Uno sguardo diverso. Lo sguardo delle donne.
L’Aquila: tutti l’hanno guardata, ma chi l’ha vista veramente? Il comitato
“Donne terre-mutate” lancia un incontro nazionale a L’Aquila per il 7 e l’8
maggio 2011. Per portare le donne di tutta Italia a vedere L’Aquila come è. A
sentirne gli odori, a toccare le spaccature e a stringere mani. Per
accompagnarle a visitare la “zona rossa” ancora militarizzata, ad entrare nelle
C.A.S.E. dove (non) si vive bene, a camminare nei quartieri vuoti e abbandonati,
a passeggiare nel centro dopo le undici di sera (prima che chiudano i
cancelli!).
Vogliamo portarvi nei luoghi che la televisione non ha mai fatto vedere. Un
pensiero diverso. Il pensiero delle donne. Dal 6 aprile 2009, a L’Aquila, le
donne riflettono, discutono, lavorano e progettano, mettono insieme competenze e
talenti. Sono le donne delle associazioni, dei luoghi di lavoro, della scuola,
dell’arte. Sono le donne che ricostruiscono quel che è permesso ricostruire in
un modo differente dagli uomini.
Vogliamo confrontarci con donne di tutta Italia, con altri talenti e con altre
competenze. Un’altra città. La città delle donne. Le donne a L’Aquila ri-tessono
la vita quotidiana frammentata, vedono il tempo bruciarsi nelle distanze fra il
centro storico ancora chiuso e i satelliti tutto intorno, il degrado di case
libri mobili suppellettili e luoghi d’incontro un tempo agevoli. Ma dal caos
nascono anche nuove occasioni che le aquilane vogliono condividere con donne di
tutta Italia. Un momento di gioia, una festosa trama di relazioni: semi di
ricostruzione e di rinascita, da gettare nella terra tutte insieme.
SOPRATTUTTO ABBIAMO UN SOGNO:
COSTRUIRE NELLA NUOVA CITTÀ UN LUOGO DELLE DONNE.
BEN VENGANO LE DONNE A MAGGIO.
MANI-FESTIAMO. SIAMO TUTTE AQUILANE
Comitato Promotore “Donne terre-mutate per l’incontro nazionale del 7 e 8 maggio
2011”:
Biblioteca delle donne Melusine L’Aquila
Centro Antiviolenza per le Donne L’Aquila
Donne in nero L’Aquila
Leggendaria. Libri Letture Linguaggi
CON LE PRIME ADESIONI: Artisti Aquilani
Circolo Arci Querencia
Comitato Familiari delle Vittime della Casa dello Studente
Genitori si diventa/ Sezione aquilana
PER ADERIRE: laquiladonne@gmail.com
Le altre donne
di Concita De Gregorio
Esistono anche altre donne. Esiste San Suu Kyi,
che dice: «Un'esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di
necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono
disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla
ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto
delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all'istruzione incoraggiata e capace di
ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».
Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni:
portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali
giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che
passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele
fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E perché pensano
che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un
autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo
propone l'esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte
eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano
titolari di ministeri.
Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E l'assenza di
istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L'assenza di
un'alternativa altrettanto convincente. E questo il danno prodotto dal
quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il
vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l'Italia
ridotta a un bordello.
Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in
fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma
di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri
effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una
minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo.
Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove
siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di
sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un
tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e
libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non
mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull'Italia, oggi, non è cosa
faccia Silvio B. e perché.
La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di
rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda
è: perché lo votate? Non può essere un'inchiesta della magistratura a decretare
la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei
suoi vizi senili a condannarlo, né l'accertamento dei reati che ha commesso: dei
reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino
miserie private.
Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di
impotenza declinato da un uomo che ha i soldi e come li ha fatti, a danno di
chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone,
prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio
come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l'esempio,
la guida, il padrone.
Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano al di là dei reati,
oltre i vizi un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di
lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i
fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del
presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare
sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete
questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è
il momento di dirlo.
19 gennaio
Buon compleanno, Paolo
di Umberto Lucentini
Oggi
il giudice Borsellino avrebbe compiuto 71 anni. Mai come adesso sarebbe stato
prezioso in un Paese nel baratro. Ecco come verrà ricordato in diverse città
d'Italia
«Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa
iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i
suoi insegnamenti, raccontando piccoli ma significativi episodi della sua vita
tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni
sera prima di addormentarci ti ringraziamo per come ci hai insegnato a vivere».
Ha scelto queste parole Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, per ricordare il
compleanno del padre, procuratore aggiunto di Palermo ucciso nella strage di via
D'Amelio del 19 luglio del 1992.
Oggi, 19 gennaio, Paolo Borsellino avrebbe compiuto 71 anni (1940-1992). La sua
morte, 57 giorni dopo quella dell'amico e collega Giovanni Falcone, ha segnato
la seconda strage della serie di attentati che ha colpito la Sicilia e l'Italia
tra il '92 e il '93 in quella stagione culminata con la trattativa tra pezzi
dello Stato e Cosa nostra di cui si stanno occupando le indagini delle procure
di Palermo e Caltanissetta.
«Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo
la salma di Falcone nella camera ardente allestita all'interno del Palazzo di
Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un
collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo
stessi già piangendo la sua» ha scritto Manfredi nella testimonianza per il
libro "Era d'estate", curato da Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi, con
prefazione di Pietro Grasso (Pietro Vittorietti editore).
«La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è
certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta
ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a
qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello
mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci
trasformassimo in "familiari superstiti di una vittima della mafia", che noi
vivessimo come figli o moglie di... desiderava che noi proseguissimo i nostri
studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che
lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva "Paolino" sin da quando
avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi
il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e per il
momento unico nipote maschio».
Mercoledì in diverse città d'Italia il compleanno di Paolo Borsellino verrà
ricordato in scuole, teatri, piazze. A Castelvetrano l'ex collaboratore di
giustizia, Vincenzo Calcara, alle 10 incontra al teatro Selinus gli studenti del
suo paese d'origine, dove torna per la prima volta dopo venti anni. Calcara,
affiliato alla cosca dei Messina Denaro, nel 1991 svelò a Borsellino che la
"famiglia mafiosa" di Castelvetrano lo aveva incaricato di ucciderlo. Ma Calcara
fu arrestato e, in cella, decise di collaborare con la giustizia raccontando a
Borsellino i progetti di Cosa nostra. A Castelvetrano ci sarà anche Antonio
Ingroia, "pupillo" di Borsellino e oggi procuratore aggiunto. «Se non avessimo
potuto colpire Borsellino avremmo dovuto uccidere Ingroia al suo posto»,
raccontò Calcara.
E in un libro appena pubblicato ("Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino" di
Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo, Aliberti editore) Ingroia parla così delle
indagini sulla trattativa e su esecutori e mandanti della strage di Via
D'Amelio: «Una storia aperta che non ha, non può ancora avere una sua
conclusione fin quando non verrà scoperta tutta la verità su una delle stragi di
mafia più anomale della storia della nostra Repubblica, e che perciò trova la
spiegazione più plausibile della sua anomalia nella sua matrice verosimilmente
non solo mafiosa, come sospettammo tutti fin dalla stessa sera della strage.
Un'intima consapevolezza di tanti che ora sembra diventare concretezza
investigativa, e forse si appresta a trasformarsi in certezza probatoria. Un
importante contributo alla chiarezza in un momento di grande confusione nel
nostro Paese, all'emergere della verità in una fase molto delicata della storia
d'Italia. Con l'augurio che coloro che quella Verità la vogliono fortemente
riescano a prevalere sui Nemici della Verità e della Giustizia».
18 gennaio
Il capolinea
SIAMO dunque arrivati alla domanda capitale del
tragico quindicennio berlusconiano: può governare un Paese democratico un leader
che da giorni è lo zimbello del mondo per i festini con minorenni prostitute,
pagate e travestite da infermiere per eccitare il satrapo stanco? Con ogni
evidenza no. In qualsiasi Paese normale un premier coinvolto nel ridicolo e
nello squallore di questo scandalo si sarebbe già ritirato a vita privata, per
difendersi senza coinvolgere lo Stato nella sua vergogna.
La giustizia dirà se ci sono reati con minori e se c'è la concussione, com'è
convinta la Procura di Milano. Ma intanto ciò che emerge dalle carte giudiziarie
è sufficiente per un giudizio politico di totale inattitudine ad esercitare la
leadership governativa e la rappresentanza di una democrazia occidentale.
L'incoscienza del limite, la dismisura eretta a regola di vita, la concezione
del rapporto tra uomo e donna, uniti insieme danno forma ad un permanente abuso
di potere che macchia le istituzioni e offende lo Stato.
Che si tratti di malattia, come denunciava l'ex moglie del premier, o di perdita
di controllo, poco importa per il cittadino. Da due anni la politica è
prostituita da un primo ministro che teme le rivelazioni sulle sue notti, è
vulnerabile dalle sue partner occasionali, è ricattato dalle minorenni, dichiara
guerra alle intercettazioni e ai giornali soltanto per difendersi dalla valanga
di scandali che lo sovrasta: soprattutto mente e invita le ragazze a mentire.
Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l'ultimo atto:
si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica,
evitando di distruggere il tempio con se stesso.
17 gennaio
Le ragioni di Marchionne
Arricchirsi sulla pelle, sul sudore e sul sangue altrui. Senza sforzi, senza
lavoro. Con il gioco del comando. E questa è la guerra, che a noi fa schifo
"Quello di Mirafiori è un modello che non va bene per descrivere il futuro",
dice il segretario generale della Cgil Susanna Camusso.
Ma quanti sono gli imprenditori che attendono il risultato di Miriafiori per
adeguarsi allo strappo del manager che da solo guadagna più di tutti gli operai
di Mirafiori messi assieme e che paga le tasse in Svizzera e non in in Italia?
Il punto non è "chi vincerà". Le ragioni per votare no al "referendum" di
Mirafiori sono tante e fortissime. E la stragrande maggioranza dei lavoratori
Fiat le conosce e le sostiene.
Ma quando per sostenerle si deve mettere in gioco la propria vita e quella della
propria famiglia allora non si tratta più di una scelta. Ma di un obbligo.
Persino parlare di ricatto è generoso: qui, per molti, non c'è proprio scelta.
Il punto è che si è tollerato - da parte di tutti quelli che si dicono dalla
parte del lavoro e dei lavoratori, solo la Fiom ha lanciato l'allarme - che
Marchionne consumasse uno strappo irrimediabile. Uno strappo di cui non si sono
calcolate le conseguenze, che potranno essere tragiche e che sono certamente
drammatiche.
Si è tollerato che un signore, nel nome di profitti finanziari di borsa e non
certo per salvaguardare alcunché di produttivo, gettasse alle ortiche più di
cento anni di conquiste civili e sociali.
Solo i fessi e i disperati possono credere alla favola degli investimenti
produttivi. Quali che saranno, non saranno nulla più che una mancia rispetto ai
guadagni in borsa dei titoli Fiat. E non è certo per garantire l'occupazione o
salvare gli stabilimenti che Marchionne ha forzato la mano.
Lo ha fatto per un puro cinico e baro calcolo: se spezzo le reni ai sindacati,
il titolo volerà in borsa. Perché il modello industriale che ne uscirà
(indipendentemente dalla sopravvivenza delle fabbriche di Torino e Pomigliano
che non interessa ai padroni) sarà persino più arretrato di quello cinese. Ed è
questo che piace a chi specula in borsa, oggi come ieri: arricchirsi sulla
pelle, sul sudore e sul sangue altrui. Senza sforzi, senza lavoro. Con il gioco
del comando. E questa è la guerra, che a noi fa schifo.
Maso Notarianni
LA STATISTICA
Università italiane,
le meno "internazionali". Migrantes: "Solo il 3% di studenti stranieri"
Primato poco invidiabile per i nostri atenei. La media Ocse è il 10%, nel
Regno Unito i ragazzi che arrivano per studiare sono quasi il 18%. La denuncia
dell'organizzazione: "Poche residenze, pochissime borse di studio"
di MANUEL MASSIMO
Nell'epoca della globalizzazione della cultura e dell'istruzione gli atenei
italiani detengono un primato poco invidiabile: ospitano il minor numero di
studenti stranieri (solo il 3,1% degli iscritti), un dato largamente al di sotto
rispetto alla media dei Paesi Ocse (10%) e lontanissimo dalle eccellenze
rappresentate da Regno Unito (17,9%), Germania (11,4%) e Francia (11,2%). Lo
denuncia la Fondazione Migrantes - presentando la Giornata Mondiale delle
Migrazioni in programma a Genova il 16 gennaio - evidenziando anche i motivi
alla base di questa scarsa capacità di attrazione di studenti universitari
stranieri da parte degli atenei di casa nostra: in primis le politiche di
accoglienza, di fatto inadeguate.
"Residenze poche, borse pochissime". La bassa mobilità studentesca "in
entrata" dipende in larga parte da ragioni di ordine pratico, come sottolinea il
direttore generale della Fondazione Migrantes monsignor Giancarlo Perego: "In
primo luogo le poche residenze universitarie presenti, a disposizione soltanto
del 2% degli studenti stranieri, contro il 17% della Svezia, il 10% della
Germania e il 7% della Francia; poi le pochissime borse di studio erogate quasi
esclusivamente da enti privati". Da non sottovalutare, infine, la barriera
linguistica: i corsi in lingua inglese, fondamentali per
l'internazionalizzazione degli studi, sono ancora pochi e presenti a macchia di
leopardo solo in alcuni atenei.
Meno di 55mila iscritti. Nell'anno accademico 2008/2009 il totale degli
iscritti alle università italiane risulta essere di 1.759.039 studenti, di cui
soltanto 54.707 stranieri (il 3,1% appunto). I più numerosi sono gli albanesi
(11.380) seguiti da cinesi e greci (oltre 5.000), rumeni (4.000) e camerunensi
(3.000). Il maggior tasso di crescita tra gli iscritti stranieri si registra tra
i cinesi, con un aumento del 10,9% rispetto all'anno precedente, grazie anche
allo specifico programma di interscambio culturale "Marco Polo", definito a
livello ministeriale. L'ateneo con il maggior numero complessivo di iscritti
stranieri è la Sapienza di Roma (6.500 studenti, circa il 5% del totale), non a
caso l'istituzione universitaria più grande d'Europa. Nel corso del 2009 si sono
laureati in Italia 6.240 studenti stranieri.
Geografia delle presenze. Le facoltà più "gettonate" tra gli studenti
stranieri sono quattro: Economia (17,6%), Medicina e Chirurgia (14,7%),
Ingegneria (13,2%) e Lettere e Filosofia (10,4%). La maggior concentrazione di
iscritti stranieri si registra negli atenei del Centro Italia - che ospitano il
34% degli studenti - grazie alla presenza di numerose città universitarie come
Roma, Perugia, Firenze e Pisa. Nel Nord Ovest (30,3%) gli atenei più
"internazionali" si trovano a Milano e Genova. Nel Nord Est (26,6%) le città con
una significativa presenza di studenti stranieri sono Padova, Trieste e Bologna.
Infine al Sud (7,2%) i due principali poli d'attrazione sono rappresentati da
Napoli e Bari. La più alta percentuale di iscritti stranieri sul totale degli
studenti a livello nazionale si registra alla Bocconi di Milano (1.000 studenti,
pari al 15,9%).
Il biglietto da visita del Miur. In questo panorama non esaltante, in cui
l'Italia rappresenta il "fanalino di coda" della mobilità studentesca
internazionale, il nostro Ministero dell'istruzione, dell'Università e della
Ricerca ha un apposito portale dedicato agli studenti stranieri che vogliono
venire a studiare qui (www. studiare-in-italia. it). Il sito - realizzato in
collaborazione con il Cimea e potenziato dal Cineca - è naturalmente multilingue
(inglese, tedesco, spagnolo e francese) ma manca il cinese. I contenuti
specifici rivolti agli studenti stranieri "incoming" sono piuttosto scarni e
poco interattivi, anche per questo stupisce l'ampiezza della sottosezione
"Vivere in Italia" infarcita di luoghi comuni che riporta la ricetta della pizza
napoletana e suggerisce la migliore strategia per difendersi dai borseggiatori
sui mezzi pubblici. Peraltro il dato sulla presenza dei (già) pochissimi corsi
in lingua inglese nei nostri atenei è fermo al 2007. Insomma: un pessimo
biglietto da visita.
Bielorussia, stato di paura
Non si allenta il torchio della repressione contro dissidenti, giornalisti e
avversari politici. anche un bambino di tre anni coinvolto in un braccio di
ferro tra Kgb e l'ex candidato Andrei Sannikov
Dagli
uffici dell'Osce di Minsk dicevano che, tutto sommato, la campagna elettorale si
era svolta in un clima abbastanza positivo, che ci erano stati degli avanzamenti
lungo il tortuoso percorso della democrazia. E qualcuno, da Bruxelles, aveva
ravvisato in Lukashenko quel pizzico di buona volontà necessario a tenere in
piedi un filo di trattativa. Ma ogni cosa è cambiata dopo il 19 dicembre, giorno
delle elezioni, della vittoria - al solito schiacciante - di Aleksander
Lukashenko, dello strozzamento - al solito violento e devastante - della voce
dissenziente. Il 31 dicembre gli uomini dell'Osce hanno dovuto preparare le
valigie: il governo non ne ha autorizzato la permanenza per il 2011. Il
Parlamento europeo e la Commissione esteri si trovano invece a dover
riconsiderare la linea morbida adottata nei confronti dell'uomo forte di Minsk e
dei suoi gerarchi: è molto probabile che vengano emanate nuove sanzioni con la
reintroduzione del nome di Lukhashnko nella lista delle personae non gratae.
Ma, l'ultimo dittatore d'Europa, tira diritto per la sua strada e stringe il
pugno chiudendo il paese in uno stato di terrore e paura. Dopo le manifestazioni
del 19 dicembre, più di 630 persone sono state arrestate e detenute per dieci,
quindici giorni. Tra questi vi erano sette dei nove candidati sfidanti di
Lukhashenko, intellettuali, studenti, persone comuni. Oggi, rimangono in carcere
ancora più di trenta persone. Il governo non accetta il dissenso. Gli uomini del
Kgb hanno rispolverato il catalogo dei metodi staliniani: perquisizioni,
arresti, divieti di espatrio, sequestro di documenti e minacce trasversali.
Nelle galere di Minsk ci sono, tra gli altri, Andrei Sannikov - candidato alla
presidenza - e sua moglie Irina Khalip, giornalista "dissidente". Rischiano una
condanna fino a quindici anni di carcere perché hanno partecipato ai disordini
del 19 dicembre. Andrei e Irina hanno un figlio di tre anni, Daniel, che adesso
si trova con i nonni materni. Come succedeva negli anni Trenta del secolo
scorso, quando i figli dei deportati nei gulag staliniani finivano negli
orfanotrofi, così oggi il piccolo Daniel rischia di finire nelle mani dei
servizi sociali. È in atto una lotta che vede di fronte una vecchia donna e i
temibili servizi segreti del Kgb. Si tratta di una chiara manovra intimidatoria:
lo scopo è quello di convincere Sannikov - forse il più autorevole rivale di
Lukhashenko - ad archiviare la sua carriera politica a fare qualche
dichiarazione attraverso la Tv di stato per condannare le manifestazioni del 19
dicembre, per riconoscere la vittoria del presidente Lukhashenko. È quello che è
accaduto a un altro candidato, Yaroslav Romanchuk, che per evitare il carcere ha
accettato di leggere in tv un discorso consegnatogli dai servizi segreti con cui
denunciava gli organizzatori delle manifestazioni.
La moglie dell'ex candidato presidente Alex Mikhalevich - anch'egli in carcere
dal 19 dicembre - Milana è stata fermata dal Kgb mentre tentava di raggiungere
Varsavia per assistere alla conferenza sulla Bielorussia. Stessa sorte per
Tatiana Seviarynets - madre di Pavel, co-presidente dei cristiano-democratici -,
fermata mentre prendeva il treno e portata negli uffici del Kgb dove è stata
interrogata e privata del passaporto.
Le perquisizioni in appartamenti, uffici e redazioni non si contano. Le case di
Andrei Sannikov sono state messe sottosopra, sequestrati computer, hard disk e
documenti. Il presidente dell'Associazione dei giornalisti è stato convocato dal
Kgb per testimoniare contro i dissidenti; il giornalista Aleksander Vasilvski è
stato arrestato. A Grodna sono stati perquisiti gli uffici del Fronte popolare (Bnf)
e quelli del Partito civico (Ahp). Il giornalista polacco Andrei Pochobut è
stato arrestato e poi rilasciato dopo un processo sommario e il pagamento di una
multa pari a circa cinquecento euro.
L'emittente radiofonica Autoradio - che aveva ospitato più volte la voce di
Sannikov e dell'altro candidato Nyaklaeu - si è vista ritirare la licenza perché
"avevano contribuito a incitare il clima di violenza scoppiato il 19 dicembre".
Gli Stati Uniti e l'Ue, sempre a voce troppo bassa, hanno chiesto l'immediato
rilascio degli arrestati per motivi politici e criticato il governo Lukhashenko
per mancanza di legittimità democratica. Ma come sempre, non si può fare a meno
di notare il ritardo con cui arrivano gli appelli e le condanne e di chiedersi
su quali basi Bruxelles abbia potuto dare credito ai sorrisi di apertura di
Lukhashenko, falsi come le sue promesse.
14 gennaio
Margherita Hack: “Ma che
paese è diventato l’Italia?”
di
Margherita Hack
Ma che paese è diventato l'Italia? Due fatti completamente scollegati fra loro
ma che riempiono di amarezza.
1) 11 gennaio 2011. Il prepotente ricatto di Marchionne; se vince il no la Fiat
va in Canada. Di fronte a una minaccia che vorrebbe dire disoccupazione in massa
per un'intera città, e non solo, quale operaio avrà il coraggio di difendere i
propri diritti? E il governo è completamente assente, preoccupato solo dei
propri dissidi interni, dei processi del premier o del federalismo, che
probabilmente vorrà dire solo raddoppio delle poltrone e dei costi.
È questo che significa liberismo? Tornare all'800 del Padron delle ferriere? E
tutti gli aiuti statali che la Fiat ha avuto per decenni ? Perchè non li ha
utilizzati per fare ricerca innovativa, sia per quanto riguarda le tecniche di
produzione e di assemblaggio, sia per quanto riguarda le innovazioni
tecnologiche sulle macchine? O si vuol so-stenere che tutti gli operai italiani
sono dei fannulloni mentre tutti gli stranieri sono gran lavoratori?
2) 6 gennaio 2011, Trieste. Una bambina di 6 mesi affetta da atrofia muscolare
spinale e in attesa di essere curata con le cellule staminali da un eccellente
pediatra triestino, Marino Andolina, è vittima di un improvviso stop. Il
Comitato bioetico di Trieste dovrà decidere se l'intervento è MORALMENTE
FATTIBILE. Non se possa essere utile o no, se è MORALE! Così ha deciso il
giudice di Venezia Paola Ferretti.
Sul Piccolo di martedì 11 gennaio interviene Franco Panizon, già direttore della
clinica pediatrica Burlo Garofalo e già maestro di Andolina: “Ci si chiede se
Andolina ha seguito il protocollo… Ma cos'è un protocollo ? Non è una tavola
della legge. Nessun protocollo è stato dettato da Dio agli uomini. Un protocollo
è una linea di condotta pensata da uomini esperti, basata sulla logica delle
cose e rivalutata e corretta continuamente sulla base dei risultati".
Una volta davanti a due fatti come questi intere città si sarebbero mobilitate
indignate. L'indignazione, una virtù che l'Italia ha dimenticato, interessata
piuttosto alla corsa per i saldi.
Felice 2011.
Tremonti, che spudorato
di Massimo Riva
Per anni ha retto il moccolo alle promesse demagogiche di Berlusconi sulle
tasse. Adesso sembra diventato un fan del rigore e dell'austerità dei conti. Per
fare le scarpe al premier? Forse. in ogni caso, è una manipolazione mediatica
Giulio Tremonti
Ha
ricominciato la sua esperienza di ministro dell'Economia nel 2008 reggendo il
sacco all'attuazione delle più demagogiche promesse elettorali di Silvio
Berlusconi. E così Giulio Tremonti ha esordito nel ritrovato incarico regalando
anche ai più abbienti un'esenzione dall'Ici sulla prima casa che ha sottratto
all'Erario - e segnatamente alle casse dei Comuni - qualcosa come circa 3
miliardi di euro. Poi, in rapida sequenza, ha abrogato le regole sulla
trasparenza o tracciabilità dei pagamenti, che Vincenzo Visco aveva introdotto
per rendere la vita difficile agli evasori più incalliti.
Ora, da qualche tempo, lo stesso Tremonti non ha perso il vizio di manifestare
le sue opinioni con apodittica saccenteria, ma sembra diventato un'altra
persona. Il registro delle sue parole ha avuto una svolta a 180 gradi e il
ministro ama diffondere di sé l'immagine del custode rigoroso e inflessibile dei
saldi di bilancio. Al punto che per rifarsi una verginità in materia è tornato
sui suoi passi reintroducendo financo alcune norme anti-evasione volute dal suo
inviso predecessore. Né perde occasione per smarcarsi dall'ottimismo di maniera
del presidente del Consiglio, proclamando che l'orizzonte resta cupo perché la
crisi è tutt'altro che finita.
Come valutare questa subitanea metamorfosi? Come un sincero e operoso
ravvedimento? Non pochi accreditano questa idea, che trova ascolto anche fra
esponenti dell'opposizione. Tanto che c'è chi vagheggia l'ipotesi di una
sostituzione di Berlusconi con Tremonti a Palazzo Chigi dopo le eventuali
elezioni anticipate o addirittura prima per scongiurare uno scioglimento
prematuro delle Camere. Del resto lo stesso Cavaliere fa fatica a nascondere la
sua insofferenza verso il proprio ministro dell'Economia considerandolo ormai un
rivale furtivamente impegnato con l'appoggio leghista a fargli le scarpe. Ma
proprio questa presunta ambizione verso Palazzo Chigi dovrebbe far riflettere
meglio sui requisiti della patente di rigorista che tanti, un po' troppo
disinvoltamente, sembrano riconoscere a Tremonti. È vero che da ultimo egli
mostra di voler resistere all'accattonaggio molesto di molti suoi colleghi. Ma è
non meno vero che i suoi tagli banalmente "lineari" alla spesa pubblica non solo
non hanno evitato la corsa della medesima in rapporto al Prodotto interno lordo,
ma ne hanno anche aggravato le distorsioni distributive rinunciando a disegnare
- magari anche dal lato delle entrate - una politica di bilancio degna di chi
oggi vorrebbe farsi passare per un nuovo Quintino Sella.
La tardiva austerità tremontiana, poi, non cancella che, nei trenta mesi della
sua gestione, l'ottimo Giulio è riuscito nella brillante impresa di far
ricrescere la montagna del debito pubblico di oltre 200 miliardi. E ciò pur
avendo avuto la fortuna di non dover impegnare grandi risorse per scongiurare
fallimenti bancari come, viceversa, è toccato di fare ad altri suoi colleghi,
non solo europei. Fondati o no che siano i dubbi sulle mire presidenziali di
Tremonti, l'abito rigorista con cui oggi si presenta appare nulla più che il
frutto di una scaltra ma anche un po' spudorata manipolazione mediatica.
Boscimani, lotta per la vita
Il popolo africano, il 17 gennaio, davanti alla
Corte per l'accesso all'acqua
La data è fissata: il 17 gennaio prossimo la Corte d'Appello dello stato
africano del Botswana celebrerà la prima udienza per decidere se la popolazione
dei Boscimani del Kalahari ha diritto all'acqua.
Questo antico popolo ha già dimostrato di saper lottare contro una modernità che
per loro, troppo spesso, ha avuto solo il volto dell'abuso e della violenza. Nel
2002, infatti, i Boscimani hanno vinto un processo storico, ottenendo una
sentenza favorevole al loro ritorno nelle terre ancestrali, quelle adesso
occupate dalla Central Kalahari Game Reserve. La corte ha posto così fine agli
sfratti forzati che i Boscimani hanno subito in questi anni.
Nel 2010, però, la Corte Suprema del Paese ha negato loro l'accesso al pozzo
dove, da sempre, i Boscimani prendono l'acqua per vivere. Non si sono persi
d'animo e, memori della vittoria del 2002, hanno presentato ricorso. Con ottime
possibilità di vittoria, considerato che la sentenza che nega l'accesso al pozzo
è arrivata una settimana prima che le Nazioni Unite - in colpevole ritardo -
sancissero l'accesso all'acqua come un diritto umano.
La chiusura del pozzo ha costretto i Boscimani a viaggiare per ore, a piedi o a
dorso d'asino, in zone inospitali del Botswana per reperire le risorse idriche
necessarie alla loro sopravvivenza. Un trattamento disumano e degradante che
viola tutti i parametri del rispetto dei diritti umani, come sottolinea da anni
l'ong Survival che si batte per il rispetto dei diritti dei Boscimani.
I Boscimani sono suddivisi in diverse tribù e non esiste neanche un nome che li
rappresenti tutti. Molti di loro utilizzano e accettano il nome Boscimani, anche
se deriva dalla traduzione inglese della parola olandese/afrikans bosjemans o
bossiesmans, ovvero 'banditi' e 'fuorilegge'. Le tribù parlano lingue diverse e
vivono divise tra Botswana, Namibia, Sudafrica, Zimbabwe, Angola e Zambia.
Vivono di caccia e agricoltura e sono riuscite a sopravvivere nel deserto per
migliaia di anni. Prima dell'arrivo dei sedentari e dei colonizzatori. Dopo si
calcola che le persecuzioni subite dai Boscimani abbiano causato un massacro,
riducendo la popolazione da milioni che erano a sole cento mila persone.
Quelli che son rimasti, con la forza, sono stati (fino al 2002) costretti ad
abbandonare la loro terra. Le principali organizzazioni internazionali
indipendenti che si battono per il rispetto dei diritti dell'uomo ritengono che
la causa degli sfratti dei Boscimani siano i diamanti. Le terre ancestrali dei
Boscimani si trovano nel cuore della zona diamantifera più ricca del mondo. Un
piano di 'pulizia etnica' che, fallito nel 2002, ha forse trovato nella sete una
nuova leva per espellere i Boscimani dalle loro terre.
Christian Elia
7 gennaio
La bufala della sfida dei
paesi emergenti
Nei
primi anni Cinquanta del secolo scorso la Fiat effettuò massicci licenziamenti
concentrandosi sugli operai della Fiom e dando avvio alla pratica dei «reparti
confino», ove venivano inviati gli operai comunisti, socialisti e gli iscritti
alla Fiom. Allora sia il Pci che la Cgil interpretavano il capitalismo italiano
come dominato dai grandi monopoli e destinato pertanto a una prolungata
stagnazione. In risposta alla percepita stasi e crisi dell'industria e dell'auto
in particolare, Vittorio Foa elaborò per la Cgil la proposta di sviluppare la
produzione lanciando l'idea di una «vetturetta» popolare.
In realtà era quello che la Fiat stava programmando, dato che l'economia
italiana, capitanata dal gruppo Iri, stava imboccando la via della grande
trasformazione postbellica. Poco dopo da Mirafiori uscì l'epocale Seicento. I
licenziamenti avevano quindi due obiettivi: ristrutturare completamente
l'apparato tecnico produttivo dell'azienda e cambiare in senso fordista la forza
lavoro, indebolendo quanto più possibile ogni autonoma controparte sociale, la
Fiom appunto. Il successo della politica di Valletta fu dovuto all'insieme della
crescita del paese che con l'incremento della massa dei redditi, nonché della
spesa pubblica in autostrade, generalizzò la domanda e l'uso dell'auto.
Oggi il paragone con quel periodo, buio dal lato dei diritti sindacali in
fabbrica tant'è che il Pci promosse una campagna per far entrare la Costituzione
nelle fabbriche, risiede nella volontà aziendale di rendere la forza lavoro
malleabile a piacere, volendo formalmente espellere la Fiom che non accetta i
criteri imposti dall'azienda. È come se Valletta, che fino ai grandi scioperi
del 1962 privilegiava il sindacato aziendale Sida e la Uilm, avesse bandito la
Fiom dal correre alle elezioni della commissione interna; cosa allora
impossibile malgrado il clima di violenta repressione antioperaia.
La differenza cruciale tra oggi e quel lontano periodo sta nell'assenza di
prospettive di un sostenuto sviluppo capitalistico per l'economia europea. Non
c'è nessuna crescita europea e italiana capace di rilanciare la Fiat. La
crescita dei paesi emergenti è fuori tiro perché, a eccezione del Brasile, la
presenza Fiat è inconsistente. In questi giorni,senza nemmeno sollecitare la
Fiat a rendere pubblici i piani di produzione per l'Italia, i media dominanti si
sono sbracciati nel difendere l'operato politico dell'azienda giustificandolo
con la sfida proveniente dai paesi emergenti. Pura ideologia antisindacale.
Infatti se si vuole raccogliere la sfida cinese in Cina bisogna esserci. Nel
2010 la produzione cinese di auto è stata di 17 milioni di unità, provenienti
nella stragrande maggioranza dalle locali filiali delle multinazionali dell'auto
operanti in partenariato con società cinesi.
L'esportazione di automobili dalla Cina è ancora minima, prevalentemente verso
alcune zone asiatiche e fra un po' verso la Turchia. Ciò significa che la sfida
posta dall'emergere di Pechino si gioca tuttora sulla produzione e sul mercato
interno. Con Torino la sfida cinese non c'entra.
La politica della Fiat nei confronti di Torino è invece tutta in rapporto al
mercato interno italiano e europeo. La strategia è derivata dall'esperienza
della deindustrializzazione americana aggravata dalla stagnazione europea e
dalle perdite di quote di mercato. Negli Stati uniti il requisito sociale per
dare corpo al processo di delocalizzazione verso zone low cost per riesportare
verso la più ricca madrepatria è stato il forte declino sindacale a partire
dagli anni Ottanta. Man mano che si indebolivano, i sindacati accettavano di
incorporare le esigenze delle aziende e per poi ritrovarsi con minore capacità
negoziale mentre la delocalizzazione continuava. Vedi il documentario di Michael
Moore sulla devastazione di Flint, sede della General Motors. Non è un caso che,
come elencato da Maurizio Zipponi al Tg3 di Linea Notte il 4/5 gennaio, si
conoscano i programmi di produzione della Fiat per la Serbia, la Turchia, la
Polonia ma poco o niente sull'Italia. L'idea che le nuove condizioni
contrattuali possano portare a spettacolari incrementi di produttività è
fallace. Per ottenere significativi aumenti di produttività tali da avere
effetti competitivi e di diffusione sul territorio, è necessario che le
innovazioni tecnologiche si accompagnino a un salto della scala di produzione
verso valori di gran lunga superiori alle 500-600 mila unità attuali.
Se questo fosse il vero obiettivo, gli investimenti e la lista dei modelli da
produrre si concentrerebbero sull'Italia e secondariamente altrove. Tuttavia, le
aspettative circa l'allargamento della scala di produzione dipendono
principalmente dalla dinamica della domanda aggregata, cioè dai redditi
dell'insieme dei salariati europei. La domanda è stagnante ed i salari reali
sono in calo, quindi spazi per espandere la scala di produzione non ce ne sono.
Anzi, le innovazioni dovranno assumere per forza di cose delle caratteristiche
tipo downsizing che comporta l'outsourcing. Ne discende l'importanza primaria
delle zone low cost, finanziate con molti soldi pubblici, della Polonia e della
Serbia nonché della Turchia, per poter poi riesportare verso l'Europa
occidentale. La malleabilità richiesta ai lavoratori di Mirafiori è per Torino
la strada della deindustrializzazione, della disoccupazione e della
precarizzazione di massa.
Il Capitano Natale De Grazia
È un'aria strana quella che tira dalle parti di
palazzo San Macuto. Via del Seminario, in piena Roma barocca, è sempre stata la
sede dei misteri italiani. Qui passò Nilde Iotti, quando presiedeva la
commissione sulla P2. Qui si affacciava Carlo Taormina, quando preparava la
vergognosa relazione finale sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E qui
la commissione bicamerale sui rifiuti, presieduta da un altro avvocato celebre,
Gaetano Pecorella, prepara oggi la fase finale del dossier sulle navi dei
veleni.
La testimonianza di Francesco Fonti e la vicenda del cargo Cunski sembrano ormai
archiviate, sepolte. Manca una spiegazione decente su questa vicenda, qualcuno
che racconti perché per cinque anni si è dato credito alla storia dell'ex
collaboratore di giustizia che oggi tutti giudicano inattendibile. O è un folle,
oppure le sue parole nascondevano - e nascondono - qualcos'altro.
C'è una pista che preme particolarmente alla commissione. Un filo che riporta al
1995, ai mesi che hanno preceduto la morte del capitano De Grazia, l'ufficiale
della marina - medaglia d'oro alla memoria - che stava ricostruendo le rotte
della navi a perdere, delle carrette cariche di scorie affondate nel mar
Mediterraneo. Indagini che sono morte insieme a lui, che nessun altro uomo della
nostra Marina Militare ha avuto il coraggio e la forza di riprendere.
Nei mesi scorsi sono entrati in gioco i servizi di sicurezza, vero enzima dei
segreti italiani. Tra le carte della commissione Pecorella c'è un documento che
promette rivelazioni scottanti. È datato 11 dicembre 1995, e dimostrerebbe -
secondo alcune indiscrezioni - un finanziamento proveniente dal governo Dini ai
servizi italiani per la gestione di un traffico di rifiuti nucleari e di armi.
Il documento sarebbe ancora secretato, e non ne conosciamo la provenienza, che,
in questi casi, non è un fattore secondario. Ma è la data del documento a
colpire, a ricollegarsi - in una incredibile coincidenza temporale - con la
morte del capitano di corvetta Natale De Grazia.
Nome in codice Pinocchio
È il 13 maggio 1995. Davanti agli uomini della forestale guidati dal colonnello
Rino Martini si presenta una fonte confidenziale. Viene ascoltato con il patto
di non rivelare la sua identità, utilizzando un articolo del codice di procedura
penale specifico, che serve a tutelare i confidenti. Il suo racconto punta il
dito su un personaggio chiave del mondo delle scorie pericolose, Orazio Duvia. È
un imprenditore di La Spezia, a capo della mega discarica di Pitelli, una vera e
propria piattaforma logistica dei rifiuti tossici. Il confidente - che si fa
chiamare, con una certa ironia, Pinocchio - spiega quali sono i presunti legami
di Duvia con il mondo delle fabbriche di armi e con quel groviglio di poteri che
ancora oggi dominano la città di La Spezia. Alla fine della sua lunga
deposizione parla di una nave, affondata al largo delle coste ioniche - a capo
Spartivento - la Rigel. Un cargo che, secondo "Pinocchio", era pieno di
«materiale nucleare (uranio additivato)».
La testimonianza è fondamentale. È la prima volta che nell'inchiesta allora
condotta dalle Procure di Reggio Calabria - Francesco Neri - e di Matera -
Nicola Maria Pace - appare la pista della nave Rigel. Quel verbale è un vero
punto di svolta.
«Affondamenti sospetti»
Il periodo tra il maggio e il dicembre del 1995 è frenetico. Natale De Grazia è
la persona del gruppo che si dedica alla ricostruzione delle rotte delle navi a
perdere, a partire dalla Rigel. Vengono acquisiti gli atti del processo contro
gli armatori e i caricatori della nave, già accusati di truffa all'assicurazione
e affondamento doloso dalla Procura di La Spezia. Un processo terminato con una
condanna fino al terzo grado per il reato di affondamento doloso, mentre
l'ipotesi dell'associazione per delinquere è caduta nel corso del processo.
Rileggere oggi quelle carte conservate negli archivi del Tribunale di La Spezia
è però fondamentale per capire il contesto dell'affondamento della nave Rigel,
sospettata di aver trasportato uranio additivato. Nell'ordinanza di rinvio a
giudizio degli imputati, il giudice istruttore di La Spezia parla non di un
singolo affondamento, ma di tante navi affondate in maniera dolosa e sospetta.
L'ipotesi era che esistesse «un'associazione criminosa avente lo scopo di
commettere più reati di naufragio doloso e truffe aggravate ai danni di varie
società di assicurazione». Più naufragi, non solo la Rigel. Ed era questa la
pista seguita da Natale De Grazia e la prima, solida conferma giudiziaria
dell'esistenza di diverse navi disperse nelle acque del Mediterraneo. Cosa
trasportavano? Chi ha organizzato l'affondamento?
Una questione di Stato
I magistrati si rendono subito conto che quell'indagine è esplosiva. Pensare a
traffico di rifiuti nucleari, gestiti da gruppi massonici e criminali, per poi
essere gettati in mare, faceva tremare i polsi anche ad investigatori testardi
come De Grazia. Perché era evidente che un traffico del genere non poteva
avvenire senza la copertura di parti importanti dello stato. Pensando, poi, al
centro della rete, la città di La Spezia, sede di basi Nato, della Marina
Militare, del centro di addestramento dei reparti speciali, di fabbriche di
armi, era evidente che far uscire una nave carica di uranio non poteva essere un
gioco per semplici truffatori.
E così i magistrati in quei mesi scrissero al Presidente della Repubblica, Oscar
Luigi Scalfaro. Lo ricorda Francesco Neri, nella sua testimonianza del 1997
durante l'inchiesta per la morte di Natale De Grazia: «Ricordo che unitamente al
collega Pace della Procura circondariale di Matera comunicammo al Capo dello
Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre
poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima
dell'ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiesi al direttore del
servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il
traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi». Informative dei servizi
poi realmente confluite negli incartamenti dell'inchiesta. Dunque,
l'intelligence italiana conosceva sicuramente l'indagine sulle navi.
Un tragico dicembre
Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di
utilizzare le festività di fine anno per preparare un rapporto finale, con le
conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio Calabria viene
sentito - per la seconda volta - il teste "alfa alfa", ovvero Aldo Anghessa.
Oscuro trafficante, fortemente sospettato di agire spesso per interessi non
chiari o come agente provocatore, due giorni prima del ponte dell'immacolata
depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà
fondamentale per l'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È
disposto a collaborare», spiega Anghessa. Sebri qualche anno più tardi - nel
1997 - deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di Milano, raccontando di
una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti
nucleari. Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l'ufficiale del Sisde presente
in Somalia nel marzo del 1994, Luca Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti,
a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne condannato per
calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di
Cassazione.
Quattro giorni dopo l'interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo
dei carabinieri Nicolò Moschitta, riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per
compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare De Grazia non lo
sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto
cardiaco, in circostanze mai chiarite.
I servizi segreti
Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella
che dimostrerebbe l'erogazione di fondi ai servizi segreti per la gestione dei
rifiuti nucleari e di armi ha la data - secondo quanto riportato dal quotidiano
Terra - dell'11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia.
Il capitano di corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo
raccontava al cognato, mentre da qualche mese - dopo una perquisizione
decisamente anomala a Roma - aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi
importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo
preoccupava. Quello che probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che
gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici criminali di rifiuti e di armi,
finanziava - segretamente - chi quei traffici li copriva o, addirittura, li
organizzava.
4 gennaio
Alessandro Robecchi
Padroni che sbagliano
Vorrei sapere esattamente, possibilmente con dovizia di particolari, articoli,
commi, disposizioni transitorie e norme certe, cosa si rischia a schierarsi con
gli operai metalmeccanici della Fiom e non con don Marchionne Santo Subito.
Confesso che battersi contro un pensiero unico che va da D'Alema a Sacconi, da
Fassino a Bonanni, da Chiamparino alla destra confindustriale, passando magari
per Feltri e Belpietro, Angeletti, il Corsera, Pietro Ichino e altri plaudenti
mette un po' i brividi.
Al fronte per la beatificazione di Marchionne mancano solo Landrù e la buonanima
di Cossiga, in compenso qualcuno ha scongelato Giampaolo Pansa che alla Fiom
dedica pensierini degni degli anni di piombo. Quella del consenso obbligatorio
pare un po' la cifra con cui si apre questo 2011, e non è una novità. Non è una
novità nemmeno il testacoda delle parole, per cui è «progressista» chi teorizza
un garrulo ritorno agli anni Cinquanta e invece «conservatore» chi vuole
mantenere un diritto di rappresentanza tra i lavoratori.
«Pomigliano, da gennaio 4.600 assunzioni», titolava l'altro giorno il Corriere.
Perbacco che ripresa! Solo che poi, leggendo il pezzo, si scopre che quei 4.600
sono cassintegrati Fiat che verrebbero riassunti (non assunti) a condizioni più
gravose (no iscritti Fiom e perditempo). La formuletta «se ci stai bene, se non
ci stai sei un terrorista premoderno e scriteriato» è antica e polverosa, ma
funziona sempre.
Per sentirci in compagnia non c'è che aspettare quando, a votare per la
beatificazione di Marchionne saranno gli azionisti, chiamati a scommettere
moneta sonante sul nuovo titolo Fiat Auto scorporato dal resto del Gruppo.
Chissà, potrebbe essere che al miracolo di Marchionne non crederanno nemmeno
loro, investitori e speculatori. Sarà difficile accusarli di nostalgie da anni
Settanta, ma non disperiamo, anzi, suggeriamo ai marchionisti di stretta
ordinanza un'elegante via d'uscita dialettica: padroni che sbagliano.
Modernissimo, eh!
Inflazione, a
dicembre all'1,9% è il dato più alto dal 2008
Il tasso medio annuo nel 2010 è stato pari all'1,5%, quasi il doppio del
2009. Su base mensile i prezzi al consumo hanno fatto segnare un +0,4%. A fare
da traino benzina e gasolio: +9,8% e +14,5% rispetto allo scorso anno.
Associazioni dei consumatori in allarme: "Dati gravissimi e non è ancora finita"
ROMA
- A dicembre 2010 l'inflazione è balzata all'1,9% su base annua, dall'1,7% di
novembre. Si tratta del dato più alto dal dicembre 2008. Lo comunica l'Istat
nelle stime provvisorie aggiungendo che su base mensile i prezzi al consumo sono
aumentati dello 0,4%. Il tasso di inflazione medio annuo nel 2010 è stato pari
all'1,5%, quasi raddoppiato rispetto a quello del 2009 (0,8%).
Gli aumenti congiunturali più significativi dell'indice, rileva ancora
l'Istituto di statistica, si sono verificati per i capitoli Trasporti (più
1,4%), Comunicazioni (più 0,6%) e Ricreazione, spettacoli e cultura (più 0,5%).
Prezzi stabili rispetto a novembre 2010 nei capitoli Bevande alcoliche e
tabacchi e Servizi sanitari e spese per la salute, mentre sono scesi nei
capitoli Servizi ricettivi e di ristorazione (meno 0,3%) e Istruzione (meno
0,1%).
Su base annua, rispetto al dicembre 2009, gli incrementi più elevati si sono
registrati nei capitoli Trasporti (più 4,2%), Abitazione, acqua, elettricità e
combustibili (più 3,5%) e Altri beni e servizi (più 3,2%). Una variazione
tendenziale negativa si è verificata nel capitolo Comunicazioni (meno 0,6%).
Buona parte della fiammata inflazionistica è da attribuire al costo dei
carburanti. I prezzi della benzina sono saliti del 9,8% (6,1% a novembre) su
base annua e del 2,5% su base mensile. Ancora più marcata l'impennata dei prezzi
del gasolio per auto, aumentato del 14,5% (+10% a novembre) in termini
tendenziali e del 3% sul piano congiunturale. Per quanto riguarda il Gpl
l'indice ha registrato un rialzo del 21,3% (+20,2% a novembre) su base annua e
del 6,5% su base mensile. Quanto al gasolio da riscaldamento, a dicembre ha
segnato un aumento del 14,3% (+10,2% in termini tendenziali e del 3,2% sul piano
congiunturale).
Il bollettino dell'Istat è stato accolto con allarme dalle associazioni dei
consumatori. "Il dato relativo all'inflazione registrata nel 2010 si conferma
gravissimo e, come abbiamo denunciato instancabilmente durante tutto il corso
dell'anno, è in piena contraddizione con i principali indicatori economici"
denunciano in una nota congiunta i presidenti di Federconsumatori ed Adusbef
Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.
"Tutti i segnali testimoniano una situazione a dir poco allarmante: dal crollo
del potere di acquisto (-9,6% dal 2007 ad oggi), a quello dei consumi (-1,5% nel
2008, -2,5% nel 2009 e del -2% nel 2010, per una caduta complessiva del -6%
negli ultimi 3 anni), alla contrazione dell'indebitamento da parte delle
famiglie. Come se non bastasse cassa integrazione e licenziamenti non accennano
ad arrestarsi, continuando ad innescare un pericoloso circolo vizioso dal quale
sarà difficile uscire se non si correrà ai ripari al più presto. In uno scenario
simile la crescita media del tasso di inflazione dell'1,5% rappresenta la prova
che qualcosa non sta andando per il verso giusto", continuano Trefiletti e
Lannutti.
"Ma vi è di peggio - proseguono i rappresentanti dei consumatori - l'inflazione
a questi livelli risulta, a nostro avviso, ancora sottostimata. Infatti, gli
aumenti registrati nel 2010 sono decisamente più elevati, basti pensare che il
solo tasso aumento dei prezzi relativi ai beni acquistati con alta frequenza,
formalmente, è pari al 2%, ma, secondo i nostri studi, raggiunge addirittura il
+ 3,2-3,3% . Oltretutto a questo si aggiungeranno ulteriori rincari che hanno
già iniziato la loro corsa con il nuovo anno, con ricadute che, secondo le stime
dell'Osservatorio Nazionale Federconsumatori, ammonteranno a 1.016 Euro a
famiglia nel 2011".
"Per questo - concludono Trefiletti e Lannutti - non si può più aspettare: oltre
a intervenire disponendo controlli e verifiche nei confronti di chi mette in
atto intollerabili speculazioni, evitando ulteriori aumenti di prezzi e tariffe,
è indispensabile avviare misure a sostegno del potere di acquisto delle famiglie
a reddito fisso, a partire da una detassazione di almeno 1200 euro annui".
Genova, riesplode il giallo
del container al cobalto
Da luglio del 2010 su un molo di Voltri, circondato da una barriera di
container pieni di acqua e pietre, è fermo in attesa di bonifica un contenitore
con cobalto radioattivo, probabilmente prodotto di residui sanitari. Sei mesi di
vertenze e scioperi, adesso la decontaminazione è annunciata per febbraio.
UN
CONTAINER radioattivo che a 100 metri di distanza emette valori cinque volte
superiori al "fondo naturale" (quelli che normalmente si rilevano). E' fermo nel
porto di Voltri dal luglio scorso, quando l'allarme scattò durante una verifica
dei tecnici del Terminal: gli indicatori degli strumenti dedicati alla ricerca
di materiali radioattivi impazzirono, sul posto furono chiamati i vigili del
fuoco e gli esperti dell'Azienda regionale. Il container fu isolato, allontanato
dal cuore delle attività portuali e collocato su un molo del cosiddetto "Sesto
Modulo", in attesa di interventi di bonifica che - fu garantito - sarebbero
stati rapidissimi. Dopo sei mesi di scioperi e vertenze, lavoratori e città
aspettano ancora.
L'Unità Tecnica Complessa Regionale dell'Arpal ha sempre assicurato che le
emissioni radioattive non sono elevate, ma ha comunque suggerito "le opportune
attenzioni". Fu lo speciale Nucleo Batterio-Chimico-Radioattivo dei vigili del
fuoco ad individuare la natura del materiale: cobalto-60, proveniente da una
"sorgente" utilizzata dalle strutture sanitarie per la cobaltoterapia, oppure da
industrie che eseguono controlli non distruttivi sui metalli, cioè radiografie.
Il container era arrivato in nave a Genova da Gedda - Arabia saudita - con uno
scalo intermedio nel porto di Gioia Tauro. Conteneva ufficialmente materiali
ferrosi, e fu sbarcato al Vte il 14 luglio. L'importatore era un'azienda della
provincia di Genova. La prevista decontaminazione di rimando in rimando sarebbe
ora slittata a febbraio, con l'intervento di un robot.
Nell'attesa, il container radioattivo è rimasto fermo a Voltri. La magistratura
ha in corso un'inchiesta. Secondo un preventivo fornito da una ditta
specializzata di Milano i costi della bonifica dovrebbero aggirarsi intorno agli
800.000 euro, forse un milione.
Honduras 2010: la strage di
giornalisti
Sono dieci i professionisti dell'informazione morti amazzati. L'intento è
azzittire chi denuncia i crimini di Stato
Henry
Suazo era un giornalista di radio Hrn, una delle emittenti più popolari della
capitale, Tegucigalpa. È stato ucciso martedì 28 dicembre nella comunità de La
Masica, sulla costa caraibica. Con questa morte sale a dieci il numero dei
professionisti dell'informazione assassinati nel 2010 in Honduras, paese piegato
da un golpe nel giugno 2009 di cui l'attuale governo ne è diretta espressione.
Suazo aveva 39 anni. Mentre usciva di casa è stato aggredito da alcuni
sconosciuti che gli hanno scaricato addosso un caricatore. Plurima la condanna
di questo crimine e molte le dita puntate contro lo Stato, che, a quanto ha
affermato il Centro por la Justicia y el Derecho Internacional (Cejil), non sta
rispettando l'obbligo che avrebbe di garantire la libertà di espressione. Un
sollecito urgente è arrivato anche dal Colegio de Periodistas de Honduras (Cph)
che ha chiesto che il presidente della Repubblica Porfirio Lobo si impegni a
chiarire la matrice dell'omicidio e chi siano i mandanti. Un appello alle
autorità competenti è arrivato anche dal Comité de Familiares de Detenidos y
Desaparecidos de Honduras che ha preteso indagini serie e costruttive. Dopo il
Messico, l'Honduras con i suoi dieci morti fra i giornalisti, è il paese
dell'emisfero occidentale più pericoloso per la libertà di stampa.
SI tratta di professionisti che lavoravano nei più differenti mass media e in
regioni le più disparate, ma che avevano un punto in comune che ha segnato la
loro condanna a morte: l'essere voci indipendenti e coraggiose in un paese
governato da filo-golpisti. E ogni singolo omicidio è rimasto impunito.
Dal colpo di Stato che ha detronizzato il presidente leggittimo Manuel Zelaya
per far posto a Roberto Micheletti che ha poi passato il testimone a Porfirio
Lobo, infatti, la stampa è stato uno dei settori che ha sofferto più
aggressioni: dagli abusi, alle intimidazioni, alla censura, per arrivare alla
chiusura definitiva di alcuni mezzi di comunicazione e finire con gli omicidi.
Le varie organizzazioni della società civile riunitesi nel Fronte nazionale
contro il golpe sono convinte che nonostante il movente e gli autori
intellettuali di questi omicidi restino ufficialmente ignoti, l'obiettivo è
sempre uno e uno soltanto: azzittire coloro che osano dar voce a chi denuncia la
miriade di violazioni di diritti umani che si perpetrano quotidianamente in
Honduras. Il tutto condito da un aumento vertiginoso di casi di corruzioni e di
giri di affari legati al narcotraffico, business troppo redditizio e caro a
coloro che da sempre si spartiscono il potere nel paese centramericano, tornato
a essere l'orticello del giardino dello Zio Sam nonostante la ristrutturazione
Obama.
Stella Spinelli
Messico, l'ultima sfida allo
Stato
L'incredibile storia di Marisela Escobedo, uccisa per aver chiesto giustizia
Una donna, l'omicidio di sua figlia, un colpevole accertato e la giustizia.
Quattro protagonisti di una storia (vera) drammatica accaduta a Ciudad Juarez,
nel nord del Messico.
La città è tristemente famosa a causa dei continui omicidi di donne che da anni
restano irrisolti. Oggi, forse più che mai, è al centro dell'attenzione per le
cruente lotte che vedono protagoniste le bande criminali che si battono per il
controllo del (fertile) territorio. Ma l'ultima vicenda ha dell'incredibile e
sottolinea in modo dettagliato le misere misure prese dalle autorità messicane
per contrastare la delinquenza.
I fatti purtroppo parlano chiaro e risalgono ad agosto 2008. In quel periodo,
infatti, Rubí Marisol Frayre Escobedo, figlia di Marisela Escobedo viene uccisa
nello Stato di Zacatecas e il suo corpo viene ritrovato mutilato e bruciato. Una
fine orribile, simile a quella di tante donne della zona.
La polizia fece scattare le indagini ma solo grazie all'aiuto della madre della
ragazza si scopre l'assassino. Si tratta dell'ex fidanzato della ragazza che in
battibaleno viene trasferito nelle patrie galere. E qui inizia quello che
sarebbe diventato un calvario per la madre della ragazza. Marisela Escobedo,
infatti, non avrebbe mai immaginato che tre giudici dicessero che le prove a
carico dell'ex fidanzato della figlia (che in un primo momento confesserà
l'omicidio e poi ritratterà) erano deboli e per questo lo rimettono il libertà.
L'ennesima pugnalata al cuore di una madre che chiede giustizia.
La sentenza clamorosa dei giudici messicani fa scattare in Marisela Escobedo la
voglia di giustizia. E per queste ragioni che la donna inizia una protesta
formale, pacifica, davanti all'edificio che ospita la magistratura. Passano
alcuni giorni finché un commando armato, senza paura, si presenta davanti alla
magistratura e spara alla donna. Bum, in un paio di secondi la lotta di una
madre che chiedeva giustizia per la figlia viene cancellata e, probabilmente,
entro breve tempo dimenticata.
Storia
drammatica finita? Per nulla. La parte più agghiacciante, forse, arriva adesso.
Chi è stato ad ammazzare la madre della ragazza? Chi è stato pagato per
commettere l'omicidio? Difficile dirlo. Ad ogni modo ciò che scandalizza davvero
è il testo che il gruppo criminale del cartello di Sinaloa ha affisso in diversi
punti di Ciudad Juarez, quasi fosse un loro possedimento, sicuramente una
dimostrazione di forza.
"Il cartello di Sinaloa solidarizza con la famiglia della signora Marisela
Escobedo, con tutto il popolo di Chihuahua e mette a disposizione la propria
pagina su youtube per qualsiasi informazione che possa consegnare i responsabili
di questa barbarie che il governo ha protetto e continua a proteggere, siano
essi Los Zetas o La Linea" si legge nel comunicato.
Inevitabile che a questo punto la battaglia sia fra gruppi criminali. La Linea,
dopo aver saputo della presenza di decine di cartelli affissi in città ha
risposto immediatamente. " Tutti sanno che siete stati voi a fare questo alla
signora per poi poter dare la colpa a noi. Tutti lo sanno" si legge nel
comunicato de La Linea.
Insomma, dopo l'offerta da parte dei narcos, che forse volevano far vedere il
loro volto umano, la relativa diatriba con altri gruppi criminali, finalmente è
intervenuta anche la società civile per dire no alle continue violenze che da
troppo tempo hanno invaso lo Stato di Chihuiahua e le sue città.
Ma la guerra continua nell'indifferenza dello stato centrale e diffondendo paura
fra la popolazione che si ritrova nelle mani di spietati criminali disposti a
tutto.
Alessandro Grandi
3 gennaio
Loris Campetti
La Fiom mobilita la
dignità operaia
Il
referendum è uno strumento democratico in cui le persone possono dire la
loro su un tema che li riguardi direttamente. Imporre lo strumento del voto
perché si accetti di non poter votare mai più, non è un paradosso o un ossimoro,
è un gigantesco imbroglio, che si trasforma in un odioso ricatto nel momento in
cui la formulazione del quesito referendario suona così: accetti di rinunciare
ai tuoi diritti, compreso quello di ammalarti, scioperare, persino mangiare se
la domanda di automobili dovesse schizzare in alto, eleggere i tuoi
rappresentanti sindacali, in cambio della salvezza del posto di lavoro?
Siamo a Mirafiori, Pianeta Italia, fabbrica Chrysler perché la Fiat nei fatti
non esiste più, salvo essere trasformata in uno spezzatino di newco da mettere
sul mercato qualora a Marchionne i soldi da restituire a Barack Obama non
dovessero bastare. Cosa dovrebbe dire la Fiom, se non che questo referendum,
frutto di un accordo separato, è illegittimo e dunque i metalmeccanici della
Cgil non possono riconoscerne la validità? Cosa dovrebbe fare la Fiom, se non
indire per il 28 gennaio uno sciopero generale di tutta la categoria in difesa
della democrazia, della Costituzione repubblicana, del contratto nazionale e
dello Statuto dei lavoratori? Semmai, con questi chiari di luna, con un governo
della deregulation liberista, con la diseguaglianza che cresce insieme alla
povertà, bisognerebbe chiedersi come mai non sia l'intera Cgil a chiedere al
paese di fermarsi.
Ieri si è riunito uno dei pochi organismi dirigenti democratici
sopravvissuti alla berlusconizzazione (o marchionizzazione) del nostro paese,
opposizioni e sindacati compresi: il Comitato centrale della Fiom. Una sede in
cui la scelta degli operai iscritti è legge, una sede in cui quando una
risoluzione del Comitato centrale non fosse in consonanza con il popolo
lavoratore, verrebbe cambiata la risoluzione e non il popolo. È stato deciso lo
sciopero generale con 102 voti a favore e i 29 astenuti della minoranza Fiom che
fa riferimento alle posizioni della segretaria della Cgil Susanna Camusso. Gli
astenuti, guidati da Fausto Durante, sostengono che la Fiom dovrebbe comunque
accettare l'esito del referendum imposto dall'amministratore delegato della Fiat
Sergio Marchionne. Peccato che così si legittimerebbe un voto su diritti
indisponibili, cosa che non avrebbe precedenti nella storia della Cgil. I
militanti della Fiom dello stabilimento torinese costituiranno un comitato per
il No, ribadendo che un'eventuale vittoria dei Sì non verrebbe riconosciuta
perché non è consentito mettere al voto diritti costituzionali indisponibili,
non trattabili.
Il 28 gennaio, quando i metalmeccanici incroceranno le braccia per non
piegare la schiena, si terranno manifestazioni in tutte le città italiane ma già
dall'inizio di gennaio si organizzeranno presidi, iniziative, tende nei centri
delle città per coinvolgere la popolazione. Il segretario generale Maurizio
Landini si è rivolto a tutti i soggetti, i movimenti, gli intellettuali, gli
studenti, i precari che il 16 ottobre hanno manifestato a Roma al fianco della
Fiom, per invitarli a partecipare alle proteste. Non è vero che la Fiom è sola.
Non è vero che è minoritaria nelle fabbriche, come testimoniano l'aumento degli
iscritti e la crescita dei consensi e dei delegati in tutte le aziende in cui si
è votato per rinnovare le Rsu (250 nel 2010). Non sarà proprio per questo, per
la sua irriducibile adesione a leggi, norme, Costituzione, per il suo rapporto
di mandato con chi rappresenta, che è diventata inaccettabile per la Fiat, e via
via per una fetta crescente di padronato? Non sarà per questo che non si riesce
più a indire un referendum sugli accordi sindacali, con l'eccezione di quelli
anticostituzionali imposti da Marchionne?
Maurizio Landini è un signore, oltre che un operaio. Il segretario della
Fiom, ai giornalisti che gli chiedono un giudizio sul Pd che non esprime giudizi
o ne esprime troppi e opposti, e sull'aspirante sindaco di Torino Piero Fassino
che ha detto «se fossi un operaio di Mirafiori voterei sì», non risponde in
torinese va' a travaje', barbun. Risponde invece: «Chi dice che voterebbe sì
dovrebbe provare a vedere il mondo dal punto di vista di chi lavora alla catena
di montaggio, a cui si riducono le pause, si sposta o si toglie la mensa, si
impone di lavorare su turni di 10 ore più una di straordinario, gli si toglie il
diritto allo sciopero e alla malattia, per portare a casa, se gli va molto bene
e non è in cassa integrazione, 1.300 euro al mese». Del resto, se l'opposizione
politica italiana avesse provato a vedere il mondo dal punto di vista degli
operai, se non avesse cancellato dall'agenda il lavoro e i lavoratori, forse le
vicende politiche italiane sarebbero andate diversamente.
A chi difende il metodo Marchionne perché «salva il lavoro», i tanti
intervenuti alla riunione del Comitato centrale hanno risposto raccontando quel
che l'accordo comporta. Per esempio, non solo è negato a chi non firma il
diritto a esercitare fare sinindacato, fino a non poter presentare candidati
alle elezioni per le Rsu; nell'accordo separato firmato da Fim, Uilm, Fismic
(sindacato giallo, già Sida), persino Ugl (ex sindacato fascista Cisnal) e
addirittura il neopromosso soggetto sindacale «Associazione dei capi e quadri»,
si impedisce agli operai di votare, le Rsu non esistono più. Si ritorna alle Rsa
(rappresentanze sindacali d'azienda), con quote pariteche tra i sindacati
firmatari che nominano direttamente i loro terminali in fabbrica, 15 a
organizzazione. Ma quale cecità ha spinto la Fim a firmare un'oscenità del
genere? Qualora la Newco Chrysler-Fiat in futuro volesse liberarsi anche di Fim
e Uilm potrebbe farle far fuori dagli altri tre «sindacati». «Si arriverà alla
compravendita, con tanti Scilipoti in tuta blu», commenta il responsabile per il
settore auto della Fiom, Giorgio Airaudo.
Mentre il gruppo dirigente Fiom votava lo sciopero generale, i compagni
di merenda (Fim, Uilm, ecc.) firmavano con la Fiat il nuovo contratto di lavoro
per Pomigliano. Val la pena di considerare che il falò dei diritti, da Napoli a
Torino, avviene mentre i salari del lavoratori vengono e verranno falcidiati
dalla cassa integrazione. A Mirafiori dei nuovi modelli (promessi) legati agli
investimenti (promessi ) di 1 miliardo di euro si parlerà tra più di un anno,
sempre che la Fiat esisterà ancora. I modelli previsti sono un suv e una jeep,
ma i motori verranno da Oltreoceano, là dove le vetture saranno in gran parte
commercializzate. È l'automobile a chilometro zero. Anche a Pomigliano il lavoro
per costruire la nuova Panda tolta ai polacchi di Tychy inizierà chissà quando
nel 2012 (intanto la Fiat minaccia i polacchi che fanno qualche timida
resistenza di trasferire la produzione in Serbia). Tra Mirafiori e Pomigliano
gli investimenti annunciati ammontano a 1,7 miliardi, a fronte dei 20 promessi.
Dei 32 nuovi modelli per l'Italia nel quinquennio già 16 sono volati all'estero,
degli altri nulla si sa, perché Marchionne il suo piano è disposto a discuterlo
solo con se stesso. Dunque, dietro il falò dei diritti potrebbe nascondersi un
gigantesco paccotto. Vaglielo a spiegare a D'Alema, Fassino, Chiamparino: se 11
ore, vi sembran poche...
Sarà uno scontro durissimo quello di Mirafiori, una fabbrica imprevedibile e
ingovernabile per tutti, abitata da operai con un'età media di 47 anni,
incattiviti, in rotta di collisione con la politica e gran parte dei sindacati,
in attesa di una sola cosa: la pensione. Persone consumate dalla fatica e dalle
delusioni, stufe, pronte a fischiare quasi chiunque si avvicini alla loro
fabbrica perché si sentono abbandonate e tradite. Persone con una dignità, però.
L'esito del referendum è tutt'altro che scontato.
L'ultimo record del
parlamento siciliano per sette ore di lavoro 165 mila euro
La Regione scioglie la commissione-lumaca per riformare lo Statuto. Indennità
da 800 a 3.300 euro del presidente che si uniscono allo stipendio di 19.000 euro
di EMANUELE LAURIA
Sette ore di lavoro non in un giorno, ma in un anno: un ritmo che neppure il
Parlamento più antico (e più lento) d'Europa può sostenere. E così Francesco
Cascio, il presidente dell'Assemblea regionale siciliana, ieri mattina ha detto
basta. Con un atto d'imperio ha sciolto la commissione per la revisione dello
Statuto.
La commissione Statuto è un organismo istituito nel giugno del 2008 che avrebbe
dovuto rinnovare l'antica carta dell'autonomia isolana: due anni e mezzo dopo il
lavoro non si è ancora concluso. Anzi. Da luglio a oggi, la commissione si è
riunita dieci volte e in sei occasioni nessuno dei 13 novelli padri costituenti
che la compongono si è presentato all'appuntamento.
Morale: 205 minuti di lavoro negli ultimi sei mesi, 34 faticosissimi minuti ogni
mese, la maggior parte dei quali spesi nell'ascoltare l'assessore all'Economia
che ha relazionato sul federalismo e i sette consulenti nominati per un parere
tecnico evidentemente indispensabile. Oddio, non è che nel semestre precedente
la commissione avesse operato con maggior vigore: poco più di un paio di sedute
ogni trenta giorni, sei delle quali disdette o annullate e cinque (cinque!)
consumate prima di mettersi d'accordo sull'elezione della centrale figura del
segretario.
Così doveva finire, e forse era scritto. Se è vero che già alla scadenza del
primo anno di attività, nel luglio del 2009, Cascio sottopose ai colleghi
l'abolizione dell'organismo che si avviava a stabilire non invidiabili primati
di improduttività. L'aula di Palazzo dei Normanni, sede dell'Assemblea
siciliana, bocciò la proposta e deliberò la prima di due proroghe peraltro non
consentite dal regolamento. Gli eredi di Alessi e Aldisio - storici progenitori
dell'autonomia siciliana - hanno così continuato ad incassare le indennità di
carica previste, che sono fisse e non legate all'effettivo svolgimento delle
sedute.
In soldoni: 3.316 euro al mese per il presidente (il finiano Alessandro Aricò),
819 euro per i due vice, 404 per il segretario. Cifre lorde, per carità, che
vanno a sommarsi però a retribuzioni-base equiparate a quelle dei senatori: più
o meno 19 mila mensili, 11 mila al netto di imposte e ritenute. Certo, Aricò e
soci sono in buona compagnia: sono 57, su 90, i parlamentari siciliani titolari
di una carica - e dunque di una indennità - aggiuntiva: i presidenti dei gruppi
parlamentari lievitati di recente con la nascita di Fli, di Forza del Sud di
Gianfranco Micciché e del Pid di Saverio Romano, i componenti del consiglio di
presidenza dell'Ars, i vertici delle tredici commissioni fra legislative e
speciali: fra queste, c'è pure quella che si occupa di controllare
preventivamente la "qualità delle leggi", affidata non a un giureconsulto o a un
esperto di bilancio, ma - in ossequio a una ripartizione cencelliana fra i
partiti - a un deputato di Ragusa dell'Udc che ha un diploma di geometra. E che
nulla ha avuto da dire quando, nell'aprile scorso, l'Ars approvò una legge che
metteva sul mercato il porto di Augusta: di proprietà però dello Stato, non
della Regione.
Avete presente Totò che vende la fontana di Trevi? Ma tant'è. L'immobilismo
della commissione Statuto ha fatto traboccare il classico vaso. E il presidente
Cascio ha avuto un moto d'indignazione: "Quest'organismo è nella evidente
impossibilità di raggiungere gli obiettivo cui era preposto, quindi dichiaro
definitivamente cessate le sue funzioni". Aricò ufficialmente non parla, il suo
movimento - Fli - grida all'attacco politico: Cascio è un esponente di quel Pdl
che in Sicilia è stato messo all'opposizione dal governatore Lombardo. Così, fra
le polemiche, cala il sipario sull'ultimo scandalo siciliano. Costato, a conti
fatti, 166.640 euro: la spesa sostenuta dalle casse pubbliche per garantire il
gettone ai padri della riforma mai nata.
La scuola è decimata
Tempi
duri per i dipendenti pubblici: oltre al blocco delle retribuzioni che
comporterà una perdita di potere d'acquisto di circa 1.600 euro fino al 2013,
ieri la Ragioneria generale dello stato ha anche certificato (secondo quanto
emerge nell'ultimo «Conto Annuale sul pubblico impiego») che l'occupazione nel
settore pubblico sta diminuendo. Nel 2009, infatti, il totale degli occupati è
sceso a 3.311.582 unità tra il personale a tempo indeterminato e il personale a
tempo determinato della scuola. Considerando anche i corpi di polizia e le forze
armate, i lavoratori dipendenti con contratti flessibili e i lavoratori estranei
all'amministrazione (lsu e interinali), il totale sale a 3.493.481 con una
caduta del 2,07% sul 2008.
Il parziale blocco del turn over stabilito nelle manovre e soprattutto i tagli
nella scuola hanno determinato l'alleggerimento della Pubblica amministrazione.
Nel 2009 la consistenza del personale a tempo indeterminato si contrae di 37.000
occupati. Ma considerando anche il tempo determinato nella scuola (-26.700) la
flessione sfiora le 64.000 unità. Tra i diversi comparti, solo la sanità
registra una crescita apprezzabile di 3.800 occupati, mentre i dipendenti delle
Regioni e delle province autonome risultano 750 in più.
Un dato da sottolineare è l'aumentata presenza femminile e la sua
incidenza sul totale a tempo indeterminato: a fine 2009 le donne impiegate erano
1.827.271 pari al 55,2% del totale. La variazione in aumento della presenza
femminile è determinata soprattutto dai comparti sanità, Regioni ed autonomie
locali, ma anche enti di ricerca, magistratura e corpi di polizia. Nella scuola,
nelle università e nei ministeri si registra, invece, una riduzione della
presenza femminile, ma solo in termini assoluti. Alla contrazione complessiva
dei lavoratori nei vari comparti, in termini relativi, l'incidenza della
componente femminile è comunque aumentata.
Rispetto alla distribuzione geografica, la maggior parte dei dipendenti pubblici
con contratto a tempo indeterminato è presente al Nord con il 34,7%. Al Centro
la percentuale è del 31,8%, al Sud e Isole 33,3%. La Ragioneria fornisce anche
la percentuale della presenza all'estero: rimane stabile allo 0,2% del totale. I
dati smentiscono il luogo comune che vede nelle regioni meridionali la massima
concentrazione di impiegati publici. La regione con il maggior numero di
dipendenti è, infatti, la Lombardia di Formigoni (12,57%) seguita dal Lazio
(12,08%) nel quale si concentrano i ministeri.
Alla diminuzione delle unità di personale non ha però corrisposto una
diminuzione di costi, che anzi sono anche leggermente aumentati. Nel 2009 il
totale dei dipendenti pubblici (compresi interinali, lsu, contratti flessibili e
corpi di polizia) ha comportato una spesa di 168 miliardi, contro 166,6 del 2008
(+0,89%). Si tratta, tuttavia, di un aumento più contenuto di quello registrato
tra il 2008 e il 2007, quando l'aumento fu del 6,7%. Ma bisogna considerare
l'incidenza delle scadenza contrattuali.