avuto la memoria corta. Pentiti. A Palermo, quasi trent'anni
fa era parola d'offesa. Come cornuto e sbirro. Se volevi insultare qualcuno
dicevi: "Sei un Buscetta". O lo apostrofavi proprio in quel modo: pentito. Il
capo dei capi di Cosa Nostra quando parlava di loro scandiva le sillabe -
pen-ti-ti - e si difendeva raccontando che "quelli camminano mani per mani e
sono tutta una bugiarderia". Giulio Andreotti - ce n'erano trentasette che lo
accusavano - rispondeva a tutti loro così: "Vendono bufale a rate". Uno,
Leonardo Messina, alla fine dell'estate del 1992 giurò che il divo Giulio era
addirittura 'punciuto', cioè non un semplice simpatizzante ma un affiliato alle
famiglie mafiose. Allora, se ne parlò tanto di quella rivelazione. Se Leonardo
Messina la dovesse ripetere oggi, lo chiuderebbero in un manicomio giudiziario e
getterebbero la chiave a mare.
In Italia, è andata come è andata anche con i pentiti. Osannati prima, "schifiati",
disprezzati poi. Qualcuno di loro ha retto al cambio di passo dello Stato e
qualcun altro s'è spezzato. In verità tutti, venendo da dove venivano, lo
immaginavano che sarebbe finita così. Nell'abbandono, nella solitudine di chi ha
scelto di buttarsi dall'altra parte. Ripudiati da mogli e perfino da madri ("Io
non li ho mai partoriti quegli infami", gridò nel quartiere palermitano dello
Sperone Marianna, quando i suoi due figli Emanuele e Filippo Di Pasquale si
consegnarono agli agenti della Dia), spremuti dallo Stato e poi lasciati al loro
destino.
È capitato perfino a Francesco Marino Mannoia, il primo dei "corleonesi" a
collaborare alla fine del 1989 con il giudice Falcone, uno che aveva raccontato
come funzionava il traffico di droga fra la Sicilia e gli States (lui stesso
aveva imparato a raffinare la morfina base da corsi e marsigliesi) e che poi era
finito nelle mani degli americani e trattato con i guanti gialli per un
ventennio. Figuriamoci la sorte degli altri. Quelli semi sconosciuti e usati per
incastrare il boss di un paese, quelli che non si chiamano Giovanni Brusca o
Nino Giuffrè, nomi del firmamento mafioso.
Per esempio è solo di qualche giorno fa la notizia che proprio uno dei
collaboratori di giustizia più ignoti, un certo Roberto Spampinato di Catania, è
stato sfrattato dall'abitazione dove era agli arresti domiciliari. Insomma non
può scontare neanche la sua pena perché - come ha scritto il giudice di
sorveglianza del Tribunale di Roma, "non ha più una fissa dimora". Non ha più
casa perché lo Stato non paga il suo affitto. Sono in tutto 90 i pentiti
sfrattati nell'ultimo anno. Le casse del Servizio centrale di protezione sono
vuote. È il crac. Alcuni sono stati dirottati in comunità religiose - conventi
di suore - che li hanno accolti, altri hanno raggiunto senza auto blindata (non
c'erano soldi per la benzina) la Calabria, altri ancora hanno perso l'assistenza
sanitaria. E poi i loro avvocati, da un anno lavorano gratis: non ricevono più
gli onorari. Lo Stato non paga nemmeno loro. Lo Stato non è più in grado di
rispettare il patto che aveva fatto con quei mafiosi che avevano deciso di stare
con la giustizia.
I fondi per i collaboratori erano 70 milioni di euro nel 2006 e 52 milioni nel
2008, 49 milioni nel 2010 e 34 in questo 2011. Un taglio del cinquanta per cento
in cinque anni che di fatto sta mettendo in pericolo molti processi di mafia,
'ndrangheta e camorra. "Anticipiamo soldi di viaggi e alberghi, i collaboratori
non vanno a colloquio nemmeno con i loro familiari perché al servizio di
protezione non hanno il denaro per i trasferimenti", racconta Mariella Di
Cesare, un avvocato che assiste i napoletani Giuseppe Sarno e Paolo Di Grazia e
il casalese Luigi Guida.
Lo Stato non paga l'affitto ma se ne frega anche del resto. C'è un romeno,
Alexandru Bodnariu - pentito di un'associazione mafiosa che regnava su Santa
Maria Capua Vetere - che da mesi chiede le carte per iscriversi all'Università
ma il Servizio di protezione neanche gli risponde. "Nel Servizio di protezione
ci sono anche persone molto responsabili che cercano di risolvere i grandi
problemi che ci sono ma è il sistema che è al collasso, lo Stato ignora le
esigenze primarie di queste persone", denuncia Monica Genovese, avvocata
palermitana che difende Santino Di Matteo - uno dei pentiti della strage di
Capaci - e una dozzina di collaboratori di ultima generazione. Uomini che vivono
con 1200 euro al mese insieme a moglie e due figli ma che ricevono lo stipendio
con settimane di ritardo. O che si ritrovano con la luce tagliata a casa perché
chi deve pagare non paga. O che sono costretti, per una testimonianza, a fare su
e giù per l'Italia per 48 ore perché lo Stato non può permettersi un
pernottamento in un albergo.
L'altro venerdì si è impiccato un esattore del "pizzo" della famiglia
palermitana della Guadagna. Si chiamava Giuseppe Di Maio, la moglie l'aveva
lasciato perché "spione". Non ce l'ha fatta e se n'è andato per sempre. Qualche
giorno prima un altro pentito siciliano ha detto quello che pensava. Era in
udienza, a Roma. Ha chiesto la parola e poi ha cominciato a parlare: "Se voi
lasciate soli i collaboratori non date un buon esempio perché la mafia non li
lascia mai soli i mafiosi. Cosa Nostra assicura uno stipendio ai carcerati e ai
loro familiari, paga anche gli onorari agli avvocati. Io vengo qua perché sono
pentito dentro, altrimenti dovrei solo scappare da questo Stato". Manuel Pasta,
mafioso della famiglia di Resuttana Colli, Palermo.
Non è
un Paese per disabili. Ledha: “Un insegnante di sostegno ogni tre alunni”
Allarme della Ledha: “A rischio l'inclusione
delle persone con disabilità”. Pesano i tagli alle politiche sociali e agli enti
locali, ma anche una cultura politica che vede il welfare come carità, e non
come dovere dello Stato di garantire i diritti.
Gli alunni con disabilità crescono. Solo quest'anno,
per motivi diversi e ancora tutti da indagare, nelle scuole si contano 30.470
disabili, oltre duemila in più rispetto all'anno scorso. Per contro, gli
insegnanti di sostegno sono sempre meno. Effetto dei tagli indiscriminati alle
politiche sociali. Se anche nell'ultima manovra correttiva dei conti pubblici,
all'articolo 19, il rapporto 1:2 tra insegnante e alunno con disabilità è
ricordato come punto di riferimento ottimale, il rischio è che questo rapporto
si aggravi e diventi 1:3.
Secondo un dato reso pubblico oggi dalla Ledha, la Lega per i diritti delle
persone con disabilità, in una lettera aperta al ministro Gelmini, solo nella
regione Lombardia mancano all'appello 3600 insegnanti di sostegno, 42 in meno
rispetto al 2010. Gli 11.622 insegnanti di sostegno assegnati dal ministero
dell'Istruzione sono, secondo la Ledha, "del tutto insufficienti".
Il dato preciso per ora a disposizione riguarda la sola Lombardia, ma il
fenomeno, spiega a PeaceReporter il presidente della Ledha, Fulvio Santagostini,
agisce su scala nazionale. Perché i tagli agli enti locali sottraggono alle
regioni la capacità di integrare con risorse proprie le spese per le politiche
sociali, quali la scuola e la sanità.
Gli insegnanti di sostegno saranno sempre meno. Con quali conseguenze?
Gli insegnanti di sostegno sono strumenti fondamentali per l'inclusione degli
alunni con disabilità. È chiaro che l'integrazione non si esaurisce nel
sostegno, ma questo resta il canale che permette ai ragazzi con disabilità di
entrare nel sistema scolastico. Senza il sostegno, molte persone non potrebbero
semplicemente andare a scuola, o sarebbero costrette a frequentare i centri
specializzati che però non offrono una formazione completa.
Stiamo tornando alle scuole speciali per disabili, quelle che, con una legge
divenuta modello di integrazione apprezzato in tutto il mondo, l'Italia abolì
nel lontano 1977?
Anche se non dovrebbero esistere, quelle scuole non hanno mai del tutto chiuso i
battenti. E le famiglie dei ragazzi con disabilità sono tornate a rivolgervisi,
perché per loro è sempre più difficile garantire ai propri figli percorsi
inclusivi. C'è quindi il grosso rischio che si torni alle scuole speciali.
Addirittura, l'anno scorso un gruppo di consiglieri provinciali e di accademici
ne ha chiesto il ritorno al fine di non penalizzare gli alunni non disabili. La
possibilità di inclusione dei ragazzi con disabilità verrebbe minata alla base.
Con il welfare, affonda anche la tutela dei diritti delle persone con
disabilità?
Nel 2009 il governo italiano ha firmato la Convenzione Onu sui diritti delle
persone con disabilità. Io credo che oggi ci sarebbero tutte le condizioni per
denunciare l'Italia alla commissione di vigilanza delle Nazioni Unite perché
siamo largamente al di sotto del limite del rispetto dei diritti fissato dalla
convenzione. Stiamo continuamente facendo passi indietro, in tutti i campi, non
solo nel diritto all'istruzione. I dati parlano da soli. Dal 2008 al 2011 c'è
stato un taglio di oltre l'87 per cento dei fondi dedicati al sociale, e per
l'anno prossimo sarà ancora peggio. Il fondo per la non autosufficienza è stato
completamente, e dico completamente, azzerato.
Solo colpa dei tagli, o c'è anche una visione generale dietro a tutto questo?
Più in generale, stiamo assistendo a gravi passi indietro sul piano culturale.
Siamo il Paese il cui il ministro dell'Economia ha detto più volte in
televisione che i due milioni e 700mila italiani con disabilità - troppi, a
detta sua - ci impediscono di competere come Paese. Si sta affermando una
cultura che vede l'invalidità come un peso per la società. Si sta passando dal
welfare dei diritti al welfare della carità, perchè ancora nel 2011 sentiamo
dire che bisogna garantire i "bisognosi". Ma chi sono i bisognosi? Lo Stato deve
garantire il rispetto dei diritti, non dispensare carità. È questa la differenza
culturale profonda contro cui dobbiamo batterci.
Cora Ranci
Sicilia, niente tagli alla casta
Nella regione in cui assessori e consiglieri
hanno gli stipendi più alti d'Italia, la giunta ha bocciato le "limature"
chieste dal governatore: nessun privilegio può essere toccato, hanno deciso
all'unanimità i capigruppo Pd, Mpa, Udc e Fli
Il consiglio regionale siciliano è da sempre il più caro d'Italia: 160 milioni
l'anno, più del doppio - ad esempio - di quello lombardo o di quello campano. I
"deputati" regionali (si chiamano così, in quanto la Sicilia è a statuto
speciale) portano a casa mediamente più di quelli di Montecitorio, cioè attorno
ai 15 mila euro netti al mese. La regione ha il record nazionale di consulenze,
auto blu, e prebende varie.
Ma la maggioranza che governa la Sicilia (frutto di un accordo tra Raffaele
Lombardo, eletto con la destra, l'Udc, i finiani e il Pd) ha appena bocciato la
«manovra correttiva» che avrebbe dovuto tagliare (seppur in minima parte) gli
stipendi degli assessori, ridurre alcuni dei costi della politica, accorpare
alcuni enti. «Non ci sono i tempi per approvarla, se ne riparlerà a settembre»,
hanno detto all'unisono i capigruppo di Pd, Udc, Fli e Mpa.
Il tutto avviene mentre, a causa dei conti non brillanti della Regione, la
stessa giunta ha fatto sapere di non riuscire a trovare i 30 milioni necessari a
neutralizzare i ticket varati da Tremonti, che quindi in Sicilia verrano pagati.
La bozza che il governatore aveva preparato conteneva 38 pagine di piccoli
tagli, compresa la riduzione delle auto blu , dei rimborsi per gli assessori,
degli uffici di gabinetto e di altre voci legate al costo della politica in
regione.
I capigruppo Antonello Cracolici del Pd, Giulia Adamo dell'Udc, Francesco
Musotto dell'Mpa e Livio Marrocco di Fli sono stati unanimi nel respingerlo:
«Questa non è una manovra correttiva ma una vera finanziaria», hanno detto,
quindi non può essere approvata così in fretta, va studiata, emendata eccetera
eccetera.
Intanto, naturalmente, niente tagli: i privilegi dei politici siciliani
resteranno del tutto intoccati. Alcuni dei quali, ormai, sono entrati nel mito:
come il caffè alla buvette che costa 36 centesimi, gli spaghetti alle vongole
che al ristorante interno costano 1,85 euro, o il contributo di 5000 mila euro
che la Regione siciliana assicura ai deputati, ex compresi, per una degna
sepoltura.
Com'è
molesta la Telecom
di Alessandro Longo
L'Authority ha diffuso l'elenco delle aziende
che ci telefonano a casa violando il registro delle opposizioni: in testa le
compagnie telefoniche, ma nella top ten dei rompiscatole ci sono anche Enel, Eni
e Sky
Sta per fioccare la prima grandinata di multe, fino a 120 mila euro l'una e per
un totale di 600 mila euro, per le aziende che hanno fatto telefonate
pubblicitarie infischiandosene del Registro delle opposizioni (istituito nel
2010), cui si iscrivono le persone che non vogliono essere disturbate dal
telemarketing (oggi 600 mila nominativi, su un totale di 17 milioni presenti
negli elenchi). "Abbiamo ricevuto 1.200 segnalazioni di utenti e nei prossimi
mesi apriremo centinaia di istruttorie sulle aziende", dice Francesco Pizzetti,
presidente dell'Autorità per la privacy, che ha compilato un elenco degli autori
delle violazioni.
Il 5 luglio l'Authority ha emanato un provvedimento secondo cui le aziende
rispondono anche degli illeciti compiuti dalle agenzie di outsourcing cui hanno
affidato le campagne pubblicitarie telefoniche. "Indagheremo per scoprire se le
aziende prima di far partire le telefonate hanno consultato il Registro, come
previsto dalle norme", dice Pizzetti, "e se non l'hanno fatto, lo segnaleremo
alla magistratura". A quel punto l'illecito può diventare penale.
Chiunque può iscriversi al registro, mentre chi non figura nell'elenco non può
comunque essere chiamato, se non dopo aver fornito il proprio espresso consenso.
25 luglio
Pranzo
di lusso: sette euro
di Emiliano Fittipaldi
Risotto con rombo: 3,34 euro. Carpaccio di filetto: 2,76. Dolce: 1,74. Il
tutto di servito da camerieri in livrea. E' il ristorante del Senato. Terza
puntata delle confessioni all'Espresso del parlamentare Carlo Monai: dove non ci
parla solo di cibo ma anche di mutui superagevolati, di terme e di massaggi
shiatsu a spese del contribuente
Carlo
Monai, il deputato dell'Idv che ha deciso di raccontare tutti i privilegi della
Casta, continua a stupirci.
Racconta che a Montecitorio e Palazzo Madama arrivano ogni giorno inviti per
mostre, happening vari, sfilate di moda. Il cibo si paga? «Dipende. Il bar della
bouvette è in linea con i prezzi di mercato. Il ristorante, invece, no. Ci costa
in media 15 euro, ma la tavola è apparecchiata come un tre stelle Michelin, i
camerieri sono in livrea, lo chef è bravo e prepara piatti di grande qualità. Io
cerco di non appesantirmi, e ci vado raramente. L'unico appunto», chiosa
sorridendo, «riguarda la cantina: ci sono ottimi vini, ma nessuna bottiglia
friulana».
Al Senato si può mangiare uno spaghetto alle alici a 1,60 euro, un carpaccio di
filetto a 2,76 euro, un pescespada alla griglia a 3,55 euro. Prezzi ridicoli.
«Anche in consiglio regionale c'era un buon self service. Primo, secondo, caffè
e frutta a 10 euro». Pure uno shampoo costa poco: la nostra guida è un
frequentatore della mitica barberia della Camera, dove un taglio costa 18 euro
(al Senato, invece, è gratis). «In questo caso, credo che sia un servizio da
conservare: consente al parlamentare di avere sempre un aspetto dignitoso, anche
quando arriva il martedì con i capelli spettinati».
Ma i servizi dedicati ai politici non finiscono qui. Dentro Montecitorio c'è uno
sportello del Banco di Napoli, diventato famoso perché il consigliere Marco
Milanese ha movimentato, su un conto dell'agenzia Montecitorio, qualcosa come
1,8 milioni di euro in pochi anni. Non è il solo ad aver aperto un conto lì,
visto che gli onorevoli possono approfittare di tassi agevolati per mutui e
prestiti.
Precisa Monai: «Molti usano la diaria non per affittare la casa a Roma, ma per
comprarla. L'importante è essere rieletti. Per un mutuo di 150 mila euro a
cinque anni il tasso fisso è appena del 2,99 per cento, uno o due punti sotto
quello di mercato. Idem per un prestito: possiamo avere un tasso agevolato al
2-3 per cento».
Anche le prestazioni sanitarie sono rimborsate: Monai dopo un incidente in cui
ha distrutto una Mercedes ha ottenuto il rimborso di 580 euro di massaggi, e
ammette che il Parlamento gli paga cinque giorni di cure termali l'anno.
I radicali hanno scoperto altri benefit: occhiali gratis, psicoterapia pagata,
massaggi shiatsu, balneoterapia. Tutti servizi destinati a oltre 5.500 persone,
tra deputati e familiari. Alla Camera, poi, non si chiama mai il 118: ci sono
anche alcuni infermieri nascosti tra gli scranni dell'Aula adibiti a "rianimare"
il deputato nel caso si sentisse male. Costano al contribuente 650 mila euro
l'anno.
Dopo una vita da nababbo, l'ex parlamentare o il consigliere non viene
abbandonato dalla casta. L'assegno di fine mandato non si nega a nessuno, e il
vitalizio scatta per tutti. Per prendere una pensione bastano cinque anni di
mandato alla Camera o al Senato, (in media 6 mila euro a testa al mese), per una
spesa che nel 2013 toccherà i 143,2 milioni di euro l'anno. Tra le Regioni solo
l'Emilia-Romagna ha abolito il vitalizio, tutte le altre non ci pensano nemmeno:
così nel Lazio può accadere che gli ex e i trombati si prendano 4 mila euro al
mese ad appena 55 anni.
Non male, in tempo di crisi.
Argentina, il paese degli schiavi
Sono almeno cinquecentomila le persone ridotte in schiavitù, per sesso o per
lavoro. Il governo corre ai ripari, ma la piaga resta
La Organizzazione non governativa argentina La Alameda ha lanciato una denuncia
shock: cinquecentomila persone in Argentina sono ridotte in schiavitù. Due gli
ambiti: sessuale e lavorativo. E si tratta perlopiù di immigrati irregolari
senza documenti e di adolescenti. Ma la cifra potrebbe addirittura essere più
cospicua.
Gustavo
Vera, presidente della Ong, ha spiegato in una conferenza stampa a Buenos Aires,
come la maggioranza dei lavoratori schiavi si trovino nel settore agricolo, in
campi lontani dai centri urbani, e che l'Argentina conta ottomila bordelli
illegali con sessantamila schiave del sesso, remunerate con somme denigranti.
Numeri che coincidono con i dati della Rete nazionale stop al traffico, alla
tratta e allo sfruttamento sessuale commerciale di bambini, bambine e
adolescenti (Ratt) che aggiunge come ogni anno spariscono circa 500 adolescenti
poi schiavizzati.
Cifre incredibili che la Oficina de Rescate y Acompañamiento a Personas
Damnificadas por el Delito de Trata e il Ministerio de Justicia y Derechos
Humanos de la Nación hanno cercato di affrontare organizzando molti interventi.
Ma evidentemente non sufficienti. Fra l'agosto 2008 e l'aprile scorso sono stati
riscattate 2130 schiavi, di cui 303 minorenni, ma ne restano ancora troppi.
E c'è chi parla di cifre approssimate per difetto, facendo quindi intravedere
uno scenario peggiore: è Viviana Caminos, coordinatrice nazionale della Ratt.
"Le cifre dei minori scomparsi dovrebbero essere almeno moltiplicate per quattro
per avvicinarci alla realtà", ha spiegato, sottolinenado però la difficoltà di
documentare tali tragedie, che dunque restano sottostimate. Attualmente si
contano almeno 8500 desaparecidos in mano agli aguzzini, contro i quali lo Stato
ha ingaggiato una guerra per ora persa. Fra la gente, infatti, è tanta la paura
e molti i dubbi sulle forze di sicurezza.
Una situazione che ha spinto la presidente argentina, Cristina Fernández, a
correre ai ripari, almeno per arginare lo sfruttamento sessuale. Il 5 luglio ha,
infatti, promulgato un decreto che proibisce la pubblicazione di avvisi sulle
offerte sessuali nei mass media, amplificando la Ley de Trata de Personas. "Così
abbiamo fatto un passo importante non soltanto nella lotta contro la tratta
delle persone, ma anche contro la discriminazione, perché l'offerta sessuale non
solo veicola il delitto di tratta di persone, ma è anche frutto di una profonda
discriminazione contro le donne", ha commentato la premier. Non solo: dal 13
aprile scorso il Codice penale argentino prevede anche il delitto di sparizione
forzata per mano di funzionari pubblici o individui che agiscono con
l'assistenza o la protezione dello stato. "Si condanna, così, chi, agendo con
l'autorizzazione, l'appoggio o la accondiscendenza dello Stato, in qualsiasi
forma, priva uno o più persone della libertà", recita la normativa. Una sfida,
quello di risolvere questa piaga, che per il governo è da tempo una delle più
difficili. Nei primi mesi del 2011 sono state riscattate almeno 681 persone e
sono già in atto i procedimenti penali per arrivare a sentenza definitiva ed
esemplare contro i colpevoli.
Stella Spinelli
Livorno,
i precari del porto
Dopo anni di contratti a giornata e nessuna certezza, gli interinali di Intempo
protestano e chiedono diritti e garanzie
Sono
rimasti schiacciati dalla crisi, bloccati al primo gradino della scalinata che
avrebbe dovuto portarli dritti dritti nelle braccia sicure della Compagnia
Portuale. Sono i lavoratori precari del porto di Livorno, imprigionati
nell'interinale Intempo da cinque-sei anni, con stipendi da fame e l'incertezza
dell'impiego, che impedisce loro ogni progetto di vita.
Riscuotono solo se e quando lavorano. Hanno contratti di un giorno e vivono
appesi al cellulare. È con un sms che vengono avvertiti con preavvisi di poche
ore di presentarsi al lavoro. E se non rispondono, è finita. Vengono messi al
bando ed esclusi. Una vita in bilico, che costringe padri di famiglia a
racimolare lavoretti al nero per non morire di fame e per non buttare via anni
di vita e di speranza investiti nel porto. La promessa dell'assunzione li ha
sempre spinti a chinare il capo, ad accettare in silenzio, a stringere i denti.
Ma adesso non ce la fanno più.
E così, in ventisette hanno bloccato lo sbarco di un traghetto pieno di camion
martedì sera e chiesto con forza un incontro con il presidente dell'Autorità
Portuale che li ha ricevuti ieri. "Purtroppo questi ragazzi sono gli ultimi
della catena occupazionale portuale - ci spiega Enzo Raugei, presidente della
Compagnia portuale e vicepresidente di Intempo -. Ma fino a pochi anni fa, si
entrava così: si faceva la gavetta per un po' e poi scattava l'assunzione nella
Compagnia e all'Agenzia di lavoro portuale. Talvolta anche al Terminal Darsena
Toscana venivano assorbiti i lavoratori. E a quel punto era fatta. Adesso con
questa grave crisi, il lavoro per tutti non c'è e a rimetterci sono stati
proprio loro, ai quali non spetta nemmeno uno stralcio di indennità per i giorni
non lavorati". La Intempo nacque come ausilio alla catena lavorativa, per
fornire manodopera nei momenti di grande picco. Era un ottimo trampolino di
lancio da sempre gestito dalle medesime persone che gestiscono Agelp e
Compagnia. Bastavano in media due anni e un lavoratore era al sicuro. In questi
tempi di magra, invece, tutto si è sgretolato e non ci sono più certezze. Ma
Raugei assicura: "Ci sono timidi segnali di ripresa del lavoro. Devono soltanto
tenere duro ancora un po'. Appena questa ripresa si consolida, con il permesso
dell'Autorità portuale e del Ministero, questi ragazzi saranno assunti e finirà
il loro calvario".
Ma nel frattempo Giuliano, Marco, Luca e tutti gli altri come vanno avanti? Con
la media di duecento euro al mese e una famiglia da campare? "Sì, 54 euro, ho
preso 54 euro perché in quel mese ho lavorato un solo turno", ha raccontato al
Tirreno Giuliano Giuliani, 48 anni e due figli, il più anziano degli interinali.
E come lui Luca, 35 anni e una bimba piccola che quest'anno non ha fatto il 730
perché non ha raggiunto la soglia minima di entrate. "L'anno scorso ho lavorato
6-7 turni. Non abbiamo neppure la disoccupazione speciale perché non
raggiungiamo i 78 turni all'anno. Ovvio che con 200 euro non si vive".
Stella Spinelli
13 luglio
4mila litri d'acqua a
bistecca
gli sprechi che non vediamo
Miliardi di metri cubi utilizzati per coltivare cibi che poi
vengono buttati via come le 177mila 479 tonnellate di mele
rimaste sui campi nel 2009 perché sconveniente raccoglierle. La
Ue scende il campo per il consumo responsabile
di ANTONIO CIANCIULLO
ROMA - Una
bella fiorentina al sangue da 3 etti costa 4.650 litri di acqua.
Per il contorno di patate arrosto che l'accompagnano ce la
caviamo con 25 litri. Il piatto di ciliegie fa 373 litri. E la
tazzina di caffè 140. A tavola non contano solo le calorie:
senza accorgercene divoriamo un fiume di acqua che è servita a
coltivare e ad allevare i prodotti che finiscono nel nostro
piatto. E, quando buttiamo via il cibo, buttiamo anche l'acqua
che contiene.
Se ci fermiamo al singolo pasto, i numeri appaiono limitati. Ma
se prendiamo le 177.479 tonnellate di mele rimaste sul campo nel
2009 perché raccoglierle non era più conveniente, scopriamo che
per farle crescere c'erano voluti 124 milioni di metri cubi di
acqua: gettati via. Per i pomodori è andata peggio: 3,5 milioni
di tonnellate sprecate equivalgono a 644 milioni di metri cubi
di acqua. E per le olive non utilizzate (3,4 milioni di
tonnellate) si arriva a 6,5 miliardi di metri cubi di oro blu.
In totale in Italia nel 2010 sono stati sprecati 12,6 miliardi
di metri cubi di acqua per colpa di 14 milioni di tonnellate di
prodotti agricoli non raccolti.
Per arginare questa
emorragia, il Parlamento europeo ieri ha chiesto ufficialmente
di proclamare il 2013 anno europeo contro lo spreco alimentare.
"È un percorso che abbiamo iniziato nel 2010 con il Libro Nero
contro lo spreco alimentare promosso da Last Minute Market e che
continua quest'anno con il Libro Blu contro lo spreco idrico",
spiega il presidente della Commissione agricoltura europea
Paolo De Castro. "Ora, con il
rapporto Caron, siamo passati a una fase operativa: dobbiamo
mettere a punto misure concrete per vincere questa battaglia".
Anche se la Terra è avvolta per il 70 per cento dall'acqua, solo
una piccola quota degli 8 milioni di chilometri cubi di acqua
dolce è effettivamente utilizzabile e la pressione congiunta di
crescita demografica, aumento dei consumi pro capite e
inquinamento stanno rendendo la risorsa idrica un bene sempre
più prezioso. E sempre più conteso, come dimostra la
moltiplicazione dei conflitti per il controllo dei fiumi in un
mondo in cui 1,4 miliardi di persone non ha accesso all'acqua
potabile.
"La favola a lieto fine che ci avevano insegnato a scuola, con
l'acqua che arriva al mare, poi sale sotto forma di nuvoletta e
torna a scendere con la pioggia in un ciclo infinito che
permette a tutti di bere, non è più vera", spiega Andrea Segrè,
preside della facoltà di Agraria a Bologna e animatore della
campagna contro lo spreco. "I conti non tornano perché stiamo
usando più acqua di quella disponibile senza impoverire le
riserve e, soprattutto, ne utilizziamo una quantità incredibile
per produrre alimenti che poi buttiamo via al momento della
raccolta, della distribuzione o del consumo: in Italia ogni anno
si spreca una quantità di cibo che basterebbe a sfamare, nello
stesso periodo, tutti gli spagnoli".
La dieta mediterranea aiuta a contenere il consumo idrico (500
metri cubi di acqua pro capite all'anno contro i 900 della dieta
anglosassone), ma l'equilibrio tra zone assetate e zone capaci
di acquistare acqua virtuale importando i cibi che la contengono
si fa sempre più precario.
Nella campagna Last Minute Market contro lo spreco idrico,
sostenuta da Eni e Unicredit e presentata domani a Roma, si
precisa che l'88 per cento delle risorse idriche è consumato
dall'11 per cento della popolazione mondiale. Un abitante di un
paese povero sopravvive con 20 litri al giorno, in Italia si
arriva a 213, negli Stati Uniti a 600. L'Italia, che ha il
record europeo dei consumi idrici domestici, è in testa alla
classifica anche per il consumo di acqua minerale che, secondo i
dati di Last Minute Market, incide per il 9 per cento sul costo
della dieta tipo di un uomo adulto che scelga questa opzione.
6
luglio
Prezzi luce e gas più alti d'Europa, penalizzate famiglie con consumi alti
ROMA
- Più alti d'Europa, i prezzi di luce e gas restano più alti in Italia rispetto
all'Unione Europea. Questo vale sia per le imprese che per le famiglie anche se,
per queste ultime, il divario si sta riducendo. È quanto emerge dalla relazione
dell'Autorità dell'energia al Parlamento, la prima relazione targata Guido
Bortoni, dopo l'insediamento alla guida dell'Authority. "Senza infrastrutture
l'Italia sarà condannata a diventare una 'provincia' del gas e non un
Paese-snodo che assume un ruolo cruciale nel nuovo contesto sovranazionale", ha
dichiarato il presidente Bortoni nella relazione.
Oggi a essere più penalizzate sono le famiglie con consumi più alti mentre per
quelle con consumi più bassi il prezzo è inferiore del 12% rispetto alla media
europea. "Per i consumi più elevati, l'italia presenta prezzi lordi dell'energia
elettrica relativamente più elevati della media europea (+12,3% al lordo
imposte), sebbene il divario si sia attenuato rispetto al passato" con un calo
del 4%. Invece nel secondo semestre 2010 le imprese italiane hanno pagato prezzi
dell'energia elettrica, al lordo delle imposte, "superiori alla media europea
per tutte le classi di consumo". Analoga la situazione per il gas.
Il confronto con l'analogo periodo dell'anno precedente, riferito alla medesima
classe di consumo, "evidenzia in Italia una diminuzione dei prezzi dell'energia
elettrica per usi domestici in italia del 4%, contro un incremento medio per
i prezzi europei che si attesta intorno al 5%". Con riferimento alle classi di
consumo superiori a 5.000 Kwh annui, nel secondo semestre 2010 "i prezzi lordi
italiani hanno registrato riduzioni comprese tra l'8% e il 12% rispetto allo
stesso periodo dell'anno precedente, mantenendo tuttavia un differenziale
notevole rispetto ai prezzi medi europei".
"Nel 2010 il prezzo italiano del gas al netto delle imposte - si legge nella
relazione - per un consumatore domestico, si è collocato su livelli in linea con
la media europea per tutte le classi di consumo, con scostamenti positivi o
negativi inferiori o intorno al 5%. Il prezzo del gas per le utenze domestiche
si è collocato a un livello superiore rispetto al prezzo medio europeo se
calcolato al lordo delle imposte, con scostamenti positivi progressivamente
crescenti per le classi di consumo più alte, in conseguenza di un livello di
imposizione fiscale relativamente elevato rispetto alla media dei paesi
europei". Un po' meglio la situazione per le imprese con alti consumi.
Rio, la
cacciata dei poveri
In vista di Mondiali e Olimpiadi, la capitale
carioca demolisce oltre 3000 case delle favelas, costringendo la gente ad
andarsene lontano dal cuore cittadino
Oltre tremila case da demolire per far posto a
Mondiali e Olimpiadi. È quanto stanno facendo le autorità di Rio de Janeiro per
ripulire la città e far sì che sia pronta per i grandi eventi: Mondiali di
Calcio del 2014 e Olimpiadi del 2016. Peccato che tutto questo comporti lo
sfollamento forzato di migliaia di famiglie povere e disagiate, che in cambio
avranno pochi spiccioli e il ben servito. Ottomila reais, l'equivalente di 5mila
dollari, è il risarcimento previsto per coloro che dalla sera alla mattina si
ritrovano senza casa, senza quartiere, senza una vita. Ottomila reais quando per
avere una nuova casa ce ne vogliono almeno quattro volte tanto. Per non parlare
dei disagi che un assegno con cifre e scritte può provocare in famiglie dove
nessun adulto è capace né di leggere né di scrivere. E la storia di Berenice
Maria De Neve la dice lunga.
Un giorno di maggio è stata convocata dal Comune, nel centro della città, a più
di un'ora di autobus dalla sua favela. Lì l'avvertono che la sua casa è fra
quelle da demolire e che in cambio le daranno un bell'assegno. Quando rientra,
ritrova soltanto un cumulo di macerie. Nemmeno il tempo di svuotarla. "Sono
arrivati e l'hanno abbattuta. Distruggendo tutto, il mio tavolo, il mio divano,
il mio armadio pieno della mia roba. E quell'assegno! Ho avuto una terribile
esperienza nel ercare di cambiarlo perché non so leggere né scrivere", racconta
la donna disperata a BbcMundo. La sua casa è una delle mille demolite in quel
quartiere dove Berenice e la sua famiglia vivevano da otto anni e dove adesso
dovrà passare un'autostrada gigantesca, per supplire alla carenza di
infrastrutture tipica del Brasile.
Nonostante questa politica di allontanare il più possibile i poveri da Rio,
costi quel che costi, sia stata criticata sia dal relatore speciale del
Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che da Amnesty Internacional,
le autorità insistono nel dire che stanno trattando la gente nella forma più
giusta possibile.
Secondo l'urbanista Luis Borges Ferreira, con la scusa di Mondiali e Olimpiadi,
c'è una corsa a costruire nuove abitazioni in quartieri da sempre poveri per
crearne nuovi che siano adatti alla crescente classe media, frutto della potente
crescita economica brasiliana.
Intanto, fra coloro che come Berenice sono rimasti senza nulla, c'è chi è stato
ripagato con una nuova abitazione a Campo Grande, a un'ora e mezza dal centro,
nel nulla più assoluto. Le case però sono soltanto ottocento e gli altri si
arrangiano. Lei infatti sta vivendo fra le rovine vicino a dove abitava prima,
con tutto intorno acqua stagnante e la paura del dengue.
Cleyton Martins, un cameriere di 27 anni che è stato spostato con sua figlia e
sua madre nel nuovo quartiere, è comunque molto preoccupato: "La casa dove sto
vivendo ora è migliore di quella che avevo - ammette a BbcMundo- ma non ci sono
negozi, non ci sono posti dove far giocare i bambini e siamo molto lontani dalla
città". Niente ospedali nei dintorni, né farmacie, nessun tipo di servizio.
Per il consigliere Eliomar Coelho la maniera con la quale le autorità stanno
trattando i poveri è "criminale", dato che usano la Coppa del Mondo e le
Olimpiadi come pretesto per appropriarsi della terra e far fare grandi affari
agli impresari edili: "E' una totale violazione dei diritti umani".
Stella Spinelli
Provincia di Milano, concorso con il trucco. Lo scandalo del dg per l’agenzia
del Lavoro
Luigi Degan all'agenzia per il lavoro ma senza
titoli. C'è un esposto in Procura. Incarico da 130mila euro l'anno all'uomo del
presidente Podestà. Ma dal notaio il nome era già scritto da un mese. E intanto
si licenziano i precari
Il presidente della Provincia di Milano Guido
Podestà Indovina chi viene in Provincia. Un
gioco facile facile: arriva l’uomo di fiducia del presidente. Facile al punto
che i consiglieri sospettosi possono andare da un notaio, depositare quel nome
con largo anticipo e attendere con tutta calma l’esito del concorso. Risultato:
all’apertura delle buste, il più qualificato è… l’uomo del presidente. E scatta
l’esposto in Procura.
Tutto questo succede in Provincia di Milano dove il 31 gennaio scorso è
ufficialmente partita la procedura di evidenza pubblica per individuare il nuovo
Direttore generale dell’Agenzia per la formazione e il lavoro (Afol), l’ente che
gestisce gli ex sportelli provinciali del lavoro.
La nomina di Luigi Degan è stata al centro di una doppia partita, durissima, tra
maggioranza e opposizione in consiglio e tra correnti dello stesso Pdl al chiuso
dellufficio di presidenza. In pratica l’affaire Afol ha anticipato lo strappo
tra Podestà stesso e i reggenti del centrodestra locale Casero e Mantovani, con
il primo che avrebbe cercato di imporre a tutti i costi l’uomo di fiducia e gli
altri intenzionati a vendere cara una poltrona che vale 130mila euro l’anno per
tre anni.
Risultato: un pasticcio su tutti i fronti. Che nella puntata di oggi, grazie
all’iniziativa di Matteo Mauri e Ezio Casati (Pd) ha il suo epilogo più
divertente e preoccupante con dieci righe che inchiodano Podestà e il suo
favorito. Il documento è una scrittura depositata con atto notarile il 9
febbraio scorso, cioé appena aperta la gara per il posto da direttore generale.
Il testo non lascia spazio a dubbi: “I sottoscritti consiglieri provinciali
Casati e Mauri, informati che Afol Milano ha indetto un bando per la ricerca
delle figura del Direttore generale dell’Agenzia, dichiarano di essere venuti a
conoscenza che il vincitore sarà il dott. Luigi Degan. (…) Se il nome scelto
sarà quello indicato, si manifesterebbe una gravissima violazione delle più
elementari regole di trasparenza”.
Un mese dopo, il 4 marzo, il cda di Afol nomina il nuovo direttore: Luigi Degan.
E non è tutto. Perché se nella nomina c’è il trucco, questo sembra avere un pari
corrispettivo nei requisiti del bando o nelle credenziali del proponente. Così i
consiglieri chiedono formalmente di ottenere tutte le carte utili a verificare
le competenze del nuovo dg. Ma gli viene negato. Si rivolgono al Prefetto che
impone alla Provincia di mettere a disposizione tutti gli atti. E viene fuori di
tutto. Degan risulta persona qualificata, certo, peccato che il suo cv sia stato
“gonfiato” ad arte perché avesse i requisiti che altrimenti non avrebbe mai
avuto, secondo i consiglieri, per ricoprire quella posizione.
A dirlo non sono solo i detrattori del dirigente ma i suoi stessi datori di
lavoro. L’elenco delle esperienze curricolari poi risultate false e mendaci è
ora al vaglio della magistratura. Nel mirino finisce la sua esperienza presso il
Centro studi Adapt, Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul
Diritto del Lavoro e sulle Relazione industriali, dal 2002 al 2004 e presso
Confindustria Bergamo dal 2007 al 2011. Queste esperienze, riporta l’esposto,
oltre ad essere evidentemente non aderenti al profilo ed ai requisiti di
ammissione richiesti, risultano anche non veritiere.
Presso Confindustria, è risultato dalle indagini successive, Degan era un
semplice funzionario amministrativo e presso Adapt svolgeva un lavoro di
classico “assistente universitario”. Non certo quel ruolo di “coordinamento
direzionale di strutture tecnico direzionali” con il quale si è assimilato il
lavoro di Degan al requisito del bando nel “vantare una qualificata e
pluriennale esperienza, di almeno 5 anni, nel coordinamento direzionale di
strutture tecnico gestionali complesse, con poteri di direttiva e spiccate
competenze nel ramo del lavoro e della Formazione Professionale”.
A rivelare quanto poco aderente al vero fossero gli incarichi di Degan, si
diceva, sono le lettere dei suoi datori di lavoro. Per gli anni dal 2002 al
2004, ad esempio, l’esposto presenta una dichiarazione del Professor Michele
Tiraboschi, direttore scientifico di Adapt, in risposta ad una richiesta
ufficiale del Presidente della Commissione Garanzia e Controllo della Consiglio
provinciale che pur esprimendo apprezzamenti circa il lavoro svolto dal Degan
presso Adapt, escluda che questi abbia svolto alcuna attività di coordinamento
direzionale di strutture tecnico gestionali complesse con poteri di direttiva e
tanto meno di spesa come chiedeva il bando provinciale e attestava il cv del
candidato. Adapt al tempo inoltre, per stessa dichiarazione del professor
Tiraboschi, era una esile struttura che contava tre dipendenti, alcune
collaborazioni e stagisti. Altro che “struttura tecnico gestionale complessa”.
Duro il commento di Matteo Mauri (Pd) che, oltre a svelare il trucco, pone
l’accento sui problemi dei lavoratori Afol sui cui si è abbattuta la forbice
della Provincia: “Qui c’è in ballo anche la sorte di 27 lavoratori precari di
Afol che l’amministrazione guidata da Podestà ha lasciato a casa. Senza
dimenticare che una riduzione di personale così elevata sta causando anche
grossi problemi al servizio fornito dall’agenzia. Ne hanno fatto recentemente le
spese gli insegnati precari che si sono recati nei giorni scorsi negli uffici di
viale Jenner per presentare domanda di disoccupazione. Oltre 700 persone hanno
fatto la fila sotto il sole. Un vero pasticcio, le cui conseguenze le stanno
pagando i lavoratori precari e i disoccupati”.
Insomma, da una parte si regala e dall’altra si taglia.