LETTERA: La cattiva coscienza
dei politici e le mani grondanti di sangue dei padroni italiani
Ex operai della Breda Fucine di Sesto San Giovanni denunciano: sono anche
italiane le armi che sparano sugli insorti libici
Vedi anche:
'Ecco come costruivamo le armi di Gheddafi' Le
centinaia di morti, operai, lavoratori, disoccupati, studenti, casalinghe, nei
paesi arabi e in Libia sono il frutto (anche) dei "buoni" rapporti dei governi
italiani con i dittatori del mondo arabo che, insieme, hanno fatto affari d'oro.
I soldi provenienti dal petrolio hanno finanziato le spese militari dei paesi
amici, Algeria, Egitto, Tunisia, Marocco, Israele e - in particolare - Libia.
Gheddafi, dopo essere stato considerato nel 1970 un terrorista, capo di uno
"stato canaglia" per aver espulso dal paese le aziende e le compagnie
petrolifere americane, ha fatto affari con le industrie italiane: ENI, SNAM,
Fiat, Finmeccanica, ecc.
Si calcola che circa il 35/40% del petrolio libico arrivi direttamente in Italia
e più del 40% sono le importazioni libiche dall'Italia.
Dal 2004 - per accordi fra il governo Berlusconi e Gheddafi - insieme ad un
incremento degli affari sono stati dati alla Libia nuove armi e miliardi di euro
per creare una barriera anti-immigrati. Gli immigrati espulsi dall'Italia
vengono scaricati sul suolo libico, ripagando profumatamente Gheddafi per il suo
sporco lavoro di controllo e detenzione, di gendarme e secondino; il tutto nel
tentativo di difendere gli interessi imperialisti Italiani nell'area.
Non possiamo dimenticare comunque che tutti i governi succedutisi negli ultimi
decenni, nonostante l'embargo imposto dall'ONU, hanno mantenuto ottimi rapporti
di cooperazione militare fornendo alla Libia e ai paesi dell'area armi e
istruttori.
Anche la Breda Fucine di Sesto San Giovanni di proprietà del governo italiano
fino alla privatizzazione che l'ha portata alla chiusura - tramite la Oto Melara,
la Breda Meccanica Bresciana, l'Agusta - ha fornito armi, bombe, cannoni e
mitragliatrici per le navi e gli aerei (e le contraeree) che oggi sparano sugli
insorti.
Noi operai ci siamo sempre battuti contro le guerre imperialiste. Già nel 1991,
allo scoppio della guerra in Iraq, insieme agli operai di altre fabbriche
organizzammo dal basso uno sciopero generale contro la guerra che portò in
piazza a Milano oltre 20.000 lavoratori.
Successivamente abbiamo ostacolato in ogni modo la produzione di armi usando
ogni pretesto per fare scioperi. Allora, insieme a decine di nostri compagni di
lavoro, per dimostrare la nostra opposizione alla guerra che vedeva anche
l'Italia fra gli aggressori di un paese sovrano, attaccammo sulla tuta da lavoro
in modo ben visibile un adesivo con la scritta: "CONTRO LA GUERRA DEI PADRONI
SOLIDARIETÀ FRA I LAVORATORI E I POPOLI SFRUTTATI DI TUTTO IL MONDO".
Nel 1992 in centinaia fummo espulsi dalla fabbrica e messi in cassa
integrazione.
Per tutto questo non possiamo stare in silenzio di fronte agli ipocriti appelli
contro la violenza, a favore della transizione pacifica che si levano in questi
giorni: diciamo no alle lacrime di coccodrillo versate da politici e industriali
corresponsabili di questa carneficina, della morte di centinaia di persone.
Luigi Consonni, Orio Castagnoli, Silvestro Capelli, Michele Michelino, Sandro
Tansini, ex operai della Breda Fucine di Sesto San Giovanni
Sesto S. G., 23 febbraio 2011
Arizona, dalla padella alla brace
Dopo
la legge anti-immigrazione dello scorso anno, lo Stato propone misure ancor più
restrittive per i clandestini
I legislatori dello Stato dell'Arizona hanno proposto un nuovo pacchetto di
leggi sull'immigrazione così restrittive che, se approvate, rischierebbero di
far apparire addirittura moderata la controversa riforma varata lo scorso anno,
contro cui peraltro l'amministrazione del presidente Usa, Barack Obama, aveva
presentato ricorso. Secondo il nuovo disegno di legge, agli immigrati senza
documenti sarebbe vietato guidare nel territorio dello Stato, avere accesso
all'istruzione e ricevere sussidi sociali. I loro bambini riceverebbero
certificati di nascita nei quali è esplicitato che non potranno mai diventare
cittadini dell'Arizona.
Alcuni dei provvedimenti sono stati elaborati in disprezzo alle vigenti leggi
federali, così da attirarsi ricorsi nella speranza che la Corte Suprema possa
poi pronunciarsi in favore dello Stato, frontaliero col Messico è già al centro
di pesanti polemiche per la legge anti-immigrazione approvata lo scorso anno,
che ha già sollevato decine di ricorsi e numerose denunce di razzismo. Alla
polizia, infatti, è delegata la possibilità di indagare sulla provenienza degli
stranieri fermati in strada sulla base solo del loro aspetto fisico. In merito a
quest'ultima legge, conosciuta come Senate Bill 1070, un giudice federale si è
già pronunciato sulla incostituzionalità di numerose sue parti.
"La legge è anni luce lontana dal S.B. 1070 - spiega Alessandra Soler Meetze,
direttore dell'organizzazione per i diritti civili Aclu -, in termini di
potenziale lesivo dei diritti e delle libertà fondamentali di cittadini e non.
Tali misure creerebbero una società basata sul 'documenti, grazie', e per
esempio la guida senza documenti si configurerebbe come un reato penale".
Nonostante i boicottaggi di artisti, intellettuali, politici, e l'accusa che lo
Stato dell'Arizona è divenuto un'isola di intolleranza, la legge ha ricevuto
accoglienza entusiastica anche in altri Stati, come l'Indiana, il cui Senato ha
adottato una legge che consente di chiedere ai poliziotti di interrogare chi
commette un'infrazione sul suo status.
"Se si vuole fermare questa invasione, perché di invasione si tratta, bisogna
smettere di ricompensare la gente che infrange la legge sull'immigrazione", ha
commentato Russel Pierce, presidente del Senato dell'Arizona.
Le nuove misure, fortemente sollecitate dagli elettori repubblicani, contengono
prescrizioni per le autorità scolastiche, che dovranno chiedere prova della
cittadinanza agli studenti, o agli ospedali, che chiederanno documenti ai malati
non gravi. Ai proprietari di case, che saranno costretti a sfrattare l'intera
famiglia, se si scopre che uno degli inquilini è un immigrato illegale. Il
clandestino trovato alla guida dovrà trascorrere 30 giorni in prigione, e la sua
macchina verrà confiscata dallo Stato.
Luca Galassi
22 febbraio
Alessandro Robecchi
Utilità del clown
Giornata
intensa e laboriosa per il Presidente del Consiglio italiano. Purtroppo qualcosa
si è ingarbugliato nel reparto spedizioni di Palazzo Grazioli e alcuni regali
del premier sono finiti nelle mani sbagliate. Una spogliarellista ucraina di
diciannove anni si è vista recapitare a casa un'intera base aeronautica
americana con tanto di bombardieri. All'ambasciatore americano è stato spedito
il contratto per un bilocale in via Olgettina, a Milano. In Vaticano sono giunte
due buste chiuse con ventimila euro, qualche braccialetto e due cd di Apicella.
L'onorevole Scilipoti ha avuto in dono un pacchetto di leggi eticamente
sensibili, compresa quella sul fine vita. Al colonnello Gheddafi sono arrivati
alcuni battaglioni della Folgore e in Afghanistan sono sbarcate da un C130
ottantuno signorine con il camice da infermiera, le autoreggenti bianche e
nient'altro. La confusione è risultata evidente nel primo pomeriggio, quando un
telegramma dagli Stati Uniti è giunto sul tavolo del premier: «C'è un errore, a
noi serviva la base di Vicenza, non un bilocale in periferia». Il Vaticano ha
rispedito i cd di Apicella, chiedendo che fine avessero fatto le leggi
eticamente sensibili da tempo richieste. Frenetico giro di telefonate del
Premier, molto seccato con Nicole Minetti: «Come ti permetti di chiamarmi
clown!». Risposta: «Guarda che io ti ho chiamato culo flaccido, clown te l'hanno
detto gli americani!». Gheddafi ha chiamato verso le 16 e trenta per lamentare
la scarsa femminilità dei parà della folgore: «Silvio, credevo potessi far
meglio!». Alle 17 ha chiamato una ballerina bielorussa di 18 anni: «Papi, grazie
per il federalismo che mi hai mandato, ma preferivo la solita busta di soldi!».
Alla stessa ora Calderoli si rigirava per le mani un reggiseno rosso e due
giarrettiere, perplesso. Alla fine della giornata Obama, Lega, senatori tornati
all'ovile, signorine piacenti, Gheddafi e vescovi hanno spedito a Wikileaks un
comunicato congiunto: «È proprio un fesso, ma ci può sempre tornare utile».
Adriana Pollice
Commons, una rete per i beni comuni in Campania
Nella stanza al piano terra del centro
sociale Insurgencia, a Capodimonte, sabato c'erano due stufette e panche lungo
tutti i lati delle pareti. I posti occupati dai comitati antidiscarica di
Chiaiano, Mugnano, Afragola. La riunione era parte del processo di costruzione
di Commons! la rete civica per i beni comuni (commons.altervista.org). I nodi
sono le realtà territoriali cresciute nelle esperienze di lotta lungo sedici
anni di emergenza rifiuti, ma anche nelle battaglie per l'acqua pubblica. Come
si è costruita l'esperienza lo raccontano gli attivisti del presidio della
rotonda Titanic, donne e uomini con un'età che va dai settanta ai venti anni:
«Abito a meno di un chilometro dalla discarica di Chiaiano - racconta Susanna,
47 anni - e faccio parte di quella marea di singoli che per mesi nella primavera
del 2008 è scesa a protestare, militarizzazione del territorio contro
cittadinanza. Era come vivere sotto assedio, elicotteri, blindati, sembrava un
golpe. Però non ci siamo spaventati, nonostante lacrimogeni e cariche. È
pericoloso quando provi a spezzare con la forza il dissenso e non ci riesci,
perché poi la gente prende coscienza e smette di avere paura». Hanno vedette che
monitorano costantemente la discarica di via Cupa del Cane, loro hanno scoperto
per primi, giorni fa, che la tubatura del percolato era rotta, che trivelle e
camion andavano e venivano dall'invaso. Lavori per un ampliamento che farà
ingrossare di talquale il sito oltre l'annunciata chiusura, questa primavera.
In cinquanta circa formano lo zoccolo duro, quelli che - compatibilmente con
famiglia, studio e lavoro - tengono viva l'organizzazione, ma quando serve parte
il tam tam via telefono e facebook e allora arrivano anche gli altri, da
Chiaiano, Marano, Mugnano a dare testa e gambe alla protesta. Il 14 dicembre
erano in corteo a Roma, si votava la fiducia al governo: «Mi ero portata un
sacchetto di rifiuti apposta da Napoli - racconta Palma, una signora bruna con
la sua borsetta di stoffa piena di caramelle che distribuisce a ogni incontro -
Quando siamo arrivati davanti la sede della Protezione civile stavano chiudendo
il portone ma io ho fatto un lancio magistrale e l'ho buttato dentro». Tra
generazioni riescono a capirsi altrimenti ci sono i figli a fare da mediatori
culturali. Erano in tanti anche a L'Aquila, dove sono andati a protestare due
volte, «la seconda, lo scorso novembre, è stato peggio - raccontano - le bugie
si erano sgonfiate e lo stato d'abbandono faceva crescere la rabbia. Tutti
vittime della cricca con la sua economia di rapina, come in Campania. Per
stemperare la tensione abbiamo mangiato per tutto il viaggio di ritorno».
Avevano escogitato un metodo ingegnoso per finanziare le attività: per due anni
il commissariato straordinario ha pagato i cittadini che conferivano plastica,
metalli e carta e loro hanno organizzato una raccolta capillare. Così è stato lo
stesso commissariato a finanziare il loro dissenso. Protagonisti delle
manifestazioni in Italia, hanno anche ricevuto comitati e solidarietà dai No Tav
e No Dal Molin, tutti poi quest'inverno a Terzigno insieme alle Donne in nero,
agli aquilani e ai gruppi antidiscarica laziali. La geografia dell'Italia che,
mentre resiste, si auto organizza.
Sono loro che si impongono ai tavoli con regione e provincia: «Il piano
integrato è questo, se siete venuti a chiedere il piano virtuoso avete capito
male. Qui rivoluzioni copernicane non se ne fanno». È quello che si sono sentiti
dire venerdì scorso dall'assessore provinciale all'Ambiente, Giuseppe Caliendo.
Una discussione tra sordi: ormai pezzi di Italia, come Capannori nel lucchese e
Vedelago in Veneto, dimostrano che la strategia rifiuti zero è facilmente
praticabile, ma in Campania si procede con i termovalorizzatori: il governatore
Caldoro ha nominato il commissario per l'inceneritore di Napoli est, Alberto
Carotenuto (preside di ingegneria dell'università Parthenope) e quello alle
discariche, il viceprefetto Annunziato Vardè. Così continueremo ad avere bisogno
di buchi in cui riversare tonnellate di rifiuti, a cui poi si aggiungeranno le
ceneri tossiche. Al comune di Napoli il compito di indicare due siti di
trasferenza, sul tavolo le proposte Ponticelli e Scampia, nell'area ex centrale
del Latte, una zona dove da anni i comitati di cittadini hanno presentato propri
piani di rilancio. Per le discariche, in pole position Nola e Afragola. La prima
dovrebbe accogliere l'immondizia dei comuni del comprensorio. Preoccupati gli
afragolesi, alle prese con il sindaco Pdl Vincenzo Nespoli, indagato per
bancarotta fraudolenta e reimpiego di denaro illecito: «Quando ci siamo
presentati per chiedere spiegazioni - raccontavano sabato - ci ha detto che non
ci avrebbe mai ricevuti perché ci chiamiamo 'comitato no discarica'. Siamo
decisi a opporci e non ci scioglieremo neppure se l'invaso non si dovesse fare,
vogliamo continuare a lottare per il piano virtuoso. Con queste istituzioni è
fondamentale vigilare».
I segreti nucleari del
Giappone
Nuove prove di accordi occulti con gli Usa in
contraddizione con i principi pacifisti di Eisaku Sato
Nel
dicembre del 1967, il Primo ministro nipponico Eisaku Sato proclama i tre
principi anti nucleari: il Giappone - devastato nei corpi e nelle coscienze
dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki - sceglie di " non possedere, non
costruire e non introdurre" nel proprio territorio nessuna arma nucleare. Per
questa politica pacifista, a Sato viene assegnato il premio Nobel per la pace
nel 1974.
Oggi si scopre che un patto segreto tra Sol Levante e Stati Uniti ha reso il
divieto al nucleare un po' meno vincolante.
In realtà da tempo si sapeva che il Giappone non è mai stato del tutto
denuclearizzato. Un diplomatico giapponese, Kei Wakaizumi, aveva già inserito
nel suo libro di memorie del 1994 la minuta di un vero e proprio patto segreto
tra Nixon e Sato firmato il 21 novembre 1969, che prevedeva il ricorso al
nucleare in determinate circostanze. Poi, a ottobre del 2009, gli archivi della
sicurezza nazionale di Washington hanno pubblicato documenti top-secret in linea
con la versione di Wakaizumi. Tutti i governi giapponesi avevano fino allora
negato la presenza di patti segreti sul nucleare.
Oggi la conferma arriva proprio da Tokyo, dove il governo del Partito
democratico ha appena declassificato alcuni documenti del 1967 (lo stesso anno
dei tre principi), nei quali appare chiaro che, in cambio della restituzione di
Okinawa e delle isole Ogasawara al Sol Levante, gli Usa pretesero "in caso di
imprevisto" di reintrodurre armi nucleari nel territorio giapponese.
Questo sta a significare sia la presenza di tali armi nelle basi statunitensi
sulla terraferma, sia il loro passaggio via nave nelle acque territoriali (e
l'eventuale scalo nei porti militari giapponesi).
È accertata la presenza di armi nucleari a Ogasawara tra il 1956 e il 1965,
quando la catena di isole era controllata direttamente dagli Usa. Prima del suo
ritorno in mani giapponesi ( 1968) e in linea con i tre principi di Sato, gli
ordigni furono rimossi. Giappone e Stati Uniti si accordarono però su una
formula che prevedeva la loro reintroduzione " previa consultazione".
Secondo il Mainichi Shimbun, Washington avrebbe inteso questo patto segreto come
un " via libera", a propria totale discrezione e con la tacita approvazione di
Tokyo.
Alcuni osservatori di sponda nipponica ritengono che il patto segreto sia poi
stato esteso automaticamente a Okinawa, che tornò al Giappone nel 1972.
La notizia è destinata a riacutizzare le polemiche connesse al trasferimento
della base statunitense di Futenma, che i cittadini di Okinawa e il governo
locale vorrebbero allontanare dalla prefettura, mentre Washington, con
l'appoggio un po' imbarazzato di Tokyo, intende spostare a Henoko, sempre
sull'isola.
Il punto è che quando gli Usa restituirono Okinawa, ottennero di conservare le
proprie basi proprio in cambio dell' adesione ai principi di Sato: nessuna
presenza nucleare a Okinawa.
Ora, la scoperta di un inganno lungo oltre quarant'anni potrebbe acuire le
proteste sull'isola e l'imbarazzo del governo centrale.
La questione nucleare investe anche la recente revisione del programma di difesa
nazionale, battezzato " dynamic defense capability" e adottato a dicembre 2010.
Nella bozza del luglio precedente, si raccomandava infatti di riconsiderare
almeno uno dei principi anti nucleari: per la precisione, il divieto all'
introduzione in Giappone, anche in caso di emergenza militare, di armi nucleari
statunitensi. Di fatto, l'abbandono di tale principio avrebbe sancito anche
pubblicamente quanto già stabilito dagli accordi segreti. La versione finale del
programma di difesa ha invece cancellato ogni riferimento al nucleare. Per ora.
Gabriele Battaglia
21 febbraio
La Sicilia e le rivolte nel mondo arabo
di Agostino Spataro
Nulla possono la politica, la diplomazia contro la meteorologia: con la bonaccia
, infatti, sono ripresi gli sbarchi di clandestini dalla Tunisia verso
Lampedusa.
E’ questo un risvolto diretto delle rivolte arabe, soprattutto nordafricane, che
ha provocato in Sicilia una nuova emergenza che mette a dura prova le strutture
d’accoglienza e le miopi politiche migratorie del governo Berlusconi.
Per altro, è prevedibile che l’esodo si estenda a Egitto, Libia, Algeria.
Insomma, una fuga di massa che è una prima avvisaglia di un più grande dramma
sociale e politico che, secondo gli esiti politici delle rivolte, potrebbe
infiammare le sponde sud ed est del Mediterraneo.
La Sicilia potrebbe ritrovarsi al centro di tensioni e di conflitti, anche
devastanti, per la ridefinizione degli assetti dei poteri in queste regioni
vitali del mondo, in aderenza ai nuovi equilibri della globalizzazione. Perché,
a occhio e croce, di questo si tratta.
In quest’area, infatti, insistono grandi risorse energetiche, fenomeni
ideologici irriducibili (islamismo radicale e terroristico) e conflitti
sanguinosi che sembrano essere divenuti insolubili, fra cui quello israelo –
palestinese che, presto, potrebbe ri-diventare arabo - israeliano.
In caso di estensione di tali conflitti la Sicilia potrebbe restarne coinvolta.
Direttamente. Per la sua prossimità geografica e per essere divenuta la
piattaforma più avanzata degli Usa e della Nato proiettata verso gli scacchieri
mediterraneo e mediorientale.
Non è un mistero svelato, oggi, da Wikileaks (l’abbiamo già scritto in “la
Repubblica” del 6/5/2005) che a Sigonella sono concentrate le più sofisticate
capacità Usa di dispiegamento rapido per la cosiddetta “lotta al terrorismo”.
Scenari terribili si possono, dunque, avverare e trovare impreparate l’Italia e
l’Europa le quali, a differenza degli Usa, non hanno elaborato verso questi
paesi una dottrina unitaria, una politica autonoma di pace e di cooperazione
reciprocamente vantaggiosa.
Ma torniamo all’emergenza emigrazione che, in pochi giorni, ha visto sbarcare in
Sicilia quasi 6.000 persone; un dato allarmante e anche un po’ strano poiché non
si capisce come mai da un paese finalmente liberato i giovani fuggano invece di
restare per ricostruire l’economia e consolidare la democrazia.
Evidentemente, qualcosa non quadra in queste “rivoluzioni incompiute” che hanno
detronizzato i rais, ma lasciato il potere ai loro colleghi militari e agli
esponenti dell’ancien regime.
I siciliani hanno accolto con spirito umanitario la nuova ondata migratoria,
tuttavia non hanno gradito la volontà del governo di concentrare nell’Isola i
flussi in arrivo.
Diversi sindaci, specie quelli di Lampedusa, Mineo e Caltagirone, hanno espresso
alcune comprensibili preoccupazioni.
Ovviamente, il disagio non è solo locale, ma riguarda l’intera Sicilia che certo
non può fronteggiare, da sola, un’emergenza di dimensioni nazionale ed europea,
nemmeno con gli aiuti promessi. Questo- a me pare- il punto politico principale
su cui la Regione deve puntare i piedi.
Un’insistenza sospetta quella del governo delle “eterne emergenze” nelle quali-
sappiamo- anche i sentimenti più genuini vengono travolti da manovre e interessi
spudorati.
Specie se in ballo ci sono contratti milionari che facilmente accendono appetiti
affaristici e clientelari.
Come quelli che si profilano con l’operazione “villaggio della solidarietà” di
Mineo dove Berlusconi e Maroni vorrebbero concentrare sette mila rifugiati
regolari.
Una proposta che farà la gioia del cavaliere Pizzarotti, ma non quella dei
sindaci della zona e delle stesse associazioni dei profughi che la considerano
un marchingegno, per altro molto costoso, che, invece di favorire
l’integrazione, isolerebbe i rifugiati in una sorta di ghetto a quattro stelle.
Come mai una proposta simile non è stata avanzata a una regione del Nord dove i
profughi e gli immigrati desiderano vivere?
Forse per tenerli lontano dalla “padania” ed evitare problemi elettorali alla
Lega?
Solo così si può spiegare tanta sospetta benevolenza nei confronti dell’Isola e
degli immigrati che è un’amara conferma del ruolo subalterno assegnato all’Isola
nella prospettiva strategica dell’Italia.
Anche in questo caso, si riscontrano un approccio detestabile e un'iniqua
suddivisione dei ruoli derivati dallo sviluppo del paese: i benefici, il valore
aggiunto al centro-nord, le conseguenze negative, i problemi al sud, in Sicilia.
Gli esempi sono tanti, antichi e recenti.
Valga per tutti l’anomalia degli scambi commerciali con i Paesi arabi rispetto
ai quali le regioni del centro-nord sono le principali esportatrici di beni e
servizi, mentre la Sicilia si deve far carico dell’importazione di enormi e
inquinanti quantitativi d’idrocarburi, destinati a incrementarsi con la
costruzione dei due rigassificatori.
Spiace rilevarlo, ma la concentrazione nell’Isola di questa massa d'immigrati e
di rifugiati ha tutto il sapore di una nuova azione discriminatrice e, anche, un
po’ razzistica.
18 febbraio
Duccio Valori
Qualche
(buona) ragione per non fidarsi della Fiat
La
settimana scorsa l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha
ribadito l'intenzione della società di realizzare il progetto Fabbrica Italia,
con l'investimento di circa 20 miliardi di euro e il mantenimento della «testa»
in Italia, sempre che sia garantita la governabilità delle fabbriche. Proposito
lodevole, affermato nell'assordante silenzio del governo e del suo degno
rappresentante, l'ex-craxiano ministro Sacconi; e tuttavia proposito tutto da
verificare, proprio come dev'essere verificata la «governabilità» richiesta da
Marchionne. Chi giudicherà, se non la stessa Fiat, del conseguimento della
governabilità? Dunque gli investimenti si faranno solo se la Fiat riterrà
conveniente farli: e in questo, e solo in questo, consiste il suo impegno. In
altre parole, bisogna fidarsi della Fiat. Tuttavia la storia degli ultimi
cinquant'anni è anche la storia degli errori e delle bugie della Fiat.
Alla fine degli anni '50 la Pirelli, l'Italcementi e la stessa Fiat predisposero
un progetto di massima per un'autostrada che unisse Milano a Napoli; tuttavia i
dubbi della stessa Fiat sullo sviluppo della motorizzazione in Italia fecero
accantonare il progetto. Questo, dietro forti pressioni politiche nazionali e
locali, venne ripreso dall'Iri, che realizzò, a costo zero per lo Stato,
l'Autostrada del Sole, che si sarebbe rivelata fonte insostituibile di profitti
e di liquidità prima per l'Istituto, poi per l'Italstat. Un secondo errore della
Fiat fu la cessione della controllata spagnola Seat ai tedeschi, nell'ipotesi -
poi smentita dai fatti - di un mancato sviluppo della motorizzazione iberica;
sviluppo che invece si verificò con grande dinamismo proprio all'indomani della
cessione della Seat.
Con l'avvicinarsi della liquidazione dell'Egam - che operava nei settori
minero-metallurgico, meccanotessile e della siderurgia speciale - la Fiat, nella
persona dell'ingegnere Ferdinando Palazzo, allora responsabile della Teksid,
fece circolare la voce di un proprio interessamento all'acquisizione del settore
acciai speciali (Sias) dell'Egam; tuttavia, quando l'Ente fu messo in
liquidazione, la Teksid non presentò alcuna offerta (com'era facilmente
prevedibile) e la Sias venne assegnata alla Finsider del Gruppo Iri. A questo
punto la Fiat si fece avanti per una razionalizzazione congiunta del settore
acciai speciali, e l'avvocato Sette, allora presidente dell'Iri, incaricò chi
scrive di negoziare con la Teksid non un matrimonio, ma un adeguato periodo
preliminare di «ottima convivenza», nel quale ciascuno avrebbe dovuto
razionalizzare le proprie attività omogeneizzandole con quelle dell'altro.
Quest'ipotesi tuttavia non fu gradita alla Fiat, che voleva in realtà disfarsi
del settore. Le trattative furono interrotte, e poco tempo dopo, con
l'intermediazione dell'allora Ministro delle Partecipazioni statali, De Michelis,
la Finsider dovette acquistare l'intero comparto dalla Fiat. Verificate le
carenza e le manchevolezze tecniche dell'intera struttura dei forni elettrici
della Teksid, la Finsider li chiuse, sacrificando la cifra non indifferente
pagata alla Fiat (400 miliardi di lire dei primi anni '80), lasciando in
funzione solo quell'impianto di laminazione che - trasferito alla Terni acciai
speciali (Tas) e da questa ceduta alla Thyssen Krupp - avrebbe completato il suo
ciclo di vita con la tragedia che tutti ricordiamo.
In seguito, con la gestione Prodi, l'Iri avviò trattative con Cesare Romiti -
allora amministratore delegato della Fiat - per la cessione dell'Alfa Romeo. Le
trattative furono bocciate da Romiti («Di boxer - il motore superquadro
dell'Alfa - conosco soltanto il cane», affermò). Solo in seguito all'interesse
manifestato dalla Ford, la Fiat si vide costretta a tornare sui suoi passi e ad
acquistare (a buon mercato) l'Alfa Romeo, che è oggi il marchio di maggior
successo della casa torinese.
Ancora più recente è l'episodio della General Motors, con la quale Fiat aveva
siglato un accordo che avrebbe dato alla Gm una consistente partecipazione
azionaria nella casa italiana. Quando Generale Motors - dopo un'accurata analisi
- decise di non proseguire nel progetto, la Fiat ottenne come penale il
pagamento di 1 miliardo di dollari, ma non per questo abbandonò definitivamente
il progetto di un trasferimento oltreoceano.
Se e quando si verificherà l'acquisizione di Chrysler, la Fiat potrà infatti
avviare la fusione tra le attività automobilistiche italiane (oltre che
polacche, brasiliane, ecc.) e quelle americane. Ora, è evidente che in un patè
di allodola e cavallo, fatto con un'allodola e un cavallo, il gusto dominante
sarà quello del cavallo. La società nata dalla fusione sarà certamente quotata a
Wall Street, e la quota di minoranza di proprietà Fiat potrà essere venduta
senza grandi problemi.
Si vuole dire con questo che la Fiat non può sbagliare? Solo il Papa è
infallibile, e anche lui solo in determinate circostanze. La Fiat è gestita da
esseri umani, soggetti, come abbiamo visto, a ingannarsi, a ingannare e ad
essere ingannati. Nessuno possiede tutta la verità: né la Fiat, né i sindacati,
né tanto meno il governo. Le scelte migliori possono provenire solo dal
negoziato e dal confronto: non dal diktat e della prevaricazione di una parte
sull'altra o - come nel caso del governo - dall'appiattimento sulle posizioni di
una delle parti in causa.
Appare oggettivamente difficile che la Fiat abbandoni spontaneamente la propria
posizione di forza e che anteponga gli interessi generali a quelli, molto
particolari, dei suoi azionisti. Tuttavia la tutela dell'interesse generale, sia
in termini di ricerca e sviluppo che di salvaguardia dell'ambiente e
dell'occupazione, spetta non al mercato, con tutti i suoi squilibri, le sue
storture e le sue forzature, ma a chi, come il governo, si trova
istituzionalmente al di sopra delle parti e dei loro interessi. L'intenzione di
realizzare i 20 miliardi di investimenti promessi e di non abbandonare l'Italia
non deve quindi restare un buon proposito della Fiat, soggetto solo alla sua
benevola discrezione, ma deve trovare vincoli espliciti e precisi nella volontà
pubblica, e trasformarsi in un impegno vero e proprio, garantito da adeguate
sanzioni nel caso, tutt'altro che improbabile, di inadempienza.
*ex Direttore centrale Iri
Ylenia Sina
Roma Social
Pride contro Alemanno
«Siamo
orgogliosi del nostro lavoro perché è accoglienza, azione sociale, promozione
del benessere per la città». Con queste parole d’ordine nel pomeriggio centinaia
di lavoratori del terzo settore hanno affollato la scalinata del Campidoglio
dando vita al Roma Social Pride, la giornata di mobilitazione contro le
politiche sociali della Giunta Alemanno.
Un lungo elenco di realtà che operano nel sociale hanno fatto sentire la propria
voce contro un’amministrazione che «riduce le risorse per le politiche sociali e
smantella un sistema in grado di creare inclusione e integrazione nei territori
per lasciare spazio a una pericolosa disintegrazione sociale» denuncia Andrea
Catarci, Presidente del XI Municipio, parte del Roma Social Club che riunisce
presidenti, assessori e consiglieri dei municipi romani di centro sinistra in
difesa del terzo settore.
Tagli ai finanziamenti, ritardo cronico nei pagamenti, esclusione dei Municipi
dalle scelte che riguardano la programmazione e la progettazione del piano dei
servizi. La politica della Giunta Alemanno sta mettendo in ginocchio un intero
settore dedicato alla difesa e all’integrazione delle fasce più deboli della
cittadinanza: bambini, anziani, immigrati, diversamente abili,
tossicodipendenti. «Non possiamo accettare che a causa della crisi economica si
tagli il terzo settore con il rischio di creare una crisi sociale» denuncia
Cristiana Cortesi consigliere comunale di Roma In Action nel X municipio. A
fronte di tutto questo le richieste espresse vanno nella direzione opposta da
quella intrapresa da chi governa Roma: più risorse, più partecipazione dei
Municipi, delle associazioni e delle cooperative che operano direttamente nel
settore. «Senza contare il riconoscimento alla dignità professionale del nostro
lavoro essenziale per la città» spiega Claudio della Cooperativa Parsec che fa
parte del Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) «e la necessità
di mantenere alta la qualità dei servizi erogati».
Ma dalla piazza avvertono: «questo è solo l’inizio» afferma Pina Rozzo
dell’associazione Città Visibile che spiega come «i tagli del fondo nazionale
per le politiche sociali, come dimostrano le mobilitazioni di Napoli, stanno
mettendo in crisi il settore in tutta la penisola».
A tutto questo si aggiunge il fatto che sempre più risorse vengono destinate a
grandi organizzazioni con mega appalti che diminuiscono progressivamente la
presenza sul territorio di associazioni e cooperative. Per questo motivo la
giornata dedicata all’orgoglio del terzo settore è iniziata con un presidio
davanti alla Croce Rossa che dal primo marzo gestirà il campo rom attrezzato di
via di Salone: «la Croce Rossa, che punta a diventare l’interlocutore unico nel
settore con il comune di Roma, rappresenta infatti il punto di partenza dello
smantellamento del welfare romano» denuncia Mariangela De Blasi, dell’Arci
Solidarietà.
Per questo il 2 marzo l’orgoglio sociale manifesterà di nuovo sotto al
Campidoglio in occasione del consiglio comunale straordinario sul Piano Nomadi.
Emergenza di
un paramilitarismo mai morto
In Colombia, nonostante la
smobilitazione voluta da Uribe, la maggioranza dei paracos si è riciclata in
altre bande che continuano a spartirsi i corridoi del narcotraffico spargendo
vittime e terrore
La
Colombia sembra destinata a non trovare pace. Non solo la guerriglia è ben lungi
dal deporre le armi e dal sedersi a un tavolo delle trattative con un governo
che disprezza, ma a mantenere il quadro gravemente complesso c'è anche
l'emergenza incontenibile di nuove bande paramilitari, formate in maggioranza da
ex smobilitati. La Legge Giustizia e Pace tanto voluta da Alvaro Uribe, dunque,
non ha che avuto il risultato di ripulire la fedina penale di delinquenti
incalliti che, girato l'angolo, si sono riciclati in gruppi armati che hanno
come unico scopo soldi e potere. Sono tante e prive di scrupoli e per comodità
vengono definite Bacrim, l'acronimo di Bande criminali emergenti.
Ma dove operano? Chi ne fa parte? Sono effettive le misure governative per
arginarle? Queste sono alcune delle domande che il paese si sta facendo di
fronte a queste orde impazzite, che il governo è convinto di arginare con la
speciale strategia delle 6 D: desarticular (disarticolare), desmantelar
(smantellare), denegar (negare), disuadir (dissuadere), direccionar (dirigere) e
difundir (diffondere). A eseguirla polizia e forze militari. Coadiuvate anche
dalle truppe Usa presenti in suolo colombiano, che hanno ricevuto, a loro volta,
ordini precisi su come affrontare le Bacrim.
A insistere sull'elevato gradi di emergenza di queste squadre di paracos sono
per lo più Ong e la Defensoría del Pueblo, specialmente dopo la morte di due
giovani universitari Mateo Matamala e Margarita Gómez, uccisi il 10 gennaio
scorso a Córdoba da un gruppo di paracos, impegnati a riconquistare in varie
aree del paese i corridoi del narcotraffico.
A spiegare il fenomeno al settimanale colombiano Semana è Álvaro Villarraga,
coordinatore dell'area smobilitati, disarmo e reintegro della Commissione
nazionale per la riparazione e la riconciliazione (Cnrr). Avendo curato la
documentazione ufficiale più recente su queste bande, Villarraga può affermare
come il ritorno alle armi di molti ex Auc (Autodensas unidas de Colombia) non
significhi altro che il ritorno del paramilitarismo, un problema che il governo
Santos dovrà sapere affrontare, iniziando a riconoscere il fenomeno reale perché
siamo di fronte a ben altro che a semplici gruppi di delinquenti. "Si parla di
almeno seimila effettivi legati o più o meno sei strutture principali - spiega
-. Ma è una situazione in pieno divenire. Questi gruppi sono particolari proprio
perché si trasformano, si fondono e si sostituiscono con grande facilità. E i
leader, i capi, coloro che reclutano sono tutti ex Auc, coloro che assicurano
continuità a forme di dominio territoriale armato vecchio di anni. Ecco perché
la situazione è preoccupante".
Il fenomeno inizia a essere segnalato già nel 2008, ma la misura di quanto sia
ramificato e potente sta diventando chiara soltanto adesso. Tanto che anche il
termine Bacrim suona incompleto ormai. "Definirle bande criminali è riduttivo,
troppo vago e non corrisponde alla verità del fenomeno. Non è una questione di
delinquenza comune. Siamo di fronte a una forma di vero e proprio
paramilitarismo perché ci sono strutture militari, dominio territoriale e, quel
che è peggio, continuano vincoli con settori statali, forza pubblica e con una
rete di uomini politici". Ci sono infatti zone in cui queste bande hanno un
controllo molto pesante, e riescono a esercitare una pressione tale sulla gente
da riuscire persino a giostrare il voto, intimidendo e minacciando. Basta vedere
quel che accadrà alle prossime amministrative nella Costa Norte, Chocó, Bajo
Cauca, Córdoba, Meta, Guaviare, Nariño e Medellín. Ma anche in Sierra Nevada de
Santa Marta, Alta Guajira, Sur de Bolívar, zone chiavi in materia di
narcotraffico
Stesse radici, stessi obiettivi e stessi metodi, dunque, ma anche grandi
differenze con le vecchie Auc. Queste bande non hanno infatti una federazione
che le inglobi, sono molto più parcellizzate e quindi più deboli, ma di contro
sono pericolosamente ben radicate nei centri urbani.
Stella Spinelli
17 febbraio
16 febbraio
Botta e risposta tra Roma e Bruxelles
Alberto D'Argenzio
Tra Europa e governo italiano non c'è amore,
nemmeno a San Valentino. E una volta di più la crepa si apre sulla pelle altrui,
in concreto su quella di chi scappa oggi dalla Tunisia e domani probabilmente lo
farà dall'Egitto o da altri paesi del Maghreb.
«È la caduta del muro del Maghreb, siamo soli, l'Europa non sta facendo nulla»,
spara Maroni. Attacca anche Frattini invocando un'Unione europea, di cui
dovrebbe conoscere bene virtù e difetti, che è assente, accusata di rimanere
ferma di fronte all'aumento della pressione sull'Italia.
Parole che non lasciano indifferenti a Bruxelles: lunedì mattina Cecilia
Malmstrom, commissaria agli interni, prende carta e penna e scrive una
dichiarazione che fa leggere al suo portavoce. Parole dure. «Sono stata
formalmente in contatto sabato scorso con le autorità italiane a cui ho chiesto
in che modo la Commissione poteva fornire sostegno. La loro risposta è stata 'no
grazie, in questo momento non ne abbiamo bisogno'». La Malmstrom si dice
«sorpresa» dall'affondo di Maroni, ma anche così porge la sua mano: «Ha
rifiutato il nostro aiuto, ma la Ue è sempre disponibile a sostenere l'Italia».
E ancora: «Siamo pronti a valutare le eventuali richieste concrete che dovessero
arrivare dall'Italia» e che evidentemente non sono ancora arrivate. «Non è vero
che l'Italia ha rifiutato l'aiuto offerto dalla Commissione europea per
fronteggiare l'emergenza sbarchi dalla Tunisia», ribatte nel pomeriggio Isabella
Votino, portavoce di Maroni.
La polemica raggiunge qui il suo massimo, poi partono i tentativi, tutti
italiani, di abbassare un po' i toni. «Stimo la Malmstrom - afferma il ministro
degli interni in una conferenza stampa serale - e mi dispiace per questa
polemica, ma la mia critica non va a lei, quanto all'Europa nel suo insieme che
non ha detto una parola forte e ci ha lasciato soli in questa emergenza». «Da
Bruxelles - ha proseguito Maroni - ci chiedono l'invio di una richiesta formale
di intervento: bene, è partita oggi, ma se riducono tutto a una lettera formale,
non ci sarà l'intervento rapido che è necessario». Da Roma si dice che con le
lettere si perde tempo, manco fossero inviate con i piccioni, mentre invece ci
vuole una risposta rapida e che basta quindi chiederla per telefono. Non è così.
«É un problema di comunicazione», riassume il ministro.
Comunicazione che non funziona sicuramente, ma dietro c'è anche molta sostanza.
Commissione Ue e governo hanno mantenuto contatti continui durante il week-end,
ma da Roma sono partiti proclami e non richieste concrete e formali di aiuto. La
lettera a cui fa riferimento Maroni è stata inviata solo ieri mattina e, stando
a sentire una fonte comunitaria, contiene l'invito a discutere il tema
dell'emigrazione dalla Tunisia al prossimo consiglio dei ministri degli interni
del 24 febbraio. Sarà anche l'occasione per il ministro leghista di farsi vedere
a Bruxelles visto che suole presentarsi assai raramente ai consigli dei ministri
Ue. L'Italia chiede anche l'intervento di Frontex, l'Agenzia per il controllo
delle frontiere esterne della Ue, che peraltro è già stata allertata dalla
Malmstrom.
E qui si arriva alla sostanza, che è poi tutta concentrata sul tipo di
intervento che può fornire la Ue e Frontex in particolare. «Frontex attua
nell'ambito della legalità e non attua respingimenti», ripete varie volte
Michele Cercone, portavoce della Malmstrom, liberale svedese molto sensibile ai
temi del diritto. Facile intendere che la rottura tra Roma e Bruxelles sia
maturata sui respingimenti con il governo a chiedere dall'Europa un sostegno a
una politica che pur piacendo a molti Stati membri, è comunque esterna al
mandato di Frontex e anche alla sensibilità della Malmstrom.
Che il problema sia questo lo si capisce anche dalle parole di Maroni: «Senza la
collaborazione della Tunisia ora è impossibile fare respingimenti, anche per
questo è importante la missione a Tunisi del ministro degli esteri Frattini».
Impossibile perché il governo di transizione, peraltro alquanto seccato dalla
proposta italiana di inviare pattuglie in loco per controllare le partenze, non
sembra intenzionato a riprendersi i suoi, una misura che sicuramente renderebbe
più difficile queste complesse settimane.
E ieri a Tunisi non c'era solo Frattini, ma anche l'Alto rappresentante per la
politica estera della Ue Catherine Ashton che si è fatta carico delle
preoccupazioni italiane, ma fino a un certo punto. «La cosa più importante è che
tutto sia fatto rispettando le regole per la salvezza dei giovani tunisini e
dell'Italia». D'altronde dopo aver salutato con enfasi la stagione di libertà
aperta dalla Tunisia, la Ashton non può nemmeno, alla sua prima visita
ufficiale, dire che la libertà dei giovani tunisi finisce in mezzo al mare.
In sostanza, l'Ue è un po' latitante quanto a politica migratoria, e questo si
sapeva da tempo, altra cosa è che, pur non riuscendo a condannarle pienamente,
sposi e metta in pratiche le pratiche leghiste. Con questo panorama non si
escludono altre polemiche, a partire dalla discussione che si terrà al
Parlamento Ue su richiesta del Ppe.
Avvocato contro il diavolo
Ecuador,
la storia di Pablo Fajardo, avvocato contro la Chevron, che ha inquinato l'Amazzonia
e la vita di migliaia di persone riversando milioni di barili di rifiuti tossici
nella selva
Pablo è un
avvocato ecuadoriano, frutto dei poveri tra i poveri, ma il suo nome risuona di
rispetto e riverenza tra le dorate pareti di studi legali e tribunali del
quartier generale degli States. La sua specialità? Dichiarare guerra ai giganti
del petrolio, che per decenni hanno risucchiato oro nero dal cuore della terra,
risputandone in superficie il letame in avanzo. Senza rispetto, né rimorsi.
Disprezzo, quello sì, e tanto e tale da trasformare fiumi effervescenti e terre
fertili in un erebo velenoso e mortale. In nome del denaro.
Figlio della costa, nato quinto di dieci fratelli a Manabì, Fajardo resiste tra
stenti e dignità coltivando la terra di Esmeraldas fino ai quindici anni. Poi,
seguendo la famiglia e la chimera di una vita migliore, si ritrova tra platano e
petrolio nella svenduta Amazzonia d'Ecuador. Sucumbìos, per l'esattezza, una
selva di impianti, pozzi a cielo aperto e densi fumi neri a imbrattare l'azzurro
perenne del cielo. Un inferno in paradiso, con custodi d'eccezione: la Texaco
Corporation , ora Chevron, multinazionale con gli attributi e per di più made in
Usa. "Giocare immersi a mezza gamba in pozze nere, spuntate in ordine sparso tra
i campi duramente coltivati da gente che viveva di quei frutti malati, era la
norma - racconta con disincanto -. Siamo cresciuti intrisi di quell'olio denso e
puzzolente. E non capivamo. Sentivo soltanto che qualcosa stonava, che quella
nostra normalità strideva e che non era solo una questione di estetica, di
paesaggio deturpato, di desolazione".
Che si trattasse di un'emergenza umanitaria, spudorata quanto grave, il giovane
Fajardo lo capisce girando con i preti cattolici intenti a visitare gli
sparpagliati villaggi amazzonici e le comunità indigene. Intere famiglie rese
impotenti dal dramma petrolio. Gente ammalata di tumore, animali intossicati,
bestie affogate nelle nere piscine incustodite. E rabbia, tanta rabbia. Sono
quegli sguardi umidi a donare a Pablo la verità: le multinazionali, dagli anni
Sessanta padrone incontrastate della regione ceduta da governi compiacenti
prostrati a suon di dollari, smettono d'un tratto i panni delle misericordiose
concessionarie di lavoro a stipendio assicurato, e si mostrano in tutta la loro
avida brutalità. La presa di coscienza è scioccante e scatena un primordiale
istinto di sopravvivenza, che si traduce in uno studio, matto e disperatissimo,
sostenuto da quelle genti d'Ama zzonia assetate di riscatto e giustizia.
"Creammo un comitato per la difesa dei diritti umani. Avevo diciassette anni, ma
venni eletto presidente", spiega scandendo lentamente ogni concetto, orgoglioso.
"Raccogliemmo centinaia di denunce e testimonianze, senza poterne far niente. A
quell'epoca, i gloriosi anni Ottanta, le compagnie petrolifere controllavano
persino le autorità locali. E noi eravamo così piccoli al confronto. Poi il
muro: c'era bisogno di un avvocato, senza, tutto il nostro lavoro sarebbe stato
inutile. Non ce l'avevamo. E decisi di diventarlo. Mi avevano appena licenziato
per aver reclamato i miei diritti, ero già padre di una bambina e non avevo un
soldo". Ma ha la fiducia di c entinaia di persone che in lui vedono un altro
mondo possibile. E con essa il loro sostegno, morale ed economico. A cui si
aggiunge quello della Chiesa, che gli concede una borsa di studio per la facoltà
di giurisprudenza. Che frequenta per corrispondenza, dividendosi tra esami e
qualche lavoretto per sfamare la famiglia.
Sono tempi duri, ma la meta è alta e il suo fuoco alimenta le stanche notti sui
libri. La laurea si avvicina, la lotta continua e la strada si fa pericolosa.
Iniziano le minacce. Gli amici più cari, i fratelli, la moglie danno segni di
cedimento. Ma Pablo va avanti. Diventa avvocato, fagocitando tomi e dogmi con un
unico grande obiettivo. Ora è pronto a sferrare l'attacco decisivo, leggi alla
mano. Sostenuto da associazioni ambientaliste e da un pool di avvocati
americani, porta il mostro dell'oro nero alla sbarra. È il 2003 . L 'anno
successivo, il baratro. "Mio fratello. Cercavano me. Hanno trovato lui.
Torturato e fatto a pezzi - Pablo è trafitto, lo sguardo si accartoccia. Il
dolore lo contorce, emerge, tangibile, in un silenzio che soffoca -. Seguirono i
messaggi minatori, le persecuzioni. Portai la mia famiglia in un altro paese.
Furono tre mesi di orrore - il respiro si fa cavernoso -. Faccio molta fatica a
rivivere quei giorni". E l'affanno si scioglie in pianto. "Non sono impazzito
per l'amore di coloro che hanno creduto in me". Trentamila, sono quanti hanno
spronato Fajardo a inchiodare Texaco alle proprie responsabilità. Aver inondato
Lago Agrio con milioni di barili di rifiuti tossici, rendendola l'area con il
più alto tasso di tumori e malattie correlate del continente. Aver messo a
rischio di estinzione popolazioni indigene vecchie di secoli, violentato culture
millenarie, disintegrato intere comunità.
"Siamo stati usati, calpestati - sospira, sussurrando - che la giustizia faccia
il suo corso". Tradotto: ventisette miliardi di dollari. È quanto dovrà pagare
la compagnia se il tribunale ecuadoriano la giudicherà colpevole. Una storica
sentenza sembra a un passo: il gigante ha il ghigno del vinto. Sembrava
imbattibile, eppure barcolla. Il piccolo Fajardo resta impassibile, ma non il
suo sguardo: seppur appannato, tradisce la luce di chi da sempre già sa.
In
Afghanistan nei mesi invernali cala l'intensità dei combattimenti, ma la
tragedia della guerra continua senza treguaDi solito in inverno l'attività qui
nell'ospedale di guerra di Emergency a Laskargah cala rispetto ai mesi
primaverili ed estivi. Calano i 'numeri', non la tragedia umana che la
popolazione civile soffre a causa della guerra.
Razia viene da Babaji, villaggio tristemente famoso per i combattimenti che vi
avvengono da anni. Stava tornando a casa a piedi con la sua famiglia. A un certo
punto 'dei soldati' hanno cominciato a sparare. Lei rimane ferita, l'unica della
famiglia: un femore rotto, uno zigomo rotto e una vasta ferita alla testa.
Stamattina, ancora ricoverata in terapia intensiva, piangeva. Ora che è stata
trasferita nel reparto dei bambini, si trova meglio e ci mostra anche l'altra
ferita da proiettile che l'ha colpita a una mano un anno fa. Una 'veterana di
guerra' a sette anni.
Due letti prima di lei, Juma Gul di cinque anni, sta mangiando del riso. Ha una
grossa medicazione che gli copre mezzo viso e una alla gamba sinistra.
Era fuori da casa sua, a Grishk, quando qualcuno ha lanciato una granata: anche
una sorellina e sua madre sono state ferite, ma per fortuna non gravemente come
lui.
Il riso gli esce dal piatto, non è semplice mangiare quando mezza faccia,
compreso l'occhio, non c'è più.
Mohammed Wali ha otto anni e viene da Marjah, altro villaggio martoriato dalla
guerra.
Era andato a fare spese per la famiglia e stava tornando a casa quando ha
appoggiato il piede su una mina. E' letteralmente volato in aria. Nonostante un
piede esploso, ha camminato fino a casa, dove suo papà lo ha portato
immediatamente in una base militare lì vicina. Con l'elicottero è stato
trasportato a Lashkargah per poi essere trasferito al nostro ospedale.
Il suo piede sinistro lo ha perso, adesso ha un grande bendaggio che gli copre
il moncone appena sotto il ginocchio.
E' un bambino bellissimo con occhi scuri, molto profondi, ancora scioccati da
quello che è successo.
Tutto questo nell'arco di una settimana, d'inverno, quando i 'numeri' calano.
Matteo Dell'Aira
(Coordinatore medico dell'ospedale di Emergency a Lashkargah, Helmand)
Morti
bianche: più 60 per cento
di Claudio Pappaianni
Nel gennaio di
quest'anno gli infortuni sul lavoro hanno avuto
un'impennata. Colpa dei tagli agli ispettorati, che non
hanno nemmeno le auto per andare a controllare le fabbriche
e i cantieri. Ecco una storia purtroppo esemplare: quella di
Massimo, 35 anni, sfuggito alla camorra per volare da un
ponteggio in Romagna.
Per lo Stato è una
crocetta nelle statistiche sulle morti bianche:
l'ennesimo incidente sul lavoro. Ma la tragedia di
Massimo Amato è una doppia sconfitta. Perché lui la sua
scelta l'aveva fatta: aveva lasciato Casal di Principe,
Gomorra, per non piegarsi alla criminalità e cercare di
vivere onestamente: "La scuola no, ma nemmeno la strada
di Casal di Principe, la brutta gente, la camorra...
perché quella parola significa morte", ripeteva. E così
era finito a spaccarsi la schiena a Imola, operaio
edile, per 50 ore a settimana pur di far campare
onestamente moglie, tre figli e il quarto in arrivo.
Forse il tanto sperato maschietto. E invece la morte
l'ha seguito fin lassù. E se l'è preso a 35 anni. A
seicento chilometri da casa. Un volo di venti metri
dall'impalcatura.
Un attimo che ha trasformato il sogno di una vita onesta
nell'incubo della più assurda delle disgrazie. Era il 27
gennaio. E nelle tabelle dell'Inail, oltre a Massimo,
solo a gennaio se ne sono aggiunti 60, tra cantieri,
campi e industrie. Significa quasi il 60 per cento in
più dell'anno scorso. Significa due morti ogni giorno e
ribalta le proiezioni del 2010, quando il ministero del
Lavoro parlava di calo ormai fisiologico.
Anche Massimo lavorava in cantiere. E proprio quella
mattina la sua Barbara gli aveva telefonato: "Amore,
sono arrivati i 1.400 euro di arretrati che aspettavamo
da più di un anno". Lui se li era quasi dimenticati. Era
così felice che dall'impalcatura gli sembrava di vedere
il tetto di casa, chissà dove, all'orizzonte. Aveva pure
pensato di farle un regalo con quel gruzzolo ormai
insperato. Un assegno di disoccupazione del 2009, giorni
di difficoltà e di stenti, che ormai sembravano acqua
passata grazie al nuovo lavoro. Già. Costruiva palazzine
nel cuore di Imola per la C.M. di Afragola, che aveva
ottenuto quella commessa in subappalto dalla Cesi, una
grande impresa della galassia Legacoop.
Gente seria, diceva, e soprattutto gente che paga: così,
a fine mese, lo stipendio era certo: 1500 euro per
pagarsi affitto, bollette e mantenere da solo la
famiglia. E invece no. Massimo è caduto da quell'impalcatura
pochi minuti dopo la telefonata. Un istante. "Mi hanno
telefonato e mi hanno detto che mancavano alcune
transenne di protezione: non so come si chiamino, ma un
qualcosa che si apre e si chiude come un cancelletto.
Era aperto", racconta la moglie Barbara. Le restano solo
le fotografie. Che raccontano la loro vita insieme. Lui
sempre al lavoro. Prima apprendista in una ditta di
trasformazione del vetro a Casal di Principe. Quando
partiva tutte le mattine da Afragola, alle porte di
Napoli, lasciandosi dietro tanti amici che, per sbarcare
la giornata, si fermavano invece nei rioni dominati dal
clan Moccia. È quando decidono di sposarsi che Massimo
sceglie di cambiare vita: secchio e cazzuola.
In quella zona almeno metà del Pil viene dalle
costruzioni e l'abilità dei maestri muratori dell'agro-aversano,
'e mast, è celebre in tutta Italia. Ma qui a Gomorra i
cantieri hanno un solo padrone: la camorra. Grandi
opere, assi viari e Alta Velocità: "A voi sembra facile.
Qui, per lavorare, dovevi conoscere qualcuno: o un
politico o peggio...", dice la mamma di Barbara. Stare
fuori da quel giro dei grandi appalti significa non
lavorare. E così, da 13 anni, Massimo se ne andava su e
giù per l'Italia. Partiva la domenica per ritornare il
venerdì, quando andava bene. Se c'era da fare, però, se
ne stava al Nord. Anche per un mese, senza tornare a
casa e vedere le figlie.
Tre anni fa avevano provato a seguirlo. S'erano
trasferiti a Ferrara ma, dopo nove mesi, la voglia di
tornare a casa era stata più forte. E a Massimo non era
rimasto altro da fare che il pendolare. Con il sogno di
guadagnare abbastanza per costruirsi una casa: "Avevamo
da poco acquistato un terreno, che ancora non abbiamo
finito di pagare", racconta Barbara. Gli incidenti sul
lavoro qui a Gomorra fanno più vittime della criminalità
organizzata. È la strage vera silenziosa. Negli ultimi
18 mesi sono morti nove operai edili dell'agro aversano.
Senza che nessuno si scandalizzasse, senza che nessun
telegiornale ne desse notizia e che nessun ministro
andasse a rendere conto in Parlamento. La causa di
queste morti spesso è la corsa al massimo ribasso negli
appalti. Ci sono sempre meno soldi e, se le materie
prime rincarano, si taglia sulla manodopera e sulla
sicurezza: caschi, cinture, teli protettivi e transenne.
Insomma, tutto ciò che ci sarebbe dovuto essere nel
cantiere di Imola dove è morto Massimo e su cui ora
l'inchiesta della magistratura farà chiarezza.
14 febbraio
Cile, indios
alla riscossa
Battaglia per la riconquista
delle terre vendute a privati. Le comunità indigene contro una catena di
alberghi
Tempi
duri per le comunità indigene dell'isola di Pasqua,
Cile. Gli indios che vivono sull'isola,
infatti, si stanno preparando per combattere una battaglia allo
scopo di recuperare terre che appartengono a loro fin dalla
notte dei tempi.
Questa volta lo scontro è con una catena di alberghi, e la
situazione prosegue ormai da diversi mesi.
I fatti. Nel 1966 lo Stato cileno consegnò a privati terre che a
tutti gli effetti erano terre di appartenenza indigena,
contravvenendo così a una legge che stabiliva che le terre non
potevano essere vendute a stranieri e a privati. Oggi le
comunità ne pagano le conseguenze.
Per questa ragione gli abitanti ancestrali di Rapa Nui
(il nome indigeno dell'isola di Pasqua) già a dicembre
hanno occupato i terreni dove si trova la struttura alberghiera,
scatenando la reazione degli agenti di polizia che hanno
caricato, ferito quattro giovani minorenni, arrestato
altrettante persone e sgomberato l'area.
Le
proteste indigene sono arrivate anche alla Comision
Interamericana de Derechos Humanos, secondo cui
l'azione avrebbe danneggiato i diritti umani della comunità
Mapuche. "Chiediamo l'immediato stop alle violenze e la garanzie
che gli agenti della polizia dello Stato non mettano a rischio
la vita o l'integrità fisica dei membri della comunità" dice il
comunicato diffuso dalla Comision.
La storia politica dell'isola di Pasqua, in ogni caso, è da
sempre piuttosto tormentata. Tutto ha avuto inizio nel lontano
1933 quando lo Stato cileno prese possesso
della totalità dell'isola. Solo il 13 per cento del territorio
venne lasciato alla comunità indigena, nonostante gli indios
rappresentassero già il 70 per cento della popolazione.
"Dispiace
vedere come lo stato centrale ha trattato gli indigeni. E' vero:
molte delle terre che sarebbero di proprietà dei Mapuche sono
state vendute a privati nel corso dei decenni. E' altrettanto
vero, però, che l'amministrazione cilena non si è comportata
bene con le comunità e ha trattato senza rispetto gli indios. Lo
stato non ha mai capito le popolazioni indigene le ha
criminalizzate senza capire le ragioni delle loro proteste e per
questo li ha trattati come delinquenti" dicono dall'Observadorio
Ciudadano.Nel frattempo la protesta continua. Le
comunità indigene sono pronte a difendere le loro tradizioni, i
loro diritti e la loro storia, indipendentemente dalle decisioni
che verranno prese nelle aule dei tribunali. Dunque, adesso la
parola, forse l'ultima parola, passa alla magistratura che dovrà
decidere se restituire le terre agli indios oppure fare in modo
che il progetto da 50 milioni di dollari della Sociedad
Hotelera Interamericana S.A. Potrà continuare.
11 febbraio
Guido Viale
L'Italia,
fabbrica cacciavite della Fiat
Nessuno
si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è
una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se
avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e
compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più)
avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo
niente di diverso da quello che accadrà.
Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e
se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere
molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e
poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese,
NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che
serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando
tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un
terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di
più. Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli
Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati
in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a
che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà
raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e
Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra
Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova
produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il
prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle
auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne
aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti
neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler
andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli
operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.
E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in
Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché
esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è
assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del
Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono
entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini
dell'obiettivo imposto da Obama.
L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di
Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e
ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti
e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori
quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a
esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano
Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e
trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi
perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...
Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e
tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a
Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni
indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler
e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia
per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli
stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la
concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori
stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati
al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che
ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in
affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione
sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli
operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei
rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri
manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori
perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi
competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo
«spezzatino» della Fiat.
Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno
aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito
agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza
nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero
stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e
dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti
hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla
Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e
opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo
libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo
garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum
avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di
lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti
gli interessati.
C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le
produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria
dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi
di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia
più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua
vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri
mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non
vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti,
meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme
condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire
in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di
tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in
servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una
fabbrica semiautomatizzata. Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle
spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di
un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella
competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri
spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco
Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e
innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani,
anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di
Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol
dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca,
istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi
elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per
informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza
diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria
etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi
- il baratro è alle porte.
Condannati per mafia,
estorsione ed usura nella lista nera delle candidature 45 politici
I primi dati dell'indagine avviata dalla commissione parlamentare antimafia,
che sta verificando il comportamento dei partiti alle ultime amministrative.
Dopo le comunicazioni delle prefetture sono emersi dati sorprendenti: coinvolte
tutte le maggiori formazioni politiche, soprattutto al centro sud
di SALVO PALAZZOLO
Alle ultime amministrative sono state candidati anche quattro indagati per
associazione mafiosa. Ventinove erano invece accusati di estorsione. Tre, di
usura. Due, di riciclaggio. Tre candidati erano sorvegliati speciali. E’ un
quadro poco edificante quello che emerge dall’ultima indagine condotta dalla
commissione parlamentare antimafia, che l’anno scorso varò un codice di
autoregolamentazione per partiti e liste.
In 45 sono risultati non in regola. Appartengono a tutte le formazioni
politiche. Due sono del Pdl, due del Pd, due dell’Udc, due dei Socialisti Uniti.
Tutti gli altri appartengono a liste civiche. E 8 sono stati eletti. Eccoli:
Giovanni Corigliano, dal marzo 2010 vice sindaco in quota lista civica del
Comune di Rocca di Neto (Crotone), aveva patteggiato nel 1999 una condanna per
riciclaggio e gli era stata concessa la sospensione condizionale della pena. La
prefettura di Crotone ha segnalato pure un altro provvedimento nei suoi
confronti, una misura di prevenzione di “avviso orale”.
Salvatore Caputo, dell’Mpa, è diventato consigliere comunale di Matera
nonostante una vecchia condanna definitiva per tentata estorsione, ma
formalmente il reato è stato dichiarato estinto dopo una richiesta
dell’interessato, così come prevede il codice di procedura penale nel caso di
condanne miti e di buon condotta.
Giuseppe Castoro, consigliere provinciale del Pd ad Enna, è stato destinatario
di un provvedimento di sorveglianza speciale da parte della magistratura. Il
consiglio provinciale di Enna, investito del caso, ha già bocciato la revoca
dell’elezione, dando ragione a Castoro, che ribadisce di essere stato poi
assolto in Cassazione.
Nella lista degli otto ci sono anche destinatari di provvedimenti non
definitivi:
il consigliere provinciale Angelo Brancaccio, eletto nella lista Udeur popolari
Mastella, è stato rinviato a giudizio per concorso in estorsione.
Vittorio Fiorentini, della lista civica “Per Artena”, è consigliere comunale di
Artena (Roma) nonostante un’accusa di concorso in estorsione, così ha comunicato
la prefettura di Roma.
Alfonso Riccitelli, consigliere comunale di una lista civica a Castello del
Matese (Caserta), già ex sindaco di quel centro, risulta alla prefettura di
Caserta come ancora coinvolto in un caso di usura.
Alessio Vanacore, consigliere comunale di Caivano (Napoli) per il Movimento per
l’autonomia, risulta avere avuto una misura di prevenzione della sorveglianza
speciale. La prefettura di Napoli ha comunicato che l’elezione di Vanacore è in
corso di verifica.
Nella lista degli otto c’è poi chi è stato eletto, ma revocato: Roberto Conte,
ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, eletto nella lista
Alleanza di popolo collegata al candidato presidente del Pdl Stefano Caldoro, è
stato condannato in primo grado a due anni e otto mesi per associazione
camorristica.
Fra i candidati non eletti che sono risultati con una condanna definitiva ci
sono invece: Francesco Bennici (lista Cittadinanza democratica Bellofiore
sindaco), di Gioia Tauro, imputato di tentata estorsione, che ha però
beneficiato della sospensione condizionale della pena; Nunzia Berardino, del Pdl,
di Andria (Barletta), condannata per concorso in usura; Antonio Caliò (lista
Decimo Lo Presti sindaco), ha patteggiato nel ’94 una condanna per tentata
estorsione e ha beneficiato della sospensione condizionale della pena; Giulio
Cesare Enea (lista Portella di Mare e Misilmeri), di Misilmeri (Palermo), nel
2004 ha patteggiato una condanna per estorsione e ha beneficiato della
sospensione condizionale della pena; Salvatore Iurato (Movimento Primavera
ispicese), di Ispica (Ragusa) ha avuto due condanne autonome per estorsione, per
una ha beneficiato della sospensione condizionale della pena; Roberto Levi
(Generazione Futura), di Arnesano (Lecce) ha avuto una condanna per concorso in
estorsione; Carmine Maggio (Socialisti legalità e trasparenza) di San Pietro
Vernotico (Brindisi), ha una vecchia sentenza per tentata estorsione, che risale
al 1962. Pure Andrea Magli, anche lui di San Pietro (lista Cittativa) risulta
avere una condanna per tentata estorsione dopo un patteggiamento che risale al
1998 (e una sospensione condizionale della pena).
Altri candidati non eletti che hanno avuto una condanna definitiva: Raffale
Nallo (lista Uniti per Fondi), di Fondi (Latina) risulta essere destinatario di
una condanna per estorsione; Luciano Perna (Rifondazione Comunista-Sinistra
Europea e Comunisti italiani), ha avuto una condanna per tentata estorsione
(pena sospesa); Alfredo Piscopo (La Destra), di Arzano (Napoli), per estorsione.
Antonio Cosimo Poci (lista Svolta sociale), di Mesagne (Brindisi) ha patteggiato
nel 1994 una condanna per associazione mafiosa e ha beneficiato della
sospensione condizionale della pena.
Mirko Roveto (Forum Democratico) di Bernalda (Matera), è stato condannato per
estorsione continuata (pena sospesa). Euprepio Scialpi (Pompilio Sud Libero) di
Manduria (Taranto), risulta condannato per estorsione. Massimo Scolamacchia
(Alternativa Comunista), candidato alla regione Puglia, ha patteggiato nel 1995
una condanna per estorsione (la pena è stata sospesa). Vito Tramontana (Lega
Lazio), di Fondi, condannato per estorsione. Giuseppe Zappalà (Pedaresi
Democratici liberi), di Pedara (Catania), condannato a “pena esigua”, così
segnala la prefettura, per “associazione finalizzata al traffico di illecito di
sostanze stupefacenti e psicotrope”.
Altri quattro candidati (delle province di Matera, Vibo Valentia e Napoli) sono
stati condannati in via definiva per estorsione, ma i loro nomi non sono
contenuti nella relazione dell’Antimafia, perché i giudici hanno disposto la
“non menzione” della condanna nel casellario giudiziario.
La lista della commissione prosegue con i candidati non eletti che sono
risultati avere una condanna non definitiva: Mirko Balsamo (Manfredonia -
Foggia), Giovanni Cagnetta (Altamura - Bari), Giuseppe Condello (Scillato -
Palermo), Natale D’Amico (Collesano - Palermo), Saverio Gioffrè (Regione
Calabria), Vincenzo Leva (Chieti), Raffaele Nocella (Minturno - Latina), Leandro
Oddi (Provincia de L’Aquila), Alfonso Riccitelli (Castello del Matese), Gaetano
Rubrichi (Uggiano la Chiesa - Lecce), Nicola Sconza (Regione Campania e
provincia di Salerno), Tommaso Signorelli (Regione Calabria).
"E' bastato poco alla commissione antimafia per evidenziare il rapporto mafia
politica alle ultime amministrative regionali", dice il senatore Giuseppe Lumia,
componente della commissione antimafia. "Sono stati rilevati 45 casi palesi, ma
i numeri potevano essere maggiori se tutte le prefetture avessero collaborato
apertamente. Alcune di esse, come la prefettura di Milano, si sono trincerate
dietro la privacy e non hanno fornito i dati. A questo punto bisogna capire se
dietro tale scelta scellerata ci sia stata qualche indicazione del ministero
dell'Interno e del governo, dato che ben 22 prefetture hanno utilizzato questo
escamotage". Lumia annuncia che l'indagine andrò avanti, "per scoprire i diversi
livelli di infiltrazione mafiosa legati alla parentela, ai prestanome, agli
uomini di fiducia, agli insospettabili, agli stessi casi che stanno venendo
fuori anche al Nord".
Costa d'Avorio, vicini al
collasso
Il nord nelle mani dei ribelli, il sud in quelle del golpista Gbagbo a capo
di un regime che sta portando il Paese verso il baratro
Il
cappio si sta stringendo e ormai l'economia ivoriana è anemica, lo stato è
prossimo al collasso. E' questo l'effetto principale del braccio di ferro che
dallo scorso 28 novembre oppone lil golpista Laurent Gbagbo ad Alassane Ouattara,
presidente riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale. E potrebbe
essere proprio il collasso economico a riuscire dove la minaccia delle armi ha
fallito.
Martedì 8 febbraio, un incendio ha devastato il secondo e il terzo piano del
palazzo della Banca centrale della Comunità economica dell'Africa occidentale (Ecowas),
distruggendo - dicono fonti locali - documenti importanti. Un episodio
inquietante sulle cui cause non ci sono risposte certe. Poche settimane fa,
militari fedeli a Gbagbo presero il controllo delle agenzie della banca. A
Dakar, però, dove c'è la sede centrale, cambiarono i codici elettronici delle
casseforti e a Gabgbo rimase poco. Se si uniscono i due episodi, si capisce
qualcosa di più. Il regime è sull'orlo del crack finanziario. L'Ecowas ha chiuso
il rubinetto del credito. Ouattara, poi, a fine gennaio ha invocato un blocco
delle importazioni di cacao ivoriano. Quello che era il principale propulsore
dell'economia del Paese, adesso non ha più mercato. Lo stesso vale per il caffè
e per il petrolio. Ferme le dogane, quasi inesistente il traffico portuale.
Secondo quanto riferito dall'ambasciatore americano, Phillip Carter, a Gbagbo è
rimasto solo il racket, chiedere il pizzo alle imprese, le poche rimaste e in
grado di lavorare. Il presidente ha perso i suoi asset bancari, a causa delle
sanzioni adottate a metà gennaio da Stati Uniti e Unione Europea, inizialmente
estese a 14 persone dell'inner circle presidenziale; adesso sono 91 le persone
colpite dai provvedimenti e 13 imprese. Anche il governatore ivoriano della Bc
dell'Ecowas, Philippe-Henry Dacoury Tabley, si è dovuto dimettere. Ha perso
anche metà del Paese, il nord, dove sono tornate padrone le Forces Nouvelles,
pro-Ouattara, proprio come al tempo della guerra civile del 2002. Il nord ha
bloccato i rifornimenti verso il sud del Paese, il quale a sua volta ha sospeso
il trasferimento del personale governativo: nella parte settentrionale della
Costa d'Avorio, tanto l'ordine pubblico che l'amministrazione della giustizia
sono tornate in mano ai ribelli. I sostenitori di Gbagbo vivono nella paura,
alcuni sono scappati in Guinea. Tanti invece gli ivoriani fuggiti in Liberia
dall'inizio della crisi, circa 30 mila.
Nel sud invece il padrone resta Gbagbo, signore del nulla. A gennaio non ha
pagato le pensioni né gli stipendi agli insegnanti. Gli unici che hanno visto
soldi sono i 55 mila agenti e militari che lo tengono in sella e gli oltre 100
mila funzionari o finzionari, perché in realtà il loro compito è quello di dare
credibilità a una finzione. La comunità internazionale sta strangolando lui e il
suo regime, come aveva anticipato diverse settimane fa il rappresentante in
Italia del presidente Ouattara, in un'intervista a Peacereporter. La diplomazia
africana, nel frattempo, ha collezionato fiaschi e fallimenti: fallita la
mediazione dell'Ecowas, che ha già pronti i piani per un intervento armato,
fallita anche quella dell'Unione Africana che ha chiesto in extremis un ultimo
tentativo, dopo il buco nell'acqua fatto dal premier keniota Rayla Odinga, tra
dicembre e gennaio. Un gruppo speciale di mediatori, composto dai presidenti di
Burkina Faso, Ciad, Mauritania, Sudafrica e Tanzania, sarà ad Abidjan si riunirà
il 20, per tentare un'ultima missione. Poi, dovrebbe a toccare alle armi.
Ma non è detto che ce ne sia bisogno: il presidente golpista ha bisogno di
100-150 milioni di dollari al mese per pagare l'apparato repressivo che lo
protegge. Soldi che non ha e che non riuscirà a mettere insieme. E senza denaro,
anche la lealtà dell'esercito si squaglierà velocemente. Proprio in questo senso
stanno lavorando gli Usa, il cui inviato sta cercando di incontrare i tre capi
degli apparati di sicurezza che contano: Dogbo Ble Brunot, della Guardia
repubblicana, l'ammiraglio Vagba Fraussignau e Guiai Bi Poin, comandante della
famigerata unità antisommossa della Gendarmeria, i Cecos. Se dovessero
sganciarsi, a Gbagbo non rimarrebbe che issare bandiera bianca, negoziando una
uscita di scena onorevole. Sempre che non cerchi la prova di forza.
Peacereporter ha già scritto che suoi emissari hanno riattivato un flusso d'armi
dall'Angola. Girano reports analoghi che raccontano di uno scambio armi contro
petrolio negoziato con la società parastatale dello Zimbabwe, Defence Industries.
Robert Mugabe è un suo sponsor, come l'angolano josé Eduardo Dos Santos e l'ugandese
Yoweri Museveni: tre campioni di democrazia. Anche il presidente del Sudafrica
Jacob Zuma si sta spendendo per lui e, casualmente, una nave sudafricana è stata
avvistata al largo della costa ivoriana, per portare rifornimenti. Lo dice il
presidente dell'Ecowas, il ghanese James Vicotr Gbeho. Pretoria smentisce.
Intanto, mentre il balletto della diplomazia e delle alleanze sotto banco
prosegue, il Paese si avvia al collasso.
Alberto Tundo
9 febbraio
Costantino Cossu
Sardegna, il disastro nel silenzio
La Sardegna paradiso delle vacanze? No, isola dei veleni: olio combustibile
nelle acque del Golfo dell'Asinara, radiazioni mortali nel poligono militare
di Quirra, ceneri cancerogene a Portovesme. E il 15 maggio un referendum
consultivo indetto dalla giunta regionale di centrodestra per stabilire se i
sardi vogliono o no che nella regione siano costruiti gli impianti nucleari
ai quali Berlusconi e il suo governo vorrebbero dare il via.
L'emergenza più evidente è quella del Golfo dell'Asinara. L'11 gennaio s'è
rotto un tubo di drenaggio della centrale per la produzione di energia che
la E.On (gruppo spagnolo) possiede a Porto Torres e 15 mila litri di olio
combustibile si sono riversati in mare. A Sassari la procura della
Repubblica ha aperto un'inchiesta, ma al momento non risultano indagati. La
capitaneria di porto ha proclamato lo stato di emergenza che, a distanza di
quasi un mese dall'incidente, è ancora in corso. La E.On ha ammesso le sue
responsabilità e ha fatto partire un piano di bonifica sul litorale che va
da Porto Torres a Santa Teresa di Gallura: in pratica tutta la costa nord
della Sardegna, quella che si affaccia sulle Bocche di Bonifacio. I danni
all'ambiente sono ingenti, un disastro vero e proprio. Spiagge che durante i
mesi estivi accolgono decine di migliaia di turisti sono state ricoperte di
catrame e i pescherecci hanno dovuto ridurre drasticamente la loro attività
perché nessuno vuole più comprare il pesce pescato nel Golfo dell'Asinara.
La protesta, a Porto Torres, è partita spontanea. È nato un comitato che ha
già organizzato diverse manifestazioni di piazza per chiedere che siano
accertate tutte le responsabilità e che la E.On sia chiamata a risarcire il
danno. Le associazioni ecologiste Gruppo d'intervento giuridico e Amici
della Terra hanno chiesto al ministero dell'Ambiente, alla Regione Sardegna,
alla provincia di Sassari, al Parco nazionale dell'Asinara e ai comuni
costieri interessati (Porto Torres e Sorso) di mobilitarsi contro la
multinazionale spagnola. «Si tratta - dicono gli ambientalisti - di una
situazione grave, e stupisce l'assenza di notizie riguardo ai necessari
provvedimenti di ripristino e di risarcimento dei danni che, sulla base del
Codice dell'ambiente, il ministero e le amministrazioni pubbliche devono
adottare in casi simili».
La risposta del titolare del dicastero dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo,
è stata sconcertante: «L'incidente di Porto Torres a oggi si può dire
sostanzialmente risolto senza che, allo stato delle conoscenze, si possa
parlare di disastro ambientale». «Dalle verifiche dell'Istituto superiore
per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) - ha detto Prestigiacomo -
non risultano più presenti, sui litorali ispezionabili da terra, grumi di
olio combustibile solidificato». E ha aggiunto: «È in corso da parte dell'Ispra
una valutazione del danno ambientale». Insomma: danno forse sì, disastro
sicuramente no. E le due cose, dal punto di vista delle responsabilità
civili e penali di E.On, sono sostanzialmente diverse.
Al ministro ha risposto il presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli:
«Ciò che è successo a Porto Torres è un disastro ambientale a tutti gli
effetti, e di una gravità inaudita». Gli ha fatto eco Paolo Fresu, il
trombettista jazz di fama mondiale originario del nord della Sardegna, che
su Youtube ha lanciato un appello per salvare dalla marea nera le coste del
Golfo dell'Asinara.
Il video di Fresu è stato girato grazie alla collaborazione di alcuni
volontari di Amnesty International. «Sono profondamente preoccupato ed
esterrefatto - dice Fresu nell'appello - Preoccupato per il territorio, per
la Sardegna, per le coste bellissime. Ma sono anche molto offeso e
arrabbiato, come credo molti, per il fatto che non si sta parlando
assolutamente di questo problema. E ciò significa ancora una volta (com'è
stato per la rivolta dei pastori e per molte altre cose) che la Sardegna è
un posto dimenticato dall'impero. A Porto Torres esiste un problema
ecologico gravissimo».
Altro caso di cui nessuno parla è quello della base militare di Quirra, dove
persone e animali continuano ad ammalarsi di tumore secondo medie pazzesche,
molto al di sopra di quelle nazionali. Dopo che le Asl di Cagliari e di
Lanusei hanno diffuso le cifre al termine di un monitoraggio sul campo, è
scoppiata la polemica e la procura della Repubblica di Lanusei ha aperto
un'inchiesta ipotizzando il reato di omicidio plurimo. I magistrati vogliono
vederci chiaro e l'avvio dell'indagine potrebbe preludere a una svolta
clamorosa di una vicenda che da anni preoccupa le popolazioni che vivono a
ridosso della base interforze. Secondo le analisi delle Asl di Cagliari e di
Lanusei, il 65 per cento dei pastori della zona si è ammalato di leucemia e
molti agnelli sono nati deformi. Di qui la richiesta di associazioni
ambientaliste e antimilitariste e dell'opposizione di centrosinistra - sia a
livello regionale sia nazionale - di chiudere il Poligono. Ultima
iniziativa, una mozione del Partito democratico presentata alla Camera e al
Senato. Sulle cause dei tumori, l'ipotesi è che siano provocati dall'uso di
sostanze radioattive contenute nelle munizioni utilizzate durante le
esercitazioni che si svolgono nel poligono.
Infine, i fumi di acciaieria radioattivi a Portovesme. La scorsa settimana
in due container bloccati nello stabilimento della Portovesme srl
(un'azienda che produce manufatti di piombo r di zinco) sono state trovate
ceneri, arrivate in Sardegna con un Tir dall'Alfa Acciai di Brescia,
contenenti Cesio 137, un elemento radioattivo, in quantità nettamente
superiore alla soglia consentita: fra i sei e i sette becquerel per grammo,
mentre il limite di sicurezza è di un becquerel per grammo. La magistratura
ha sequestrato i container e ha disposto il loro ritorno a Brescia.
L'ambiente, alla fine, come il lavoro: una variabile dipendente
(mortificabile sino al degrado estremo) di attività economiche e militari
sottratte a qualsiasi responsabilità collettiva.
Francesco Paternò
Il traslocone Fiat
Per un manager abituato ad avere una sola parola come Sergio Marchionne,
deve essere stata dura passare da una Fiat-Chrysler «sola entità con sede
qui in America» quale ipotesi di lavoro, a oggetto di smentita telefonica:
nessuna localizzazione, «né per l'oggi né per il domani», delle funzioni
direzionali e progettuali di Fiat all'estero, assicura una nota del
ministero delle politiche sociali.
L'amministratore delegato della Fiat ha scatenato un putiferio con le sue
dichiarazioni sul futuro del gruppo, sostenendo a San Francisco in una
tavola rotonda con degli analisti una cosa di fatto contenuta nel suo piano
industriale, che prevede lo spostamento oltreatlantico del baricentro del
gruppo. In una telefonata fra il manager e il ministro Sacconi, il tentativo
di mettere la marcia indietro non è riuscito granché. E in un'altra
affannata telefonata, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, lasciato solo
a difendere le scelte della Fiat dalle parole di Marchionne al punto di
definirle «inaccettabili», è stato così rassicurato dal presidente del
gruppo John Elkann: «Mi ha spiegato che la strategia della Fiat prevede
l'integrazione con Chrysler e che ci saranno più centri direzionali nelle
aree dove c'è una forte presenza di mercato: una a Torino per l'Europa, una
Detroit per gli Usa, una in Brasile e se possibile una in Asia». Cosa già
nota e che non smentisce «la sola entità con sede qui» di Marchionne, perché
è ovvio che ogni macroarea ha bisogno di un centro direzionale in loco.
Entro
dieci-quindici giorni, i vertici della Fiat incontreranno comunque le
istituzioni locali. Nel frattempo è silenzio quasi tombale da parte degli
altri sostenitori del piano Marchionne,
newco per Mirafiori e Pomigliano incluse. Il segretario della
Cisl Raffaele Bonanni tace per lasciare spazio a una nota scritta: «Le
dichiarazioni rilasciate dall'ad Marchionne su un ipotetico trasferimento
della sede strategica di Fiat Chrysler negli Stati Uniti nei prossimi anni
hanno necessità di essere chiarite nella loro effettiva valenza, prima
ancora di ogni giudizio di merito».
«E' tempo di fare una discussione di politica industriale, il governo doveva
chiedere delle garanzie a Fiat», dice Susanna Camusso, segretario generale
della Cgil, che chiede al governo di convocare Marchionne. «Non possiamo che
continuare a chiedere che il governo faccia una volta tanto il suo
mestiere».
Più lineare Maurizio Landini, segretario della Fiom: «Si confermano le
nostre preoccupazioni, ora si capisce il perché Fiat non voglia discutere
con nessuno in Italia il piano industriale. Il rischio concreto è che si
vada progressivamente verso un depotenziamento della produzione e della
progettazione dell'auto nel nostro Paese». Secondo la Fiom, «si conferma la
complicità del governo italiano, unico al mondo a non occuparsi di politica
industriale. Gli altri sindacati dovrebbero tornare a fare i sindacati
invece di limitarsi a subire i ricatti Fiat e aderire ai diktat di
Marchionne».
«Sono stato ministro anche io - ha detto il segretario del pd Pierluigi
Bersani - chiamerei Marchionne e gli direi: 'dopo averci spiegato come si
organizzano i turni e le pause, vuoi dirci cosa succede sulle prospettive
con la Chrysler?'. Non vorrei che per i 150 anni dell'unità d'Italia, il
regalo per Torino e l'Italia sia quello di diventare la periferia di
Detroit. Perché noi non siamo mica d'accordo. Vogliamo risposte sugli
investimenti». Anche per l'Italia dei Valori di Di Pietro l'ipotesi
prefigura «una gravissima operazione di depauperamento industriale per il
nostro Paese. La Fiat continua a vivere di denaro pubblico e risorse
finanziarie italiane, ma a differenza del passato, li sta utilizzando per
spostare la testa dell'azienda in Usa e la produzione nei paesi low cost».
Honduras,
Lobo alla corte dell'Oea Nonostante i crimini di Stato calpestino ogni giorno
i diritti umani degli oppositori honduregni, il presidente presenta una facciata
curata e rispettabile nel tentativo di tornare a sedere all'assise degli Stati
Americani
Il
4 luglio 2009, l'
Assemblea generale dell'Organizzazione degli stati
americani (Oea)
sospese l'Honduras per aver violato
l'articolo 21 della Carta democratica interamericana che
prevede, appunto, la sospensione, quando ci sono le prove della
rottura dell'ordine democratico in uno Stato membro e dopo il fallimento
di ogni mediazione diplomatica. Da quel giorno di un anno e mezzo fa, poco o
niente è cambiato in Honduras. Le
elezioni, che nel novembre hanno portato alla presidenza
Porfirio Lobo,
sono state organizzate dai
golpisti e boicottate da
tutti i partiti democratici e da oltre la metà dei votanti, riuniti nel
Fronte contro il colpo di stato; e la repressione statale contro ogni forma
di opposizione resta spietata, tanto che la sparizione e l'omicidio di
personalità di primo piano piano della resistenza sono all'ordine del
giorno. Eppure, i tentativi di
Lobo di presentare un paese
rinato e con tutti i crismi della democrazia stanno raccogliendo alcuni
frutti e il suo negare in modo spavaldo i continui
crimini di Stato denunciati da numerose
associazioni in difesa dei diritti umani
suona provocatorio.
Coadiuvato dalle potenze economiche che hanno
orchestrato il golpe da dietro le quinte, il presidente sta portando avanti
un tenace lavoro diplomatico,
riuscendo a scalfire le resistenze di molti. Ma non di tutti. È risaputo che
l'Unasur,
Unione sudamericana dell'America del sud, non ha creduto a una sola parola
di Lobo e ha negato categoricamente che
Teguciglapa
possa in queste condizioni di repressione e violazione continua dei diritti
umani tornare e sedersi nell'importante assise. Da qui l'insistente
corteggiamento dell'Oea,
dove l'influenza degli Stati Uniti potrebbe giocare a suo favore.
"Abbiamo già fatto tutto quello che era in
nostro potere - ha dichiarato Lobo in un'intervista esclusiva rilasciata a
TeleSur - C'è una questione giudiziaria ancora da risolvere e non posso
farci niente. Solo aspettare. Stiamo comunque facendo enormi passi avanti in
questo processo. Abbiamo ristabilito
relazioni con quasi tutti i paesi.
Restano soltanto alcuni amici del popolo honduregno restii a dare al paese
lo spazio che merita. Ma saremo pazienti. E male che vada aspetteremo
le elezioni del 2013
che normalizzeranno ogni rapporto". Nessuna intenzione, pare, di imporre uno
stato di diritto serio che
rispetti ogni opposizione e
assicuri giustizia e libertà di opinione. Anzi, Lobo sarà certamente
ricordato come il presidente
dell'amnistia per i responsabili del golpe.
Che giustifica dicendo: "L'importante è perdonare tutti. Qui non ci sono
innocenti. Qui nessuno è innocente", mettendo sullo stesso piano aguzzini e
vittime.
"L'ex presidente
Zelaya
- ha proseguito Lobo - avrebbe voluto restare al potere molto più a lungo
del periodo per il quale era stato eletto, violentando il suo
contratto sociale
con il popolo honduregno. Quindi, la
crisi
che si è prodotta non fu perché Zelaya era un povero presidente innocente.
No. Egli voleva restare al potere e io questo lo denunciai già nel 2007. Per
questo è nato il conflitto". Un conflitto, a quanto sostiene Lobo, tutto
improntato su presunte intenzioni di Zelaya che però è sfociato in
un colpo di Stato militare
e in una violenta dittatura che ancora regge le redini del potere.
Stella Spinelli
Così strozzano la magistratura
di Emiliano Fittipaldi
Raccomandazioni a iosa.
Concorsi illegittimi. Promozioni politiche. Familismo esasperato. E
pressioni della massoneria... Un giudice del Tar denuncia, con nomi e
cognomi, i comitati d'affari del sistema giustizia
Alessio
Liberati
Alessio
Liberati è stanco di combattere. Ma ha giurato di non mollare, e con questa
intervista sembra volerlo dimostrare a tutti. Per cominciare ai suoi nemici,
che ormai sono davvero tanti. Liberati fa il magistrato da dodici anni.
Prima in terra di 'ndrangheta, a Locri, dove faceva il giudice penale, poi
alla Corte d'appello di Catania. "Oggi lavoro al Tar Toscana, e da due anni
sono impegnato nella politica sindacale interna. Ne ho viste di tutti i
colori, ho denunciato fatti assai strani agli organi preposti, ma non mi
hanno dato ascolto. Allora faccio quello che non ho mai fatto prima: parlare
con un giornale". Ora ha deciso di metterci la faccia.
Prima ha fondato l'Ami, una nuova associazione che coinvolge, tutti insieme,
giudici, pm, magistrati amministrativi e contabili. Ora a "L'espresso" fa
una lunga lista di nomi e cognomi, di storture e scorrettezze che, dice,
"stanno minando la credibilità dei massimi organi della giustizia
amministrativa. Consiglio di Stato in testa". E che pochi vogliono vedere.
La battaglia del magistrato inizia nel 2007, quando viene bocciato al
concorso per passare dal Tar al Consiglio di Stato: "Ponevo dei dubbi sui
titoli di uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, che a mio parere non aveva
i requisiti per partecipare al bando. Più una serie di gravi errori
procedurali. Ho fatto ricorso, e così è cominciato il mio inferno".
Naturalmente si è pensato che avesse vestito i panni del Torquemada solo per
ripicca, per vendetta. Ma lui replica così: "Pochi giorni fa è uscita la
sentenza del Tar. Che su Giovagnoli non è entrata nel merito, ma ha
dichiarato che il concorso è di fatto illegittimo". Il concorso
"illegittimo", però, non è stato annullato, e Liberati ha avuto un
risarcimento beffa: mille euro. "Ora la palla passa alla presidenza del
Consiglio, che potrebbe intervenire facendo chiarezza sul più importante
concorso della giustizia amministrativa. Ma da palazzo Chigi tutto tace.
Sarà una coincidenza, ma dopo il ricorso comincia per Liberati una lunga via
Crucis. Da accusatore ad accusato. Azioni disciplinari e pressioni non si
contano: "Il nostro organo di controllo ha disposto il monitoraggio di tutte
le e-mail in cui denunciavo fatti gravi per verificare se siano lesive del
prestigio della categoria. L'ex presidente del Consiglio di Stato Paolo
Salvatore ha aperto un procedimento disciplinare contro di me".
I rimproveri, chiamiamoli così, sono tanti: "In primis mi dicono di aver
diffuso un verbale non pubblico nel quale un mio collega poneva dubbi sul
caso Giovagnoli. Poi sostengono che abbia diffamato e irriso Carmine Volpe,
un magistrato che ha chiesto un'invalidità di servizio per una patologia
alla schiena".
La storia merita di essere ascoltata. E Liberati la racconta così: "Secondo
Volpe, l'ernia gli era venuta perché alzava fascicoli troppo pesanti sul
lavoro. L'invalidità inizialmente gli è stata negata, poi lui ha fatto
ricorso al Tar che gli ha dato ragione. Io, in un dibattito pubblicato on
line su una mailing list dedicata ai giudici amministrativi, mi sono
"complimentato" con lui. Visto che avevo scoperto che nel frattempo aveva
corso una frazione, tre chilometri, di una maratona di beneficenza". Chissà
se si tratta dello stesso Carmine Volpe che qualche tempo fa ha fatto di
meglio, chiudendo la mezza maratona Roma-Ostia, 21 chilometri, in un'ora e
44 minuti. "C'è stata anche un'interrogazione parlamentare, ma il governo
non ha mai risposto. Il paradosso è che mentre io sono sotto inchiesta per
aver denunciato i rischi della giurisdizione domestica (cause di giudici che
possono essere decise da colleghi che lavorano nella porta a fianco), Volpe
è entrato a far parte dello staff del ministro Raffaele Fitto ed è stato
promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato".
La terza accusa, così come la racconta Liberati, suona paradossale. Il
magistrato ha ricevuto una lettera anonima sulla sua scrivania che parlava,
letteralmente, di sentenze truccate, giudici indagati, arbitrati usati come
ricompensa e raccomandazioni: "I fatti erano specifici, e ho mandato la
missiva al Consiglio di presidenza per eventuali accertamenti. Loro non
hanno fatto nessuna istruttoria, ma hanno aperto una pratica disciplinare
contro di me. Dicendo che, spedendola acriticamente, ho fatto implicitamente
mie le accuse dell'anonimo".
Torna
l'accusa di fondo: la sua campagna è mossa dall'invidia perché ha perso il
concorso, sostengono i suoi detrattori. Ai quali risponde: "Legittimo
pensarlo, per carità. È vero, è andata male, anche se ero primo per titoli.
Ma non ce l'ho con nessuno. Chiedo solo trasparenza e chiarezza per uno dei
concorsi pubblici più importanti del Paese, per il massimo organo della
giustizia amministrativa. Ricordo che sono consiglieri personalità come il
ministro Franco Frattini, Antonio Catricalà, Nicolò Pollari".
E allora, visto che c'è, Liberati ne racconta un'altra ancora, quella sul
cosiddetto concorso delle mogli: "Qualche tempo fa due colleghi, Vincenzo
Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti, e Salvatore Mezzacapo hanno
partecipato alle nomine della commissione del concorso al Tar a cui
partecipavano le rispettive consorti. Sarebbe stato opportuno che i due si
astenessero dalle pratiche, e invece hanno partecipato anche alla votazione
con cui fu nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato Pasquale De
Lise, presidente della commissione di quel concorso. Le mogli hanno
vinto...". Non si tratta di fatti e comportamenti difficili da accertare,
eppure tutto tace.
De Lise l'anno scorso è diventato presidente al posto di Salvatore. Entrambi
sono finiti nel mirino di Liberati, che ne ha pagato il fio. Oltre le tre
azioni disciplinari in corso, infatti, contro il giudice rompiscatole ne
sono state aperte altre, però rimaste, per sua fortuna, solo sulla carta.
Ecco com'è andata.
"Notai che il nome e la corrispondente data di nascita del presidente di
un'associazione dei magistrati di Palazzo Spada, Filoreto D'Agostino
figurava in un elenco di massoni pubblicato da un sito Web. Ho chiesto così
di verificare l'eventuale iscrizione di magistrati alle logge (come si sa,
il vincolo di obbedienza che si deve ai "fratelli" è incompatibile con
incarichi in magistratura). Anche in questo caso, fatti non difficili da
accertare, ma non è successo niente, anzi hanno aperto un'istruttoria contro
di me, dicendo che la lettera poteva essere lesiva dell'onore della
categoria".
Ancora: "Un'altra pratica è stata intentata quando mi accusarono di aver
offeso Salvatore e De Lise su Internet. Non so di cosa si trattasse, visto
che lo stesso De Lise mi negò l'accesso agli atti. Certo, ho ricordato,
nella solita mailing list per addetti ai lavori, che Salvatore è stato
indagato nel 2008 per concorso in corruzione in atti giudiziari e abuso
d'ufficio. E ho pubblicato le intercettazioni della cricca che riguardavano
De Lise. Ma non ho offeso proprio nessuno". Poi non se n'è fatto niente. Nel
frattempo esplodeva l'inchiesta su Angelo Balducci e la Protezione civile, e
spuntavano i nomi dell'ex presidente del Tar Lombardia Pier Maria Piacentini
e dei giudici contabili Antonello Colosimo e Mario Sancetta.
Ormai fedele al suo ruolo, Liberati ha aperto un ennesimo fronte, stavolta
con altri magistrati: gli incarichi esterni ("Un consigliere prende in media
130 mila euro lordi l'anno, ma alcuni vi aggiungono lavori extra da decine
di migliaia di euro che non sarebbero rimborsabili"), l'assenza di
trasparenza, gli arretrati pazzeschi della giustizia amministrativa. E
sempre con nomi e cognomi.
Accuse fondate? Non dovrebbe essere difficile verificarlo. Intanto però
Liberati si sente deluso: " Sto pensando di andare a lavorare all'estero. Ma
vada come vada, non potrò esimermi dal fornire alle procure competenti gli
elementi che, per difendermi, ho raccolto sui rapporti tra magistrati
amministrativi, comitati d'affari, politica e massoneria. Non è coraggio, è
la mia coscienza che me lo impone".
2 febbraio
Norma Rangeri
Conigli elettorali
Al
voto! Al voto! Massimo D'Alema ci ripensa, manda in soffitta il governo di unità
nazionale e lancia, su Repubblica, il coniglio elettorale mentre sui giornali
vortica la girandola dei meccanismi istituzionali per aprire le urne
antiberlusconiane. Anche a dispetto di Berlusconi medesimo, per nulla
intenzionato a lasciare palazzo Chigi. Nello stesso momento il presidente del
consiglio recapita una lettera al Corriere della Sera per proporre al segretario
del Pd di «agire insieme in parlamento per discutere un grande piano bipartisan
per la crescita economica», a partire dall'abrogazione dell'articoli 41 della
Costituzione, cioè eliminando dalla Carta ogni vincolo di responsabilità sociale
dell'impresa così da rendere "costituzionale" quel che Marchionne ha già messo
in pratica alla Fiat. Non che nel Pd non ci siano orecchie sensibili, ma non
ancora prevalenti, e comunque il no immediato di Bersani è bastato a cancellare
l'offerta firmata da Berlusconi, scritta chissà da chi.
Più verosimilmente a stabilire se e quando andare al voto lo deciderà la Lega,
magari giovedì prossimo, se non otterrà il via libera al federalismo comunale.
Lo ha ripetuto il ministro dell'interno Maroni (uno che alle elezioni ci può
portare davvero). Al punto da sostenere che «teoricamente il presidente della
repubblica potrebbe essere costretto a esercitare le sue prerogative», anche
senza le dimissioni del capo del governo. Ipotesi del terzo tipo, ma l'accesa
discussione tra i costituzionalisti, sulla praticabilità di elezioni indette dal
capo dello stato contro il parere del capo del governo, misura l'avvitamento
della crisi dopo lo scandalo della prostituzione di stato.
Berlusconi e D'Alema farebbero meglio a occuparsi di quel che gli compete, l'uno
del governo del paese (se ci riesce, eventualità piuttosto improbabile) e
l'altro di una strategia dell'opposizione parlamentare (diversa dall'autogol
delle sfiducie mancate). In realtà Berlusconi è troppo impegnato a difendersi
dalla magistratura e il partito di D'Alema ad allestire i gazebo per le firme
contro il capo del governo, senza mai trovare il tempo («se non ora quando?») di
spiegare agli elettori come sia stato possibile al berlusconismo riuscire
nell'impresa di cambiare i connotati al paese con la sinistra più forte
d'Europa.
Se la profferta berlusconiana a Bersani è solo una trovata disperata e un po'
ridicola, la falange elettorale di D'Alema è il classico ballon d'essai sparato
nell'asfittico perimetro del Palazzo per sondarne l'effetto. Che è sempre lo
stesso: un sì dell'alleato prediletto (Casini), un no dei due partiti di
opposizione (Di Pietro e Vendola) con i quali invece sarebbe ora di discutere
come organizzare un menu alternativo.
La riesumazione dalemiana di volti e culture della prima repubblica, svuotata
persino della difesa della Costituzione, non riempirà le urne. Oltretutto senza
neppure lo straccio di un nome da spendere per frenare la valanga astensionista.
Anzi, lavorando sodo per demolire l'unico leader in campo nella sinistra. Perché
è vero che la leadership non sarà il primo dei problemi, ma chi sarebbe allora
il nostro ElBaradei?
APPALTI E CORRUZIONE Tutti gli affari
della famiglia Bertolaso consulenze d'oro a moglie e cognato
Da un'informativa dl Ros nuovi dettagli sui rapporti fra l'ex capo della
Protezione civile e il sistema Anemone-Balducci. Dall'analisi degli estratti
conto della moglie e del fratello della donna emerge un ritorno economico del
quale hanno goduto grazie ai legami con società del costruttore e con la grande
committenza pubblica
dal nostro inviato CARLO BONINI
Guido Bertolaso
PERUGIA
- Un'informativa del Ros dei carabinieri di Firenze del 13 novembre 2010
svela nuovi, cruciali dettagli sui rapporti tra l'ex capo della Protezione
Civile Guido Bertolaso e il Sistema Anemone-Balducci. Le 15 pagine del rapporto
- contenute nei sessanta faldoni di atti istruttori depositati dalla Procura di
Perugia a conclusione delle indagini preliminari sui Grandi Appalti (G8 della
Maddalena, Grandi Eventi, Celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia) -
documentano attraverso l'analisi degli estratti conto bancari di Gloria
Piermarini, moglie di Bertolaso, e di suo fratello Francesco Piermarini, il
"ritorno" economico di cui entrambi, nel tempo, hanno goduto nei loro rapporti
ora con società riconducibili al cartello di Anemone, ora con la grande
committenza pubblica.
I BONIFICI PER LADY BERTOLASO
"La signora Gloria Piermarini - annotano i carabinieri - è titolare del conto
corrente (...) presso la filiale Bnl di Roma (...) e già dall'esame
dell'estratto possono essere rilevate operazioni di interesse investigativo".
Almeno quattro, tra l'ottobre del 2004 e l'aprile del 2007, per un totale di
oltre 100mila euro. "Il 15 ottobre 2004, 25.650 euro da "Italferr spa". Il 30
maggio 2005, 27.750 ancora da "Italferr". Il 22 settembre 2006, 36.400 euro
dalla "Sac", Società appalti costruzioni di Emiliano Cerasi. Il 5 aprile 2007,
24.750 euro dalla "Redim" del Gruppo Anemone". Delle quattro operazioni, una
sola era sin qui nota (e per altro era stata a suo tempo "giustificata" dallo
stesso Guido Bertolaso): i 24mila euro ricevuti da Anemone nell'aprile 2007. La
signora, infatti, di mestiere è paesaggista e quel bonifico, segnala il Ros,
"risulta corrisposto dal Gruppo Anemone quale compenso per la progettazione
preliminare relativa alla sistemazione degli spazi verdi e dei parcheggi del
Centro "Salaria Sport Village"".
LA COINCIDENZA CON LE GRANDI OPERE
Più difficile, a quanto pare, trovare una ragione per le altre tre operazioni.
Dagli estratti conto non emergono infatti "giustificativi" intelligibili per
spiegare gli oltre 50 mila euro ricevuti dalla signora da una società del Gruppo
Ferrovie dello Stato. Ma, soprattutto, agli occhi degli inquirenti, appare
significativo il compenso ottenuto dalla "Sac".
La "Società appalti costruzioni" di Emiliano Cerasi non è infatti un'azienda
qualunque. Scrive il Ros: "Il 25 maggio del 2007, la "Sac" figura in
associazione temporanea di imprese con il "Conscoop Consorzio Cooperative
Forlì", cui aderisce la cooperativa "L'Internazionale Coop" di Altamura (Bari),
riferibile all'imprenditore Vito Matteo Barozzi, in stretti rapporti le imprese
del gruppo Anenome. E questo gruppo di imprese si aggiudica i lavori di restauro
del teatro Petruzzelli di Bari per l'importo di 24 milioni 303mila 812 euro".
Ebbene, "in quell'appalto, Angelo Balducci, su proposta dell'allora Capo del
dipartimento della Protezione civile Guido Bertolaso, è stato nominato
Commissario delegato alla ricostruzione del Teatro di Bari". Né Bari, sembra un
caso. "Il 28 dicembre 2007 - annotano ancora i carabinieri - la "Sac", in
associazione temporanea di imprese con la "Igit spa", riferibile
all'imprenditore Bruno Noni, in stretti rapporti con Diego Anemone, si aggiudica
i lavori di realizzazione del Nuovo Teatro di Firenze (parte del programma di
Celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia) per un importo di 69 milioni e
820 mila euro". E, guarda caso, "entrambe le gare di appalto (Bari e Firenze)
hanno uno stesso presidente di gara: Salvo Nastasi", direttore generale del
ministero dei Beni Culturali ed intimo di Guido Bertolaso.
IL COGNATO DAI FILM ALLE CASERME DEL SISDE
Più di una sorpresa arriva anche dall'analisi degli estratti conto di Francesco
Piermarini, il cognato di Guido Bertolaso. Il professionista di 52 anni, cui
molti si riferiscono come ingegnere (ma che da una verifica del Ros ingegnere
non risulta essere), fino all'aprile del 2004, attraverso la società "Le Grand
Bleu", sembra occuparsi di produzioni cinematografiche. Sappiamo già - e
l'informativa del Ros lo documenta - che l'avventura si limita a una sola
pellicola - "Il Servo ungherese" - finanziata con il sostegno dei Beni Culturali
e sostenuta dalla "Medusa" del Gruppo Fininvest: "Il 24 settembre 2003 risulta a
favore di Piermarini Francesco su conto Bnl (...) un bonifico di 120mila euro
per "diritti film". Il 25 novembre dello stesso anno, un bonifico di 50mila
euro, "per anticipo fattura"". E sappiamo anche che Francesco Piermarini
lavorerà nei cantieri del G8 della Maddalena.
Quel che non sapevamo e che scoprono il Ros e la Guardia di Finanza è che, nel
2005, il cognato del potente capo della Protezione civile viene tirato dentro da
Diego Anemone (con cui i rapporti sono di tale familiarità che, nel 2009, da lui
acquista una Bmw usata) nei lavori di ristrutturazione della ex caserma Zignani,
individuata dal Sisde come nuova sede del suo reparto "Roc". "Il 26 ottobre 2005
- annota infatti il Ros - la "Anemone Costruzioni" incarica con apposita lettera
di conferimento di incarico professionale, Francesco Piermarini di provvedere
alla "supervisione e revisione della contabilità" dei lavori di ristrutturazione
della Caserma Zignani per un compenso convenuto di 35mila euro, corrisposto, a
fronte di fattura, con due assegni bancari, di 12mila e 23mila 920".
PRESTAZIONI NON DOCUMENTATE
Sembra tutto regolare. Sembra. Perché - si legge ancora nell'informativa - di
fronte alle spiegazioni sul lavoro svolto offerte dal cognato di Bertolaso ("Mi
sono adoperato a contattare vari istituti di credito per reperire le migliori
condizioni per l'eventuale finanziamento delle commessa"), la conclusione
investigativa suona tranchant: "Le prestazioni rese da Piermarini non appaiono
idoneamente documentate".
Al contrario della sua consulenza fiorita, tra il 2008 e il 2009, all'ombra di
una delle tante emergenze italiane: 67mila euro (anche questa sin qui ignota)
per lavorare con il "Commissario Delegato per l'emergenza nella Laguna di Marano
Lagunare e Grado" (Friuli). Un'avventura in cui figura anche (ma forse è solo
una coincidenza), anche Gianfranco Mascazzini, quale presidente del Comitato
Scientifico di supporto al Commissario delegato. Quello stesso Mascazzini
arrestato nei giorni scorsi a Napoli nell'ultima inchiesta sulla monnezza
napoletana.
La Fiom c'è. E chiede lo
sciopero generale
Milano,
decine di migliaia sfilano e applaudono il segretario Landini quando chiede lo
sciopero generale. In tutta Italia, secondo il sindacato, adesioni oltre il 70
per cento. Per Federmeccanica solo il 18
Classe operaia. Un corteo imponente rosso per le strade di Milano e per quelle
delle principali città di tutta Italia. La Fiom c'è e lo ha dimostrato con un
successo convincente, dopo gli esiti del referendum sull'accordo di Fiat
Mirafiori, con l'importanza del messaggio segnato dai no, se pur minoritari. Il
segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini, stringe
mani, scatta foto, marcia dietro lo striscione di apertura. Milano è il palco
scelto per lanciare alla Cgil l'invito a osare, a proclamare lo sciopero
generale.
I fischietti saturano i timpani, i furgoni lanciano dai loro megafoni le
consegne di questa manifestazione, nel giorno dello sciopero generale di otto
ore. Contro Marchionne, ma soprattutto a difesa del contratto nazionale. Perché
Fiat è l'apripista e l'effetto domino è già nelle notizie sparse che si
raccolgono capillarmente, nel governo tifoso e mai terzo rispetto alle rapide
sterzate impresse dal dirigente italo-canadese a un sistema che vanta radici
profonde.
Lavoratori, tanti. Giovani, studenti, pensionati. Altre categorie che si
sono unite nel giorno della protesta, che è una dimostrazione di forza, di
energia e - presto per dirlo con certezza - di uno spirito collettivo forse
ritrovato in quella che una volta era la classe operaia. Decine di migliaia,
cinquantamila non è un numero lontano dalla realtà. Dal palco di Milano si sono
susseguiti gli interventi dei delegati. Storie di lotte di frontiera, alternate
a ragionamenti sullo scontro in atto alla Fiat. Qualche accenno alle inchieste
del presidente del Consiglio era inevitabile. Nel corteo, dal palco. Ma è poca
cosa rispetto alla sostanza che stava nelle parole di chi è intervenuto. Nessun
politico ai microfoni. Oltre ai delegati spazio per Don Gallo, Cecilia Strada e
Gad Lerner, che in una specie di editoriale a voce, carico di emozione, ha
affrontato il dato oggi visibile, ma ancora da verificare sul medio periodo: da
una solitudine della condizione di lavoratori, ha sostenuto, si passa a un 'noi'
che ci fa tornare a riflettere sulla quella classe operaia, che oggi è tornata
nelle piazze.
Per chiudere il discorso del segretario generale, Maurizio Landini. Usa
un verbo: osare. Lo dice alla piazza, lo spedisce come un invito, fermo, alla
Cgil per uno sciopero generale. La piazza esplode. Così come aveva salutato con
applausi e approvazione i passaggi degli oratori che analizzavano la distanza
fra i lavoratori e la politica, le critiche per l'inazione delle opposizioni.
Don Gallo ha ipnotizzato la piazza con un discorso a tinte accese. Tenete la
testa alta, ha detto, dopo aver analizzato la liquefazione sociale, economica e
produttiva del paese e l'attacco frontale ai diritti.
Sul palco Cecilia Strada, presidente di Emergency. "Spesso ci criticano per
essere dei 'duri e puri', e noi lo vogliamo essere, proprio come succede a voi"
ha detto ricordando che "i diritti, o sono diritti per tutti, o sono privilegi
per pochi".
Alla fine delle manifestazioni la Fiom ha
comunicato che le adesioni allo sciopero dei metalmeccanici hanno superato il 70
per cento. Per Federmeccanica il dato arriverebbe solo al 18 per cento.
Russia, i tempi cambiano
Mosca
firma con gli Usa accordo di riduzione armi nucleari e compra dalla Francia
quattro portaelicotteri: come i tempi cambiano
Il Consiglio Federativo, la camera alta russa, ha ratificato il trattato Start
II sul disarmo nucleare. Dopo il via libera degli Stati Uniti entra quindi il
vigore l'atteso accordo, firmato lo scorso aprile a Praga da Barack Obama e
Dmitri Medvedev, che prevede il taglio del 30 percento delle atomiche. Nell'arco
di sette anni le testate saranno ridotte a 1.550. I vettori, tra missili e
bombardieri strategici, a 700. Il parlamento russo ha ratificato lo Start II con
una dichiarazione aggiuntiva e clausole di riserva che prevedono un legame tra
le armi strategiche offensive e quelle difensive, con il diritto di Mosca ad
uscire dal trattato nel caso fosse violato tale legame: si tratta di una
garanzia contro un eventuale scudo antimissile in Europa senza il coinvolgimento
paritetico della Russia.
Con la firma del Consiglio russo termina un lungo processo negoziale iniziato
nel dicembre 2009, quando scadde l'omonimo trattato siglato nel 1992 da Eltsin e
Bush. Lo Start (Strategic Arms Reduction Treaty) si applica solo ad armi a lunga
gittata, che gli Usa stoccano prevalentemente in basi sotterranee del Midwest
(450 missili), nei sottomarini Trident (288) e nei bombardieri B2 e B52 (60
velivoli, ognuno dei quali può però trasportare numerosi ordigni, mentre il
Trattato conteggia una bomba per ogni aereo). In Russia (più o meno 600 missili)
sono in gran parte basate a terra. Rispetto al 1991, si tratta di una riduzione
del 74 per cento dell'arsenale nucleare e del 30 per cento rispetto al più
recente Trattato di Mosca del 2002. Lo Start II entrerà definitivamente in
vigore fra sette anni.
La ratifica del Trattato Start da parte del Parlamento russo è "una buona
notizia per la sicurezza e la stabilità internazionali". Lo ha detto il
Segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, in un comunicato pubblicato sul sito
della Alleanza atlantica. "Spero che il clima politico generato da questo
Trattato - ha concluso Rasmussen - permetterà agli Alleati e alla Russia di fare
progressi concreti nella partnership strategica, compreso il campo della difesa
antimissile".
Congiuntamente alla firma dell'accordo sugli armamenti, la Russia ha firmato
anche un importante contratto con la Francia per l'acquisto di quattro
portaelicotteri 'Mistral', la più grande nave da guerra francese dopo la
portaerei Charles de Gaulle. Si tratta della più importante commessa militare di
un Paese della Nato verso l'ex 'Impero del male'. Gli Stati Uniti hanno tentato
a più riprese di bloccarla. A differenza dell'accordo sugli armamenti nucleari,
in questa occasione Rasmussen non si è felicitato con Mosca, augurandosi invece
che il Cremlino non usi i nuovi mezzi a disposizione contro "alleati o nazioni
vicine".