25 gennaio
 

Terre-mutate [7\8 maggio 2011 @ L'Aquila]

Uno sguardo diverso. Lo sguardo delle donne. L’Aquila: tutti l’hanno guardata, ma chi l’ha vista veramente? Il comitato “Donne terre-mutate” lancia un incontro nazionale a L’Aquila per il 7 e l’8 maggio 2011. Per portare le donne di tutta Italia a vedere L’Aquila come è. A sentirne gli odori, a toccare le spaccature e a stringere mani. Per accompagnarle a visitare la “zona rossa” ancora militarizzata, ad entrare nelle C.A.S.E. dove (non) si vive bene, a camminare nei quartieri vuoti e abbandonati, a passeggiare nel centro dopo le undici di sera (prima che chiudano i cancelli!).

Vogliamo portarvi nei luoghi che la televisione non ha mai fatto vedere. Un pensiero diverso. Il pensiero delle donne. Dal 6 aprile 2009, a L’Aquila, le donne riflettono, discutono, lavorano e progettano, mettono insieme competenze e talenti. Sono le donne delle associazioni, dei luoghi di lavoro, della scuola, dell’arte. Sono le donne che ricostruiscono quel che è permesso ricostruire in un modo differente dagli uomini.

Vogliamo confrontarci con donne di tutta Italia, con altri talenti e con altre competenze. Un’altra città. La città delle donne. Le donne a L’Aquila ri-tessono la vita quotidiana frammentata, vedono il tempo bruciarsi nelle distanze fra il centro storico ancora chiuso e i satelliti tutto intorno, il degrado di case libri mobili suppellettili e luoghi d’incontro un tempo agevoli. Ma dal caos nascono anche nuove occasioni che le aquilane vogliono condividere con donne di tutta Italia. Un momento di gioia, una festosa trama di relazioni: semi di ricostruzione e di rinascita, da gettare nella terra tutte insieme.

SOPRATTUTTO ABBIAMO UN SOGNO:

COSTRUIRE NELLA NUOVA CITTÀ UN LUOGO DELLE DONNE.

BEN VENGANO LE DONNE A MAGGIO.

MANI-FESTIAMO. SIAMO TUTTE AQUILANE

Comitato Promotore “Donne terre-mutate per l’incontro nazionale del 7 e 8 maggio 2011”:
Biblioteca delle donne Melusine L’Aquila
Centro Antiviolenza per le Donne L’Aquila
Donne in nero L’Aquila
Leggendaria. Libri Letture Linguaggi

CON LE PRIME ADESIONI: Artisti Aquilani
Circolo Arci Querencia
Comitato Familiari delle Vittime della Casa dello Studente
Genitori si diventa/ Sezione aquilana

PER ADERIRE: laquiladonne@gmail.com

 

Le altre donne

di Concita De Gregorio

Esistono anche altre donne. Esiste San Suu Kyi, che dice: «Un'esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all'istruzione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».

Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni: portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E perché pensano che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone l'esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano titolari di ministeri.
Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E l'assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L'assenza di un'alternativa altrettanto convincente. E questo il danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l'Italia ridotta a un bordello.

Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull'Italia, oggi, non è cosa faccia Silvio B. e perché.

La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda è: perché lo votate? Non può essere un'inchiesta della magistratura a decretare la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l'accertamento dei reati che ha commesso: dei reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino miserie private.

Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi e come li ha fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l'esempio, la guida, il padrone.

Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano al di là dei reati, oltre i vizi un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il momento di dirlo.

 

19 gennaio

 

Buon compleanno, Paolo

di Umberto Lucentini

Il giudice Borsellino ucciso a Palermo il 19 luglio 1992Oggi il giudice Borsellino avrebbe compiuto 71 anni. Mai come adesso sarebbe stato prezioso in un Paese nel baratro. Ecco come verrà ricordato in diverse città d'Italia

«Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontando piccoli ma significativi episodi della sua vita tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per come ci hai insegnato a vivere». Ha scelto queste parole Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, per ricordare il compleanno del padre, procuratore aggiunto di Palermo ucciso nella strage di via D'Amelio del 19 luglio del 1992.

Oggi, 19 gennaio, Paolo Borsellino avrebbe compiuto 71 anni (1940-1992). La sua morte, 57 giorni dopo quella dell'amico e collega Giovanni Falcone, ha segnato la seconda strage della serie di attentati che ha colpito la Sicilia e l'Italia tra il '92 e il '93 in quella stagione culminata con la trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra di cui si stanno occupando le indagini delle procure di Palermo e Caltanissetta.

«Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all'interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua» ha scritto Manfredi nella testimonianza per il libro "Era d'estate", curato da Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi, con prefazione di Pietro Grasso (Pietro Vittorietti editore).

«La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in "familiari superstiti di una vittima della mafia", che noi vivessimo come figli o moglie di... desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva "Paolino" sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e per il momento unico nipote maschio».

Mercoledì in diverse città d'Italia il compleanno di Paolo Borsellino verrà ricordato in scuole, teatri, piazze. A Castelvetrano l'ex collaboratore di giustizia, Vincenzo Calcara, alle 10 incontra al teatro Selinus gli studenti del suo paese d'origine, dove torna per la prima volta dopo venti anni. Calcara, affiliato alla cosca dei Messina Denaro, nel 1991 svelò a Borsellino che la "famiglia mafiosa" di Castelvetrano lo aveva incaricato di ucciderlo. Ma Calcara fu arrestato e, in cella, decise di collaborare con la giustizia raccontando a Borsellino i progetti di Cosa nostra. A Castelvetrano ci sarà anche Antonio Ingroia, "pupillo" di Borsellino e oggi procuratore aggiunto. «Se non avessimo potuto colpire Borsellino avremmo dovuto uccidere Ingroia al suo posto», raccontò Calcara.

E in un libro appena pubblicato ("Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino" di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo, Aliberti editore) Ingroia parla così delle indagini sulla trattativa e su esecutori e mandanti della strage di Via D'Amelio: «Una storia aperta che non ha, non può ancora avere una sua conclusione fin quando non verrà scoperta tutta la verità su una delle stragi di mafia più anomale della storia della nostra Repubblica, e che perciò trova la spiegazione più plausibile della sua anomalia nella sua matrice verosimilmente non solo mafiosa, come sospettammo tutti fin dalla stessa sera della strage. Un'intima consapevolezza di tanti che ora sembra diventare concretezza investigativa, e forse si appresta a trasformarsi in certezza probatoria. Un importante contributo alla chiarezza in un momento di grande confusione nel nostro Paese, all'emergere della verità in una fase molto delicata della storia d'Italia. Con l'augurio che coloro che quella Verità la vogliono fortemente riescano a prevalere sui Nemici della Verità e della Giustizia».

 

18 gennaio

Il capolinea

SIAMO dunque arrivati alla domanda capitale del tragico quindicennio berlusconiano: può governare un Paese democratico un leader che da giorni è lo zimbello del mondo per i festini con minorenni prostitute, pagate e travestite da infermiere per eccitare il satrapo stanco? Con ogni evidenza no. In qualsiasi Paese normale un premier coinvolto nel ridicolo e nello squallore di questo scandalo si sarebbe già ritirato a vita privata, per difendersi senza coinvolgere lo Stato nella sua vergogna.

La giustizia dirà se ci sono reati con minori e se c'è la concussione, com'è convinta la Procura di Milano. Ma intanto ciò che emerge dalle carte giudiziarie è sufficiente per un giudizio politico di totale inattitudine ad esercitare la leadership governativa e la rappresentanza di una democrazia occidentale. L'incoscienza del limite, la dismisura eretta a regola di vita, la concezione del rapporto tra uomo e donna, uniti insieme danno forma ad un permanente abuso di potere che macchia le istituzioni e offende lo Stato.

Che si tratti di malattia, come denunciava l'ex moglie del premier, o di perdita di controllo, poco importa per il cittadino. Da due anni la politica è prostituita da un primo ministro che teme le rivelazioni sulle sue notti, è vulnerabile dalle sue partner occasionali, è ricattato dalle minorenni, dichiara guerra alle intercettazioni e ai giornali soltanto per difendersi dalla valanga di scandali che lo sovrasta: soprattutto mente e invita le ragazze a mentire.

Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l'ultimo atto: si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica, evitando di distruggere il tempio con se stesso.

 

17 gennaio

Le ragioni di Marchionne

Arricchirsi sulla pelle, sul sudore e sul sangue altrui. Senza sforzi, senza lavoro. Con il gioco del comando. E questa è la guerra, che a noi fa schifo

"Quello di Mirafiori è un modello che non va bene per descrivere il futuro", dice il segretario generale della Cgil Susanna Camusso.
Ma quanti sono gli imprenditori che attendono il risultato di Miriafiori per adeguarsi allo strappo del manager che da solo guadagna più di tutti gli operai di Mirafiori messi assieme e che paga le tasse in Svizzera e non in in Italia?
Il punto non è "chi vincerà". Le ragioni per votare no al "referendum" di Mirafiori sono tante e fortissime. E la stragrande maggioranza dei lavoratori Fiat le conosce e le sostiene.
Ma quando per sostenerle si deve mettere in gioco la propria vita e quella della propria famiglia allora non si tratta più di una scelta. Ma di un obbligo. Persino parlare di ricatto è generoso: qui, per molti, non c'è proprio scelta.
Il punto è che si è tollerato - da parte di tutti quelli che si dicono dalla parte del lavoro e dei lavoratori, solo la Fiom ha lanciato l'allarme - che Marchionne consumasse uno strappo irrimediabile. Uno strappo di cui non si sono calcolate le conseguenze, che potranno essere tragiche e che sono certamente drammatiche.
Si è tollerato che un signore, nel nome di profitti finanziari di borsa e non certo per salvaguardare alcunché di produttivo, gettasse alle ortiche più di cento anni di conquiste civili e sociali.
Solo i fessi e i disperati possono credere alla favola degli investimenti produttivi. Quali che saranno, non saranno nulla più che una mancia rispetto ai guadagni in borsa dei titoli Fiat. E non è certo per garantire l'occupazione o salvare gli stabilimenti che Marchionne ha forzato la mano.
Lo ha fatto per un puro cinico e baro calcolo: se spezzo le reni ai sindacati, il titolo volerà in borsa. Perché il modello industriale che ne uscirà (indipendentemente dalla sopravvivenza delle fabbriche di Torino e Pomigliano che non interessa ai padroni) sarà persino più arretrato di quello cinese. Ed è questo che piace a chi specula in borsa, oggi come ieri: arricchirsi sulla pelle, sul sudore e sul sangue altrui. Senza sforzi, senza lavoro. Con il gioco del comando. E questa è la guerra, che a noi fa schifo.

Maso Notarianni

 

LA STATISTICA

Università italiane, le meno "internazionali". Migrantes: "Solo il 3% di studenti stranieri"

Primato poco invidiabile per i nostri atenei. La media Ocse è il 10%, nel Regno Unito i ragazzi che arrivano per studiare sono quasi il 18%. La denuncia dell'organizzazione: "Poche residenze, pochissime borse di studio"

di MANUEL MASSIMO

Nell'epoca della globalizzazione della cultura e dell'istruzione gli atenei italiani detengono un primato poco invidiabile: ospitano il minor numero di studenti stranieri (solo il 3,1% degli iscritti), un dato largamente al di sotto rispetto alla media dei Paesi Ocse (10%) e lontanissimo dalle eccellenze rappresentate da Regno Unito (17,9%), Germania (11,4%) e Francia (11,2%). Lo denuncia la Fondazione Migrantes - presentando la Giornata Mondiale delle Migrazioni in programma a Genova il 16 gennaio - evidenziando anche i motivi alla base di questa scarsa capacità di attrazione di studenti universitari stranieri da parte degli atenei di casa nostra: in primis le politiche di accoglienza, di fatto inadeguate.

"Residenze poche, borse pochissime". La bassa mobilità studentesca "in entrata" dipende in larga parte da ragioni di ordine pratico, come sottolinea il direttore generale della Fondazione Migrantes monsignor Giancarlo Perego: "In primo luogo le poche residenze universitarie presenti, a disposizione soltanto del 2% degli studenti stranieri, contro il 17% della Svezia, il 10% della Germania e il 7% della Francia; poi le pochissime borse di studio erogate quasi esclusivamente da enti privati". Da non sottovalutare, infine, la barriera linguistica: i corsi in lingua inglese, fondamentali per l'internazionalizzazione degli studi, sono ancora pochi e presenti a macchia di leopardo solo in alcuni atenei.

Meno di 55mila iscritti. Nell'anno accademico 2008/2009 il totale degli iscritti alle università italiane risulta essere di 1.759.039 studenti, di cui soltanto 54.707 stranieri (il 3,1% appunto). I più numerosi sono gli albanesi (11.380) seguiti da cinesi e greci (oltre 5.000), rumeni (4.000) e camerunensi (3.000). Il maggior tasso di crescita tra gli iscritti stranieri si registra tra i cinesi, con un aumento del 10,9% rispetto all'anno precedente, grazie anche allo specifico programma di interscambio culturale "Marco Polo", definito a livello ministeriale. L'ateneo con il maggior numero complessivo di iscritti stranieri è la Sapienza di Roma (6.500 studenti, circa il 5% del totale), non a caso l'istituzione universitaria più grande d'Europa. Nel corso del 2009 si sono laureati in Italia 6.240 studenti stranieri.

Geografia delle presenze.
Le facoltà più "gettonate" tra gli studenti stranieri sono quattro: Economia (17,6%), Medicina e Chirurgia (14,7%), Ingegneria (13,2%) e Lettere e Filosofia (10,4%). La maggior concentrazione di iscritti stranieri si registra negli atenei del Centro Italia - che ospitano il 34% degli studenti - grazie alla presenza di numerose città universitarie come Roma, Perugia, Firenze e Pisa. Nel Nord Ovest (30,3%) gli atenei più "internazionali" si trovano a Milano e Genova. Nel Nord Est (26,6%) le città con una significativa presenza di studenti stranieri sono Padova, Trieste e Bologna. Infine al Sud (7,2%) i due principali poli d'attrazione sono rappresentati da Napoli e Bari. La più alta percentuale di iscritti stranieri sul totale degli studenti a livello nazionale si registra alla Bocconi di Milano (1.000 studenti, pari al 15,9%).

Il biglietto da visita del Miur. In questo panorama non esaltante, in cui l'Italia rappresenta il "fanalino di coda" della mobilità studentesca internazionale, il nostro Ministero dell'istruzione, dell'Università e della Ricerca ha un apposito portale dedicato agli studenti stranieri che vogliono venire a studiare qui (www. studiare-in-italia. it). Il sito - realizzato in collaborazione con il Cimea e potenziato dal Cineca - è naturalmente multilingue (inglese, tedesco, spagnolo e francese) ma manca il cinese. I contenuti specifici rivolti agli studenti stranieri "incoming" sono piuttosto scarni e poco interattivi, anche per questo stupisce l'ampiezza della sottosezione "Vivere in Italia" infarcita di luoghi comuni che riporta la ricetta della pizza napoletana e suggerisce la migliore strategia per difendersi dai borseggiatori sui mezzi pubblici. Peraltro il dato sulla presenza dei (già) pochissimi corsi in lingua inglese nei nostri atenei è fermo al 2007. Insomma: un pessimo biglietto da visita.

 

Bielorussia, stato di paura

Non si allenta il torchio della repressione contro dissidenti, giornalisti e avversari politici. anche un bambino di tre anni coinvolto in un braccio di ferro tra Kgb e l'ex candidato Andrei Sannikov

Dagli uffici dell'Osce di Minsk dicevano che, tutto sommato, la campagna elettorale si era svolta in un clima abbastanza positivo, che ci erano stati degli avanzamenti lungo il tortuoso percorso della democrazia. E qualcuno, da Bruxelles, aveva ravvisato in Lukashenko quel pizzico di buona volontà necessario a tenere in piedi un filo di trattativa. Ma ogni cosa è cambiata dopo il 19 dicembre, giorno delle elezioni, della vittoria - al solito schiacciante - di Aleksander Lukashenko, dello strozzamento - al solito violento e devastante - della voce dissenziente. Il 31 dicembre gli uomini dell'Osce hanno dovuto preparare le valigie: il governo non ne ha autorizzato la permanenza per il 2011. Il Parlamento europeo e la Commissione esteri si trovano invece a dover riconsiderare la linea morbida adottata nei confronti dell'uomo forte di Minsk e dei suoi gerarchi: è molto probabile che vengano emanate nuove sanzioni con la reintroduzione del nome di Lukhashnko nella lista delle personae non gratae.

Ma, l'ultimo dittatore d'Europa, tira diritto per la sua strada e stringe il pugno chiudendo il paese in uno stato di terrore e paura. Dopo le manifestazioni del 19 dicembre, più di 630 persone sono state arrestate e detenute per dieci, quindici giorni. Tra questi vi erano sette dei nove candidati sfidanti di Lukhashenko, intellettuali, studenti, persone comuni. Oggi, rimangono in carcere ancora più di trenta persone. Il governo non accetta il dissenso. Gli uomini del Kgb hanno rispolverato il catalogo dei metodi staliniani: perquisizioni, arresti, divieti di espatrio, sequestro di documenti e minacce trasversali.

Nelle galere di Minsk ci sono, tra gli altri, Andrei Sannikov - candidato alla presidenza - e sua moglie Irina Khalip, giornalista "dissidente". Rischiano una condanna fino a quindici anni di carcere perché hanno partecipato ai disordini del 19 dicembre. Andrei e Irina hanno un figlio di tre anni, Daniel, che adesso si trova con i nonni materni. Come succedeva negli anni Trenta del secolo scorso, quando i figli dei deportati nei gulag staliniani finivano negli orfanotrofi, così oggi il piccolo Daniel rischia di finire nelle mani dei servizi sociali. È in atto una lotta che vede di fronte una vecchia donna e i temibili servizi segreti del Kgb. Si tratta di una chiara manovra intimidatoria: lo scopo è quello di convincere Sannikov - forse il più autorevole rivale di Lukhashenko - ad archiviare la sua carriera politica a fare qualche dichiarazione attraverso la Tv di stato per condannare le manifestazioni del 19 dicembre, per riconoscere la vittoria del presidente Lukhashenko. È quello che è accaduto a un altro candidato, Yaroslav Romanchuk, che per evitare il carcere ha accettato di leggere in tv un discorso consegnatogli dai servizi segreti con cui denunciava gli organizzatori delle manifestazioni.

La moglie dell'ex candidato presidente Alex Mikhalevich - anch'egli in carcere dal 19 dicembre - Milana è stata fermata dal Kgb mentre tentava di raggiungere Varsavia per assistere alla conferenza sulla Bielorussia. Stessa sorte per Tatiana Seviarynets - madre di Pavel, co-presidente dei cristiano-democratici -, fermata mentre prendeva il treno e portata negli uffici del Kgb dove è stata interrogata e privata del passaporto.

Le perquisizioni in appartamenti, uffici e redazioni non si contano. Le case di Andrei Sannikov sono state messe sottosopra, sequestrati computer, hard disk e documenti. Il presidente dell'Associazione dei giornalisti è stato convocato dal Kgb per testimoniare contro i dissidenti; il giornalista Aleksander Vasilvski è stato arrestato. A Grodna sono stati perquisiti gli uffici del Fronte popolare (Bnf) e quelli del Partito civico (Ahp). Il giornalista polacco Andrei Pochobut è stato arrestato e poi rilasciato dopo un processo sommario e il pagamento di una multa pari a circa cinquecento euro.

L'emittente radiofonica Autoradio - che aveva ospitato più volte la voce di Sannikov e dell'altro candidato Nyaklaeu - si è vista ritirare la licenza perché "avevano contribuito a incitare il clima di violenza scoppiato il 19 dicembre".

Gli Stati Uniti e l'Ue, sempre a voce troppo bassa, hanno chiesto l'immediato rilascio degli arrestati per motivi politici e criticato il governo Lukhashenko per mancanza di legittimità democratica. Ma come sempre, non si può fare a meno di notare il ritardo con cui arrivano gli appelli e le condanne e di chiedersi su quali basi Bruxelles abbia potuto dare credito ai sorrisi di apertura di Lukhashenko, falsi come le sue promesse.

 

14 gennaio

Margherita Hack: “Ma che paese è diventato l’Italia?”

di Margherita Hack

Ma che paese è diventato l'Italia? Due fatti completamente scollegati fra loro ma che riempiono di amarezza.

1) 11 gennaio 2011. Il prepotente ricatto di Marchionne; se vince il no la Fiat va in Canada. Di fronte a una minaccia che vorrebbe dire disoccupazione in massa per un'intera città, e non solo, quale operaio avrà il coraggio di difendere i propri diritti? E il governo è completamente assente, preoccupato solo dei propri dissidi interni, dei processi del premier o del federalismo, che probabilmente vorrà dire solo raddoppio delle poltrone e dei costi.
È questo che significa liberismo? Tornare all'800 del Padron delle ferriere? E tutti gli aiuti statali che la Fiat ha avuto per decenni ? Perchè non li ha utilizzati per fare ricerca innovativa, sia per quanto riguarda le tecniche di produzione e di assemblaggio, sia per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche sulle macchine? O si vuol so-stenere che tutti gli operai italiani sono dei fannulloni mentre tutti gli stranieri sono gran lavoratori?

2) 6 gennaio 2011, Trieste. Una bambina di 6 mesi affetta da atrofia muscolare spinale e in attesa di essere curata con le cellule staminali da un eccellente pediatra triestino, Marino Andolina, è vittima di un improvviso stop. Il Comitato bioetico di Trieste dovrà decidere se l'intervento è MORALMENTE FATTIBILE. Non se possa essere utile o no, se è MORALE! Così ha deciso il giudice di Venezia Paola Ferretti.
Sul Piccolo di martedì 11 gennaio interviene Franco Panizon, già direttore della clinica pediatrica Burlo Garofalo e già maestro di Andolina: “Ci si chiede se Andolina ha seguito il protocollo… Ma cos'è un protocollo ? Non è una tavola della legge. Nessun protocollo è stato dettato da Dio agli uomini. Un protocollo è una linea di condotta pensata da uomini esperti, basata sulla logica delle cose e rivalutata e corretta continuamente sulla base dei risultati".

Una volta davanti a due fatti come questi intere città si sarebbero mobilitate indignate. L'indignazione, una virtù che l'Italia ha dimenticato, interessata piuttosto alla corsa per i saldi.

Felice 2011.

 

Tremonti, che spudorato

di Massimo Riva

Per anni ha retto il moccolo alle promesse demagogiche di Berlusconi sulle tasse. Adesso sembra diventato un fan del rigore e dell'austerità dei conti. Per fare le scarpe al premier? Forse. in ogni caso, è una manipolazione mediatica

Giulio Tremonti
Ha ricominciato la sua esperienza di ministro dell'Economia nel 2008 reggendo il sacco all'attuazione delle più demagogiche promesse elettorali di Silvio Berlusconi. E così Giulio Tremonti ha esordito nel ritrovato incarico regalando anche ai più abbienti un'esenzione dall'Ici sulla prima casa che ha sottratto all'Erario - e segnatamente alle casse dei Comuni - qualcosa come circa 3 miliardi di euro. Poi, in rapida sequenza, ha abrogato le regole sulla trasparenza o tracciabilità dei pagamenti, che Vincenzo Visco aveva introdotto per rendere la vita difficile agli evasori più incalliti.

Ora, da qualche tempo, lo stesso Tremonti non ha perso il vizio di manifestare le sue opinioni con apodittica saccenteria, ma sembra diventato un'altra persona. Il registro delle sue parole ha avuto una svolta a 180 gradi e il ministro ama diffondere di sé l'immagine del custode rigoroso e inflessibile dei saldi di bilancio. Al punto che per rifarsi una verginità in materia è tornato sui suoi passi reintroducendo financo alcune norme anti-evasione volute dal suo inviso predecessore. Né perde occasione per smarcarsi dall'ottimismo di maniera del presidente del Consiglio, proclamando che l'orizzonte resta cupo perché la crisi è tutt'altro che finita.

Come valutare questa subitanea metamorfosi? Come un sincero e operoso ravvedimento? Non pochi accreditano questa idea, che trova ascolto anche fra esponenti dell'opposizione. Tanto che c'è chi vagheggia l'ipotesi di una sostituzione di Berlusconi con Tremonti a Palazzo Chigi dopo le eventuali elezioni anticipate o addirittura prima per scongiurare uno scioglimento prematuro delle Camere. Del resto lo stesso Cavaliere fa fatica a nascondere la sua insofferenza verso il proprio ministro dell'Economia considerandolo ormai un rivale furtivamente impegnato con l'appoggio leghista a fargli le scarpe. Ma proprio questa presunta ambizione verso Palazzo Chigi dovrebbe far riflettere meglio sui requisiti della patente di rigorista che tanti, un po' troppo disinvoltamente, sembrano riconoscere a Tremonti. È vero che da ultimo egli mostra di voler resistere all'accattonaggio molesto di molti suoi colleghi. Ma è non meno vero che i suoi tagli banalmente "lineari" alla spesa pubblica non solo non hanno evitato la corsa della medesima in rapporto al Prodotto interno lordo, ma ne hanno anche aggravato le distorsioni distributive rinunciando a disegnare - magari anche dal lato delle entrate - una politica di bilancio degna di chi oggi vorrebbe farsi passare per un nuovo Quintino Sella.

La tardiva austerità tremontiana, poi, non cancella che, nei trenta mesi della sua gestione, l'ottimo Giulio è riuscito nella brillante impresa di far ricrescere la montagna del debito pubblico di oltre 200 miliardi. E ciò pur avendo avuto la fortuna di non dover impegnare grandi risorse per scongiurare fallimenti bancari come, viceversa, è toccato di fare ad altri suoi colleghi, non solo europei. Fondati o no che siano i dubbi sulle mire presidenziali di Tremonti, l'abito rigorista con cui oggi si presenta appare nulla più che il frutto di una scaltra ma anche un po' spudorata manipolazione mediatica.

 

Boscimani, lotta per la vita

Il popolo africano, il 17 gennaio, davanti alla Corte per l'accesso all'acqua

La data è fissata: il 17 gennaio prossimo la Corte d'Appello dello stato africano del Botswana celebrerà la prima udienza per decidere se la popolazione dei Boscimani del Kalahari ha diritto all'acqua.

Questo antico popolo ha già dimostrato di saper lottare contro una modernità che per loro, troppo spesso, ha avuto solo il volto dell'abuso e della violenza. Nel 2002, infatti, i Boscimani hanno vinto un processo storico, ottenendo una sentenza favorevole al loro ritorno nelle terre ancestrali, quelle adesso occupate dalla Central Kalahari Game Reserve. La corte ha posto così fine agli sfratti forzati che i Boscimani hanno subito in questi anni.

Nel 2010, però, la Corte Suprema del Paese ha negato loro l'accesso al pozzo dove, da sempre, i Boscimani prendono l'acqua per vivere. Non si sono persi d'animo e, memori della vittoria del 2002, hanno presentato ricorso. Con ottime possibilità di vittoria, considerato che la sentenza che nega l'accesso al pozzo è arrivata una settimana prima che le Nazioni Unite - in colpevole ritardo - sancissero l'accesso all'acqua come un diritto umano.

La chiusura del pozzo ha costretto i Boscimani a viaggiare per ore, a piedi o a dorso d'asino, in zone inospitali del Botswana per reperire le risorse idriche necessarie alla loro sopravvivenza. Un trattamento disumano e degradante che viola tutti i parametri del rispetto dei diritti umani, come sottolinea da anni l'ong Survival che si batte per il rispetto dei diritti dei Boscimani.

I Boscimani sono suddivisi in diverse tribù e non esiste neanche un nome che li rappresenti tutti. Molti di loro utilizzano e accettano il nome Boscimani, anche se deriva dalla traduzione inglese della parola olandese/afrikans bosjemans o bossiesmans, ovvero 'banditi' e 'fuorilegge'. Le tribù parlano lingue diverse e vivono divise tra Botswana, Namibia, Sudafrica, Zimbabwe, Angola e Zambia. Vivono di caccia e agricoltura e sono riuscite a sopravvivere nel deserto per migliaia di anni. Prima dell'arrivo dei sedentari e dei colonizzatori. Dopo si calcola che le persecuzioni subite dai Boscimani abbiano causato un massacro, riducendo la popolazione da milioni che erano a sole cento mila persone.

Quelli che son rimasti, con la forza, sono stati (fino al 2002) costretti ad abbandonare la loro terra. Le principali organizzazioni internazionali indipendenti che si battono per il rispetto dei diritti dell'uomo ritengono che la causa degli sfratti dei Boscimani siano i diamanti. Le terre ancestrali dei Boscimani si trovano nel cuore della zona diamantifera più ricca del mondo. Un piano di 'pulizia etnica' che, fallito nel 2002, ha forse trovato nella sete una nuova leva per espellere i Boscimani dalle loro terre.

Christian Elia

 

7 gennaio

La bufala della sfida dei paesi emergenti

Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso la Fiat effettuò massicci licenziamenti concentrandosi sugli operai della Fiom e dando avvio alla pratica dei «reparti confino», ove venivano inviati gli operai comunisti, socialisti e gli iscritti alla Fiom. Allora sia il Pci che la Cgil interpretavano il capitalismo italiano come dominato dai grandi monopoli e destinato pertanto a una prolungata stagnazione. In risposta alla percepita stasi e crisi dell'industria e dell'auto in particolare, Vittorio Foa elaborò per la Cgil la proposta di sviluppare la produzione lanciando l'idea di una «vetturetta» popolare.
In realtà era quello che la Fiat stava programmando, dato che l'economia italiana, capitanata dal gruppo Iri, stava imboccando la via della grande trasformazione postbellica. Poco dopo da Mirafiori uscì l'epocale Seicento. I licenziamenti avevano quindi due obiettivi: ristrutturare completamente l'apparato tecnico produttivo dell'azienda e cambiare in senso fordista la forza lavoro, indebolendo quanto più possibile ogni autonoma controparte sociale, la Fiom appunto. Il successo della politica di Valletta fu dovuto all'insieme della crescita del paese che con l'incremento della massa dei redditi, nonché della spesa pubblica in autostrade, generalizzò la domanda e l'uso dell'auto.
Oggi il paragone con quel periodo, buio dal lato dei diritti sindacali in fabbrica tant'è che il Pci promosse una campagna per far entrare la Costituzione nelle fabbriche, risiede nella volontà aziendale di rendere la forza lavoro malleabile a piacere, volendo formalmente espellere la Fiom che non accetta i criteri imposti dall'azienda. È come se Valletta, che fino ai grandi scioperi del 1962 privilegiava il sindacato aziendale Sida e la Uilm, avesse bandito la Fiom dal correre alle elezioni della commissione interna; cosa allora impossibile malgrado il clima di violenta repressione antioperaia.

La differenza cruciale tra oggi e quel lontano periodo sta nell'assenza di prospettive di un sostenuto sviluppo capitalistico per l'economia europea. Non c'è nessuna crescita europea e italiana capace di rilanciare la Fiat. La crescita dei paesi emergenti è fuori tiro perché, a eccezione del Brasile, la presenza Fiat è inconsistente. In questi giorni,senza nemmeno sollecitare la Fiat a rendere pubblici i piani di produzione per l'Italia, i media dominanti si sono sbracciati nel difendere l'operato politico dell'azienda giustificandolo con la sfida proveniente dai paesi emergenti. Pura ideologia antisindacale. Infatti se si vuole raccogliere la sfida cinese in Cina bisogna esserci. Nel 2010 la produzione cinese di auto è stata di 17 milioni di unità, provenienti nella stragrande maggioranza dalle locali filiali delle multinazionali dell'auto operanti in partenariato con società cinesi.

L'esportazione di automobili dalla Cina è ancora minima, prevalentemente verso alcune zone asiatiche e fra un po' verso la Turchia. Ciò significa che la sfida posta dall'emergere di Pechino si gioca tuttora sulla produzione e sul mercato interno. Con Torino la sfida cinese non c'entra.

La politica della Fiat nei confronti di Torino è invece tutta in rapporto al mercato interno italiano e europeo. La strategia è derivata dall'esperienza della deindustrializzazione americana aggravata dalla stagnazione europea e dalle perdite di quote di mercato. Negli Stati uniti il requisito sociale per dare corpo al processo di delocalizzazione verso zone low cost per riesportare verso la più ricca madrepatria è stato il forte declino sindacale a partire dagli anni Ottanta. Man mano che si indebolivano, i sindacati accettavano di incorporare le esigenze delle aziende e per poi ritrovarsi con minore capacità negoziale mentre la delocalizzazione continuava. Vedi il documentario di Michael Moore sulla devastazione di Flint, sede della General Motors. Non è un caso che, come elencato da Maurizio Zipponi al Tg3 di Linea Notte il 4/5 gennaio, si conoscano i programmi di produzione della Fiat per la Serbia, la Turchia, la Polonia ma poco o niente sull'Italia. L'idea che le nuove condizioni contrattuali possano portare a spettacolari incrementi di produttività è fallace. Per ottenere significativi aumenti di produttività tali da avere effetti competitivi e di diffusione sul territorio, è necessario che le innovazioni tecnologiche si accompagnino a un salto della scala di produzione verso valori di gran lunga superiori alle 500-600 mila unità attuali.

Se questo fosse il vero obiettivo, gli investimenti e la lista dei modelli da produrre si concentrerebbero sull'Italia e secondariamente altrove. Tuttavia, le aspettative circa l'allargamento della scala di produzione dipendono principalmente dalla dinamica della domanda aggregata, cioè dai redditi dell'insieme dei salariati europei. La domanda è stagnante ed i salari reali sono in calo, quindi spazi per espandere la scala di produzione non ce ne sono. Anzi, le innovazioni dovranno assumere per forza di cose delle caratteristiche tipo downsizing che comporta l'outsourcing. Ne discende l'importanza primaria delle zone low cost, finanziate con molti soldi pubblici, della Polonia e della Serbia nonché della Turchia, per poter poi riesportare verso l'Europa occidentale. La malleabilità richiesta ai lavoratori di Mirafiori è per Torino la strada della deindustrializzazione, della disoccupazione e della precarizzazione di massa.

 

Il Capitano Natale De Grazia

È un'aria strana quella che tira dalle parti di palazzo San Macuto. Via del Seminario, in piena Roma barocca, è sempre stata la sede dei misteri italiani. Qui passò Nilde Iotti, quando presiedeva la commissione sulla P2. Qui si affacciava Carlo Taormina, quando preparava la vergognosa relazione finale sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E qui la commissione bicamerale sui rifiuti, presieduta da un altro avvocato celebre, Gaetano Pecorella, prepara oggi la fase finale del dossier sulle navi dei veleni.
La testimonianza di Francesco Fonti e la vicenda del cargo Cunski sembrano ormai archiviate, sepolte. Manca una spiegazione decente su questa vicenda, qualcuno che racconti perché per cinque anni si è dato credito alla storia dell'ex collaboratore di giustizia che oggi tutti giudicano inattendibile. O è un folle, oppure le sue parole nascondevano - e nascondono - qualcos'altro.
C'è una pista che preme particolarmente alla commissione. Un filo che riporta al 1995, ai mesi che hanno preceduto la morte del capitano De Grazia, l'ufficiale della marina - medaglia d'oro alla memoria - che stava ricostruendo le rotte della navi a perdere, delle carrette cariche di scorie affondate nel mar Mediterraneo. Indagini che sono morte insieme a lui, che nessun altro uomo della nostra Marina Militare ha avuto il coraggio e la forza di riprendere.
Nei mesi scorsi sono entrati in gioco i servizi di sicurezza, vero enzima dei segreti italiani. Tra le carte della commissione Pecorella c'è un documento che promette rivelazioni scottanti. È datato 11 dicembre 1995, e dimostrerebbe - secondo alcune indiscrezioni - un finanziamento proveniente dal governo Dini ai servizi italiani per la gestione di un traffico di rifiuti nucleari e di armi. Il documento sarebbe ancora secretato, e non ne conosciamo la provenienza, che, in questi casi, non è un fattore secondario. Ma è la data del documento a colpire, a ricollegarsi - in una incredibile coincidenza temporale - con la morte del capitano di corvetta Natale De Grazia.

Nome in codice Pinocchio

È il 13 maggio 1995. Davanti agli uomini della forestale guidati dal colonnello Rino Martini si presenta una fonte confidenziale. Viene ascoltato con il patto di non rivelare la sua identità, utilizzando un articolo del codice di procedura penale specifico, che serve a tutelare i confidenti. Il suo racconto punta il dito su un personaggio chiave del mondo delle scorie pericolose, Orazio Duvia. È un imprenditore di La Spezia, a capo della mega discarica di Pitelli, una vera e propria piattaforma logistica dei rifiuti tossici. Il confidente - che si fa chiamare, con una certa ironia, Pinocchio - spiega quali sono i presunti legami di Duvia con il mondo delle fabbriche di armi e con quel groviglio di poteri che ancora oggi dominano la città di La Spezia. Alla fine della sua lunga deposizione parla di una nave, affondata al largo delle coste ioniche - a capo Spartivento - la Rigel. Un cargo che, secondo "Pinocchio", era pieno di «materiale nucleare (uranio additivato)».
La testimonianza è fondamentale. È la prima volta che nell'inchiesta allora condotta dalle Procure di Reggio Calabria - Francesco Neri - e di Matera - Nicola Maria Pace - appare la pista della nave Rigel. Quel verbale è un vero punto di svolta.

«Affondamenti sospetti»

Il periodo tra il maggio e il dicembre del 1995 è frenetico. Natale De Grazia è la persona del gruppo che si dedica alla ricostruzione delle rotte delle navi a perdere, a partire dalla Rigel. Vengono acquisiti gli atti del processo contro gli armatori e i caricatori della nave, già accusati di truffa all'assicurazione e affondamento doloso dalla Procura di La Spezia. Un processo terminato con una condanna fino al terzo grado per il reato di affondamento doloso, mentre l'ipotesi dell'associazione per delinquere è caduta nel corso del processo.
Rileggere oggi quelle carte conservate negli archivi del Tribunale di La Spezia è però fondamentale per capire il contesto dell'affondamento della nave Rigel, sospettata di aver trasportato uranio additivato. Nell'ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati, il giudice istruttore di La Spezia parla non di un singolo affondamento, ma di tante navi affondate in maniera dolosa e sospetta. L'ipotesi era che esistesse «un'associazione criminosa avente lo scopo di commettere più reati di naufragio doloso e truffe aggravate ai danni di varie società di assicurazione». Più naufragi, non solo la Rigel. Ed era questa la pista seguita da Natale De Grazia e la prima, solida conferma giudiziaria dell'esistenza di diverse navi disperse nelle acque del Mediterraneo. Cosa trasportavano? Chi ha organizzato l'affondamento?

Una questione di Stato

I magistrati si rendono subito conto che quell'indagine è esplosiva. Pensare a traffico di rifiuti nucleari, gestiti da gruppi massonici e criminali, per poi essere gettati in mare, faceva tremare i polsi anche ad investigatori testardi come De Grazia. Perché era evidente che un traffico del genere non poteva avvenire senza la copertura di parti importanti dello stato. Pensando, poi, al centro della rete, la città di La Spezia, sede di basi Nato, della Marina Militare, del centro di addestramento dei reparti speciali, di fabbriche di armi, era evidente che far uscire una nave carica di uranio non poteva essere un gioco per semplici truffatori.
E così i magistrati in quei mesi scrissero al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Lo ricorda Francesco Neri, nella sua testimonianza del 1997 durante l'inchiesta per la morte di Natale De Grazia: «Ricordo che unitamente al collega Pace della Procura circondariale di Matera comunicammo al Capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell'ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiesi al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi». Informative dei servizi poi realmente confluite negli incartamenti dell'inchiesta. Dunque, l'intelligence italiana conosceva sicuramente l'indagine sulle navi.

Un tragico dicembre

Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di utilizzare le festività di fine anno per preparare un rapporto finale, con le conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio Calabria viene sentito - per la seconda volta - il teste "alfa alfa", ovvero Aldo Anghessa. Oscuro trafficante, fortemente sospettato di agire spesso per interessi non chiari o come agente provocatore, due giorni prima del ponte dell'immacolata depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà fondamentale per l'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È disposto a collaborare», spiega Anghessa. Sebri qualche anno più tardi - nel 1997 - deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di Milano, raccontando di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti nucleari. Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l'ufficiale del Sisde presente in Somalia nel marzo del 1994, Luca Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti, a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne condannato per calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di Cassazione.
Quattro giorni dopo l'interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare De Grazia non lo sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto cardiaco, in circostanze mai chiarite.

I servizi segreti

Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella che dimostrerebbe l'erogazione di fondi ai servizi segreti per la gestione dei rifiuti nucleari e di armi ha la data - secondo quanto riportato dal quotidiano Terra - dell'11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia. Il capitano di corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo raccontava al cognato, mentre da qualche mese - dopo una perquisizione decisamente anomala a Roma - aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo preoccupava. Quello che probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici criminali di rifiuti e di armi, finanziava - segretamente - chi quei traffici li copriva o, addirittura, li organizzava.

 

4 gennaio

Alessandro Robecchi

Padroni che sbagliano

Vorrei sapere esattamente, possibilmente con dovizia di particolari, articoli, commi, disposizioni transitorie e norme certe, cosa si rischia a schierarsi con gli operai metalmeccanici della Fiom e non con don Marchionne Santo Subito. Confesso che battersi contro un pensiero unico che va da D'Alema a Sacconi, da Fassino a Bonanni, da Chiamparino alla destra confindustriale, passando magari per Feltri e Belpietro, Angeletti, il Corsera, Pietro Ichino e altri plaudenti mette un po' i brividi.

Al fronte per la beatificazione di Marchionne mancano solo Landrù e la buonanima di Cossiga, in compenso qualcuno ha scongelato Giampaolo Pansa che alla Fiom dedica pensierini degni degli anni di piombo. Quella del consenso obbligatorio pare un po' la cifra con cui si apre questo 2011, e non è una novità. Non è una novità nemmeno il testacoda delle parole, per cui è «progressista» chi teorizza un garrulo ritorno agli anni Cinquanta e invece «conservatore» chi vuole mantenere un diritto di rappresentanza tra i lavoratori.

«Pomigliano, da gennaio 4.600 assunzioni», titolava l'altro giorno il Corriere. Perbacco che ripresa! Solo che poi, leggendo il pezzo, si scopre che quei 4.600 sono cassintegrati Fiat che verrebbero riassunti (non assunti) a condizioni più gravose (no iscritti Fiom e perditempo). La formuletta «se ci stai bene, se non ci stai sei un terrorista premoderno e scriteriato» è antica e polverosa, ma funziona sempre.

Per sentirci in compagnia non c'è che aspettare quando, a votare per la beatificazione di Marchionne saranno gli azionisti, chiamati a scommettere moneta sonante sul nuovo titolo Fiat Auto scorporato dal resto del Gruppo. Chissà, potrebbe essere che al miracolo di Marchionne non crederanno nemmeno loro, investitori e speculatori. Sarà difficile accusarli di nostalgie da anni Settanta, ma non disperiamo, anzi, suggeriamo ai marchionisti di stretta ordinanza un'elegante via d'uscita dialettica: padroni che sbagliano. Modernissimo, eh!

 

Inflazione, a dicembre all'1,9% è il dato più alto dal 2008

Il tasso medio annuo nel 2010 è stato pari all'1,5%, quasi il doppio del 2009. Su base mensile i prezzi al consumo hanno fatto segnare un +0,4%. A fare da traino benzina e gasolio: +9,8% e +14,5% rispetto allo scorso anno. Associazioni dei consumatori in allarme: "Dati gravissimi e non è ancora finita"

ROMA - A dicembre 2010 l'inflazione è balzata all'1,9% su base annua, dall'1,7% di novembre. Si tratta del dato più alto dal dicembre 2008. Lo comunica l'Istat nelle stime provvisorie aggiungendo che su base mensile i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,4%. Il tasso di inflazione medio annuo nel 2010 è stato pari all'1,5%, quasi raddoppiato rispetto a quello del 2009 (0,8%).

Gli aumenti congiunturali più significativi dell'indice, rileva ancora l'Istituto di statistica, si sono verificati per i capitoli Trasporti (più 1,4%), Comunicazioni (più 0,6%) e Ricreazione, spettacoli e cultura (più 0,5%). Prezzi stabili rispetto a novembre 2010 nei capitoli Bevande alcoliche e tabacchi e Servizi sanitari e spese per la salute, mentre sono scesi nei capitoli Servizi ricettivi e di ristorazione (meno 0,3%) e Istruzione (meno 0,1%).

Su base annua, rispetto al dicembre 2009, gli incrementi più elevati si sono registrati nei capitoli Trasporti (più 4,2%), Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più 3,5%) e Altri beni e servizi (più 3,2%). Una variazione tendenziale negativa si è verificata nel capitolo Comunicazioni (meno 0,6%).

Buona parte della fiammata inflazionistica è da attribuire al costo dei carburanti. I prezzi della benzina sono saliti del 9,8% (6,1% a novembre) su base annua e del 2,5% su base mensile. Ancora più marcata l'impennata dei prezzi del gasolio per auto, aumentato del 14,5% (+10% a novembre) in termini

tendenziali e del 3% sul piano congiunturale. Per quanto riguarda il Gpl l'indice ha registrato un rialzo del 21,3% (+20,2% a novembre) su base annua e del 6,5% su base mensile. Quanto al gasolio da riscaldamento, a dicembre ha segnato un aumento del 14,3% (+10,2% in termini tendenziali e del 3,2% sul piano congiunturale).

Il bollettino dell'Istat è stato accolto con allarme dalle associazioni dei consumatori. "Il dato relativo all'inflazione registrata nel 2010 si conferma gravissimo e, come abbiamo denunciato instancabilmente durante tutto il corso dell'anno, è in piena contraddizione con i principali indicatori economici" denunciano in una nota congiunta i presidenti di Federconsumatori ed Adusbef Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.

"Tutti i segnali testimoniano una situazione a dir poco allarmante: dal crollo del potere di acquisto (-9,6% dal 2007 ad oggi), a quello dei consumi (-1,5% nel 2008, -2,5% nel 2009 e del -2% nel 2010, per una caduta complessiva del -6% negli ultimi 3 anni), alla contrazione dell'indebitamento da parte delle famiglie. Come se non bastasse cassa integrazione e licenziamenti non accennano ad arrestarsi, continuando ad innescare un pericoloso circolo vizioso dal quale sarà difficile uscire se non si correrà ai ripari al più presto. In uno scenario simile la crescita media del tasso di inflazione dell'1,5% rappresenta la prova che qualcosa non sta andando per il verso giusto", continuano Trefiletti e Lannutti.

"Ma vi è di peggio - proseguono i rappresentanti dei consumatori - l'inflazione a questi livelli risulta, a nostro avviso, ancora sottostimata. Infatti, gli aumenti registrati nel 2010 sono decisamente più elevati, basti pensare che il solo tasso aumento dei prezzi relativi ai beni acquistati con alta frequenza, formalmente, è pari al 2%, ma, secondo i nostri studi, raggiunge addirittura il + 3,2-3,3% . Oltretutto a questo si aggiungeranno ulteriori rincari che hanno già iniziato la loro corsa con il nuovo anno, con ricadute che, secondo le stime dell'Osservatorio Nazionale Federconsumatori, ammonteranno a 1.016 Euro a famiglia nel 2011".

"Per questo - concludono Trefiletti e Lannutti - non si può più aspettare: oltre a intervenire disponendo controlli e verifiche nei confronti di chi mette in atto intollerabili speculazioni, evitando ulteriori aumenti di prezzi e tariffe, è indispensabile avviare misure a sostegno del potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso, a partire da una detassazione di almeno 1200 euro annui".

 

Genova, riesplode il giallo del container al cobalto

Da luglio del 2010 su un molo di Voltri, circondato da una barriera di container pieni di acqua e pietre, è fermo in attesa di bonifica un contenitore con cobalto radioattivo, probabilmente prodotto di residui sanitari. Sei mesi di vertenze e scioperi, adesso la decontaminazione è annunciata per febbraio.

UN CONTAINER radioattivo che a 100 metri di distanza emette valori cinque volte superiori al "fondo naturale" (quelli che normalmente si rilevano). E' fermo nel porto di Voltri dal luglio scorso, quando l'allarme scattò durante una verifica dei tecnici del Terminal: gli indicatori degli strumenti dedicati alla ricerca di materiali radioattivi impazzirono, sul posto furono chiamati i vigili del fuoco e gli esperti dell'Azienda regionale. Il container fu isolato, allontanato dal cuore delle attività portuali e collocato su un molo del cosiddetto "Sesto Modulo", in attesa di interventi di bonifica che - fu garantito - sarebbero stati rapidissimi. Dopo sei mesi di scioperi e vertenze, lavoratori e città aspettano ancora.

L'Unità Tecnica Complessa Regionale dell'Arpal ha sempre assicurato che le emissioni radioattive non sono elevate, ma ha comunque suggerito "le opportune attenzioni". Fu lo speciale Nucleo Batterio-Chimico-Radioattivo dei vigili del fuoco ad individuare la natura del materiale: cobalto-60, proveniente da una "sorgente" utilizzata dalle strutture sanitarie per la cobaltoterapia, oppure da industrie che eseguono controlli non distruttivi sui metalli, cioè radiografie. Il container era arrivato in nave a Genova da Gedda - Arabia saudita - con uno scalo intermedio nel porto di Gioia Tauro. Conteneva ufficialmente materiali ferrosi, e fu sbarcato al Vte il 14 luglio. L'importatore era un'azienda della provincia di Genova. La prevista decontaminazione di rimando in rimando sarebbe ora slittata a febbraio, con l'intervento di un robot.

Nell'attesa, il container radioattivo è rimasto fermo a Voltri. La magistratura ha in corso un'inchiesta. Secondo un preventivo fornito da una ditta specializzata di Milano i costi della bonifica dovrebbero aggirarsi intorno agli 800.000 euro, forse un milione.

 

Honduras 2010: la strage di giornalisti

Sono dieci i professionisti dell'informazione morti amazzati. L'intento è azzittire chi denuncia i crimini di Stato

Henry Suazo era un giornalista di radio Hrn, una delle emittenti più popolari della capitale, Tegucigalpa. È stato ucciso martedì 28 dicembre nella comunità de La Masica, sulla costa caraibica. Con questa morte sale a dieci il numero dei professionisti dell'informazione assassinati nel 2010 in Honduras, paese piegato da un golpe nel giugno 2009 di cui l'attuale governo ne è diretta espressione.

Suazo aveva 39 anni. Mentre usciva di casa è stato aggredito da alcuni sconosciuti che gli hanno scaricato addosso un caricatore. Plurima la condanna di questo crimine e molte le dita puntate contro lo Stato, che, a quanto ha affermato il Centro por la Justicia y el Derecho Internacional (Cejil), non sta rispettando l'obbligo che avrebbe di garantire la libertà di espressione. Un sollecito urgente è arrivato anche dal Colegio de Periodistas de Honduras (Cph) che ha chiesto che il presidente della Repubblica Porfirio Lobo si impegni a chiarire la matrice dell'omicidio e chi siano i mandanti. Un appello alle autorità competenti è arrivato anche dal Comité de Familiares de Detenidos y Desaparecidos de Honduras che ha preteso indagini serie e costruttive. Dopo il Messico, l'Honduras con i suoi dieci morti fra i giornalisti, è il paese dell'emisfero occidentale più pericoloso per la libertà di stampa.

SI tratta di professionisti che lavoravano nei più differenti mass media e in regioni le più disparate, ma che avevano un punto in comune che ha segnato la loro condanna a morte: l'essere voci indipendenti e coraggiose in un paese governato da filo-golpisti. E ogni singolo omicidio è rimasto impunito.
Dal colpo di Stato che ha detronizzato il presidente leggittimo Manuel Zelaya per far posto a Roberto Micheletti che ha poi passato il testimone a Porfirio Lobo, infatti, la stampa è stato uno dei settori che ha sofferto più aggressioni: dagli abusi, alle intimidazioni, alla censura, per arrivare alla chiusura definitiva di alcuni mezzi di comunicazione e finire con gli omicidi.

Le varie organizzazioni della società civile riunitesi nel Fronte nazionale contro il golpe sono convinte che nonostante il movente e gli autori intellettuali di questi omicidi restino ufficialmente ignoti, l'obiettivo è sempre uno e uno soltanto: azzittire coloro che osano dar voce a chi denuncia la miriade di violazioni di diritti umani che si perpetrano quotidianamente in Honduras. Il tutto condito da un aumento vertiginoso di casi di corruzioni e di giri di affari legati al narcotraffico, business troppo redditizio e caro a coloro che da sempre si spartiscono il potere nel paese centramericano, tornato a essere l'orticello del giardino dello Zio Sam nonostante la ristrutturazione Obama.

Stella Spinelli

 

Messico, l'ultima sfida allo Stato

L'incredibile storia di Marisela Escobedo, uccisa per aver chiesto giustizia

Una donna, l'omicidio di sua figlia, un colpevole accertato e la giustizia. Quattro protagonisti di una storia (vera) drammatica accaduta a Ciudad Juarez, nel nord del Messico.
La città è tristemente famosa a causa dei continui omicidi di donne che da anni restano irrisolti. Oggi, forse più che mai, è al centro dell'attenzione per le cruente lotte che vedono protagoniste le bande criminali che si battono per il controllo del (fertile) territorio. Ma l'ultima vicenda ha dell'incredibile e sottolinea in modo dettagliato le misere misure prese dalle autorità messicane per contrastare la delinquenza.
I fatti purtroppo parlano chiaro e risalgono ad agosto 2008. In quel periodo, infatti, Rubí Marisol Frayre Escobedo, figlia di Marisela Escobedo viene uccisa nello Stato di Zacatecas e il suo corpo viene ritrovato mutilato e bruciato. Una fine orribile, simile a quella di tante donne della zona.

La polizia fece scattare le indagini ma solo grazie all'aiuto della madre della ragazza si scopre l'assassino. Si tratta dell'ex fidanzato della ragazza che in battibaleno viene trasferito nelle patrie galere. E qui inizia quello che sarebbe diventato un calvario per la madre della ragazza. Marisela Escobedo, infatti, non avrebbe mai immaginato che tre giudici dicessero che le prove a carico dell'ex fidanzato della figlia (che in un primo momento confesserà l'omicidio e poi ritratterà) erano deboli e per questo lo rimettono il libertà. L'ennesima pugnalata al cuore di una madre che chiede giustizia.
La sentenza clamorosa dei giudici messicani fa scattare in Marisela Escobedo la voglia di giustizia. E per queste ragioni che la donna inizia una protesta formale, pacifica, davanti all'edificio che ospita la magistratura. Passano alcuni giorni finché un commando armato, senza paura, si presenta davanti alla magistratura e spara alla donna. Bum, in un paio di secondi la lotta di una madre che chiedeva giustizia per la figlia viene cancellata e, probabilmente, entro breve tempo dimenticata.

Storia drammatica finita? Per nulla. La parte più agghiacciante, forse, arriva adesso. Chi è stato ad ammazzare la madre della ragazza? Chi è stato pagato per commettere l'omicidio? Difficile dirlo. Ad ogni modo ciò che scandalizza davvero è il testo che il gruppo criminale del cartello di Sinaloa ha affisso in diversi punti di Ciudad Juarez, quasi fosse un loro possedimento, sicuramente una dimostrazione di forza.
"Il cartello di Sinaloa solidarizza con la famiglia della signora Marisela Escobedo, con tutto il popolo di Chihuahua e mette a disposizione la propria pagina su youtube per qualsiasi informazione che possa consegnare i responsabili di questa barbarie che il governo ha protetto e continua a proteggere, siano essi Los Zetas o La Linea" si legge nel comunicato.
Inevitabile che a questo punto la battaglia sia fra gruppi criminali. La Linea, dopo aver saputo della presenza di decine di cartelli affissi in città ha risposto immediatamente. " Tutti sanno che siete stati voi a fare questo alla signora per poi poter dare la colpa a noi. Tutti lo sanno" si legge nel comunicato de La Linea.
Insomma, dopo l'offerta da parte dei narcos, che forse volevano far vedere il loro volto umano, la relativa diatriba con altri gruppi criminali, finalmente è intervenuta anche la società civile per dire no alle continue violenze che da troppo tempo hanno invaso lo Stato di Chihuiahua e le sue città.
Ma la guerra continua nell'indifferenza dello stato centrale e diffondendo paura fra la popolazione che si ritrova nelle mani di spietati criminali disposti a tutto.

Alessandro Grandi

 

3 gennaio

Loris Campetti

La Fiom mobilita la dignità operaia

Il referendum è uno strumento democratico in cui le persone possono dire la loro su un tema che li riguardi direttamente. Imporre lo strumento del voto perché si accetti di non poter votare mai più, non è un paradosso o un ossimoro, è un gigantesco imbroglio, che si trasforma in un odioso ricatto nel momento in cui la formulazione del quesito referendario suona così: accetti di rinunciare ai tuoi diritti, compreso quello di ammalarti, scioperare, persino mangiare se la domanda di automobili dovesse schizzare in alto, eleggere i tuoi rappresentanti sindacali, in cambio della salvezza del posto di lavoro?
Siamo a Mirafiori, Pianeta Italia, fabbrica Chrysler perché la Fiat nei fatti non esiste più, salvo essere trasformata in uno spezzatino di newco da mettere sul mercato qualora a Marchionne i soldi da restituire a Barack Obama non dovessero bastare. Cosa dovrebbe dire la Fiom, se non che questo referendum, frutto di un accordo separato, è illegittimo e dunque i metalmeccanici della Cgil non possono riconoscerne la validità? Cosa dovrebbe fare la Fiom, se non indire per il 28 gennaio uno sciopero generale di tutta la categoria in difesa della democrazia, della Costituzione repubblicana, del contratto nazionale e dello Statuto dei lavoratori? Semmai, con questi chiari di luna, con un governo della deregulation liberista, con la diseguaglianza che cresce insieme alla povertà, bisognerebbe chiedersi come mai non sia l'intera Cgil a chiedere al paese di fermarsi.

Ieri si è riunito uno dei pochi organismi dirigenti democratici sopravvissuti alla berlusconizzazione (o marchionizzazione) del nostro paese, opposizioni e sindacati compresi: il Comitato centrale della Fiom. Una sede in cui la scelta degli operai iscritti è legge, una sede in cui quando una risoluzione del Comitato centrale non fosse in consonanza con il popolo lavoratore, verrebbe cambiata la risoluzione e non il popolo. È stato deciso lo sciopero generale con 102 voti a favore e i 29 astenuti della minoranza Fiom che fa riferimento alle posizioni della segretaria della Cgil Susanna Camusso. Gli astenuti, guidati da Fausto Durante, sostengono che la Fiom dovrebbe comunque accettare l'esito del referendum imposto dall'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne. Peccato che così si legittimerebbe un voto su diritti indisponibili, cosa che non avrebbe precedenti nella storia della Cgil. I militanti della Fiom dello stabilimento torinese costituiranno un comitato per il No, ribadendo che un'eventuale vittoria dei Sì non verrebbe riconosciuta perché non è consentito mettere al voto diritti costituzionali indisponibili, non trattabili.

Il 28 gennaio, quando i metalmeccanici incroceranno le braccia per non piegare la schiena, si terranno manifestazioni in tutte le città italiane ma già dall'inizio di gennaio si organizzeranno presidi, iniziative, tende nei centri delle città per coinvolgere la popolazione. Il segretario generale Maurizio Landini si è rivolto a tutti i soggetti, i movimenti, gli intellettuali, gli studenti, i precari che il 16 ottobre hanno manifestato a Roma al fianco della Fiom, per invitarli a partecipare alle proteste. Non è vero che la Fiom è sola. Non è vero che è minoritaria nelle fabbriche, come testimoniano l'aumento degli iscritti e la crescita dei consensi e dei delegati in tutte le aziende in cui si è votato per rinnovare le Rsu (250 nel 2010). Non sarà proprio per questo, per la sua irriducibile adesione a leggi, norme, Costituzione, per il suo rapporto di mandato con chi rappresenta, che è diventata inaccettabile per la Fiat, e via via per una fetta crescente di padronato? Non sarà per questo che non si riesce più a indire un referendum sugli accordi sindacali, con l'eccezione di quelli anticostituzionali imposti da Marchionne?

Maurizio Landini è un signore, oltre che un operaio. Il segretario della Fiom, ai giornalisti che gli chiedono un giudizio sul Pd che non esprime giudizi o ne esprime troppi e opposti, e sull'aspirante sindaco di Torino Piero Fassino che ha detto «se fossi un operaio di Mirafiori voterei sì», non risponde in torinese va' a travaje', barbun. Risponde invece: «Chi dice che voterebbe sì dovrebbe provare a vedere il mondo dal punto di vista di chi lavora alla catena di montaggio, a cui si riducono le pause, si sposta o si toglie la mensa, si impone di lavorare su turni di 10 ore più una di straordinario, gli si toglie il diritto allo sciopero e alla malattia, per portare a casa, se gli va molto bene e non è in cassa integrazione, 1.300 euro al mese». Del resto, se l'opposizione politica italiana avesse provato a vedere il mondo dal punto di vista degli operai, se non avesse cancellato dall'agenda il lavoro e i lavoratori, forse le vicende politiche italiane sarebbero andate diversamente.

A chi difende il metodo Marchionne perché «salva il lavoro», i tanti intervenuti alla riunione del Comitato centrale hanno risposto raccontando quel che l'accordo comporta. Per esempio, non solo è negato a chi non firma il diritto a esercitare fare sinindacato, fino a non poter presentare candidati alle elezioni per le Rsu; nell'accordo separato firmato da Fim, Uilm, Fismic (sindacato giallo, già Sida), persino Ugl (ex sindacato fascista Cisnal) e addirittura il neopromosso soggetto sindacale «Associazione dei capi e quadri», si impedisce agli operai di votare, le Rsu non esistono più. Si ritorna alle Rsa (rappresentanze sindacali d'azienda), con quote pariteche tra i sindacati firmatari che nominano direttamente i loro terminali in fabbrica, 15 a organizzazione. Ma quale cecità ha spinto la Fim a firmare un'oscenità del genere? Qualora la Newco Chrysler-Fiat in futuro volesse liberarsi anche di Fim e Uilm potrebbe farle far fuori dagli altri tre «sindacati». «Si arriverà alla compravendita, con tanti Scilipoti in tuta blu», commenta il responsabile per il settore auto della Fiom, Giorgio Airaudo.

Mentre il gruppo dirigente Fiom votava lo sciopero generale, i compagni di merenda (Fim, Uilm, ecc.) firmavano con la Fiat il nuovo contratto di lavoro per Pomigliano. Val la pena di considerare che il falò dei diritti, da Napoli a Torino, avviene mentre i salari del lavoratori vengono e verranno falcidiati dalla cassa integrazione. A Mirafiori dei nuovi modelli (promessi) legati agli investimenti (promessi ) di 1 miliardo di euro si parlerà tra più di un anno, sempre che la Fiat esisterà ancora. I modelli previsti sono un suv e una jeep, ma i motori verranno da Oltreoceano, là dove le vetture saranno in gran parte commercializzate. È l'automobile a chilometro zero. Anche a Pomigliano il lavoro per costruire la nuova Panda tolta ai polacchi di Tychy inizierà chissà quando nel 2012 (intanto la Fiat minaccia i polacchi che fanno qualche timida resistenza di trasferire la produzione in Serbia). Tra Mirafiori e Pomigliano gli investimenti annunciati ammontano a 1,7 miliardi, a fronte dei 20 promessi. Dei 32 nuovi modelli per l'Italia nel quinquennio già 16 sono volati all'estero, degli altri nulla si sa, perché Marchionne il suo piano è disposto a discuterlo solo con se stesso. Dunque, dietro il falò dei diritti potrebbe nascondersi un gigantesco paccotto. Vaglielo a spiegare a D'Alema, Fassino, Chiamparino: se 11 ore, vi sembran poche...
Sarà uno scontro durissimo quello di Mirafiori, una fabbrica imprevedibile e ingovernabile per tutti, abitata da operai con un'età media di 47 anni, incattiviti, in rotta di collisione con la politica e gran parte dei sindacati, in attesa di una sola cosa: la pensione. Persone consumate dalla fatica e dalle delusioni, stufe, pronte a fischiare quasi chiunque si avvicini alla loro fabbrica perché si sentono abbandonate e tradite. Persone con una dignità, però. L'esito del referendum è tutt'altro che scontato.

 

L'ultimo record del parlamento siciliano per sette ore di lavoro 165 mila euro

La Regione scioglie la commissione-lumaca per riformare lo Statuto. Indennità da 800 a 3.300 euro del presidente che si uniscono allo stipendio di 19.000 euro

di EMANUELE LAURIA

Sette ore di lavoro non in un giorno, ma in un anno: un ritmo che neppure il Parlamento più antico (e più lento) d'Europa può sostenere. E così Francesco Cascio, il presidente dell'Assemblea regionale siciliana, ieri mattina ha detto basta. Con un atto d'imperio ha sciolto la commissione per la revisione dello Statuto.

La commissione Statuto è un organismo istituito nel giugno del 2008 che avrebbe dovuto rinnovare l'antica carta dell'autonomia isolana: due anni e mezzo dopo il lavoro non si è ancora concluso. Anzi. Da luglio a oggi, la commissione si è riunita dieci volte e in sei occasioni nessuno dei 13 novelli padri costituenti che la compongono si è presentato all'appuntamento.

Morale: 205 minuti di lavoro negli ultimi sei mesi, 34 faticosissimi minuti ogni mese, la maggior parte dei quali spesi nell'ascoltare l'assessore all'Economia che ha relazionato sul federalismo e i sette consulenti nominati per un parere tecnico evidentemente indispensabile. Oddio, non è che nel semestre precedente la commissione avesse operato con maggior vigore: poco più di un paio di sedute ogni trenta giorni, sei delle quali disdette o annullate e cinque (cinque!) consumate prima di mettersi d'accordo sull'elezione della centrale figura del segretario.

Così doveva finire, e forse era scritto. Se è vero che già alla scadenza del primo anno di attività, nel luglio del 2009, Cascio sottopose ai colleghi l'abolizione dell'organismo che si avviava a stabilire non invidiabili primati di improduttività. L'aula di Palazzo dei Normanni, sede dell'Assemblea siciliana, bocciò la proposta e deliberò la prima di due proroghe peraltro non consentite dal regolamento. Gli eredi di Alessi e Aldisio - storici progenitori dell'autonomia siciliana - hanno così continuato ad incassare le indennità di carica previste, che sono fisse e non legate all'effettivo svolgimento delle sedute.

In soldoni: 3.316 euro al mese per il presidente (il finiano Alessandro Aricò), 819 euro per i due vice, 404 per il segretario. Cifre lorde, per carità, che vanno a sommarsi però a retribuzioni-base equiparate a quelle dei senatori: più o meno 19 mila mensili, 11 mila al netto di imposte e ritenute. Certo, Aricò e soci sono in buona compagnia: sono 57, su 90, i parlamentari siciliani titolari di una carica - e dunque di una indennità - aggiuntiva: i presidenti dei gruppi parlamentari lievitati di recente con la nascita di Fli, di Forza del Sud di Gianfranco Micciché e del Pid di Saverio Romano, i componenti del consiglio di presidenza dell'Ars, i vertici delle tredici commissioni fra legislative e speciali: fra queste, c'è pure quella che si occupa di controllare preventivamente la "qualità delle leggi", affidata non a un giureconsulto o a un esperto di bilancio, ma - in ossequio a una ripartizione cencelliana fra i partiti - a un deputato di Ragusa dell'Udc che ha un diploma di geometra. E che nulla ha avuto da dire quando, nell'aprile scorso, l'Ars approvò una legge che metteva sul mercato il porto di Augusta: di proprietà però dello Stato, non della Regione.

Avete presente Totò che vende la fontana di Trevi? Ma tant'è. L'immobilismo della commissione Statuto ha fatto traboccare il classico vaso. E il presidente Cascio ha avuto un moto d'indignazione: "Quest'organismo è nella evidente impossibilità di raggiungere gli obiettivo cui era preposto, quindi dichiaro definitivamente cessate le sue funzioni". Aricò ufficialmente non parla, il suo movimento - Fli - grida all'attacco politico: Cascio è un esponente di quel Pdl che in Sicilia è stato messo all'opposizione dal governatore Lombardo. Così, fra le polemiche, cala il sipario sull'ultimo scandalo siciliano. Costato, a conti fatti, 166.640 euro: la spesa sostenuta dalle casse pubbliche per garantire il gettone ai padri della riforma mai nata.

 

La scuola è decimata

Tempi duri per i dipendenti pubblici: oltre al blocco delle retribuzioni che comporterà una perdita di potere d'acquisto di circa 1.600 euro fino al 2013, ieri la Ragioneria generale dello stato ha anche certificato (secondo quanto emerge nell'ultimo «Conto Annuale sul pubblico impiego») che l'occupazione nel settore pubblico sta diminuendo. Nel 2009, infatti, il totale degli occupati è sceso a 3.311.582 unità tra il personale a tempo indeterminato e il personale a tempo determinato della scuola. Considerando anche i corpi di polizia e le forze armate, i lavoratori dipendenti con contratti flessibili e i lavoratori estranei all'amministrazione (lsu e interinali), il totale sale a 3.493.481 con una caduta del 2,07% sul 2008.
Il parziale blocco del turn over stabilito nelle manovre e soprattutto i tagli nella scuola hanno determinato l'alleggerimento della Pubblica amministrazione. Nel 2009 la consistenza del personale a tempo indeterminato si contrae di 37.000 occupati. Ma considerando anche il tempo determinato nella scuola (-26.700) la flessione sfiora le 64.000 unità. Tra i diversi comparti, solo la sanità registra una crescita apprezzabile di 3.800 occupati, mentre i dipendenti delle Regioni e delle province autonome risultano 750 in più.

Un dato da sottolineare è l'aumentata presenza femminile e la sua incidenza sul totale a tempo indeterminato: a fine 2009 le donne impiegate erano 1.827.271 pari al 55,2% del totale. La variazione in aumento della presenza femminile è determinata soprattutto dai comparti sanità, Regioni ed autonomie locali, ma anche enti di ricerca, magistratura e corpi di polizia. Nella scuola, nelle università e nei ministeri si registra, invece, una riduzione della presenza femminile, ma solo in termini assoluti. Alla contrazione complessiva dei lavoratori nei vari comparti, in termini relativi, l'incidenza della componente femminile è comunque aumentata.
Rispetto alla distribuzione geografica, la maggior parte dei dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato è presente al Nord con il 34,7%. Al Centro la percentuale è del 31,8%, al Sud e Isole 33,3%. La Ragioneria fornisce anche la percentuale della presenza all'estero: rimane stabile allo 0,2% del totale. I dati smentiscono il luogo comune che vede nelle regioni meridionali la massima concentrazione di impiegati publici. La regione con il maggior numero di dipendenti è, infatti, la Lombardia di Formigoni (12,57%) seguita dal Lazio (12,08%) nel quale si concentrano i ministeri.

Alla diminuzione delle unità di personale non ha però corrisposto una diminuzione di costi, che anzi sono anche leggermente aumentati. Nel 2009 il totale dei dipendenti pubblici (compresi interinali, lsu, contratti flessibili e corpi di polizia) ha comportato una spesa di 168 miliardi, contro 166,6 del 2008 (+0,89%). Si tratta, tuttavia, di un aumento più contenuto di quello registrato tra il 2008 e il 2007, quando l'aumento fu del 6,7%. Ma bisogna considerare l'incidenza delle scadenza contrattuali.

 

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