29 settembre

Palermo paga i dipendenti per spalare neve a luglio

Il caso di un dipendente della provincia siciliana che, solo ad agosto, ha richiesto il pagamento di 200 ore di straordinario per lo spalamento di una neve che non c'è. Altre 215 ore gli erano state pagate nei mesi precedenti. Fino a quando qualcuno in Provincia ha bloccato i pagamenti

di SEBASTIANO MESSINA

La sede della Provincia di Palermo
PALERMO - C'è un motivo, se la Sicilia spende otto volte di più della Lombardia per gli stipendi dei suoi 17 mila dipendenti, c'è un motivo se la Regione Siciliana ha il record italiano di dirigenti, funzionari, assistenti, consiglieri e consulenti: qui c'è tanto, tanto lavoro da fare. Per esempio, a luglio tocca spalare la neve. Sì, proprio a luglio, quando il termometro segna 19 gradi di minima (e 30 di massima), nell'isola del sole c'è la neve.

Ma dove, sulla spiaggia di Mondello? Sulla scogliera di Cefalù? Davanti al Duomo di Monreale? Questo, al momento, è un segreto. Però da qualche parte la neve deve esserci, a luglio, in provincia di Palermo, se il signor Salvatore Di Grazia, assegnato al servizio di Protezione Civile, ha chiesto e ottenuto dalla Provincia il pagamento di 42 ore e mezza di straordinario (più altre tre di straordinario notturno) per "spalamento neve".

Voi penserete: magari gli hanno pagato gli arretrati dell'inverno scorso. Macché. Quelli glieli avevano liquidati subito: 103 ore a gennaio, 92 a febbraio, 70 a marzo. Tutto lavoro straordinario, pagato a parte, che dall'inizio dell'anno a oggi ha rimpolpato la busta paga dell'instancabile Di Grazia di una cifretta pari a sei mesi di stipendio di un precario palermitano: 5165 euro.

Poi, a marzo - purtroppo - persino sulle cime delle Madonie l'ultima neve si è sciolta. E gli spalatori hanno smesso di spalare (e di farsi pagare gli straordinari). Tutti, tranne Di

Grazia. Il quale, come quel giapponese sull'isoletta che non sapeva della fine della guerra, ha continuato a spalare una neve che vedeva solo lui. E alla fine del mese, si capisce, presentava il conto all'ufficio del personale. Diciassette ore di spalamento ad aprile (minima registrata, 10 gradi). Cinquantatre sotto il sole di maggio. Trentotto, sudando, nelle torride giornate di giugno. Lui spalava, spalava, e la neve non finiva mai. Anzi, più il caldo si faceva insopportabile e più il lavoro aumentava. Quarantaquattro ore di spalamento neve a luglio (30 gradi all'ombra). Per toccare, in pieno agosto, l'apice dello sforzo: duecento ore.

Dicono alla Provincia che davanti a questa cifra un dirigente pignolo ha inarcato un sopracciglio. E ha bloccato il pagamento, quando ormai l'instancabile spalatore aveva già totalizzato 415 ore di straordinario. Il poveretto dev'essere rimasto di sasso - lo immaginiamo con la vanga a mezz'aria, davanti ai suoi cumuli di neve settembrina sulle spiagge di Bagheria - perché l'anno scorso nessuno aveva battuto ciglio quando s'era fatto pagare centodiciassette ore di "spalamento neve" straordinario nel solo mese di agosto, più altre ottanta a settembre (quando evidentemente nel Palermitano comincia il disgelo di fine estate).

Ma non finirà qui, si capisce. Lo stakanovista dello spalamento estivo farà ricorso al Tar, si incatenerà davanti alla Regione contro l'ingiustizia subita, cercherà un politico disposto a prendere a cuore la sua causa. E lo troverà di sicuro. Perché in Sicilia, lo sanno tutti, il lavoro è sacro.
 

Andrea Fabozzi

Verso Salò la crociera dei piediellini

Una crociera, un'altra. Stavolta sul lago - di Garda - e con una tappa spericolata: a Salò. Il piroscafo «Italia» salperà sabato pomeriggio. L'ha preso a noleggio il Pdl trentino che così intende celebrare il 150esimo dell'unità. Passando a far visita ai cimeli repubblichini e alla casa del Vate a Gardone Riviera. Settembre, andiamo.
Una crociera, un'altra. Che sia l'omaggio estremo al radioso esordio dell'odierno cavaliere? Cominciò, quell'uomo, ed è cosa nota, cantando Le Mer di Trenet per i croceristi. Da allora per quel cantante la crociera è l'idea platonica della felicità. Tanto che la prima cosa che offrì ai disperati dell'Aquila non fu la casa distrutta dal terremoto ma un bel giro in crociera. Mentre prendeva insulti, spiegò che era tutto gratis perché aveva a disposizione la nave del G8. La nave che avrebbe dovuto ospitare Obama alla Maddalena, la Fantasia.
Ora è tutt'altro genere di piroscafo quello che affronterà il lago con Maurizio Gasparri sulla tolda. Si tratta di un centenario battello a ruota con interni demodé. C'è posto per trecento militanti al prezzo di affitto di diecimila euro per un fine settimana. Pasti e bevande a parte. Ha organizzato tutto il senatore Cristiano De Eccher, berlusconiano oggi ma leader nel Triveneto di Avanguardia nazionale quarant'anni fa, buon amico di Delle Chiaie, habitué delle inchieste sull'eversione nera, sospettato persino di aver custodito i timer della bomba a piazza Fontana. Dunque nessuna sorpresa che si finisca a Salò, per «una degustazione di specialità gastronomiche del territorio» e subito dopo per fare visita al Centro studi e documentazione sulla Repubblica sociale italiana. Ci sono un sacco di belle foto in posa davanti alla casa del Fascio. Chi non se la sente, De Eccher permettendo, è garantito che potrà dirottare sull'ateneo di Salò. Ma in zona ci sarebbe anche la ex sede della Decima Mas, o per i giornalisti il palazzo dell'agenzia Stefani. E poi si va a Gardone, al Vittoriale. Dove, Gasparri in testa, il manipolo celebrerà D'Annunzio come una delle quattro figure simbolo della gloria del Garda. Le altre essendo Maria Callas a Sirmione (ci abitò), Goethe a Limone (ci passò) e santa Angela Merici a Desenzano (fondò le orsoline). Invece quello famoso di Salò nel programma non viene citato, per pudore o perché è superfluo.
Prima di imbarcarsi, e sperando che Alfano o almeno Quagliariello vadano a fargli compagnia, Gasparri ha spiegato che la crociera servirà a «rilanciare l'attività del Pdl come forza che si richiama alla libertà e alle tradizioni». Le tradizioni. E si è scelto il Garda perché «lì si sono combattute guerre di indipendenza e mondiali e si è svolta la vicenda di Salò». La vicenda.
Perché una crociera invece non l'hanno spiegato. Non serve, lo sanno tutti che una crociera è il massimo della vita. A meno che questa «tricolore» non finisca come quella «azzurra» che infelicitò il 2000 di Berlusconi. Salpata da Genova, quella nave elettorale per nove giorni fu perseguitata dalla malasorte. Pioggia, fulmini e mare in tempesta. Il cavaliere prima col febbrone e poi a rischio di finire bollito quando si staccò il tubo dell'acqua bollente in cabina. Bonaiuti precipitato dalle scale che si rompe il braccio, un militante troppo entusiasta che cade in mare, la macchina di un collaboratore che finisce schiacciata da una gru...
Ora impavidi ci riprovano. Buon viaggio. «Il destino dell'Italia è stato e sarà sempre sul mare», come diceva quello di Salò.

 

Staffetta dell'acqua truffaldina bloccata ad Ancona

Sergio Sinigaglia

Lunedì pomeriggio nella centralissima Piazza Roma tutto era stato preparato a puntino per accogliere l’ottava tappa della cosiddetta "Staffetta dell’acqua” promossa a livello nazionale da Federutility, la federazione che riunisce le società private che gestiscono i servizi idrici.

Insomma i privatizzatori volevano darsi una facciata “movimentista”. La locale Multiservizi SpA. aveva predisposto i tavoli, l’impianto per la musica e alle 17,30 sarebbe dovuta arrivare la staffetta con l’ex campione Pietro Mennea e i 40 bambini, povere creature ignare, messe a "disposizione del Dopolavoro ferroviario. Era stato previsto anche un collegamento con la nota trasmissione radiofonica Cateripillar che, gravemente, si era resa disponibile a fare da megafono all’iniziativa.

Naturalmente nel programma c’era anche il rituale discorso del sindaco.

Peccato che a guastare la festa ci abbia pensato il centinaio di giovani e meno giovani del Coordinamento regionale dei comitati per l’acqua pubblica, che dalle 17 ha occupato la piazza con striscioni, bandiere ed ha dato vita ad una rumorosissima, quanto pacifica, contestazione con fischietti, trombette e quant’altro impedendo la manifestazione e mandando di traverso l’acqua, è il caso di dirlo, agli sbigottiti, quanto inutilmente furenti, organizzatori. Tra questi, incredibile la presenza di Legambiente che si è giustificata sottolineando che la “Multiservizi” locale è “un’altra cosa”, come se non fosse una SpA la quale, in base al risultato referendario, dovrebbe essere trasformata completamente in una società pubblica. Alla fine un abbacchiato Mennea si è presentato in piazza alla testa della staffetta dei ragazzini ed ha dovuto rilasciare l’intervista ai giornalisti in uno spicchio della piazza. Verso le 19 gli organizzatori hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di svolgere la manifestazione. Un capitolo a parte merita la presenza della giornalista di Caterpillar che ha fatto di tutto per cercare di collegarsi con il cellulare in diretta con la trasmissione, ma è stata continuamente “braccata” da una parte dei manifestanti e alla fine anche lei si è dovuta arrendere dopo un ultimo, infruttuoso, tentativo in un portone della piazza. Dallo studio della trasmissione i conduttori hanno dovuto ammettere che “ a causa delle fortissime contestazioni il collegamento non è stato possibile”. Speriamo che l’esempio di Ancona venga raccolto anche nelle altre città dove la Federutility cercherà di far arrivare il proprio truffaldino messaggio.

 

26 settembre

Alessandro Robecchi

Bravo Umberto, ne hai fatta di strada

In una vecchia barzelletta sovietica, Stalin mostra alla madre i segni del suo potere. La potente macchina nera, la guardia in alta uniforme, le meravigliose stanze del Cremlino. E lei, l'anziana madre, lo benedice con affetto: «Bravo, Josif, ne hai fatta di strada... Ma attento, che se arrivano i comunisti...». Chissà se il popolo leghista conosce quella vecchia storiella. Davanti a esso viene periodicamente mostrato un capo-caricatura che si esprime ormai solo a gesti, pugni tirati all'aria, pernacchie e parolacce. Di Bossi conosciamo ormai solo le patetiche ostensioni organizzate per mascherare la sorda lotta tra colonnelli che avviene alle sue spalle, poi la reliquia viene ripiegata e portata via dagli addetti del cosiddetto «cerchio magico». «Vergognosi attacchi alla mia famiglia», ha biascicato dal palco di Venezia. Eh, sì, la famiglia, croce e delizia. Un figlio piazzato alla regione Lombardia a incassare un grosso assegno, capo delle nazionali di calcio padane alla maniera dei pargoli Gheddafi. Una moglie, Manuela Marrone, baby pensionata dall'età di 39 anni - una cosa che al leghista medio fa salire il sangue agli occhi - e fondatrice di una scuola dove si insegnano ai bambini le tradizioni padane. Tradizioni padane, sì, ma soldi di tutti gli altri, visti gli 800.000 euro munificamente concessi alla struttura da una legge del 2010, opportunamente chiamata «legge mancia» (tenga il resto, buon uomo). E, di contorno, seggiole, cariche, poltrone, nomine, stipendi pubblici, consulenze, affari e affarucci, perlopiù andati male e malissimo, come quella famosa banca CrediEuroNord che costò bel po' di soldi proprio ai più gonzi tra i padani. Ce ne sarebbe abbastanza per farsi cadere le braccia, o almeno le spesse fette di salame padanamente piazzate sugli occhi. Ora, il salvataggio in aula di un bel pezzo di Roma ladrona (Marco Milanese) e, prossimamente, anche un voto a protezione di interessi mafiosi (il ministro Saverio Romano). Che dire? Bravo Umberto, ne hai fatta di strada. Ma occhio, che se arrivano i leghisti...


GIUSEPPE GIULIETTI – Da Milanese alla legge Bavaglio, lo showdown del Caimano


“Andrò avanti comunque…” avrebbe detto Berlusconi al presidente Napolitano, infatti è arrivato nell’aula della camera dei deputati per dirigere personalmente le truppe e conquistare “l’assoluzione politica” del deputato Milanese.

Eppure, anche dopo il voto, non si respirava l’aria dei trionfi e delle vittorie berlusconiane, anzi quando un drappello di “unti dal signore” ha provato a lanciare l’applauso per lo scampato pericolo, altri peones sono restati impietriti, con le mani ben ferme sul banco, quasi timorosi di essere ripresi festanti e festeggianti.

Non parliamo poi dei leghisti, sembrava stessero al funerale di un caro parente, non solo non battevano le mani, ma addirittura alcuni di loro facevano ben intendere di essere irati e di aver giurato fedeltà al “dio Po” per l’ultima volta.

Loro sul territorio ci stanno e sanno che aria tira, non tanto per il voto su Milanese, quanto per il tradimento degli impegni in materia di federalismo, di tasse, di fine delle ruberie di “Roma ladrona”.

Il regolamento dei conti si aprirà nelle prossime ore, e non basteranno le carezze di Berlusconi al povero Bossi per sanare la frattura con Maroni e i deputati a lui vicini.

Eppure la conclusione di questo spettacolo indecoroso non sarà imminente e soprattutto non sarà scontata. Berlusconi, prima di andarsene, le tenterà tutte, ma proprio tutte e infatti la prossima settimana è deciso a far approvare in aula la legge bavaglio, costi quel che costi.

Deve farlo perché per nascondere la febbre altissima che lo ha colpito ha solo bisogno di spezzare il termometro, altre cure non sono più possibili, il perché lo aveva spiegato, in tempi non sospetti, la signora Veronica.

In queste ore crescono i pentiti del berlusconismo, quelli che, dopo averci fatto affari, scoprono ora che questo signore non gli serve più, anzi gli fa solo danni.

Si tratta di banchieri, di finanzieri, di cardinali e di vescovi, di ex ambasciatori e via discorrendo, se davvero hanno capito, farebbero bene ad alzare la voce, a farlo subito, abbandonando doppiezze e ambiguità, anzi potrebbero indire loro una grande manifestazione pubblica, alla quale non mancherebbero di partecipare quei milioni di cittadini che non hanno avuto bisogno né delle intercettazioni, né dei crolli di borsa, per rifiutarsi di assistere ad un film la cui trama era prevedibile e scontata.

Sarà ora il caso di impegnarsi perché almeno il finale sia diverso, molto diverso, da quello immaginato e realizzato da Nanni Moretti per il suo “Caimano”.


Rifiuti irrintracciabili

Ancora prima del lancio ufficiale, il sistema informatizzato di tracciabilità dei rifiuti (Sistri) rischia la rottamazione

Ancora prima del lancio ufficiale, il sistema informatizzato di tracciabilità dei rifiuti (Sistri) rischia la rottamazione. Scomparso per qualche giorno tra le pieghe della manovra finanziaria, ora è resuscitato grazie alle pressioni del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo , che aveva definito la sua cancellazione "un regalo alle ecomafie". Dopo la conferma della sua nuova entrata in vigore, dal 9 febbraio 2012 per le imprese con più di 10 dipendenti, il progetto traballa. La Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti (Commissione Ecomafia) sta cercando di chiarire il perché di un percorso tanto travagliato e, soprattutto, della apposizione iniziale del Segreto di Stato . Sull'iniziativa pende anche un' inchiesta della procura di Napoli che indaga sull' assegnazione poco trasparente dell'appalto a Selex Service management , del gruppo Finmeccanica . Catello Maresca , sostituto procuratore presso la direzione distrettuale antimafia di Napoli, nel suo rapporto del 15 settembre alla Commissione Ecomafia ha definito l'attuale sistema operativo "anacronistico" e inadeguato a colpire il sempre più sofisticato circuito illegale di smaltimento dei rifiuti.

Segreto di Stato "pulcinella" All'inizio il segreto di Stato era stato apposto perché, come ci spiega il deputato della Commissione Alessandro Bratti, "si prevedeva che la malavita avesse interesse a sapere a chi venisse affidato l'appalto, in modo da riuscire a scardinare il sistema". Il segreto di Stato ha permesso di scavalcare la gara d'appalto e passare all'assegnazione diretta alla Selex. Nel 2008 il segreto è stato " declassato " in forma di " riservatezza " anche se oggi, sostiene Bratti, "né uno né l'altro hanno interesse a esistere". Il ministro Prestigiacomo aveva dichiarato che si sarebbe attivata per eliminarlo, ma al momento esiste ancora un " segreto amministrativo che è una sorta di segreto pulcinella , dato che tutti sanno che il progetto è in mano alla Selex". La procura di Napoli cerca anche di capire anche quali siano stati i criteri per la scelta dei fornitori e "perché non ci fu alcuna comparazione preventiva con altre piattaforme informatiche già operative. Ad esempio Uirnet , il sistema che traccia i flussi del trasporto commerciale su strada, costa 15-18 milioni di euro l'anno, contro i 60-70 del Sistri".

Criticità operative I trasportatori di rifiuti saranno tenuti a installare sui veicoli una black box , una scatola nera che registra i loro spostamenti. Queste scatole, montate sui cruscotti per "facilitare l'inserimento delle chiavi usb", permettono di monitorare la motrice ma non il rimorchio , su cui in genere sono caricati i rifiuti speciali. I difensori del Sistri sostengono che la malavita, nell'intercettare i rimorchi, sarebbe costretta a falsificare le targhe . Che la mafia si lasci fermare dal cambio di una targa solleva qualche dubbio. Dai dubbi si passa all'ilarità quando si analizza l'esito del primo click day . Lo scorso maggio la prova generale del funzionamento del sistema informatico si è conclusa con un patetico millennium bug: call center occupato, chiavette illeggibili, crack del sistema . L'avvocato Luigi Pelaggi sostiene che il fallimento sarebbe da imputarsi all'inserimento simultaneo dei dati e agli errori di compilazione da parte dei trasportatori. "Mi viene da ridere", ha commentato Maresca, che si domanda come un sistema tanto vulnerabile possa resistere a un attacco hacker mafioso. Il deputato Bratti aggiunge che "i procuratori ci informano che non ci sono abbastanza Noe (carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico) per condurre indagini importanti. Una parte di questi carabinieri è impegnata , da non so quanto tempo, nel monitorare l'installazione del Sistri, attività che poteva benissimo essere gestita dalle agenzie regionali".

Secondo Bratti " il nodo di fondo non è stato risolto : se questo era uno strumento per contrastare la criminalità mi sembra che difficilmente realizzerà il suo obiettivo . Se invece era uno strumento per agevolare le imprese , con il passaggio dal cartaceo all'informatizzazione, questo doveva essere fatto in collaborazione con le imprese stesse e quindi non essere gestito dai carabinieri". Intanto le imprese da due anni spendono soldi per corsi di aggiornamento e tecnologie per un progetto che continua a cambiare forma. Anche se dopo il prossimo click day, previsto per il 15 dicembre, l'apparato informatico smettesse di inciampare su se stesso, resta il fatto che sul Sistri pende ancora un'inchiesta della Procura di Napoli. E se la procedura di assegnazione dell'appalto fosse giudicata illecita? "Si presume che decada il contratto " ipotizza Bratti, che aggiunge che "il pasticcio diventerebbe colossale" dato che " ogni azienda farà ricorso per avere indietro i suoi soldi". Regalandoci il paradosso di un sistema che, nato per contrastare l'illegalità, è diventato esso stesso soggetto di malaffare.

Barbara Gianessi
 

23 settembre

Do you remember l’Emergenza-Show?

Ilarità lampedusana
Tanto per ricordare. Era la fine di marzo, appena sei mesi orsono, e una mattina il presidentissimo accorse a Lampedusa a mostrare che lo Stato era presente. C’era un caos tremendo e disse: “Entro 48 sarà tutto risolto”.

Quindi, indossato il costume di scena da Cavaliere Operativo (abito nero, camicia nera senza cravatta) improvvisò uno dei più formidabili comizi dell’era berlusconiana. E di nuovo, tanto per ricordare, promise ai poveri abitanti di Lampedusa: uno speciale regime fiscale, il rimboschimento dell’isola e dei campi da golf. Mentre elencava i suoi propositi, dalla folla una signora gli ricordò che c’era da tempo anche l’idea di costruire una scuola, ma su questo occorre ammettere che il premier fu abbastanza dubbioso perché “non si può fare tutto”.

Tanto per ricordare. Berlusconi quel giorno era di ottimo umore e quindi promise anche un casinò, una zona franca e un’area “a burocrazia zero per far ripartire l’economia”. D’altra parte, volle aggiungere che erano già stati commissionati a Rai e mediaset degli spot turistici per illustrare le bellezze di Lampedusa. E già tutto questo potrebbe bastare.

Ma le perle indimenticabili di quell’allegro comizio, le promesse delle promesse, furono una iniziativa che il Cavaliere battezzò “il Piano Colore”, una specie di riverniciatura universale delle abitazioni che avrebbe reso Lampedusa “simile a Portofino”, pensa te. E poi l’annuncio trionfale di essere divenuto “lampedusano”. E infatti raccontò di essersi messo “di notte” su internet e lì aveva individuato e acquistato una villa in loco: villa “Due Palme”, a Cala Francese. Così, se poi non mi vedete più qui, volle specificare a futuro auto-monito, “potete venire a farmi le scritte sui muri”. (La storia controversa e il destino di tale acquisto immobiliare merita un post a parte).

Ma ci fu, in quel fantastico comizio, anche un’altra impegnativa promessa. E così, tanto per ricordare, sembra oggi il caso di segnalare che egli s’impegnò a proporre ufficialmente Lampedusa, “questa frontiera della civiltà occidentale” per il Premio Nobel per la Pace. Seguì la consueta barzelletta, com’è ovvio dedicata alle signore del posto, sul campione di donne alle quali viene chiesto se vogliono fare l’amore con Berlusconi, e il 30 per cento risponde “Magari”, e il restante 70: “Ancora una volta?”.

Tanto per ricordare. In serata un barcone carico di immigrati colò a picco nel mare di Lampedusa. A detta dei superstiti erano annegate 11 persone

 

22 settembre

 

La linea di affondamento

di MASSIMO GIANNINI

IL VERDETTO di un'agenzia di rating non vale come un voto di sfiducia del Parlamento. Dunque non sarebbe giusto se il downgrading di un debito sovrano fosse di per sé sufficiente a far cadere un governo. Ma la "retrocessione" decretata da Standard & Poor's nei confronti del nostro Paese non si presta ad equivoci. La bocciatura inflitta dei "signori del rating" certifica quanto purtroppo è già noto, e quanto le cancellerie, le istituzioni europee e i mercati finanziari decretano ormai quasi ogni giorno.

L'Italia di non ha più un governo nel pieno delle sue funzioni. La sua maggioranza politica è fragile, le sue manovre economiche insufficienti. E tutto questo pesa in modo determinante sul futuro della nazione, che difficilmente potrà risanare i conti pubblici e far ripartire la crescita economica. È accaduto quello che si temeva da giorni. L'unica differenza è il nome dell'agenzia. Tutti aspettavano la batosta di Moody's. E invece è arrivata quella di S&P, che ha giocato d'anticipo. La sostanza non cambia. Il caso Italia è ormai esploso, ed è deflagrato anche in campo internazionale. Non deve ingannare la reazione delle Borse (cresciute per il solito rimbalzo tecnico dopo una lunga serie di ribassi), né quella dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi (contenuto intorno a quota 380 punti grazie alla rete di protezione attivata della Bce). Questo downgrading colpisce il "Sistema Italia",

sia nell'Eurozona che nel resto del mondo. Ed è inevitabile che sia così. Non possiamo certo gioirne, ma dobbiamo ammettere che ce lo siamo meritato. Paghiamo quella che Tito Boeri ha definito la "Papi tax". Il "costo" della permanenza a Palazzo Chigi di un presidente del Consiglio che ormai nuoce al suo Paese per il solo fatto di restare al suo posto. Se togliesse il disturbo, farebbe calare in un colpo solo di 50, 100 o secondo alcuni analisti anche di 200 punti il "rischio Italia" sui Btp o sui Cds.

Le agenzie di rating non sono l'oracolo di Delfi. Negli ultimi tre anni, dal crac di Lehman Brothers in poi, godono di una fama discutibile. Persino Obama, insieme alla business community iper-liberista d'America, le ha criticate più volte. Ma nel caso italiano non si può dargli torto. Quando S&P scandisce nel suo rapporto che il declassamento del rating italiano "riflette la nostra visione di prospettive di crescita indebolita" che "probabilmente limiterà l'efficacia del programma di consolidamento del bilancio", non fa altro che mettere nero su bianco quello che Bankitalia, parti sociali, opposizioni, economisti e istituzioni "terze" ripetono da mesi. Quando aggiunge che "la fragile coalizione di governo e le differenze politiche all'interno del Parlamento continueranno probabilmente a limitare la capacità dell'esecutivo di rispondere con decisione a un contesto macro-economico interno ed esterno difficile", non fa altro che mettere per iscritto quanto gli italiani toccano con mano ogni giorno. Compresa la giornata di ieri, che ha visto lo sparuto e disperato drappello della maggioranza forzaleghista andare sotto alla Camera per ben cinque volte.

Quello che allarma di più è la prospettiva di medio periodo. L'outlook è negativo perché questo governo non ha la forza né la voglia di imprimere la svolta che serve. E se mai ve ne fosse bisogno (al di là delle rassicurazioni di rito che arrivano dai portavoce della Commissione europea preoccupati dall'effetto-domino sulla moneta unica) ci sono le previsioni appena aggiornate dal Fondo Monetario Internazionale. L'Italia crescerà dello 0,7% quest'anno e dello 0,3% nel 2012. In altre parole, siamo alla crescita zero, pratica e non più solo simbolica. In questo scenario, immaginare che le manovre appena varate siano sufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013 è una pia illusione anche per gli esperti di Washington.

Di fronte a tutto questo, la reazione del miserevole Palazzo romano preoccupa e indigna. Preoccupa la risposta del ministro dell'Economia, sempre più nascosto dietro al suo misterioso "cespuglio", in attesa dell'ordalia di domani con la quale il Parlamento dovrà decidere sull'arresto del suo collaboratore Marco Milanese: "i mercati avevano già scontato la decisione di S&P", pare abbia detto Giulio Tremonti, lamentandosi con i suoi interlocutori perché "non ci si deve far dettare la linea" e perché "i tempi degli Stati non sono i tempi dei comunicati stampa". Al di là del tono, come al solito a metà strada tra il Qoelet biblico e il pamphlet filosofico, resta da capire se c'è ed eventualmente qual è "il tempo" dello Stato italiano. E cos'ha fatto il ministro in questi tre anni e mezzo, per completare la riforma delle pensioni, riformare il mercato del lavoro, sostenere ricerca e sviluppo, liberalizzare ordini e professioni, privatizzare il patrimonio pubblico. Due settimane fa, a Marsiglia, aveva annunciato che la settimana dopo il governo avrebbe lanciato il "tagliando per la crescita". Lo stiamo ancora aspettando.

Indigna la replica di Berlusconi, che come al solito grida al complotto: "è colpa della stampa", dice il presidente del Consiglio, innescando l'immediata replica dell'agenzia "incriminata". È ormai un riflesso patetico e condizionato, quello del Cavaliere: qualunque sia il giudizio che lo riguarda (pubblico o privato, penale o personale) la responsabilità non è mai sua, premier "a tempo perso". O sono i soliti giornali in mano alla sinistra, come sbraita a casaccio davanti alle telecamere del suo addomesticato duopolio televisivo, oppure addirittura i "circoli mediatico-finanziari anglofoni", come ha avuto l'impudenza di scrivere nella lettera al "Foglio" di sabato scorso. In attesa di un invisibile Dino Grandi dentro un impresentabile Pdl, siamo tornati al "non mollo" e alla "Perfida Albione". Cioè alla farsa italiana. Se non fosse che invece quella che si sta consumando, per nostra sfortuna, rischia di diventare una mezza tragedia.

Avanti così, e l'Italia affonda. Lo ha capito l'establishment nazionale, con Emma Marcegaglia che per la prima volta dice in esplicito "o fa le riforme, o il governo va a casa". Lo ha capito la stampa mondiale, con la "Bild" che scrive "il Bunga bunga ci tira giù tutti". Gli unici a non averlo capito, oltre all'irriducibile Cavaliere, sono i suoi luogotenenti e i suoi alleati, asserragliati nel "Gran Consiglio" trasformato in una trincea. Anche loro, ormai, sono uno "scandalo permanente".

 

Raiset, ogni giorno di più

Nel paese in cui oltre 140 giornalisti liberi, soltanto nell’ultimo anno, sono stati minacciati dalle mafie, ad essere premiati sono sempre e comunque i peggiori. A questo contribuisce la perniciosa gestione della Rai targata Lorenza Lei (non credevo potesse fare peggio di Masi, ma pare ci stia riuscendo), che continua a consentire a figuri come il direttore del Tg1 Augusto Minzolini e come l’ex comunista Giuliano Ferrara di inondare le nostre case di rigurgiti berlusconiani della peggior risma. Il fidanzato della deputata del PdL Gabriella Giammanco (nipote del boss di Bagheria Michelangelo Alfano ), ieri sera ci ha fatto omaggio dell’ennesimo editoriale ad personam a tutela del povero Silvio Berlusconi che, aggredito dai giudici comunisti e dalla grande stampa, è riuscito comunque a varare “una manovra gigantesca per salvare l’Italia”: se i risultati sono le immense proteste a macchia di leopardo nel tessuto sociale italiano e il declassamento del debito , effettivamente si potrebbe definire gigantesca, sì, ma.. una gigantesca presa per i fondelli! A poco vale la dichiarazione debole e zoppicante del direttore Garimberti : “l’opinione espressa stasera dal direttore del Tg1 Augusto Minzolini è strettamente personale e non impegna in alcun modo la Rai”. Se così fosse, allora dovrebbe essere consentito a qualunque cittadino di sedere di fronte a quella telecamera e di dire qualunque cosa, tanto poi basterebbe dire che quella è un’opinione strettamente personale che “non impegna la Rai”.

Da non sottovalutare è anche il delirante comizio di Ferrara , che durante la prima puntata del suo “Radio Londra”, nel consigliare al premier di comportarsi come “un eroe”, aveva definito i giudici napoletani dei “ragazzotti in cerca di protagonismi”. Mi ha ricordato tanto Francesco Cossiga , che con scherno definì “giudice ragazzino” Rosario Livatino , ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990. Saranno ventuno anni domani.

Dunque ieri sera abbiamo avuto l’ennesima indecente manifestazione del fenomeno Raiset , il monopolio berlusconiano della tv di Stato: un fenomeno unico al mondo, che all’estero fa strabuzzare gli occhi a chiunque. E così, mentre vengono chirurgicamente epurati, direttamente o per induzione, i professionisti validi (in termini di audience e di qualità dell’informazione) come il direttore di Rai 3 Ruffini e la conduttrice di “Parla con me” Serena Dandini , i servi del potere rimangono sulle loro comode poltrone a sindacare sull’operato della magistratura distorcendo i fatti, che dovrebbero essere invece raccontati fedelmente e con dovizia di particolari, come deontologia professionale comanda.

Per questo continuo a dire che il controllo della Rai da parte dei partiti e dei potentati non può più avere luogo, perchè non fa che danneggiare l’azienda e i contribuenti a vantaggio della propaganda di regime. La politica deve abbandonare le stanze della tv di Stato, subito.

 

Italia, Pozzallo il centro della vergogna

Dialogo con Fulvio Vassallo Paleologo, professore di Diritto di Asilo e stato costituzionale dello straniero, sul centro di Pozzallo dove i migranti non hanno diritti

All'interno del Cspa di Pozzallo i migranti non hanno diritti. Intrattenuti illegalmente in questa struttura non idonea spesso si ribellano. E hanno ragione. Nell'agosto appena passato alcuni casi di violenza hanno fatto salire agli onori delle cronache questo piccolo paese del ragusano, dove gli sbarchi avvengono regolarmente.

"Sono almeno sei mesi che scrivo per rendere nota a tutti la situazione riguardante il Cpsa di Pozzallo (Ragusa) " dice F ulvio Vassallo Paleologo, professore di Diritto privato e Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo .

"Il fatto davvero eclatante è avvenuto due giorni fa quando hanno portato cittadini tunisini che stavano espellendo verso la Tunisia provenienti da Lampedusa . Cinquanta persone sono rimaste ferme in aeroporto. Altrettante al porto e poi abbiamo saputo che i primi sono stati portati a Pozzallo e gli altri nuovamente a Lampedusa. Di fatto, quindi, entrambi i cpsa sono utilizzati come centri di intrattenimento a tempo indeterminato senza alcuna garanzia, come invece sarebbe previsto dalla legge" continua il professore.

Ci sono stati casi di violenze e di arresti alcuni avvocati cercano di lavorare ai casi dei migranti ma con molta difficoltà . "La cosa che fa pensare - dice Vassallo - è che questi sono luoghi di intrattenimento informale, non ci sono provvedimenti che si possono impugnare. Questo è un problema perchè così le tutele giuridiche non si possono esercitare; il diritto di difesa non si può far valere perchè non c'è un provvedimento formale di trattenimento. Non c'è la convalida del giudice, in sostanza non c'è nulla".

Per quanto riguarda la situazione a Pozzallo, Vassallo è chiaro. "E' un hangar in pratica. Un capannone gigante sito nella zona industriale del porto di Pozzallo. Non ha nulla di adeguato per la permanenza di persone per più di 48-96 ore. Invece in quel centro le persone ci restano anche un mese. E comunque sicuramente più di tre settimane e poi alcuni vengono trasferiti nei Cie . Perchè in realtà i luoghi come Pozzallo nascono con il prolungamento a diciotto mesi della detenzione amministrativa, praticamente è come se avessero chiuso i Cie . Quindi c'è stata la necessità di utilizzare luoghi informali in prossimità delle frontiere per trattenere immigrati che in altri tempi sarebbero finiti direttamente in un Centro di Identificazione e Espulsione, perchè magari non presentavano domanda di asilo, perchè migranti economici, perchè tunisini, anche se le categorie non si sovrappongono e ci dovrebbero essere anche cittadini tunisini in grado di fare la richiesta d'asilo. Poi però i luoghi come Pozzallo, la caserma Barone a Pantelleria, sono tutti luoghi di sbarco e quindi di prima accoglienza che sono stati usati come strutture detentive in quanto il messaggio che si voleva mandare è che l'Italia effettuava direttamente le espulsioni e non permetteva nemmeno l'ingresso nel territorio. Anche perchè a tutti gli effetti questi luoghi sono in Italia ma è come se le leggi e le norme italiane, così come quelle europee, non fossero in vigore. Ecco sono come dei luoghi Off Shore , rispetto all'applicazione delle regole del diritto che sono previste dal nostro ordinamento per gli immigrati irregolari e anche dall'ordinamento comunitario che prevede come codice delle frontiere Schenghen del 2006 tutta una serie di formalità e garanzie anche per i casi di respingimento in frontiera delle persone" conclude Vassallo Paleologo.

Alessandro Grandi

 

21 settembre

 

Ci porta a fondo con lui

di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 18 settembre 2011

"A tempo perso faccio il primo ministro”, confessa Berlusconi a una delle sue prezzolate. In qualsiasi altro paese vagamente civile, un primo ministro così verrebbe fatto interdire. Uno che considera governare tempo perso, ma non ne perde affatto quando si tratta di ingaglioffire le istituzioni a fini personali, una legge dopo l’altra e una nomina dopo l’altra, e una baldracca dopo l’altra in cambio di quelle nomine, o di lucrosissimi appalti con cui i suoi ruffiani e le sue cricche hanno spolpato il paese. Ma se da noi avanzi questa modestissima ovvietà troverai subito un Giuliano Ferrara o un Minzolini pronti a stracciarsi le vesti e accusare i “giustizialisti” – dalle tv totalitariamente occupate – di voler perseguitare Berlusconi con gli “ospedali psichiatrici” della Russia di Breznev.

Eppure qui non interessa l’evidente stato clinico già testimoniato anni fa dalla signora Berlusconi, ma le macerie cui il primo ministro “a tempo perso” ha ridotto l’Italia per potersi coltivare la sua privatissima patologia. Macerie che stanno riducendo in povertà milioni di cittadini, mentre arricchiscono a dismisura le schiere dei lanzichenecchi e dei lacchè di regime.

In qualsiasi altro paese vagamente civile, sarebbero i suoi ad averlo da tempo messo alla porta. I colleghi di partito di Helmut Köhl – con la signora Merkel in testa – fecero dimettere il Cancelliere della riunificazione (un’impresa storica) per una semplice indagine su una spesa elettorale non dichiarata. Eppure i politici tedeschi non sono santi né anacoreti. Non è però un caso se tale moralità minima, o la sua assenza (come in Italia) pesano anche sui mercati: il ministro Tremonti (auguri per Milanese, en passant) ci assicura che la nostra economia reale è in salute, dunque la differenza la fa solo la credibilità della Merkel rispetto a quella di Berlusconi. E quando le oscenità di quest’ultimo rispetto alla prima diventeranno conclamate (e non più mero segreto di Pulcinella) cosa succederà? Oggi l’unico leader europeo pronto ad abbracciare Berlusconi è l’ex capo del Kgb Vladimir Putin, gli altri se possono evitano perfino di stringergli la mano.

Ma Berlusconi per i suoi è inamovibile perché ha costruito un vero e proprio sistema di potere con aspetti criminali, ramificato in Parlamento, negli enti pubblici (che trattano affari miliardari con armamenti e petrolio), negli appalti, nelle tv e nella (dis)informazione. Migliaia di bocche insaziabili che occupano il Palazzo, e che con la caduta di Berlusconi rischiano povertà e galera. Complici.

L’evasione fiscale dagli antichi romani agli yacht di Porto Cervo

di Giorgio Ruffolo, la Repubblica, 15 settembre 2011

Gli antichi romani evadevano il fisco? Negli ultimi tempi dell'impero lo facevano rifugiandosi persino presso i barbari, pur di non cadere nelle grinfie degli esattori. In un libro recente sull'impatto delle tasse sulla civiltà umana uno storico americano attribuisce alla schiacciante pressione fiscale la responsabilità principale della caduta dell'impero romano.
Nell'Italia di oggi gli evasori hanno vita molto meno ardua. Non è necessario rifugiarsi nell'inferno dei barbari. Basta che depositino i loro soldi nei paradisi fiscali; oppure ricorrano a pensionati e nullatenenti nostrani. Il 53 per cento dei contratti di locazione, spesso non registrati, delle ville di Porto Cervo, Forte dei Marmi, Porto Rotondo, Rapallo, Capri, Sabaudia, Panarea, Portofino, Taormina e Amalfi sono intestati a pensionati con la social card, prestanome di ignoti non-contribuenti.

Così fiorisce l'evasione fiscale italiana, una delle più ricche del mondo. Secondo le più recenti stime dell'Istat l'economia sommersa in Italia ha raggiunto nel 2008 circa 275 miliardi di euro pari al 17,5 per cento del Pil. Di questi si stima che 230 miliardi siano propriamente evasione fiscale, con un mancato gettito di 120 miliardi: più del doppio della “manovra” in corso.
L'Agenzia delle Entrate ha stimato che l'evasione riguarda in particolar modo il terziario e il settore delle costruzioni, dove arriva al 60 per cento del reddito.
È più elevata al Sud, dove raggiunge il 50%, il doppio del Nord in termini relativi, mentre quest'ultimo prevale ovviamente in termini assoluti.

In Europa l'evasione fiscale italiana è preceduta soltanto di pochissimo dalla Grecia con il 20 per cento; è poco più di quella inglese mentre nei riguardi degli altri paesi registra un differenziale che è in media di 10 punti: 11 per cento in Germania, 7 per cento in Francia, 4 per cento in Danimarca, 4 per cento in Spagna e Portogallo (!), 3 per cento in Svezia.
Il differenziale italiano con gli altri paesi è rimasto stabile negli ultimi venti anni, mentre si sono rinnovate con puntuale insistenza le promesse di decine di governi di combattere l'evasione fiscale. Quanto alla capacità del governo di “mettere le mani in tasca agli italiani”, secondo la simpatica definizione berlusconiana, dopo una breve flessione, il “prelievo” berlusconiano delle tasche ha ripreso vigore dal 2008.

Quanto all'Iva, un recente studio promosso dalla Commissione di Bruxelles stima un'evasione di imponibile italiano del 22 per cento contro il 9 per cento in Germania e il 7 in Francia (30 per cento in Grecia).
Quanto ai rapporti tra fisco e contribuenti, dunque, l'Italia non eccelle per reciproca stima. Altri paesi, soprattutto quelli scandinavi, hanno da tempo raggiunto uno stadio di convivenza civile.
Quei rapporti hanno attraversato nella storia fasi alterne e tempestose.

S'è detto dei romani. Se si prescinde dai catastrofici ultimi secoli la pressione fiscale nei secoli della repubblica e nei primi dell'impero si era mantenuta entro livelli moderati come lo era stata in genere durante tutta l'antichità. La patologia di quel rapporto non stava, nell'antichità, nell'altezza della pressione fiscale ordinaria ma nelle frequenti guerre, con il loro contorno di stragi, violenze, schiavitù e rapine. L'economia romana non era alimentata dalle entrate fiscali regolari, ma dal flusso continuo di prelievi violenti sulle popolazioni sottomesse. Fu a partire dalla fine di quei prelievi che quell'economia di rapina entrò in crisi.
Nel Medioevo un vero e proprio sistema fiscale neppure esisteva. I prelievi ordinari erano lasciati alla consuetudine o all'arbitrio. Gravavano essenzialmente sulle rendite fondiarie.

Nei primi Stati nazionali il prelievo fiscale dei governi era percepito con il consenso dei sudditi come in Inghilterra, attraverso il sistema parlamentare, o con l'autorità sostenuta dalla forza come sempre più spesso in Francia. La causa fondamentale del prelievo era il finanziamento delle guerre ma anche dei consumi dell'aristocrazia. Negli Stati nazionali della modernità il peso politico delle nuove classi popolari e l'avvento della democrazia hanno spostato l'asse del prelievo fiscale dagli impieghi militari alle spese sociali, mentre lo sviluppo del capitalismo premeva perché quelle risorse fossero destinate al finanziamento di investimenti produttivi. Le due destinazioni non sono affatto conflittuali, sono complementari: il capitalismo ha bisogno di una vasta infrastruttura sociale e quest'ultima è inconcepibile senza un'adeguata produzione di ricchezza.

È in questo spazio sociale che si insinua lo sfruttamento dell'evasore fiscale.
L'evasore fiscale, facendo mancare risorse allo Stato, pregiudica entrambe le funzioni, quella capitalistica e quella amministrativa, campando a scrocco. È, in senso proprio, un “magnaccia”, che mette le mani nelle tasche dei cittadini.
Ma la responsabilità dell'evasione fiscale non sta tutta sulle spalle degli evasori. Anche su quelle dei governi. Non parlo solo delle dichiarazioni di benevolenza (Je vous ai compris) del Premier.
Parlo soprattutto della selva dei condoni delle esenzioni degli “scudi” che hanno abituato gli evasori all'idea che il gioco è truccato.

 

Ici e Chiesa: ecco le prove

Alberghi. Palestre. Cliniche. Esentati dalla tassa sugli immobili. Dieci esempi che, purtroppo, mettono fine alle polemiche: il Vaticano non paga anche quando non si tratta di luoghi di culto né di opere sociali.

di Stefano Livadiotti, da L'Espresso

Sessantamila euro l'anno. E' il valore del contenzioso che vede opposti il Comune di Roma e la Provincia religiosa dei S. S. Apostoli Pietro e Paolo dell'opera di don Orione. Nella capitale l'ente risulta proprietario, nella lussuosa via della Camilluccia, di un gigantesco complesso, accatastato come b/1 (la sigla che all'anagrafe del mattone identifica collegi, convitti, educandati, ricoveri, orfanatrofi, ospizi, conventi, seminari e caserme), dove si svolgono attività religiose, ma sono stati anche ricavati una casa per ferie, un centro sportivo e una struttura di riabilitazione a pagamento. Il Campidoglio, attraverso la controllata Aequitalia, ha fatto le sue verifiche e pretende il pagamento dell'Ici, l'imposta comunale sugli immobili, dalla quale i religiosi ritengono invece di essere esenti a termini di legge. Così, si è arrivati alle carte da bollo.

Un caso simile riguarda la Congregazione delle Mantellate serve di Maria, titolare a Roma di diversi immobili, due dei quali (in via San Giuseppe Calasanzio e in via Mentore Maggini) utilizzati come case per ferie. Gli uomini del sindaco Gianni Alemanno hanno battuto cassa per 45 mila euro l'anno. Le suore si sono opposte, presentando ricorso. Ma il giudice ha dato loro torto. E in lite con il Campidoglio è anche la Chiesa evangelica metodista d'Italia, che vanta un patrimonio di circa 50 immobili, compresi un albergo (in via Firenze), diversi uffici e numerose abitazioni, alcune delle quali di pregio e ampia metratura. L'ente paga l'Ici solo per alcune delle sue proprietà; per le altre ritiene che niente sia dovuto. Il Campidoglio gli dà ragione solo in parte, nel senso che riconosce un parziale diritto all'esenzione, ma reclama una maggiore imposta di 24 mila euro l'anno.

Sono tre fra i dieci esempi raccolti da "l'Espresso" sul tira e molla in corso da anni tra le migliaia di sigle della Chiesa e i Comuni sul pagamento dell'imposta istituita nel 1992. Un tormentone cominciato nel 2004, quando a decretare un provvisorio stop nella diatriba tra enti ecclesiastici e amministrazioni cittadine è intervenuta una sentenza della Corte di cassazione, che ha dato ragione alle seconde. Nel 2005, però, il governo di Silvio Berlusconi ha ribaltato il verdetto, confermando l'esenzione per gli immobili della Chiesa. Fino al 2006, quando anche l'esecutivo guidato da Romano Prodi ha ritenuto di metterci lo zampino, confezionando una legge che è un vero e proprio capolavoro di ambiguità. La norma, tuttora in vigore, stabilisce che non devono pagare l'imposta gli edifici adibiti ad attività non esclusivamente commerciali. Un concetto sconosciuto alla giurisprudenza e che ha ingarbugliato ancora la situazione.

Così, il braccio di ferro continua. In attesa che sulla materia si pronunci Bruxelles, chiamata a stabilire se l'esenzione rappresenta un aiuto di Stato ed è come tale contraria alle regole europee. Che nel 2014 l'Ici ceda il passo alla nuova Imu, nel cui testo attuale lo sconto per gli immobili degli enti ecclesiastici è stato peraltro confermato. E che il Parlamento decida cosa fare dell'emendamento alla manovra economica presentato dai radicali di Mario Staderini per cancellare ogni forma di esenzione: per ora, in commissione Bilancio a Palazzo Madama, è stato bocciato con il voto contrario di Pdl, Lega, Fli e Udc e l'astensione dell'Idv, che al Senato conta come un "no" (i parlamentari del Pd, a parte due "sì", hanno scelto di non farsi contare).

La gerarchia ecclesiastica, davanti al montare delle polemiche, nega addirittura l'esistenza di un caso nazionale. "La Chiesa paga l'Ici su tutti gli immobili di sua proprietà che danno reddito", ha puntigliosamente ribadito, sabato 27 agosto, il quotidiano dei vescovi "Avvenire". Ma le cose non stanno così. Lo dimostra l'inchiesta de "l'Espresso" sul Comune di Roma. In base ai tabulati, gli accertamenti (e cioè le richieste di pagamento per Ici non versata inoltrate dal Campidoglio) hanno raggiunto, tra gli altri, la Società San Paolo (40 mila euro l'anno), la Procura generale dell'Istituto delle suore di carità di Namur (90 mila euro; posizione apparentemente regolarizzata dal 2010 ), l'Istituto ancelle riparatrici del S.S. Cuore di Gesù (3mila euro, peraltro pagati), la Casa delle religiose figlie di Nostra Signora del S. Cuore d'Issoudun (70 mila euro), la Provincia d'Italia fratelli maristi delle scuole (100 mila euro), la Provincia italiana suore mercedarie (120 mila euro) e le Comunità cistercensi trappisti Tre Fontane (100 mila euro). Secondo gli addetti ai lavori, per calcolare il contenzioso totale, tra arretrati, sanzioni e interessi, queste somme vanno mediamente moltiplicate per sei.

Due documenti ufficiali raccontano quanto valga nella capitale, almeno secondo le valutazioni dei tecnici e come ordine di grandezza, l'evasione dell'Ici da parte della Chiesa e dei suoi satelliti. Il primo, del segretariato generale del Comune, è datato 17 marzo 2009 e protocollato con la sigla "RC 3825". Si tratta della risposta del sindaco a un'interrogazione sul mancato incasso dall'imposta sugli immobili nel 2006. Si legge nel testo: "Le stime indicano in circa 25,5 milioni la perdita di gettito parziale per l'Ici ordinaria. Va aggiunto il minor introito per arretrati, stimato in circa 8 milioni al momento dell'introduzione della nuova normativa". Il secondo, sempre firmato da Alemanno, è invece del marzo 2011. E dice: " I competenti uffici dell'amministrazione capitolina hanno effettuato una ricognizione, a decorrere dal periodo di imposta 2005, delle attività svolte dagli enti ecclesiastici. Tale attività di accertamento e controllo ha consentito un recupero dell'imposta pari a euro 9.338.143,82 (comprensivi di interessi e sanzioni). Per quanto riguarda il corrente anno, sono in fase di predisposizione atti di recupero per un importo complessivo pari a circa 1,5 milioni di euro".

Tra gli stabili finiti nel mirino del Campidoglio uno è della Società San Paolo. Si trova in via Alessandro Severo e contiene, tra l'altro, la tipografia del settimanale "Famiglia Cristiana". Il cui direttore, don Antonio Sciortino, rispondendo all'inizio di agosto a un lettore, ha scolpito: "Non si può andare a messa e, al tempo stesso, sottrarsi al proprio tributo per il bene comune". Si vede che non vale per chi, invece, la messa la dice.

 

15 settembre

 

Francesco Piccioni

Cominciano i saldi. Tremonti tratta con la Cina

Chissà se gli è tornato alla mente quel detto cinese «siediti sulla riva del fiume e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico»... Il ministero del Tesoro ha confermato che Giulio Tremonti e un nutrito gruppo di teste d'uovo, tra cui Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), hanno incontrato una settimana fa Low Jiwei, a.d. della China Investment Corporation (Cic), fondo sovrano con una dotazione di 409 miliardi di dollari. Che lo colloca al secondo posto nella classifica dei fondi sovrani cinesi e al quinto di quella globale.
Il Financial Times l'aveva messa in relazione a una richiesta italiana di acquisto di Btp, oppressi da un aumento monstre del differenziale con i bund tedeschi e in coincidenza con i primi segnali stanchezza della Bce nel ruolo di compratore generoso. Addirittura era stato ipotizzato che i cinesi - già detentori del 4% del debito pubblico italiano - potessero salire fino a coprirne il 10%; sarebbe stata sia una eccezionale dimostrazione di «fiducia» in un paese sotto stress, sia una straordinaria dimostrazione di debolezza. È molto più alta, per esempio, la percentuale di debito pubblico Usa posseduta dai cinesi.
In realtà, sia da parte italiana (il sottosegretario all'economia Antonio Gentile) che cinese è stato negato che fosse questo l'oggetto dell'incontro. Il Cic si è dimostrato invece interessato a «investimenti industriali» nel nostro paese e a questo scopo ci sarebbe stata la presentazione e presa di contatto con la Cdp, di recente investita del compito di costruire un Fondo strategico italiano per rendere possibili investimenti di questo tipo. Dall'unione delle due «potenze» dovrebbero uscire quindi spinte al rilancio di alcuni settori produttivi.
Anche qui, la si può vedere da due lati: come debolezza italiana, tale da consegnare ai cinesi le chiavi di alcune aziende importanti che nessun imprenditore tricolore si vuol prendere la briga di far funzionare (c'è l'esempio di Termini Imerese, dove subentrerà a Fiat la Dr, marchio italiano che assembla forniture della cinese Chery); oppure come «occasione di rilancio» di comparti manifatturieri in dismissione. Una terza chiave di lettura sembra utile: ma allora non è vero che la nostra struttura dei diritti del lavoro è «troppo pesante» e «disincentiva gli investitori stranieri»...
In piena discussione su nuove privatizzazioni (multiutility municipalizzate, immobili, asset strategici come Eni, Enel, Terna, Finmeccanica), il ministero si è affrettato a dichiarare «fuori mercato» per i cinesi proprio queste ultime imprese (Finmeccanica, del resto, controlla molta della produzione di armamenti nazionali), che sono già al livello minimo del «pacchetto di controllo» (30%) e quindi a rischio di «scalata» se altre quote dovessero esser messe in vendita. Confermato invece che «multiutility e immobili» sono tra le prime cose che il Tesoro metterà in vendita: «già la prossima settimana potrebbe tenersi a Roma una riunione con il mondo finanziario per studiare le opzioni sul tavolo».
Le complicazioni non sono poche: si va dalla proprietà delle municipalizzate (in capo quasi sempre agli enti locali), al pericolo di «svendita» di asset che potrebbero far realizzare cifre anche molto superiori (nelle «privatizzazioni» italiane, i privati hanno una lunga storia di «regali» vergognosi: da Telecom alle Autostrade, fino all'Alitalia).
La Lega ha drizzato le orecchie, facendo però bofonchiare il semisconosciuto Maurizio Fugatti. Come sembrano lontani i tempi (2003) in cui il Tremonti populista spiegava che «dai rubinetti agli occhiali, è drammaticamente evidente che dove entra la Cina esce l'Italia». Ora la Cina entra direttamente, e su suo invito. Ma chi sarà quel cadavere che scende giù per il fiume?

 

13 settembre

 

Le camicie brune di Saya a Genova

Polemiche per la nuova provocazione del leader dell'Msi-Destra Nazionale, che ha convocato un'adunata della sua milizia neonazista nel capoluogo ligure per il 24 e 25 settembre. Saya a PeaceReporter: "Solo una riunione in luogo privato"

Tornano alla ribalta le milizie neonaziste di Gaetano Saya . Il plurindagato leader dell' Msi-Destra Nazionale - ultimamente in ottimi rapporti con il "responsabile" Domenico Scilipoti - ha convocato a Genova , per il 24 e 25 settembre , una adunata delle sue camicie brune della "Legioni per la Sicurezza e la Difesa della Patria" (ex 'Guardia Nazionale Italiana') "per la prima raccolta di candidati, inquadrati in 'Formazioni in Camicia' per le prossime elezioni politiche" nelle liste del nascituro Partito Nazionalista del Popolo Italiano : formazione politica che propugna, tra l'altro, la cittadinanza "solo per chi di sangue italiano ", l'espulsione di tutti "i non-italiani", la condanna a morte di "usurai, profittatori e politicanti", la chiusura dei giornali "che contrastano con l'interesse della comunità" e di ogni organizzazione "che esercita un influsso disgregatore sulla nostra vita nazionale".

"L'incontro di Genova – ha dichiarato Saya a PeaceReporter – non sarà una manifestazione pubblica, nessuna sfilata di camicie brune . Sarà una riunione politica che avrà luogo in un luogo privato , che non comunichiamo per ovvie ragioni di ordine pubblico. Perché se si sapesse e quelli dei centri sociali si scatenano poi magari ci va di mezzo qualche povero agente o ci scappa addirittura il morto . La scelta di Genova, poi, non vuole essere assolutamente provocatoria: abbiamo deciso di incontrarci lì semplicemente perché ci saranno diversi dirigenti del Partito Nazionalista provenienti da Liguria e Piemonte. Non capisco perché montare tutto questo caso, quando nessuno ha battuto ciglio per la nostra riunione di luglio alla Camera dei deputati , ospiti dell'onorevole Scilipoti . Tra l'altro a Genova forse ci sarà pure lui".

La notizia dell'iniziativa genovese di Saya ha comunque suscitato le immediate proteste di partiti della sinistra, della comunità ebraica e delle associazioni omosessuali. Il responsabile Sicurezza del Partito Democratico , Emanuele Fano, "chiede al governo atti concreti per impedire a questo personaggio di proporre l'arruolamento di una simile milizia". Il segretario genovese di Sinistra e Libertà , Valerio Barbini, chiede l'intervento del prefetto per bloccare questa "pericolosissima goliardata". Il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, nipote del rabbino di Genova, rivolge un appello al sindaco e al questore del capoluogo ligure e al ministro degli Interni affinché "prendano tutte le iniziative possibili" contro "un personaggio inquietante come Saya". Arcigay Arcilesbica chiede di "impedire l'insultante adunata di nazisti il cui programma è una crociata contro comunisti e 'zingari', stranieri e omosessuali".

Ci sono poi le bellicose dichiarazioni dei centri sociali , che suscitano timori per l'ordine pubblico: "Non tollereremo assolutamente provocazioni di questo genere", ha dichiarato Matteo Jade, portavoce del centro sociale genovese Zapata . "In questo momento dobbiamo pensare alle cose serie e stare tutti uniti. Mentre questi signori fomentano solo divisioni e odio razziale. Se sarà necessario, indiremo a Genova una manifestazione nazionale di tutti i centri sociali», dice di Matteo Jade, portavoce del centro sociale genovese Zapata.
Il pensiero corre inevitabilmente alla rivolta antifascista di Genova del 1960 .

Per ora l'unica reazione istituzionale è quella dell' Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) del ministero delle Pari Opportunità, che a fine agosto ha aperto un'istruttoria in relazione agli scritti di Saya sul sito del PNPI che incitano all'odio razziale e contro gli omosessuali : dichiarazioni che potrebbero essere sottoposte dal ministero alla Procura della Repubblica in presenza di 'notizia di reato' .
Negli anni scorsi Gaetano Saya è stato già indagato dalla Procura di Milano: sia in relazione alla costituzione della 'Guardia Nazionale Italiana' che alla precedente polizia parallela del 'Dipartimento studi strategici antiterrorismo' (Dssa) , per cui è brevemente finito anche dietro le sbarre.

Nonostante questo, Saya continua a mostrarsi in uniformi paranaziste e a svolgere propaganda politica razzista, golpista e liberticida . Come l'ultimo videoappello di agosto, in cui si presenta come leader delle "legioni per la sicurezza e la difesa della patria: associazione di carattere militare che persegue anche, indirettamente, scopi politici ", rivolgendo un'appello a tutte le forze armate perché aderiscano al Partito Nazionalista al fine di instaurare un "governo autoritario" che sappia "ripulire l'Italia dai non-italiani" .
Certamente folklorismo di cattivo gusto, ma comunque anticostituzionale e potenzialmente pericoloso.

Enrico Piovesana

 

di ANTONIO CIANCIULLO

Mancano fogne e depuratori, l'Italia rischia la mazzata Ue

Bloccata col referendum la spinta alla deregulation, resta il secondo ostacolo. L'acqua arriva quasi dappertutto, ma quando rientra nell'ambiente naturale è sporca, inquinata o mal depurata. L'Europa ci ha messi nel mirino. Ma correre ai ripari non sarà facile servono 64 miliardi

ROMA - "Se qualcuno è indolente nel mantenere il suo argine in buone condizioni e non lo conserva; se così l'argine si rompe e tutti i campi vengono allagati, così colui che era responsabile dell'argine rovinato venderà il necessario per denaro e il denaro ripagherà il grano del quale egli ha causato la perdita" (Codice di Hammurabi, 1780 avanti Cristo).

"Gli Stati membri proteggono, migliorano e ripristinano tutti i corpi idrici superficiali (....) al fine di raggiungere un buono stato delle acque superficiali (...) entro 15 anni dall'entrata in vigore della presente direttiva. (...) Le sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive" (Unione europea, 23.10.2000).

Per evitare il rischio di sanzioni pesanti che entro pochi anni potrebbero abbattersi sui nostri conti pubblici, conviene ripartire da qui, dalla cultura dell'acqua mediterranea che affonda le sue radici nelle tradizioni dei sumeri e degli assiro babilonesi. Magari provando a evitare il ripetersi degli errori che, a partire dall'inaridimento dei campi della mezzaluna fertile fino all'inquinamento da pesticidi, in quattro millenni hanno mostrato un ampio spettro di pericoli.

All'indomani del referendum il mondo dell'acqua cerca dunque di superare il secondo ostacolo. Bloccata la spinta verso la deregulation selvaggia del settore, resta la battaglia per chiudere il ciclo idrico. Da una parte si tratta di ridurre gli sprechi, dall'altra di assicurare che l'acqua utilizzata venga restituita all'ambiente in condizioni tali da non costituire un problema ecologico. Anche perché entro 3 anni, per legge, l'insieme del sistema idrico italiano dovrà tornare a un "buono stato" di salute. Impresa resa difficile da due problemi.

Il primo è strutturale. Come raccontano Erasmo D'Angelis e Alberto Irace in un libro appena uscito ("Il valore dell'acqua") il ventesimo secolo si è chiuso senza aver completato il processo di costruzione del servizio idrico: "Nel 1904 solo 26 capoluoghi di provincia erano dotati di un acquedotto comunale. Ancora nel 1954 una buona parte d'Italia viveva senza l'acqua corrente in casa. In Veneto, ad esempio, su 100 case 48 non erano allacciate all'acquedotto, 52 erano senza gabinetto, 72 senza doccia o vasca da bagno, 15 senza elettricità, 81 senza il gas a rete, 86 senza il termosifone". E alla fine degli anni Novanta una città come Milano fu multata dall'Europa (9 miliardi di lire per ogni mese di ulteriore ritardo) per la mancata costruzione dei suoi depuratori.

Ancora oggi, a fronte di una penetrazione molto ampia degli acquedotti (la copertura supera il 96 per cento), il sistema delle fognature arriva solo all'86 per cento del fabbisogno e la depurazione si ferma al 70 per cento. Per chiudere il ciclo dell'acqua servono 64 miliardi di euro in trent'anni.

E' un intervento necessario perché oggi il livello di qualità delle acque è lontano dalle richieste di Bruxelles: oltre la metà delle stazioni di monitoraggio collocate su fiumi e laghi rivela il mancato raggiungimento dello standard che sarà obbligatorio dal 2016. Al momento, l'insieme di centinaia di migliaia di scarichi non depurati, depurati male o illegali rende questo obiettivo irraggiungibile. E, in caso di inadempienza, le sanzioni europee sarebbero pesanti. "Siamo stati deferiti alla Corte di Giustizia Europea il 5 maggio 2010: le megamulte riguarderanno 178 comuni italiani, 75 dei quali siciliani. In ballo ci sono cifre già rese note da Bruxelles che varieranno da 11 a 714 mila euro al giorno", precisa D'Angelis, presidente di Publiacqua, il gestore del servizio idrico della Toscana centrale.

Per evitare le sanzioni bisogna trovare i fondi per gli investimenti. Come? "Per anni ci hanno raccontato una favola", sostiene Paolo Caretti, del Forum movimenti per l'acqua. "Quella che per trovare i soldi bisognava privatizzare. Un falso, come dimostrano i numeri sui mancati investimenti nelle città in cui gli acquedotti sono stati privatizzati. E, in ogni caso, i privati non tirerebbero fuori neppure un centesimo: se anche trovassero i fondi, arriverebbe tutto dai rincari in bolletta che sono stati l'unica conseguenza reale della fase di privatizzazione. Noi proponiamo un sistema diverso. Chiediamo che sia la finanza pubblica a garantire gli investimenti dirottandoli da voci con priorità più bassa, senza aumentare il peso delle imposte. Inoltre, a parità di prelievo fiscale complessivo, suggeriamo una tassa di scopo sulle bottiglie di acqua minerale in plastica".

Sessantaquattro miliardi sono una bella cifra. Ma c'è chi sostiene che il vero problema non è quello economico. Secondo Roberto Passino, presidente della Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche, le tariffe attuali sono perfettamente in grado di garantire gli investimenti attraverso prestiti che saranno ripagati da incassi sicuri e garantiti come quelli del settore idrico.

"Avevamo già preso contatto con l'Associazione bancaria italiana e con la banca europea degli investimenti trovando grande disponibilità", ricorda Passino. "Ma all'ultimo momento c'è stata una frenata perché il sistema creditizio si è trovato di fronte all'assenza di un'interlocuzione affidabile: le decisioni non vengono prese in base alle esigenze tecniche e di programmazione, ma sull'onda delle convenienze clientelari ed elettorali che cambiano di giorno in giorno. Il sistema idrico non ha problemi: è il sistema politico che non funziona".

E, a rendere ancora più difficile la situazione, è arrivata la manovra del governo che penalizza il settore energetico colpendo le multiutilities, le aziende che forniscono elettricità e acqua. "Siamo di fronte a una doppia assurdità", osserva Adolfo Spaziani, direttore di Federutility, l'associazione degli acquedotti pubblici e delle altre aziende di servizi. "Abbiamo fatto importanti investimenti sulle fonti rinnovabili e ora, con il taglio di liquidità, si rende più difficile l'adeguamento delle rete necessario a utilizzare la nuova disponibilità di energia green. Inoltre con la Robin tax si colpiscono le imprese impegnate nel fornire i servizi primari indebolendo così gli sforzi per mettersi in regola nel settore idrico. Tutto ciò all'indomani di un referendum che ha chiesto di rafforzare la capacità della mano pubblica di offrire servizi idrici adeguati".

 

Filippo Fiorini

Benetton nunca mas A Buenos Aires è guerra al latifondo

«Contadini mandati alla guerra in frontiera, per dar la terra nuova ai gringos forestieri; e noi che siam qui da prima della bandiera, di nutrirci di rape dovremmo anche esser fieri». Lo diceva più di cent'anni fa il gaucho Martin Fierro, se si ammette la parafrasi piuttosto libera del poema epico argentino che porta il suo nome, ma ora il governo di Cristina Kirchner sembra deciso ad ascoltarne la rima: in parlamento c'è una legge che vieta agli stranieri la possibilità di acquistare grandi appezzamenti di terreno.
Una norma non retroattiva, che permetterà ai grandi gruppi italiani di restare, anche se per farlo saranno probabilmente obbligati a riconoscere più diritti ai dipendenti e rispettare le comunità indigene, perchè l'Argentina del nuovo millennio cammina sola nella crisi e ha uno scudo ideologico contro parole come neocolonialismo e imperialismo.

«Lo Stato deve porre un limite alla proprietà estera della terra», ha già detto due volte in pochi giorni Cristina, esortando i suoi legislatori a darsi una mossa, perché se la borsa delle commodities di Chicago ha fatto alzare il tetto per fare entrare il grafico della soia, allora bisogna procedere in fretta verso quella che lei stessa ha chiamato «la seconda indipendenza» e vender caro il proprio tesoro verde: solo il 20% delle terre coltivabili potrà restare in mani non argentine e un unico proprietario non potrà intestarsi più di mille ettari. «Stiamo discutendo alcune modifiche al disegno di legge - hanno detto dal gruppo parlamentare del governo - ma in linea di massima ci siamo», lasciando intendere che di qui a qualche giorno arriverà l'ok dalle commissioni e poi anche dal Congresso.
Alcuni giuristi ritengono che la norma sia incostituzionale, poichè va contro il principio secondo cui gli stranieri godono degli stessi diritti dei cittadini nativi, tuttavia, con un'opposizione debole e d'accordo con lo spirito della proposta, le uniche attività volte a rovesciare il pronostico restano in mano alle lobby agricole, che ultimamente hanno perso il potere di cui godevano in passato.

La realtà delle campagne è molto complessa. Da un lato, i cereali e i legumi si vendono a peso d'oro: mentre il mondo piange i crolli azionari e anche il petrolio sente la gravità della crisi, la soia, che storicamente si muoveva in sintonia con il greggio, sembra ora essersi sganciata dal fratello maggiore e ha fatto un +11% in agosto, arrivando a 523 dollari la tonnellata. In coda alla cassa dell'emporio argentino ci sono un miliardo e mezzo di cinesi, che si accaparrano il 50% di tutta l'offerta nazionale, portando l'agricoltura al 10,23% del pil.
Poi c'è il braccio di ferro politico che da tre anni divide la Casa Rosada dai grandi coltivatori. Nel 2008 i sindacati dei latifondisti iniziarono un duro sciopero per contro le tasse sull'esportazione (imposte per obbligarli a vendere alimenti a una nazione in cui era tornata la fame, invece di cederli alla lucrosa borsa merci internazionale) e solo ora si mostrano più condiscendenti davanti all'evidente benessere del proprio settore, alla supremazia elettorale che Cristina Kirchner ha dimostrato alle recenti elezioni primarie (disputate a un mese e mezzo dalle presidenziali) e anche davanti a qualche concessione, compresa questa stessa legge sulle terre.

D'altra parte, invece , ci sono i frutti coltivati nelle regioni nord della limpida Patagonia o i vigneti ai piedi delle Ande, dove la produzione è quasi completamente bracciantile e, secondo un recente studio accademico, fino ai primi anni '90 la terra era quasi tutta in mano alla piccola proprietà contadina, mentre negli ultimi due decenni si è «intensificato il dominio del capitale multinazionale».
Nella frutta e nel vino si concentrano, tra olandesi, francesi ed americani, anche alcune firme italiane, come per esempio Expofrut, che dal 2007 controlla la locale Moño Azul, proprietaria di 10mila ettari coltivati a mele e pere. Oppure come Benetton, che con un milione di ettari ha adibito un'intero Abruzzo a pastorizia, allo scopo di produrre la lana che usa nei suoi vestiti colorati. Qui l'azienda si trova in causa con una piccola comunità indigena che rivendica il diritto ad abitare il proprio territorio tradizionale. Lo studio legale Iturburu Moneff, che difende gli interessi del gruppo italiano, ci ha spiegato che una recente sentenza obbliga le famiglie di etnia mapuche di Santa Rosa Leleque a sloggiare dai 550 ettari che occupano a Benetton, altrimenti saranno sgomberate, ma queste hanno fatto ricorso e ora bisogna vedere come andrà.

Riguardo a Moño Azul, in marzo l'agenzia delle tasse ha scoperto 30 dipendenti ridotti in condizioni infraumane: ammassati in dormitori piccolissimi, senza acqua, costretti a usare latrine invece che bagni e vessati da ferite infette che, in un caso, hanno anche portato all'amputazione di un dito. Si tratta dei cosiddetti golondrinas (rondini), indios del nord argentino che vengono portati sui campi a sud solo per la stagione dei raccolti, quando la richiesta di manodopera triplica all'improvviso.
Guillermo «l'orbo» Saavedra, il capo del piccolo sindacato di peones rurali Prl che conta tra i suoi affiliati anche molti dipendenti dell'azienda, ha spiegato al manifesto che uno dei 300 mila raccoglitori di mele della Patagonia deve farsi trovare tra i filari alle quattro del mattino, per restarci poi 16 ore, con una paga compresa tra i 200 e i 300 euro al mese, ovvero la cifra che l'Istat argentino pone come soglia di povertà.

In merito alle condizioni generali di lavoro, Guillermo ci presenta Mabel Arriagada, una ragazza di 27 anni che qualche anno fa camminava con un cesto di vimini da 30 chili sulle spalle, poi è inciampata e si è rotta entrambi i menischi. Oppure il caso di Emilio Bañares, morto mentre cercava di bruciare un grande alveare con una lanterna: per evitare le gelate invernali si incendiano tra le piante da frutto dei fusti pieni di un composto artigianale di combustibile. Se le proporzioni sono errate, la miscela esplode solo avvicinando una fiamma. La lanterna di Bañares è stata trovata divelta, lui ustionato sul 90% del corpo.
Di storie così ce n'è da farci un'antologia: le maschere contro il diserbante usate per mesi dopo la scadenza, scale di legno vecchie di quarant'anni che si spezzano con il contadino sopra, assenza di cure e in molti casi, ma finora non in quelli di Moño Azul, bambini al lavoro.
Nel corso della storia, La Pampa è stata chiamata «mia» in molte lingue diverse, sia da chi la lavorava sia da chi semplicemente ci si sedeva sopra. Secondo l'esecutivo, la legge sulle terre non va contro gli stranieri, ma contro le grandi corporazioni che lasciano troppo poco dei loro utili nel paese.

Comunque, le realtà che già esistono potranno restare, ma dovranno probabilmente cambiare politica coi dipendenti, perchè negli ultimi mesi le autorità hanno iniziato a rispondere alle denunce, intervenendo a tappeto, comminando multe e chiudendo battenti dove si commettevano illeciti. Anche gli indios poi sono protetti contro sgomberi e interventi di trasformazione del loro territorio dalla legge 26160 del 2006, anche se si tratta di una delle norme meno applicate dai tribunali. Il gaucho Martin Fierro parlava spesso anche di loro, ma in questo caso il tempo trascorso non è ancora stato sufficiente a dargli ascolto.

 

8 settembre

 

Sciopero generale, ce n'est qu'un debut?

La piazza mediatica e la piazza vera

di Angelo d’Orsi

Uno dei pochi autentici rivoluzionari dell’Italia del tempo presente, don Andrea Gallo, in una bella intervista a Stefano Galieni (“Liberazione”, 3 settembre), tra le tante parole sagge e vere, fra i numerosi spunti di analisi e di denuncia, in mezzo al sale e al pepe del flusso dei pensieri, ha detto, in attesa dello sciopero generale decretato per il giorno 6 dalla CGIL (ma anche da tante forze sindacali autonome come USB e CUB), che altro che uno sciopero generale. Dovremmo scendere in piazza per un mese intero, ogni giorno. Dovremmo paralizzare il Paese.

Mi pare, che, al di là dell’enfasi del discorso (peraltro con divisibilissima), don Gallo abbia indicato una linea di condotta. Lo sciopero generale, mentre scrivo, è ancora in corso, o appena finito; pare sia andato bene, anzi, molto bene, anzi, forse, benissimo. Un momento importante, ma deve essere solo una tappa. E se non siamo in grado di farne altri, a breve; se non siamo in grado di reggere il costo di una politica dello sciopero generale a oltranza, allora dobbiamo studiare altre vie per raggiungere il risultato. Che, oggi, è, in primo luogo, abbattere questo governo, al quale, come sui volantini di tanto tempo fa si scriveva a grandi lettere rosse, è un “governo affamatore del popolo”. Una possibile via, anche se da concertare con altre iniziative, è quella di disseminare la lotta, e invece di scendere in piazza in cento città in contemporanea, di mobilitare ogni giorno un certo numero di località: dove sia protagonista “la gente”, coloro ai quali puzza questo barbaro dominio e non ne possono più, che ne hanno le tasche piene delle parole di Berlusconi e delle pernacchie e dei bofonchii di Bossi, delle sparate di Calderoli e dei conti sballati di Tremonti, delle volgarità di Brunetta e della faccia stessa di Cicchitto e di Gasparri…; ecco dunque che in ciascuna città, gli italiani e le italiane stanchi di Ali Babà e i quaranta ladroni, alzano la voce, e assediano i palazzi del potere. Un sogno? Non credo.

Un’altra via, che è quella del “modello Parma”, dove la costanza di una intera cittadinanza ha eroso, da tutti i punti di vista, la credibilità e la possibilità stessa del sindaco e della sua Giunta di reggere l’amministrazione della città: il modello Parma è scendere in strada, tutti i giorni, o se proprio non si riuscisse, ogni settimana e comunque regolarmente. Dobbiamo fare un calendario delle lotte, assumere tutti l’impegno: in una situazione in cui il Paese è seduto sull’orlo del baratro, letteralmente, come le notizie delle borse e i giudizi stranieri ci ricordano impietosi, non possiamo accampare pretesti o motivazioni personali: non possiamo trincerarci dietro il lavoro, pensando ai tanti che il lavoro non ce l’hanno o ce l’hanno precario e in nero; non possiamo nasconderci dietro la famiglia, se facciamo mente ai giovani, spesso, ormai, ex giovani, che la famiglia, quella da costruire, non possono permettersela, data la situazione economica generale, data la speculazione sugli affitti, dato il costo di vendita delle abitazioni giunto a livelli insostenibili, un po’ dappertutto (e chi si è avventurato in un mutuo sa oggi quanto debba penare, se non vuole rinunciare all’agognato tetto che minaccia, metaforicamente, di crollargli addosso da un mese all’altro); data la difficoltà di mettere al mondo e accudire dei figli dignitosamente. Non possiamo pensare che oggi la salvezza dell’Italia sia compito di qualcun altro, qualcuno che non siamo noi.

Ogni giorno, ogni settimana, dovunque, dobbiamo assediare il Palazzo. Andiamo sotto le prefetture, sotto le sedi Rai, davanti alle porte dei giornali organo della disinformacija di regime, chiediamo, ora che riprenderanno le lezioni all’Università, di trasformare i corsi in luoghi di analisi dell’’ingiustizia sociale, animiamo le città con presidi, sit in, comizi volanti. Facciamoci sentire. Facciamoci notare. Facciamoci leggere. Stampiamo e diffondiamo piccoli fogli di controinformazione. Distribuiamo materiale informativo con i costi (e le vittime) della manovra finanziaria, sbugiardiamo Pinocchio Tremonti, ridicolizziamo i “pezzi duri” della Lega Nord, che ogni giorno minacciano il grand guignol, per poi sedersi alla tavola del ricco Epulone. E accettare le sue briciole; quando non sono essi stessi a cambiare con disinvoltura le proprie posizioni, impegnati in paurose giravolte da cui finora sono sempre usciti indenni.

Noi oggi, immersi in una crisi epocale, che è finanziaria, ma è di civiltà (o di inciviltà), siamo consapevoli che non può durare; che non deve durare. Questa gentaglia sta distruggendo il Paese: la sua economia, mentre finora pareva avesse solo attentato, riuscendoci perfettamente, anche se non del tutto, alla sua etica pubblica, e alla sua moralità; questi stanno svuotando le magre finanze degli italiani che vivono di reddito fisso, un reddito che, per i lavoratori dipendenti, da operai a insegnanti, raramente varca le colonne d’Ercole dei 1500 euro mensili, che spesso costituiscono la sola entrata di una famiglia media. E altri, a cominciare da tanti membri dello stesso governo affamatore, o i loro familiari, o i loro amici (coloro che poi sostengono finanziariamente le campagne elettorali) lucrano, con o al di fuori del conforto della legge.

La china deve essere fermata. Fermiamoli ora. Lo sciopero generale sia l’avvio dell’attacco finale, dopo le tante tappe gioiose e gloriose, dal febbraio delle donne al giugno referendario ed elettorale. Ci hanno rifilato, dalla piazza mediatica, il paradiso di bugie; ripaghiamoli, da tutte le piazze vere d’Italia, offrendo loro l’inferno della realtà.

 

Gladiatori della Casta

Dalla P4 ai depistaggi sulle stragi di mafia, quando negli scandali spunta il nome di qualche alto ufficiale delle forze dell'ordine, finisce tutto in una bolla di sapone. Con il plauso dei politici.

di Edoardo Montolli , da IL, in allegato al Sole 24Ore, settembre 2011

Che prendano il nome dal dio del mare, come Poseidone, o siano contrassegnate da una domanda qualunque in inglese, Why Not, che si fregino di un logo matematico– esoterico come P4 (1) o di un sostantivo volgare come cricca, finiscono tutte allo stesso modo, ossia in un pugno di mosche, le indagini degli ultimi anni che stanno bersagliando decine e decine di generali e alti ufficiali della Finanza, dei Carabinieri, della Polizia e dei Servizi. Non tutti sono indagati: molti figurano come semplici testimoni, altri anche solo come protagonisti di singoli episodi di valore più morale che penale: per esempio, salta fuori ora che il generale Adriano Santini, per diventare direttore dell'Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna, il controspionaggio), si è fatto accompagnare da Luigi Bisignani fino dal presidente del Comitato di controllo parlamentare dei servizi Massimo D'Alema.

Di Bisignani, del resto, un'informativa delle Fiamme gialle recita: «Chiedono ripetutamente un appuntamento o di interloquire anche solo telefonicamente con Bisignani alti ufficiali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza nonché prefetti della Repubblica». Certo, non è reato cercare di farsi delle amicizie, ma la ragione per cui militari che hanno giurato fedeltà allo Stato facciano la coda per incontrare un soggetto che è pregiudicato per la più grossa mazzetta della Prima repubblica, la maxitangente Enimont, che figurava nella lista P2 al fascicolo 203, e che peraltro non ricopre nemmeno incarichi istituzionali, è sospetta. Oggi come oggi sembra che la questione morale non sfiori nemmeno più le forze dell'ordine, ma a mettere in fila tutte le inchieste nelle cui maglie sono finiti tanti generali e ufficiali si scopre che nessuno ha mai subito contraccolpi di carriera né in caso di avvio di indagini poi terminate con l'archiviazione o l'assoluzione, né, tantomeno, in caso di condanne non definitive. Che si tratti di Gdf, carabinieri, polizia o di 007.

Nella Guardia di finanza gli ultimi in ordine di tempo a essere stati inquisiti sono il generale Vito Bardi e il generale Michele Adinolfi, recente protagonista del caso Milanese-Tremonti: indagati per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio all'interno dell'inchiesta P4 e ora trasferiti. Il primo a ispettore per gli istituti di istruzione e il secondo (appena promosso su proposta di Giulio Tremonti da generale di Divisione a generale di Corpo d'armata) dal 15 settembre assumerà l'incarico di comandante interregionale a Firenze. Adinolfi addirittura, capo di Stato Maggiore (che non risulta agli atti un conoscente di Bisignani), pare sia il più decorato tra le Fiamme gialle. Una carriera sfavillante, appena sfiorata da qualche piccolo incidente di percorso, come la sua testimonianza del 31 marzo 1995 al processo contro l'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Adinolfi fu sentito a proposito della fuga in Svizzera dell'imprenditore bresciano Oliviero Tognoli, sparito il giorno stesso in cui dovevano arrestarlo nell'operazione Pizza Connection, prima di costituirsi nel 1989. Adinolfi, all'epoca dei fatti maggiore, era consulente esterno della Commissione parlamentare antimafia, e fu indagato con altri dieci (tra cui l'ex generale Mario Mori) per falsa testimonianza. L'indagine è stata archiviata per tutti su richiesta della stessa Procura di Palermo nel luglio del 2000.

Un anno prima era ormai diventato colonnello, vicepresidente del Cocer delle Fiamme gialle e comandante del gruppo della Guardia di finanza di Catania. Allora finì nel mirino dei pm milanesi, che pensavano che un imprenditore, tale Natale Sartori, avesse costituito al Nord una sorta di filiale di Cosa nostra dedita al narcotraffico, alle false fatturazioni, alla tutela dei latitanti e in particolare alla costruzione di una rete di rapporti con ufficiali di polizia giudiziaria, politici e altre personalità. Il tutto con la regia dell'ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Adinolfi era apparso nelle intercettazioni come la «maniglia grande»: l'uomo che avrebbe dovuto aiutare Sartori a salvare le sue aziende da un controllo delle Fiamme gialle. Il numero dell'ufficiale era sulle agende di Marcello Dell'Utri. Anche in quel caso l'inchiesta finì archiviata: a Milano non c'era stata alcuna filiale di Cosa nostra. Emerse solo che Adinolfi aveva semplicemente messo in contatto l'imprenditore con un commercialista.

Passarono gli anni e, diventato generale, Adinolfi entrò tra i fedelissimi del generale Roberto Speciale, che lo portò al comando della Regione Lazio, poco prima di passare il timone a Cosimo D'Arrigo in seguito a un'accesa polemica con il ministro Vincenzo Visco. Correva la primavera del 2007 e in Calabria De Magistris apriva l'inchiesta Why Not: il nome di Adinolfi spuntò di nuovo, non tra gli indagati, ma tra coloro che risultavano in rapporti di grande amicizia con il principale inquisito, il veterinario leader della Compagnia delle opere per il Sud Italia, Antonio Saladino. E l'allora poliziotto e consulente del pm, Gioacchino Genchi, doveva relazionare al magistrato anche sui rapporti di Adinolfi con un altro indagato (e poi archiviato): il costruttore fiorentino Valerio Carducci, lo stesso imprenditore da cui prenderà poi il via l'inchiesta sulla "cricca" e che ritorna oggi come testimone nell'indagine P4 sul magistrato e deputato Alfonso Papa. Genchi avrebbe dovuto far rapporto al pm anche sulle telefonate tra Adinolfi e il professor Giancarlo Elia Valori (non indagato), all'epoca leader degli industriali del Lazio, uomo dalle ramificatissime relazioni istituzionali e risultato l'unico espulso dalla loggia P2 (a cui ha sempre negato di essere appartenuto). Ma poi De Magistris fu trasferito, Genchi revocato da consulente, e di quelle chiamate resta traccia solo nelle memorie difensive dell'ex poliziotto indagato dalla Procura di Roma (2).

Il 12 gennaio 2009 Adinolfi diventava capo di Stato Maggiore, prendendo il posto del generale Paolo Poletti, promosso a vicedirettore dell'Aisi. E proprio Poletti, che ora è stato chiamato come teste per raccontare dei suoi rapporti con Alfonso Papa nell'inchiesta P4, all'epoca di Why Not fu indagato. Lo tirò in ballo la testimone chiave del procedimento, Caterina Merante, parlando di un archivio documentale della Finanza che sarebbe dovuto transitare nella gestione di una società di Saladino, cosa che poi non accadde. E il numero del suo interno al Comando generale risultava nell'agenda di Valerio Carducci alla voce "Poletti". Quando la versione della Merante divenne nota, Poletti era già stato nominato da Speciale Capo di Stato maggiore. Ci fu un discreto scandalo, ma la sua posizione fu presto archiviata. Archiviata come quella di un altro generale delle Fiamme gialle, già a capo dell'intelligence, Walter Cretella Lombardo, uscito indenne da una vera bufera giudiziaria in Calabria. Il suo nome emerse la prima volta quando, nell'ambito dell'indagine Poseidone, fecero una perquisizione a casa di un ingegnere e funzionario Anas, Giovanbattista Papello, responsabile unico per l'emergenza ambientale in Calabria. Papello non c'era. Ma a casa i carabinieri gli trovarono un grembiulino massonico, documenti di trasporto di una partita di diamanti, e le trascrizioni di presunte intercettazioni illegali avvenute il 15 novembre del 2004, tra il presidente dell'Anas Vincenzo Pozzi e il segretario dei Ds Piero Fassino (risultate false). E ancora, un bigliettino da visita, vergato a penna, con il numero privato del cellulare proprio del generale Walter Cretella Lombardo. L'ufficiale è un uomo dai plurimi contatti con persone su cui proprio Genchi aveva indagato: come l'imprenditore Domenico Mollica, finito nella tangentopoli siciliana degli anni Novanta, il quale tenne banco sulle cronache perché alcuni politici erano usi essere suoi ospiti in barca; o l'imprenditore Tonino Gatto della Despar, segnalato dalla Procura nazionale antimafia come possibile riciclatore di fondi Ue in Lussemburgo (caso poi archiviato); e società all'epoca al centro delle indagini di Poseidone. Quando sequestrarono il suo telefono, trovarono nella rubrica, alla voce "Fonte Brava" il numero di una promotrice finanziaria condannata in primo grado per sequestro di persona insieme a due agenti del Nocs: pare fosse un terzetto di persone che voleva accreditarsi agli alti livelli delle forze dell'ordine, e che per tale ragione in passato aveva fatto trovare impacchettati criminali belli e pronti, compiendo reati. Non che fosse l'unico numero curioso apparso nella rubrica del generale. C'era il professor Giancarlo Elia Valori, sulle cui telefonate Genchi avrebbe dovuto stilare una relazione al pm. E c'era soprattutto quello di Luigi Bisignani, alla voce "Bisignani cr.", il quale, per la prima volta, fece così capolino nelle inchieste calabresi, da cui sarebbe anch'egli uscito prosciolto.

Ma appunto, un generale della Finanza che intrattiene rapporti con un pregiudicato per la «madre di tutte le tangenti», così come fu ribattezzata, non stupisce nemmeno più sotto il profilo morale. Ad aprile 2008 Cretella Lombardo fu promosso a capo delle unità speciali e oggi è al comando della Regione Veneto.

Nella lista dei conoscenti del manager condannato per la maxitangente Enimont spunta ora, dall'informativa delle Fiamme gialle sulla P4, anche il generale Fabrizio Lisi, già comandante della caserma di Coppito che ospitò il G8 nel 2009, comparso in Why Not per le svariate telefonate intrattenute con diverse persone e società entrate nei fascicoli calabresi.

Se oggi è la Guardia di finanza a essere travolta dalla bufera, fino a poco tempo fa a tenere banco è stato il fiore all'occhiello dei carabinieri: il Raggruppamento operativo speciale. Senza tornare al caso delle talpe nella Dda che avvertirono il boss palermitano Giuseppe Guttadauro di avergli messo le cimici in casa (si trattava di sottufficiali) basti pensare al processo in corso a Palermo contro l'ex capo del Ros e del Sisde (3) Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato nei confronti della mafia. L'inchiesta prende le mosse dalle rivelazioni di un altro colonello del Ros, Michele Riccio, condannato a marzo in Cassazione a quattro anni e dieci mesi insieme ad altri colleghi, per alcune operazioni piuttosto disinvolte: detenzione e spaccio di stupefacenti finalizzati a favorire i suoi confidenti e a consentire alcune operazioni di successo per ottenere avanzamenti di carriera. Le rivelazioni di Riccio riguardano il boss Luigi Ilardo, che fu misteriosamente ammazzato a fucilate proprio nel momento in cui aveva deciso di mettere nero su bianco la propria collaborazione con la giustizia. L'inchiesta di oggi verte sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, quando, secondo i pm, Ilardo avrebbe potuto portare Mori ad arrestare il capo dei capi.

Ma non sono solo gli ex vertici del Ros a essere sotto processo. Obinu, oggi ai servizi segreti, è intanto già stato condannato in primo grado a sette anni e dieci mesi insieme all'attuale comandante del Ros, il generale Giampaolo Ganzer, che di anni ne ha presi 14 per traffico internazionale di droga. Scrivono i giudici milanesi che Ganzer «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l'assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Non lo hanno condannato per il reato associativo, ma la Corte ha scritto che il generale sarebbe affetto da una «preoccupante personalità» che lo avrebbe portato a «commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione». La sentenza è del luglio dello scorso anno e Ganzer è sempre al comando del Ros, a indagare su persone in merito agli stessi reati per i quali lui è stato condannato in prima battuta. A dicembre, in un'intervista a Libero, disse: «Rimango al mio posto, continuo a fare il mio lavoro come sempre, perchè sento l'Arma con me». Grande solidarietà gli è stata espressa pure dagli esponenti politici di un po' tutti i partiti.

Per passare agli 007, gli scandali sui servizi esistono da sempre e sono diversi. Tuttavia due hanno destato particolarmente stupore. Il primo è il presunto coinvolgimento del Sismi nel sequestro di Abu Omar operato dalla Cia. Negli Stati Uniti gli agenti, processati, non hanno nemmeno ottenuto le attenuanti generiche: da otto a nove anni per Bob Seldon Lady, capo della Cia a Milano al tempo del sequestro, e da cinque a sette anni per gli altri. In Italia l'ex capo del Sismi, il generale Nicolò Pollari, e il suo braccio destro Marco Mancini sono stati invece dichiarati non giudicabili, per l'opposizione che hanno fatto del segreto di Stato. Scrivono i giudici dell'appello: «Non esiste alcun concreto elemento positivo che dimostri l'estraneità del generale Pollari all'accusa», ma non si può giudicare «nel momento in cui opera "il sipario nero" del segreto di Stato». L'avvocato di Pollari, Nicola Madia, dichiarò alla lettura della sentenza, che Pollari «avrebbe potuto dimostrare la sua innocenza nel processo, se la vicenda non fosse stata coperta dal segreto di Stato». Ma è andata così. Ed è andata così anche in un secondo procedimento che ha riguardato Marco Mancini, per la vicenda dello spionaggio Telecom. Il meccanismo è identico: all'opposizione del segreto di Stato segue il proscioglimento. A marzo, dopo un periodo di sospensione dal servizio in attesa di giudizio, Mancini è stato nominato capocentro dell'Aise a Vienna.

Un'altra singolare inchiesta sugli 007 è in corso a Caltanissetta, e riguarda le stragi del 1992. Da tempo si cerca il famigerato uomo dei servizi con la "faccia da mostro" che avrebbe ordito con la mafia gli attentati. Sia quel che sia, ma da quando il pentito Gaspare Spatuzza ha affermato che fu lui a rubare la 126 esplosiva che fece saltare per aria il giudice Paolo Borsellino il 19 luglio 1992 (4), è tutto tornato al punto di partenza. Spatuzza si è attribuito quel che era stato imputato a un delinquente da quattro soldi incastrato da due balordi pregiudicati, che diventò poi il caposaldo dell'indagine su via D'Amelio: e cioè Vincenzo Scarantino, il "pentito" che fece pure i nomi dei mandanti. All'origine di tutto ci sono gli interrogatori fatti da uno dei poliziotti più famosi d'Italia, Arnaldo La Barbera, che pare lavorasse anche per i servizi con il nome in codice Catullo. E certo è che se non fosse deceduto, oggi sarebbe probabilmente indagato per depistaggio insieme alla quasi totalità dei poliziotti del gruppo di Falcone e Borsellino, messo in piedi appositamente per trovare i responsabili della strage. Quei poliziotti oggi per la gran parte sono stimati questori e dirigenti in diverse parti d'Italia. E qualsiasi sia l'esito dell'inchiesta ancora segretissima, se è vero che Scarantino non rubò l'auto, ci si chiede come sia stato possibile dargli tutta questa attendibilità. Forse la risposta era già uscita in un'altra aula di giustizia: «Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia, cercammo di individuare l'officina dove l'auto venne imbottita di tritolo. Accertammo anche rapporti tra Scarantino, appena arrestato, e alcuni esponenti mafiosi». Sono le parole pronunciate il 25 novembre 1994 da Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, nel corso del processo in cui fu condannato in via definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in una sentenza che suscitò polemiche politiche a non finire.

Ma i tutori dell'ordine pubblico di recente sono entrati nella tempesta anche per altro. A giugno la corte d'appello di Bologna ha confermato la condanna a tre anni e sei mesi per quattro poliziotti che hanno causato la morte del giovane Federico Aldrovandi. Mai sospesi, furono spostati di sede quattro anni dopo l'omicidio, avvenuto il 25 settembre del 2005 a Ferrara. Disse la madre, Patrizia Moretti, quando lo seppe: «È ridicolo che possano ancora andare in giro armati» e «vederli in giro per la città ci faceva male, molto male. E ci faceva paura, perché per me, e per il giudice, hanno ucciso mio figlio». Fu un episodio doloroso, ma isolato. Per un altro, assai più collettivo, il mondo ha guardato e guarda ancora l'Italia sgomento: quello della "macelleria" della scuola Diaz, durante i fatti del G8 di Genova del 2001. I feriti furono 69, tre gravissimi, tra uomini, donne e ragazzini colti nel sonno. Nella scuola entrarono 250 agenti e per via del casco indossato nessuno seppe mai chi infierì su alcune persone, pestate a sangue: 25 condannati su 27 in appello, già prescritti i reati di calunnia, arresto illegale e lesioni, restano in piedi le lesioni gravi e il falso ideologico. Il 17 giugno 2010 anche l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro è stato condannato a un anno e quattro mesi, per induzione alla falsa testimonianza. Attualmente è direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza: servizi segreti.

Quanto ai condannati per le brutali percosse, il pm dei fatti di Genova del 2001, Enrico Zucca, ha dichiarato nel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci L'eclisse della democrazia (Feltrinelli): «La Corte europea dei diritti dell'Uomo ha stabilito il principio cogente per cui il rappresentante dello Stato posto sotto processo in casi del genere deve essere sospeso e, se condannato, rimosso». Invece no. Né sospesi, né rimossi. In attesa della Cassazione, li hanno promossi. Tutte queste vicende hanno a che fare soprattutto con l'etica di uno Stato. Si può obiettare che in uno Stato garantista anche una persona condannata per fatti gravissimi possa restare al proprio posto, armata, a svolgere indagini, finché non sopraggiunge sentenza definitiva (5).

Ma viene da pensare che questo garantismo non valga affatto per tutti e abbia, come sempre, due pesi e due misure: il vicequestore Gioacchino Genchi, l'uomo che aveva indagato sulle talpe del Ros, sulla Guardia di finanza, sui servizi segreti, che raccontò ciò che accadde nel gruppo di Falcone e Borsellino, e che fino al 2009 aveva ricevuto annualmente un punto in più del massimo nelle gradutatorie della polizia, è stato destituito. Non aveva frequentato pregiudicati, non aveva mai pestato nessuno, non era accusato di traffico di droga, tantomeno era stato condannato in appello per omicidio. No. È stato destituito per altro, per un fatto ritenuto evidentemente assai più grave dei precedenti: aveva espresso un'opinione.

 

Usa, l’industria della sicurezza proliferata all’ombra delle Torri Gemelle

Secondo il Washington Post, dopo l'11 settembre è nato "un mondo top-secret" composto da 1271 agenzie federali e 1931 società private che oggi lavorano nell’ambito del controterrorismo. Circa 854 mila persone nel Paese dispongono di credenziali “top-secret”. Analisti ed esperti di terrorismo pubblicano 50 mila rapporti ogni anno. E molte agenzie del governo finiscono per fare lo stesso lavoro, creando sprechi e confusione

Il suo nome è JSOC. Joint Special Operations Command . Per intenderci, è il corpo militare responsabile dell’uccisione di Osama bin-Laden , lo scorso maggio. Creato nel 1980, è stato per molti anni responsabile della liberazione di ostaggi americani rapiti all’estero. Poi, con l’11 settembre 2001, il suo ruolo cambia. Il JSOC ha affiancato la Cia nelle operazioni di controterrorismo all’estero. Dispone di propri luoghi di detenzione, dove interroga i prigionieri. Lavora in gruppi di pochi uomini ben addestrati. Ha ovviamente una kill list , una lista di presunti terroristi da eliminare. Soprattutto, il JSOC è una formidabile e letale macchina di morte, che agisce nel mistero, fuori da ogni autorizzazione e controllo, e di cui i presidenti americani si sono in questi anni serviti come personale strumento contro militanti di Al Qaeda e altri presunti terroristi.

Le truppe speciali del JSOC sono però soltanto il centro di una galassia di organizzazioni, gruppi, strutture – pubbliche e private – create dopo l’11 settembre e cresciute a dismisura in questi dieci anni. Si tratta, ha scritto lo scorso dicembre il “ Washington Post ”, di “un mondo top-secret divenuto sempre più ampio e segreto, tanto che non si sa quanto denaro costi, quante persone impieghi, quali agenzie facciano lo stesso lavoro”. I numeri lasciano attoniti. 1271 agenzie federali e 1931 società private lavorano oggi nell’ambito del controterrorismo . Il budget per la sicurezza degli Stati Uniti è oggi di 75 miliardi (21 volte e mezzo quello precedente l’11 settembre). Circa 854 mila persone nel Paese dispongono di credenziali “top-secret”. Dal settembre 2011 a Washington, e nelle immediate vicinanze, sono stati costruiti 33 complessi di uffici che fanno lavoro di intelligence (si tratta di un’area 22 volte più larga di quella occupata dal Congresso). Analisti ed esperti di terrorismo pubblicano 50 mila rapporti ogni anno. E molte agenzie del governo finiscono per fare lo stesso lavoro, creando sprechi e confusione (per esempio, 51 organizzazioni federali seguono i flussi di denaro per e da i gruppi terroristici).

“E’ un fenomeno disastroso, di cui nessuno parla – ci dice David Cole , costituzionalista di Georgetown University -. Ma è questo il vero lascito dell’11 settembre: un’industria della sicurezza misteriosa e costosissima”. Il “mistero” di questa industria è stato del resto riconosciuto dallo stesso ex-segretario alla Difesa, Robert Gates , che lo scorso dicembre ha spiegato che “la crescita di intelligence dopo l’11 settembre è stata tale, che è una vera sfida abbracciarla tutta”. Proprio al Dipartimento della Difesa c’è un gruppo ristretto di funzionari, chiamati “Super Users”, con l’esclusivo potere di conoscere e coordinare il lavoro di tutte le strutture di intelligence. “Ma io non vivrò abbastanza a lungo per conoscerle tutte”, ha detto anonimamente al “Washington Post” uno di questi “Super Users”. Quando poi il generale in pensione John R. Vines (un tipo tosto, che ha comandato 145 mila soldati in Iraq) si è visto assegnare il compito di valutare efficacia e costi della struttura, le sue conclusioni sono state disarmanti: “La complessità del sistema sfida qualsiasi descrizione”.

La “piovra” della sicurezza americana è insomma cresciuta e sfuggita di mano ai suoi stessi creatori, e oggi si muove senza controlli e, probabilmente, senza una “testa”. La “piovra” della sicurezza americana ha però voluto dire soprattutto un enorme fiume di denaro fatto affluire nelle tasche dei privati. Migliaia di dipendenti di società legate al Pentagono – i contractors – sono finiti in questi anni nelle zone di guerra. Il sistema oggi prevede che ci sia un contractor per ogni soldato americano (il rapporto era un contractor ogni otto soldati ai tempi della guerra in Vietnam). Quando, l’anno prossimo, i soldati americani lasceranno in modo ormai sostanziale l’Afghanistan, verranno sostituiti da 5000 guardie private con il compito di provvedere alla sicurezza.

Il passaggio ai privati delle operazioni di guerra si è rivelato disastroso, in termini morali e materiali. Sono stati contractors Blackwater a sparare sui civili, e a ucciderne 17, in uno dei più infami episodi della guerra in Iraq, a Bagdad, nel 2007. Sono stati contratti stipulati dal Pentagono – senza ricorrere a un’asta – a condurre ad almeno 30 miliardi di sprechi nell’ultimo anno (lo ha rivelato una commissione bipartisan del Congresso). E’ stato il rapporto sempre più stretto tra governo e privati a portare tanti funzionari americani a lavorare, pagatissimi, per le compagnie private di sicurezza ( James Woolsey , ex-capo CIA, è stato assunto da Booz Allen ; William Studeman e Barbara McNamara , alla guida della National Security Agencys, sono finiti rispettivamente a Northrop Grumman e CACI). Chi ha cercato di porre rimedio a questa situazione di sprechi e connivenze ha spesso pagato personalmente. Il “ New York Times ” ha raccontato la storia di un funzionario del Pentagono, Charles Smith , rimosso dal suo incarico dopo aver denunciato un miliardo di dollari di spese non giustificate da parte di KBR, allora parte di Holliburton , tra i più potenti fornitori dell’esercito.

La lista sarebbe ancora lunga, e dovrebbe ovviamente comprendere gli immani costi pagati a casa, negli Stati Uniti, per evitare un nuovo attentato. L-3 ha ottenuto contratti da 900 milioni di dollari per fornire gli aeroporti americani dei full-body scanners (anche se un rapporto del “Government Accountability Office” definisce “non chiara” la capacità dei nuovi scanners di identificare più sofisticati ordigni esplosivi). E ogni edificio “sensibile” di Washington e delle altre città americane è stato dotato di apparecchiature di controllo e sicurezza fornite e spesso gestite dai privati: “escort-required badges”, macchine ai raggi X, aree tecnologicamente impenetrabili, protette da allarmi e unità di sicurezza capaci di rispondere entro 15 minuti (hanno anche un nome: “sensitive compartmented information facility”). Una buona parte degli oltre 75 miliardi forniti dal Congresso per migliorare la sicurezza a casa è insomma finita nelle tasche dell’industria della sicurezza, rapidamente diventata uno degli affari più lucrosi e imponenti del Paese.

 

Ulster, il fuoco della memoria

Comincia il processo ai super-informatori: poliziotti infiltrati nelle formazioni paramilitari che alimentarono feroci faide tra i lealisti

Si chiama 'supergrass' , in inglese 'super-informatore ': è il processo che si è aperto martedì a Belfast,' il più importante dal 1985 a oggi. La polizia nord-irlandese ha previsto misure di sicurezza eccezionali per evitare che le due fazioni vengano alle mani. Non si tratta di lealisti contro repubblicani, ma di lealisti contro lealisti . Sono quattordici i membri del gruppo militare Ulster Volunteer Force (Uvf) che andranno alla sbarra. Due di loro forniranno testimonianze contro gli ex compagni. Al centro del processo, non tanto le imputazioni di omicidio o ricatto, quanto l'accusa più pesante: essere stati poliziotti al tempo dei disordini in Irlanda del Nord. E, da poliziotti, aver ucciso un membro di un gruppo militare affine: Tommy English, dell'Uda ( Ulster Defence Association ).

L'uomo accusato dell'omicidio è Mark Haddock , uno dei leader dell'Uvf a Belfast. Lo stesso Haddock fu a sua volta bersaglio dei paramilitari a lui alleati, dopo che fu scoperta la sua identità di informatore speciale. Fino a una settimana fa, Haddock ha vissuto a un indirizzo segreto in Gran Bretagna , con l'ordine da parte del procuratore ai media di non rivelare la sua residenza. Il grosso delle accuse nei suoi confronti sono state portate al processo dai fratelli Stewrt, Robert e David, in carcere per aver aiutato a pianificare l'omicidio di English. Dopo la sua morte, si è rinnovata la faida tra membri dell'Uvf e tra questi e i 'cugini' dell'Uda.
Fonti della sicurezza hanno rivelato al Guardian che la polizia teme massicce violenze in tutta la città, prima del processo. A giugno, l'Uvf ha architettato tre giorni di violenza nella parte orientale di Belfast, dopo aver organizzato un attacco nell'enclave cattolica di Short Strand. Per questo il processo si tiene in due sezioni separate del tribunale. Amici, sostenitori e parenti della gang dei 14 imputati assisteranno alle udienze in un'aula a breve distanza dal tribunale generale , sotto gli occhi attenti dei poliziotti. Un anello di acciaio presidiato è stato elevato lungo il perimetro del tribunale.

I lealisti hanno già manifestato contro il processo, che ritengono basato esclusivamente sulle testimonianze di 'spergiuri pagati', una frase che i paramilitari dell'Uva usavano spesso negli anni '80 contro i testimoni dei processi dei super-informatori, in seguito ai quali decine di persone finirono in carcere.
La polizia è accusata dagli estremisti protestanti di focalizzare la propria attenzione solo sul versante lealista, e non sui crimini dei repubblicani. Al culmine dei processi ai super-informatori, tra il 1982 e il 1985, lealisti e repubblicani mandarono dietro le sbarre centinaia di sospetti per decine di omicidi. Nel caso di Christopher Black, ventiduenne dell'Ira, 22 suoi ex compagni furono incarcerati con pene di oltre quattromila anni.
Il sistema tuttavia collassò nel 1985, dopo che un giudice stabilì che la testimonianza di un testimone era 'inattendibile': tutti coloro che finirono in carcere a causa di tale testimonianza furono immediatamente scarcerati.

Luca Galassi

 

Cambia il titolo, una foto, il prezzo, ma il libro da comprare è lo stesso

Sfogliare le diverse edizioni dei testi scolastici può portare a spiacevoli sorprese: modifiche impercettibili, argomenti uguali, con le medesime parole, spostati di pagina. Ma lo studente è costretto all'acquisto perché il "codice" è diverso. Il budget sale, le leggi vengono aggirate e il mercato dell'usato perde spazio. Le nuove possibilità su internet

GENOVA - "E quindi uscimmo a riveder le stelle"; che Dante si riferisse ai prezzi "astronomici" dei testi scolastici? L'interpretazione potrebbe spingere qualche editore a pubblicare una nuova edizione dell'opera. Anche quest'anno si conferma l'aumento della spesa per l'acquisto dei libri scuola, l'usato scarseggia e gli studenti si organizzano tra banchetti e compravendite online. La Divina Commedia è sempre più cara e così anche tutti gli altri testi, sia per la scuola secondaria che per la primaria. A settembre si ritorna sui banchi con gli zaini ancora più pesanti e i portafogli più leggeri. Gli aumenti, valutati dalle associazioni dei consumatori, variano tra il tre percento di Adusbef e Federconsumatori e l'otto percento di Codacons. La spesa che una famiglia dovrà affrontare a settembre cambia a seconda dell'indirizzo scelto. Per una prima liceo del classico si spendono 330 euro, per una prima scientifico 315, la cifra per un istituto tecnico è invece di 300. Non va bene ai liceali del primo anno costretti a spendere anche 300 euro per i dizionari. Ma a subire gli aumenti più significativi saranno gli studenti degli istituti tecnici del settore tecnologico (più 9,1 percento) e di quello economico (più 5,7 percento). Il passaggio al secondo anno comporta un incremento di spesa netto: si arriva al 37,5 percento per il settore tecnologico e al 20,6 percento per quello economico.

Altroconsumo punta il dito contro il ministero dell'istruzione, che ha alzato i tetti massimi di spesa a cui le classi devono attenersi per il libri di testo. Tetti che non vengono rispettati almeno nella metà dei casi: lo dice Adiconsum secondo cui lo sforamento raggiunge il 30-40 percento del massimo previsto. E spesso vengono utilizzati stratagemmi per restare all'interno del budget: "Quattro ragazzi sono tornati indietro per acquistare altri libri - racconta Alessandro D'Alessandro di Voltapagina - che dalla lista risultavano come "consigliati" ma in realtà hanno scoperto essere necessari per il programma di quest'anno". E' il caso di una quinta liceo di un artistico genovese; sommando i prezzi dei libri segnalati in lista come "da acquistare" con quelli "consigliati" si supera di gran lunga il tetto spesa, ma calcolando la cifra dei soli "da acquistare" si rimane nei termini previsti dalla legge. Anzi, si resta al di sotto: di 49,10 euro, per la precisione. Ma, poi, bisogna andare a verificare se e come i libri "consigliati" diventano praticamente "obbligatori" perché, alla prova dei fatti, l'insegnante, magari, li richiede.

Ma non è l'unica sorpresa dietro l'angolo per le famiglie. Il mercato dell'usato è sempre più strizzato perché si susseguono nuove edizioni. La circolare del Ministero, in materia di adozioni per l'anno scolastico 2011 - 2012, parla chiaro. Per la scuola media e superiore si richiamano i vincoli stabiliti il 4 marzo scorso dal comma 23: edizioni bloccate rispettivamente per cinque e sei anni. Ma accade che cambi l'editore e con un testo identico ci si ritrovi un codice a barre diverso. "Immagini della biologia" di Campbell, già seconda edizione, volume C, edito da Zanichelli nel 2010, diventa "Il nuovo Immagini della biologia", Il corpo umano, sempre di Campbell ma Libro misto (cioè con contenuti multimediali come previsto dalla riforma Gelmini) ed edito da Linx. Stesso prezzo, ma cambio di edizione. Stando ai contenuti pare che la scienza non abbia fatto scoperte sconcertanti in materia di gechi; l'edizione Zanichelli, a pagina 338 dice: "Un anatomista prenderebbe in esame la struttura dei muscoli e delle ossa delle zampe di un geco, o la forma e il numero delle setole delle dita". L'edizione Linx, a pagina 340: "Un anatomista, per esempio, si interesserà della disposizione dei muscoli e delle ossa nelle zampe di un geco oppure della forma e del numero delle setole cutanee che gli permettono di arrampicarsi sui muri".

Ancora un esempio: la materia, italiano in questo caso, ma nuovo titolo. Nell'edizione unica del 2005 ancora in catalogo era "L'esperienza del testo" di Beatrice Panebianco e Antonella Varani volume "La narrazione", per Zanichelli al costo di 20,70. Dal 2009 è "Metodi e fantasia", La Narrativa di Beatrice Panebianco e Antonella Varani, sempre per Zanichelli ma libro misto, costa meno (19,70 euro) ma se è una nuova adozione sono altri venti euro da aggiungere per un testo che aperto a caso e a confronto con quello precedente (che quindi si potrebbe acquistare a metà prezzo usato) non salta all'occhio certo per le novità. Anzi. Si prenda l'analisi del racconto. Prima era, (pagina 47): "Caratterizzazione del personaggio. Tipi e individui. A seconda della complessità psicologica distinguiamo fra tipi e individui. Il personaggio tipo o piatto è statico, cioè non si evolve nel corso della storia, ha tratti psicologici costanti e una fisionomia rigida che ne mettono in risalto un difetto (avarizia, viltà) o una qualità (generosità, mitezza) e ne fanno il simbolo di una condizione umana ". Pochi anni dopo (pagina 68) le modifiche sono impercettibili: "L'identità. Tipi e individui. A seconda della complessità psicologica distinguiamo fra tipi e individui. Il personaggio tipo (o piatto) è statico, cioè non si evolve nel corso della storia, ha tratti psicologici costanti e una fisionomia rigida che ne mettono in risalto un difetto (avarizia, viltà)... o una qualità (generosità, mitezza...) e ne fanno il simbolo di una condizione umana". Cambia la scelta dei testi e l'ordine in cui vengono presentati gli argomenti ma la forma dei contenuti rimane la stessa.

A volte non cambia neanche la copertina. "L'esperienza del testo" di Panebianco e Varani, edito da Zanichelli, volume poesia e teatro, prezzo 17,20 dal 2005 in corso la copertina presenta una foto a riquadro. In "L'esperienza del testo poesia e teatro" di Panebianco e Varani, edito Zanichelli con percorso, 2011, prezzo 17,20. Stessa copertina ma la foto è estesa e ben in evidenza il logo del "Libro Misto". La vita di Umberto Saba? Quella è. Ma in quanti modi si potrebbe raccontare? Per Zanichelli uno e uno soltanto. Prima e dopo: "La vita. La famiglia. Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli) nacque a Trieste nel 1833 da madre di origine ebraica (si chiamava Felicita Rachele Coen). Con scheda a fine pagina (115 per l'edizione 2005, 185 per quella mista) intitolata Il "complesso di Edipo".

Il libro, dunque, è lo stesso ma c'è "l'aggiuntina" del nuovo codice. E allora per risparmiare si va in rete. Il primo settembre scorso l'arrivo di Amazon nel mercato dell'usato ha messo tutti in competizione. Sul web è boom di siti che permettono di comprare e vendere i testi usati. Si risparmia così dal 50 al 70 percento della spesa prevista. Il vantaggio è che questi marketplace non trattengono percentuali e la consegna avviene in due giorni lavorativi. Il rischio è che con il corriere arrivino dei testi non proprio intonsi e allora il risparmio è bello che andato. Ebay e Amazon costano un po' di più e consentono la verifica del venditore, Comprovendolibro rilascia i contatti del venditore il quale decide le modalità di consegna.

In alternativa c'è Studenti.it dove è possibile scoprire il mercatino dell'usato più vicino a casa e risparmiare il cinquanta per cento o ancora la catena della grande distribuzione, dove per legge (Levi) lo sconto sul nuovo non dovrebbe superare il 15 percento, ma dove è anche possibile prenotate online la lista e ritirarla nel punto vendita. Da Leclerc ad esempio lo sconto arriva fino al 30 percento: il 15 è sul prezzo di copertina e il resto in buoni spesa, ma a Confocommercio non va giù. La politica degli sconti ha una logica perversa - dice il sindacato unito dei librai - perché il grande distributore fa lo sconto al cliente richiedendo grossi sconti all'editore che per difendersi alza il prezzo di copertina: evitare lo sconto selvaggio comporterebbe un calo dei costi a vantaggio di tutti".

 

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