Libia:
la Nato può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra
di Agostino Spataro
DECENNALE 9/11: INVECE DEL PROCESSO SI CELEBRERA’ UNA VEDETTA DI STATO
Gheddafi farà la stessa fine
di Osama Bin Laden? Probabilmente, sì. Alcuni lo auspicano, taluni lo
minacciano, apertamente.
Se ciò dovesse accadere non
sarà certo per “spirito di vendetta degli “insorti”. Quali ragioni avrebbero di
vendicarsi quei suoi sodali che fino all’altro ieri, per 42 anni, hanno
comandato e condiviso col dittatore potere e ricchezza?
Sarebbe ucciso per
tappargli la bocca, per evitare che in un processo equo e pubblico potesse
chiamare in correità i suoi ex amici, libici e internazionali.
Del resto, la soluzione
sarebbe in linea con la sorprendente decisione assunta dalla presidenza Usa di
assassinare Osama Bin Laden, facendone addirittura sparire il corpo.
Per tale decisione molti
hanno esultato. La gran parte dei cittadini Usa e del mondo intero, invece,
hanno visto in questo atto fin troppo sbrigativo la negazione di un loro diritto
fondamentale: quello di poter processare un capo terrorista che- secondo la
versione ufficiale- è stato l’autore del più tremendo attentato della storia che
provocò circa tremila vittime innocenti statunitensi.
Insomma, il diritto alla
giustizia vera, non sommaria, il diritto alla verità.
Quale migliore
celebrazione si poteva fare del Decennale, se il prossimo 11 Settembre si fosse
aperto, a New York, il processo a Osama Bin Laden per l’accertamento pieno delle
responsabilità e della verità?
Invece, sarà celebrata
soltanto un’oscura vendetta di Stato.
CON
GHEDDAFI BISOGNAVA CHIUDERE QUALCHE ANNO FA, INVECE…
Con Gheddafi il copione
potrebbe ripetersi, per evitare che, parlando in un processo, possa creare molti
imbarazzi e bloccare fulminanti carriere politiche in Libia e all’estero.
Soprattutto, di tanti capi di
Stato occidentali i quali, nonostante il dittatore libico avesse ammesso la
tremenda responsabilità per i due attentati agli aerei civili nei quali perirono
circa 600 persone innocenti, lo hanno premiato accogliendolo nel club esclusivo
dei loro amici e protetti..
Con Gheddafi, bisognava
chiudere allora, isolandolo e invocando il principio di giustizia. Invece, non
se ne fece nulla. (1) Nemmeno al Tribunale dell’Aja hanno aperto un fascicolo di
atti relativi.
E’ bastato che il
colonnello pagasse un indennizzo alle famiglie delle vittime,( ch’era la
conferma agghiacciante della sua responsabilità) per fare esattamente il
contrario di quanto andava fatto.
Si è avviata, infatti, fra
i capi di Stato e di governo dell’Occidente una sorta di gara a chi per prima
riusciva a “sdoganare” un terrorista reo confesso, a riceverlo presso le più
prestigiose cancellerie, baciandogli persino la mano. Tutti, non solo Berlusconi.
Compresi i signori Sarkoszy,
Obama e i premier inglesi che come “cadeau” gli hanno consegnato libero
l’unico imputato libico detenuto in Gran Bretagna per la strage di Loockerbie.
Il problema, dunque, che si
pone non è nominalistico, ma di coerenza politica e morale e di rispetto dei
principi della legalità internazionale e della nostra civiltà giuridica che
condannano le ingerenze esterne e la barbarie delle esecuzioni sommarie e i
processi-farsa.
Oggi, in Libia si corre
questo rischio. Il popolo libico, nell’ambito della propria legislazione, ha il
diritto di processare Gheddafi per le colpe e i reati attribuitigli ed anche
tutti coloro che hanno cooperato col dittatore.
Un processo equo sarebbe
una vittoria della giustizia e una condizione basilare per avviare, con idee e
uomini veramente nuovi, una riforma in senso democratico dello Stato e
dell’economia libici.
INTERVENTI “UMANITARI”: PIU’ DISASTROSI DELLE MALEFATTE DEI DITTATORI
Andiamo ora a questo ennesimo
intervento militare “umanitario” che in realtà si sta dimostrando essere una
guerra della Nato, con gli “insorti” al seguito, i quali - come ha detto
efficacemente Edward Luttwak: “sparano per i cameraman delle televisioni”
E poi, conti alla mano, si è
dimostrato che questi interventi hanno provocato più morti e distruzioni di
quelle provocate dai carnefici che si vorrebbero bloccare e punire.
Basta guardare l’abisso in
cui sono stati trascinati la Somalia, l’Afghanistan e ora la Libia.
Il caso dell’Iraq è davvero
emblematico: Saddam Hussein è stato impiccato perché accusato di avere ordinato
la strage di alcune migliaia di poveri sciiti, mentre la guerra di Bush junior,
fino ad oggi, ha provocato diverse centinaia di migliaia di innocenti vittime
irachene.
C’è chi parla di circa
600.000!
Anche la soppressione
ingiusta di una sola persona dovrebbe far inorridire la coscienza di ognuno di
noi. Tuttavia, se i numeri e la vita degli uomini hanno ancora un senso, tremila
o cinquemila vittime di Saddam non sono la stessa cosa delle trecento o
cinquecentomila provocate dall’invasione militare di Bush e della coalizione
internazionale che- com’è comprovato- hanno deliberatamente falsato le prove per
invadere l’Iraq.
Se Saddam ha pagato i suoi
crimini con l’impiccagione, perché non devono pagare coloro che hanno provocato
questo più grande sterminio? Perché l’ineffabile tribunale dell’Aja non ha
aperto un fascicolo, un’inchiesta?
L’INELUTTABILITA’
DELLA GUERRA COME RISPOSTA ALLA CRISI GLOBLE?
A queste e ad altre
drammatiche domande nessuno dei responsabili risponde.
Forse, i capi delle grandi
potenze occidentali pensano di cavarsela sempre a buon mercato, impunemente,
cospargendo l’umanità di vecchi e nuovi terrori, anche inesistenti, per meglio
imporre il loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni
internazionali.
Come se questo nostro
Occidente, in decadenza e in mano a poteri forti e invisibili, eletti solo dai
consigli di amministrazione di banche e società d’affari, non riuscisse più ad
elaborare risposte a questa crisi globale, epocale, diverse dall' opzione
militare. Siamo all’ineluttabilità della guerra?
Speriamo, sinceramente, di
sbagliare l’analisi, ma in giro si avvertono strani sentori.
C’è una crisi anche del pensiero occidentale? Sicuramente, pesano
l’infiacchimento della democrazia rappresentativa, l’umiliazione della politica
oramai asservita ai disegni della finanza e delle consorterie economiche
internazionali, il dilagare dei poteri criminali.
Sopra tutto, pesa la crisi del ruolo economico dell’Occidente che non riesce a
produrre più la ricchezza (tanta) che consuma, che importa e spreca risorse
energetiche, inquinando il Pianeta e devastandolo con guerre micidiali e
infinite per procurarsele.
Come sta facendo in Libia, in Iraq e altrove.
Sappiamo che le crisi ci sono sempre state e, bene o male, sono state superate.
Questa volta, però all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s’intravede una
soluzione degna e condivisa, a garanzia del benessere e della convivenza
pacifica mondiali. Qui sta il punto di novità ineludibile: con la
globalizzazione, l’Occidente non è più il principale protagonista della storia.
ITALIA: FINCHE’ C’E’ GUERRA NON C’E’ SPERANZA
L’Italia, da almeno un
ventennio, sembra essersi avviata su questa china. Siamo un Paese bellissimo, ma
pieno di debiti e di storture che si da arie da grande potenza.
Partecipiamo a tutte le
missioni militari all’estero, a tutte le guerre in giro per il mondo,
acquistiamo sistemi d’arma costosissimi come se dovessimo entrare in guerra con
la Cina o con gli Usa.
Insomma, una spesa militare
enorme (insopportabile per un paese come l’Italia che sta tagliando scuole,
ospedali e assistenza ai più deboli) per partecipare alla folle corsa al riarmo
ripresa su scala planetaria.
Un solo esempio: l’Italia
ha impegnato ben 15 miliardi di euro (mezza manovra di Tremonti) per l’acquisto
di un centinaio di bombardieri F35.
Domanda: oggi che la crisi
incalza, perché non si annulla, non si rinvia o almeno non si sospende questa
colossale commessa?
Insomma, finché c’è guerra
c’è speranza. Di questo passo, quante altre guerre ci vorranno? Oggi è il
turno della Libia. Ieri è stato quello della Costa d’Avorio. Domani, chissà,
forse quello del Venezuela, di Cuba, ecc.
L’Italia, per la sua
tradizione, per la sua Costituzione pacifista e antifascista, per i suoi
interessi nazionali, non può accodarsi supinamente all’interventismo di altri.
Ieri a quello disastroso
di Bush, oggi a quello avventuroso del presidente francese che tanto preoccupa
l’opinione pubblica mondiale e europea ed allarma molti governi legittimi, in
Africa e in Medio Oriente, che lo percepiscono come una seria minaccia
d’ingerenza e d’instabilità internazionale. Insomma, nessuno si sente più sicuro
in casa propria!
LA
GUERRA A DEBITO DELLE GRANDI POTENZE
Tutto ciò è inaccettabile,
immorale per una società libera e democratica. Si stanno devastando i bilanci
degli Stati, contraendo debiti sopra debiti per finanziare guerre, nient’affatto
umanitarie.
Perché deve essere chiaro che
queste “grandi potenze” fanno le guerre a debito ossia con i soldi prestati
dalla Cina e dai piccoli risparmiatori locali.
Questa notazione vale in
particolare per gli Usa, meno per l’Italia il cui debito pubblico
(sproporzionato) è prevalentemente finanziato dal risparmio interno ed europeo.
Inoltre, ribadisco che
l’Italia partecipando alla guerra in Libia ha solo da perdere sul piano
dell’immagine politica e su quello delle sue relazioni economiche e commerciali.
Per certi aspetti, questa guerra è anche contro l’Italia.
Ovviamente, il nostro
discorso è prima tutto politico, umanitario; coerente con il pacifismo insito
nell’articolo 11 della nostra Costituzione che non può essere oscurato da quel
vergognoso codicillo introdotto per vanificarlo.
Oggi, anche i grandi giornali
italiani che hanno incitato alla guerra scrivono, allarmati, di come si potrà
spartire il “bottino” ossia il tesoro del popolo libico: i grandi giacimenti
d’idrocarburi e- a quanto si dice- le cospicue riserve finanziarie, anche in
oro, e in titoli azionari, ecc.
Tutto sarà deciso a Parigi,
su iniziativa di Sarkozky, il principale promotore del progetto
“insurrezionale”, che vorrà fare la parte del leone, in accordo con gli altri
due paesi della triade bellicista (GB e USA).
SI
PUO’ VINCERE LA GUERRA, MA PERDERE IL DOPOGUERRA
Non sappiamo che cosa sia
stato promesso alle più alte Autorità italiane per indurle a far entrare il
Paese in questa avventura, mettendo a disposizione navi, aerei e diverse basi
italiane.
A quanto si vede, gli
“insorti” preferiscono trattare con la triade e trascurano il governo italiano.
Se la tendenza venisse
confermata, si aprirebbero scenari molto problematici per l’Italia.
Il governo e il ceto
politico italiano (di destra e di centro-sinistra), stranamente unito in questa
scelta improvvida, sapevano a quali conseguenze si andava incontro e avrebbero
dovuto chiarirlo al Paese, al Parlamento. Non è stato fatto. Perciò, crescono le
inquietudini nell’opinione pubblica. E’ tempo che i nostri responsabili
rispondano ai tanti quesiti che la gente si pone e fra questi alcuni davvero
pregnanti e prioritari:
1) quale sarà il futuro dei
nostri rifornimenti d’idrocarburi derivati dalla Libia (circa il 25% del
fabbisogno totale italiano);
2) quali squilibri si
potranno determinare nella bilancia commerciale italo-libica, unica in
equilibrio con un paese petrolifero;
3) che fine faranno gli
ambiziosi programmi d’investimento (in ricerca e produzione) di Eni e il ruolo
stesso di questo colosso dell’energia (al 70% privatizzato) che fa ombra a molti
all’estero e purtroppo anche in Italia.
4) cosa ne sarà dell’accordo
d' indennizzo e di cooperazione firmato da Berlusconi e Gheddafi con un costo
per l’Italia di cinque miliardi di euro in 20 anni;
5) come spiegano, infine, il
rifiuto della Germania, paese membro della Nato e locomotiva dell’Unione
Europea, di partecipare all’avventura libica. Insensibilità o preveggenza della
signora Merkel?
Le risposte,
probabilmente, non verranno poiché questi signori si sentono invincibili con… i
deboli. Attenzione, però, che si può vincere la guerra, ma perdere il
dopoguerra.
26 agosto
Quanto
paghiamo per la Chiesa
di Mauro Munafò
L'esenzione da
Ici e Ires. L'Irpef dei dipendenti vaticani. L'otto per
mille, incluso quello di chi non sceglie di darlo alla Santa
Sede. Lo stipendio degli insegnanti di religione. I
finanziamenti alle scuole cattoliche. Perfino l'acqua e i
depuratori del papa. Ecco, voce per voce, quali sarebbero i
tagli 'sacrosanti'
Benedetto XVIDurante il week end la pagina
Facebook
'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato
di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che
tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di
tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è
traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in
questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù
che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la
testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha
per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni
fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si
potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza
neppure rivedere il Concordato», sostiene.
Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della
Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione
quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e
in altri casi solo su stime.
Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono
le spese principali a carico dello Stato italiano,
trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più
complesso è stabilire quali sono i mancati introiti
derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto
gli enti ecclesiastici.
Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.
Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si
accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria
si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti
alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille),
i fondi per gli stipendi dei professori di religione
cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che
svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti
alle scuole paritarie e alle università private che in
buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da
circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato
centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità,
ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano
in questi conteggi.
La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più
contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale
Irpef che il cittadino può destinare ad un credo
religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la
Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011
la cifra record di
un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85%
dell'intera torta.
A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre
aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata
concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A
differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille
di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui
scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e
influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In
questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei
fondi viene stabilita solo dai "votanti".
Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa
Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme,
riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza
destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai
Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano
il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli
spot pubblicitari: le confessioni più piccole non
possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo
Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando
nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.
Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però
l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la
legge può essere ridefinita da una apposita commissione
ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha
istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di
ogni triennio successivo al 1989, un'apposita
commissione paritetica, nominata dall'autorità
governativa e dalla Conferenza episcopale italiana,
procede alla revisione dell'importo deducibile di cui
all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della
quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di
predisporre eventuali modifiche".
Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento
del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato
pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al
nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se
questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo
chiesto di accedere agli atti della commissione
incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario
Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il
segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato
che quei documenti devono restare riservati".
Caccia, sconto ai bracconieri
di
Federico Formica
Alla vigilia
della nuova stagione venatoria, il governo approva una legge
secondo cui uccidere animali selvatici protetti non è reato
se questo avviene "in quantità trascurabile" e con "impatto
trascurabile" sulla specie
L'Italia recepisce la direttiva europea contro la
caccia selvaggia. Almeno a parole. Perché la realtà è
un'altra: il nostro Paese continuerà a essere una vera
pacchia per i bracconieri. Il decreto legislativo 121
entrato in vigore lo scorso 16 agosto - e presentato
come una rivoluzione - è stato depotenziato e svuotato
della filosofia originale: punire duramente i reati
contro l'ambiente con multe salate e carcere. Il nuovo
testo è riuscito a scontentare tutti: dagli animalisti a
Federcaccia, l'associazione che riunisce circa 400.000
cacciatori italiani sui 750.000 totali.
Nel recepire la direttiva Ue 2008/99 il Parlamento ha
introdotto due nuovi articoli nel codice penale. Per
punire i killer di animali protetti e chi distrugge gli
habitat di un sito sotto tutela. Ma si tratta di reati
simbolici perché i bracconieri italiani continuano a
rischiare pochissimo. Grazie a una parola magica:
"oblazione". Cosa significa? Che chi uccide un lupo in
Italia non fa neanche un giorno di prigione e resta con
la fedina penale pulita. Basta pagare la metà della pena
pecuniaria - in questo caso circa 1000 euro - per vedere
cancellato il proprio reato, come se non fosse mai
esistito. La nuova legge di ispirazione europea non
corregge questa stortura. Anzi, la riprende.
Ed ecco che le pene previste dal decreto 121 appaiono
severe solo a un occhio inesperto: carcere da uno a sei
mesi o ammenda fino a 4000 euro per chi caccia animali
protetti. Oltre ad essere all'acqua di rose, la legge
anti-bracconaggio è come una scatola vuota. Perché
protegge solo quegli animali che la nostra legislazione
non ha ancora messo sotto tutela. E sono pochissimi. La
stragrande maggioranza delle specie protette è già
compresa nella nostra legge 157/1992. In poche parole il
nuovo testo non verrà quasi mai citato nelle aule dei
tribunali italiani.
Da venti anni la 157 è l'arma spuntata che la
magistratura utilizza contro i pirati con la doppietta.
Stabilisce chi, come, quando e dove si può sparare. E
soprattutto quali specie risparmiare. Con un'attenzione
speciale verso lupo, orso, lince, puzzola, cervo sardo,
camoscio d'Abruzzo. Solo per citare i mammiferi.
Insomma, una legge cardine. Che prevede pene esemplari
solo a parole. Da due a otto mesi di reclusione o
un'ammenda da 750 a 2000 euro, almeno sulla carta.
"Sono reati di facciata, puniti come contravvenzioni
anziché come delitti" commenta Maurizio Santoloci,
magistrato e direttore della testata online Diritto
all'Ambiente "l'effetto deterrente è insignificante
perché il bracconiere ha la possibilità di oblazionare,
cioè di cancellare il reato".
Anche i reati previsti dalla direttiva europea, con cui
Bruxelles si era ripromessa di dichiarare guerra ai
pirati ambientali, in Italia vengono considerati
contravvenzioni oltre ad essere oblazionabili. Quindi di
serie B. Da punire, sì, ma senza esagerare.
Il nuovo decreto fissa anche un principio piuttosto
vago: le pene non si applicano se il bracconiere uccide
una quantità "trascurabile" di esemplari. Chi stabilisce
se tre lupi uccisi debbano essere trascurati e in base a
quali principi rimane un mistero.
"Un regalo ai bracconieri" sostengono Lav (lega
antivivisezione) e l'Associazione vittime della caccia.
E per una volta sono tutti d'accordo. Anche la lobby dei
cacciatori: secondo Gianluca Dall'Olio, il presidente di
Federcaccia, "questa legge è un pasticcio. Il
bracconaggio è una piaga che si estirpa solo con
provvedimenti chiari. Così, invece, è tutto lasciato
alla discrezionalità del giudice".
Secondo Patrizia Santilli, responsabile dell'ufficio
legale di Wwf Italia, "il decreto è un copia-incolla
della direttiva europea. Nessuno si è preoccupato di
spiegare meglio il concetto di 'trascurabile'. Ma non
per questo sarà un favore ai bracconieri, già
perseguibili dalla nostra legge". Per dirla con il
magistrato Santoloci: "Il decreto rivoluzionario non ha
cambiato nulla. Nel nostro paese chi ruba calzini al
supermarket è punito più severamente di chi uccide un
lupo per avere il trofeo nel salotto di casa".
Santilli considera il decreto più un'occasione persa che
uno strumento dannoso: "Il Parlamento ha solo recepito
una parte della direttiva Ue, quando poteva cogliere
l'occasione per varare una riforma dei delitti
ambientali, una disciplina sulla quale siamo molto
indietro rispetto ad altri paesi europei". Mentre la
nuova stagione della caccia si avvicina - a settembre si
ricomincia a sparare - nulla è cambiato. E per i
bracconieri questo è ancora il paese dei balocchi.
9 agosto
La mala
depurazione inquina la Calabria
Un
mare di illegalità, una situazione drammatica, un'emergenza quotidiana. «La
Calabria è al terzo posto nella classifica del mare illegale» denuncia
Legambiente nel suo annuale dossier "Mare Monstrum 2011" che fotografa la salute
delle acque del 2010. Oltre 1700 violazioni, pari al 14,8% del totale nazionale,
558 infrazioni accertate, 680 persone arrestate, 194 sequestri effettuati. Per
ogni chilometro di litorale sono 2,4 le infrazioni contro una media nazionale di
1,6.
UN SISTEMA AL COLLASSO
Lungo i 700 km di costa calabresi una miriade di scarichi abusivi,
cattiva depurazione e cemento da spiaggia vanno a braccetto. Ma il vero scandalo
riguarda la depurazione. Solo il 37,4% dei cittadini è servito da un sistema di
filtraggio adeguato. Sostiene Legambiente nel dossier Acque Nere: «Il mare
calabrese viene continuamente violato ed avvelenato. Ad ogni estate si
presentano i problemi legati al trattamento delle acque. Mare marrone, miasmi
insopportabili, fiumi e mari trasformati in fogne a cielo aperto». Insomma, il
sistema è al collasso. E la stagione estiva in corso è finanche peggiore.
Prendiamo ad esempio Reggio Calabria, che con 694 reati accertati ha il record
in materia di depuratori, scarichi fognari e inquinamento da idrocarburi. Una
vera fogna con vista sullo Stretto è quella adiacente al lido comunale "Genoese
Zerbi", al centro della città, molto frequentato dai bagnanti e da sempre
considerato, nonostante il degrado, la struttura balneare pubblica cittadina più
importante e prestigiosa. Ma nessun cartello che indichi ai bagnanti il divieto
di balneazione. Una storia che si ripete ogni anno e puntualmente denunciata dal
capogruppo consiliare del movimento Energia Pulita, Antonino Liotta e da Massimo
Canale, coordinatore dell'opposizione.
Per verificare la denuncia di Energia Pulita basta poi collegarsi al sito
di Portaleacque.it del Ministero della Salute per accorgersi subito che non solo
il lido comunale ma anche le acque antistanti il Circolo Velico (più di un
chilometro di costa sempre al centro della città) sono praticamente out per la
balneazione a causa della presenza eccessiva di batteri fecali. «Se le acque non
sono balneabili - spiega Eleonora Uccellini di Energia Pulita - i cittadini
devono essere informati e il Comune ha l'obbligo di individuare le zone e
segnalarle con appositi cartelli». A ciò bisogna aggiungere, secondo i dati del
portale internet, i 500 metri di costa adiacenti al torrente Annunziata, i 1100
metri di costa del circolo nautico, oltre a diverse zone periferiche, ma sempre
affollate di bagnanti, di Pellaro Lume, Catona, Gallico, tutte zone ben
identificate dai tecnici dell'Arpacal e censite secondo il nuovo schema di
valutazione delle acque di balneazione. Tutte zone classificate con una x che
indica l'acqua «di qualità scarsa» e quindi con valori molto alti per quanto
riguarda la presenza di escherichiacoli e enterococchi. E malgrado tutto
considerati balneabili.
LA SCIMMIETTA
I guai maggiori riguardano, però, la costa calabrese che affaccia sul
Tirreno. Con depuratori vecchi e malandati, senza manutenzione o in stato di
completo abbandono. Un disastro fin troppo evidente, dal vibonese fino al
Tirreno cosentino. Tuttavia la Regione e il suo presidente Peppe Scopelliti
(unitamente ai sindaci della zona) come le tre scimmiette fanno finta di non
vedere e di non sentire.
Le larghe chiazze marroni che sono venute a galla tra Paola, Fuscaldo e Amantea
lo hanno, però, indotto ad effettuare un sopralluogo sull'area del paolano.
Secondo il Comune i depuratori funzionano e sono in regola e «tutto questo può
dipendere solo dagli scarichi abusivi». E così Scopelliti, insieme all'assessore
all'Ambiente Franco Pugliano, dieci giorni fa ha effettuato una ricognizione in
elicottero del Tirreno cosentino. «Nel corso della verifica - ha dichiarato il
presidente - non sono emerse situazioni anomale, a conferma dei rilievi
effettuati periodicamente dall'Arpacal che quotidianamente aggiorna il proprio
sito internet per informare i cittadini e le amministrazioni sullo stato di
salute del mare calabrese. Allo stato attuale vengono confermati i dati che
certificano oltre il 90% di balneabilità delle coste regionali».
Nonostante le (grottesche) rassicurazioni, restano le macchie in mare e
le proteste dei turisti. «La verità è che sono degli incapaci - tuona Silvio
Greco del movimento Slega la Calabria, biologo marino già assessore all'Ambiente
- il sistema depurativo è praticamente bloccato da quando si sono insediati. Non
è stato effettuato alcun controllo, non è stata esercitata nessuna vigilanza e
le ditte a cui avevamo affidato i lavori si sono fermate perché Scopelliti e i
suoi non hanno più seguito i lavori predisposti. Il funesto risultato è sotto
gli occhi di tutti. Nessun contratto firmato, nessun bando emanato, un'inerzia
mista ad incapacità che sta pregiudicando la risorsa più importante che abbiamo,
il mare. I dati Arpacal che la destra millanta sono quelli degli anni precedenti
e, come tali, vanno presi con le molle. In realtà per loro meno se ne parla e se
ne scrive e meglio è. Basti pensare all'ostracismo che mostrano verso Il
Quotidiano della Calabria». Intanto, la Procura della Repubblica di Paola,
coordinata dal procuratore capo Bruno Giordano, prosegue nel fitto monitoraggio
dei depuratori della costa, avviato già dallo scorso mese di marzo e anche la
Procura di Crotone ha avviato accertamenti sui rifiuti riversati in acqua. Anche
nella Riserva marina di Capo Rizzuto la situazione ha raggiunto i livelli di
guardia: divieto di balneazione per la spiaggia di Capo Piccolo perché nei
pressi c'è un torrente che scarica liquami fognari in mare.
D'altronde, sin dal 2009 l'Unione Europea aveva aperto una procedura
d'infrazione contro l'Italia per deficit depurativo con ben 22 comuni calabresi
nella lista di quelli inadempienti. Per di più, i dati raccolti da Legambiente
rivelano una condizione inquietante e le indagini della magistratura descrivono
una situazione disarmante: manutenzione degli impianti inesistente, scarichi non
allacciati perché all'interno di lottizzazioni abusive senza rete fognaria,
versamenti illegali di fanghi di lavorazione industriale.
PIU' CEMENTO PER TUTTI
Un muro di cemento illegale sta soffocando l'intera Calabria, seconda
regione per numero di reati edilizi. «Su un totale di 715 km di costa - secondo
Legambiente - gli abusi sono lievitati in maniera esponenziale nel 2010, con 700
infrazioni accertate, 610 sequestri eseguiti, 600 persone arrestate». Dai
palazzi condominiali alle villette, dai camping ai villaggi turistici, fino alle
aree demaniali "privatizzate" e alle costruzioni mai terminate, il cemento sui
litorali è una valanga senza fine. C'è poi la piaga degli ecomostri come quello
di Fiuzzi a Praia a Mare, l'Aviosuperfice di Scalea, il cosiddetto Alveare di
Copanello, per proseguire con il cemento da spiaggia della Palafitta di Falerna
e continuare con le 700 ville delle 'ndrine nell'Area Marina protetta di Capo
Rizzuto. Più a nord, a Capo Colonna, c'è la deturpazione dell'omonimo Parco
archeologico con ben 40 manufatti abusivi. Insomma, di tutto e di più: il mare è
inquinato, il turismo è in panne, la Calabria affonda. Riusciranno prima o poi i
calabresi ad invertire la rotta per una "rivoluzione verde"?
Pena di
morte in Asia è pratica diffusa. Esecuzioni in aumento, in Cina soprattutto
La relazione dell'associazione "Nessuno tocchi
Caino". Sebbene si assista ad una sostanziale diminuzione dei paesi dove le
esecuzioni capitali sono state abolite (anche se in Usa due stati l'hanno
reintrodotta) laddove vene usata come strumento penale, le persone mandate sulla
forca sono sempre di più
di VITTORIA VIOLA
ROMA - Si spara un colpo di fucile a
distanza ravvicinata al cuore oppure alla nuca con il condannato in ginocchio,
le caviglie legate e le mani ammanettate dietro la schiena. Anche se dal 1997 è
stato introdotto il metodo dell'iniezione letale, quello di essere giustiziati
con una puntura, in Cina, è un "privilegio"riservato a pochi: ex alti funzionari
del regime e cittadini stranieri. In totale, per il 2010, i Paesi che hanno
fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati almeno 22, rispetto alle 19
del 2009 e alle 26 del 2008. Si registrano 5.837 esecuzioni, a fronte delle
5.741 del 2009 e delle 5.735 del 2008. Ancora una volta, l'Asia si conferma il
continente dove si pratica la quasi totalità delle pene di morte nel mondo.
In Cina l'85% del totale. Il rapporto 2011 Nessuno tocchi Caino 1 parla
chiaro: la grande Cina è il "Paese boia" per eccellenza. Nel 2010, le esecuzioni
ammontano a circa 5.000, l'85,6% del totale mondiale (più o meno come nel 2009)
e il dato complessivo nel continente asiatico corrisponde al 98,4% del totale,
in aumento rispetto al 2009.
Iran, Corea del Nord. Di solito, il regime comunista cinese punisce con
la morte i traditori politici. Lo stesso avviene in Corea del Nord, in Iran e in
Vietnam. Nel 2010 e nei primi mesi del 2011 è qui che si sono verificati il
maggior numeri di reati politici e di opinione puniti con l'esecuzione. I dati
mostrano che l'Iran e la Corea del Nord si aggiungono alla Cina conquistando il
titolo di primi tre "Paesi-boia" del 2010 nel mondo. L'Iran ne ha effettuate 546
nel 2010, la Corea del Nord circa 60. Nel primo caso le pene capitali sono
passate dalle 402 del 2009 alle 546 del 2010. Nel 2010, sono state impiccate
sulla pubblica piazza almeno 19 persone. E già nel 2011, le esecuzioni pubbliche
sono aumentate mentre, al 20 giugno, erano già state impiccate in pubblico
almeno 36 persone.
In Giappone. Il numero delle esecuzioni sono diminuite in maniera
significativa da quando il Partito Democratico del Giappone ha preso il potere
nel settembre 2009, dopo oltre 50 anni di ininterrotto governo conservatore. Le
sole esecuzioni sono avvenute nel luglio del 2010, quando due uomini sono stati
impiccati, dopo essere stati riconosciuti colpevoli di omicidio. Prima del
cambio di governo, nel 2009 erano stati giustiziati 7 detenuti.
Nel mondo. Nel 2010, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni
capitali sono stati almeno 22, rispetto ai 19 del 2009 e ai 26 del 2008. Ma se
nel 2010 e nei primi sei mesi del 2011 non si sono registrate esecuzioni in 3
Paesi - Oman, Singapore e Thailandia - al contrario 8 Paesi hanno ripreso la
pratica: l'Autorità Nazionale Palestinese (5), Bahrein (1), Bielorussia (2),
Guinea Equatoriale (4), Somalia (almeno 8) e Taiwan (4) nel 2010; Afghanistan
(2) ed Emirati Arabi Uniti (1) nel 2011.
Negli Stati Uniti. Le Americhe sarebbero un continente praticamente
libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Usa, l'unico Paese che ha
compiuto esecuzioni (46) nel 2010. Nessuno Stato "abolizionista" ha reintrodotto
la pena di morte, ma in due casi hanno fatto marcia indietro. Nel giugno 2010 è
stato il momento dello Utah e, nel settembre 2010, è toccato allo Stato di
Washington, che ha effettuato la prima esecuzione dal 2001. Le 46 esecuzioni del
2010 sono avvenute in Texas (7), Ohio (8), Alabama (5), Oklahoma, Virginia e
Mississippi (3), Georgia (2), Florida, Louisiana, Louisiana, Arizona, Utah e
Washington (1). Il 1° gennaio 2011 nei bracci della morte c'erano 3.261 persone.
Alla stessa data dell'anno precedente erano 2 di più, 3.263. Il numero massimo
di detenuti nel braccio della morte si registrò nel 2000, con 3.593. Da allora è
diminuito costantemente.
In Africa. Nel 2010 la pena di morte è stata eseguita in 6 Paesi (erano
stati 4 nel 2009) e sono state registrate almeno 43 esecuzioni: Libia (almeno
18), Somalia (almeno 8), Sudan (almeno 8), Egitto (4), Guinea Equatoriale (4) e
Botswana (1). Nel 2009 le esecuzioni effettuate in tutto il continente erano
state 19, come nel 2008 contro le 26 del 2007 e le 87 del 2006.
In Europa. La Bielorussia continua a costituire l'unica eccezione in un
continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte. Nel 2010 due uomini
sono stati giustiziati per omicidio e altri due sono stati uccisi il 21 luglio
2011. Dei 42 mantenitori della pena di morte, 35 sono Paesi dittatoriali,
autoritari o illiberali. In 18 di questi, sono state compiute circa il 99% del
totale mondiale delle esecuzioni. Tra l'altro, molti di questi Paesi non
forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il
numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
Nessun tocchi Caino. Il rapporto 2011 conferma un'evoluzione positiva
verso l'abolizione della pena di morte in atto nel mondo da qualche anni. I
paesi mantenitori della pena capitale sono infatti scesi a 42 a fronte dei 45
del 2009, dei 48 del 2008, dei 49 del 2007 dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005.
Nessun tocchi Caino ha un obiettivo: abolire la pena di morte nel mondo. Un
successo è già arrivati nel dicembre dle 2007 con l'approvazione della
risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capotali da parte
dell'assemblea generale delle nazioni unite. Il banco di prova però è nel
decisivo cambio di regime nei paesi arabvi, a partire dall'egitto. Nessun tocchi
Caino farà la sua parte con un progetto chwe vedrà impegnata l'associazione nei
prossimi due anni in 17 paesi del nord africa, medio oriente, est e sud-est
asiatico con un obiettivo: superare i segreti di stato sulla pena di morte
spingendo le istituzioni ad approvare atti che rispondano alle richieste dell'Onu
in materia.
8
agosto
L'attacco speculativo contro l'Italia
L'opinione di Marco Causi
Marco Causi è professore associato di Economia all'Università di Roma Tre e
deputato del PD. In questa doppia veste di economista e di parlamentare
dell'opposizione ha accettato questa conversazione con Paneacqua per aiutarci a
capire meglio ciò che sta accadendo, in Italia e in Europa, dopo la
fibrillazione dei mercati finanziari di venerdì e di lunedì, e soprattutto in
vista del dibattito in Parlamento sulla manovra economica presentata dal governo
Intanto, una prima rassicurazione, da parte di Marco Causi. Secondo
l'economista, l'Italia non è a rischio di default, ovvero quella situazione in
cui uno stato sovrano non fosse più in grado di rispettare i patti relativi al
proprio indebitamento pubblico. "In realtà", afferma Causi, "stiamo assistendo
ad un attacco della speculazione su tutti i mercati europei. Cosa vuol dire?
Molti investitori internazionali scommettono sulla debolezza degli stati. È
accaduto con i cosiddetti ‘pigs', Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, e oggi
accade con l'Italia, Paese che quegli investitori considerano debole,
politicamente ed economicamente. Ciò in conseguenza della elevatezza del debito
pubblico e della debolezza del nostro governo. Ma aggiungo, soprattutto per
effetto degli errori di Berlusconi. Invece di occuparsi di dare soluzione alla
crisi, che è ancora in corso e fa sentire oggi i suoi effetti durissimi, il
premier si è occupato d'altro, dei suoi problemi giudiziari. Nessun beneficio
per l'Italia, anzi un'esposizione sui mercati, che oggi hanno approfittato di
questa fragilità".
Sulla manovra economica presentata dal ministro Tremonti, Marco Causi ha
ovviamente le idee molto chiare. A partire dai costi, dalle cifre.
Sostanzialmente, sostiene l'economista, occorre seguire i patti concordati in
sede di Unione Europea. L'obiettivo è quello del pareggio di bilancio entro il
2014, secondo una manovra triennale che incida sul 2,3 per cento del nostro PIL,
con un ammontare di 40 miliardi di euro. "Questi sono i patti. Chi oggi sostiene
che la manovra non sia più sufficiente, incorre in un errore, perché somma anno
su anno. Invece, da economista sostengo che quelle cifre concordate con la UE
debbano essere rispettate, perché rispettano, a regime, il pareggio di bilancio.
Il problema, semmai, è un altro, è nella struttura stessa dei meccanismi
presentati da Tremonti. Vediamo. Intanto, grava un primo giudizio di
incompletezza. In realtà, nel Decreto Legge, fra minori spese e maggiori
entrate, sono previsti 25 miliardi di euro. Mentre i restanti 15 miliardi di
euro dovrebbero arrivare dalle deleghe fiscali. Dunque, su ben 15 miliardi non
c'è, ancora, di fatto, copertura finanziaria. Questo è il vero problema della
manovra targata Tremonti. Una serie di pasticci, che corriamo il rischio
serissimo di pagar cari".
Marco Causi elenca alcuni di questi enormi pasticci tremontiani. Il più grande,
a suo avviso, è che l'accordo con l'Unione Europea prevede il dettaglio dei
conti della manovra entro ottobre 2011. Invece, c'è stata un'accelerazione senza
alcuna ragione economica, né politica, apparente. Si è giunti a varare una
manovra incompleta e punitiva con una fretta sospetta, in un frangente delicato
nel quale il governo, il suo premier e il suo ministro dell'Economia appaiono
molto indeboliti, da vicende di governo e da vicende private. Invece, secondo
Marco Causi, "oggi occorre restituire all'Italia quella credibilità perduta,
adempiendo in tutti i modi ai patti e ai vincoli sottoscritti con l'Unione
Europea. La credibilità del Paese fa da argine ai tentativi della speculazione
di colpirlo sui mercati finanziari. Il mio parere è che invece la manovra
economica, a questo punto così decisiva per il futuro dell'Italia, debba avere
una larghissima condivisione, seguendo esattamente le esortazioni del presidente
Napolitano. La condivisione larga attribuisce quella credibilità che oggi manca,
perché gli analisti finanziari si convincono che chiunque sia al governo (che si
voti nel 2012 o nel 2013) adempirà a quei patti sottoscritti".
Al contrario, la maggioranza ha voluto blindare il Decreto Legge annunciando il
voto di fiducia. E questo ha indebolito la posizione dell'Italia sui mercati
finanziari. Da una parte, l'inconsistenza della manovra e dall'altra la
debolezza del governo, una miscela esplosiva che può rivelarsi una tragedia
economica. Si aggiunga a questa situazione nazionale anche l'oggettivo
aggravamento costituito dalla decisione della BCE, la Banca Centrale Europea, di
elevare i tassi di interesse, peggiorando le prospettive finanziarie dei Paesi
più indebitati, come se i guai interni non bastassero.
"Noi del PD abbiamo ripetutamente chiesto alla maggioranza di trasformare il
Decreto Legge in Disegno di Legge", prosegue nella sua analisi Marco Causi,
"garantendone l'approvazione entro settembre. In tempo utile, secondo i patti
siglati con l'Unione Europea. La risposta è stata un secco niet. E il ricorso al
voto di fiducia. Ora vedremo nei prossimi giorni se il governo si aprirà ai
nostri pochi ma sostanziali emendamenti, o se invece cercherà nuovamente di
blindarsi, come ha fatto in questi anni". A proposito di emendamenti
sostanziali, Causi ne cita tre decisivi.
"Un primo emendamento tende a non far ricadere sulle pensioni il peso economico
della manovra. Occorre una rimodulazione dei tetti, in modo da colpire le
pensioni più elevate, tenendo quelle medie e basse al riparo. Un secondo
emendamento riguarda la tassazione sulle rendite finanziarie, comprese le stock
options. Ad esclusione dei titoli di stato, occorre riportare la tassazione
sulle rendite ai livelli europei, ovvero al 20%, mentre oggi sono ferme al
12.5%. Si tratta di un provvedimento strutturale che riallinea il sistema
fiscale italiano a quello europeo. A coloro che obiettano sfracelli sui mercati
finanziari, rispondo che la speculazione finanziaria a breve termine non è certo
influenzata da calcoli di convenienza fiscale. Le aspettative sono a breve o a
brevissimo termine sui titoli sui quali si scommette. Un terzo emendamento
prevede interventi sulle cosiddette agevolazioni fiscali, che pesano per ben 140
miliardi di euro. Il ministro Tremonti aveva disposto un gruppo di lavoro che si
occupasse di valutare i regimi. Ma non è successo nulla. Invece, è giunto il
momento in cui si cominci a produrre qualche risultato, eliminando alcune
agevolazioni e razionalizzando il resto. Dobbiamo convincere tutte le categorie
interessate alle agevolazioni, agricoltori, cooperatori, trasportatori,
industriali, ecc., a sedersi attorno a un tavolo per partecipare tutti in egual
misura ai sacrifici imposti dalla crisi".
"In realtà", conclude Causi, "siamo nel pieno della bufera. Ma si tratta di un
deja vue . Già nel 1992 fummo colpiti da una medesima situazione, quando fummo
costretti a uscire dal Sistema Monetario Europeo, e solo la manovra di Amato,
pari a 90 mila miliardi di lire, ci mise in condizione di rientrarvi. Ora, muta
il rapporto con le istituzioni europee. Compito di una opposizione responsabile
è fare di tutto per garantire il rispetto degli accordi assunti in sede di
Unione Europea, a proposito di pareggio di bilancio, a regime, entro il 2014.
Tuttavia, noi abbiamo anche l'obbligo di dire al Paese che questo è l'effetto
più nefasto di dieci anni di governo Berlusconi. Ha ingannato gli italiani,
dicendo loro che sarebbero stati più ricchi. Invece, ci ritroviamo tutti molto,
ma molto, più poveri".
4
agosto
Lo
scempio laziale
L'ultimo
numero del settimanale del Sole 24 Ore dedicato al territorio denuncia il
fallimento dell'ulteriore allentamento delle regole portato avanti dal
governo Berlusconi. I numeri confermano che aver reso pressoché automatico i
permessi di costruzione senza controllo da parte delle amministrazioni
pubbliche, non ha fatto aumentare per nulla il numero delle iniziative
edilizie in tutte le regioni. Segno evidente che il mercato è saturo e
necessiterebbe di ragionamenti e politiche di ampio respiro.
La giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini non è tra i
lettori dell'autorevole rivista e, guidata dal cieco furore contro le
funzioni pubbliche, ha approvato il peggior piano casa tra le regioni
italiane. Non c'è infatti il minimo disegno strategico nel distribuire a
piene mani la rendita parassitaria fondiaria. Sono soltanto due i risultati
ottenuti: il primo è quello di aver cancellato forse per sempre
l'urbanistica dal panorama legislativo: dall'urbanistica al piano casa, come
sostiene Italo Insolera. Il secondo è quello di aver colpito duramente le
poche forme di controllo pubblico su quanto avviene nelle città che
diventeranno così più invivibili.
Nelle zone a bassa densità, le uniche spesso che conservano un po' di
qualità, chi avrà le possibilità potrà aumentare altezza e volumetrie del
proprio edificio. Gli altri, i vicini che non hanno le stesse possibilità
economiche vedranno sparire spazi verdi, alberi, panorami. Avranno più
traffico automobilistico e ne riceveranno un danno economico. I selvaggi che
scrivono le leggi regionali saranno soddisfatti.
Gli effetti su quanto resta del tessuto industriale regionale saranno
devastanti. È previsto infatti l'aumento delle cubature dei capannoni
industriali e la possibilità di riconvertirli in abitazioni. Al difficile
percorso dell'innovazione tecnologica, alla ricerca di nuovi prodotti e
nuovi mercati, al rischio d'impresa viene contrapposta una gigantesca
autostrada per dismettere tutto, lucrare rendita e portare i soldi nei
paradisi fiscali. Ci penserà Tremonti o chi per lui a farli tornare con
generosissime aliquote.
C'è poi l'aspetto più grave, forse quello per cui si sono battuti con
maggior determinazione i pasdaran della Regione: aggredire le aree
vincolate, cancellare i vincoli paesaggistici, minare la stessa
sopravvivenza dei pochi e asfittici parchi regionali. Con la nuova legge si
possono aumentare le cubature anche nelle zone sottoposte a vincolo di
legge, costruendo addirittura decine di nuovi porti; si possono agevolmente
superare i vincoli dei piani paesaggistici che infatti non si approveranno
mai; si può costruire anche nelle aree pregiate dei parchi regionali.
Infine, la ciliegina che ha fatto inorridire perfino l'ex presidente della
regione Veneto Galan, che pure dovrebbe avere uno stomaco di ferro per aver
digerito l'alluvione di capannoni che funesta la regione che ha governato
per tanti anni. Galan ha tuonato contro l'ennesimo condono edilizio
mascherato presente nella legge. Ecco dunque il piano casa peggiore
d'Italia: un miscuglio di incultura, deroghe e condoni.
Il Partito democratico si è distinto per un emendamento vergognoso, a
ulteriore conferma che dalla cultura del mattone e della speculazione non si
sposta ed è identico alla destra liberista. Ma una novità si coglie
nell'atteggiamento della sinistra. I verdi di Angelo Bonelli e Sel hanno
svolto con coerenza il proprio ruolo di disegnare un'alternativa. Di una
nuova cultura che ambisce a diventare maggioritaria basata su un concetto
semplice: città e territori sono beni comuni.
B.
e don Verzè, la vera storia
di Marco Travaglio
La carriera del prete affarista è sempre
stata intrecciata a quella del Cavaliere. Da quando trafficavano insieme per
spostare le rotte Alitalia da Milano 2. Il marcio iniziò così e proseguì per
decenni. Sempre con i due a braccetto
A proposito di don Luigi Verzè, già cappellano
di Craxi ("in lui vedo Cristo") e di Berlusconi ("un dono di Dio
all'Italia"), ma anche ben ammanicato con Nichi Vendola che gli ha
spalancato le porte della Puglia ("uno dei pochissimi politici italiani ad
avere un fondo di santità"), l'unico sentimento che non si può provare
davanti al disastro del suo San Raffaele è lo stupore. La carriera di questo
prete simoniaco è indissolubilmente legata a quella del premier: naturale
che, se il Cav declina, il Don si senta poco bene.
Chi volesse saperne di più non ha che da leggere "L'Unto del Signore" di
Gumpel e Pinotti (Bur) e "Dossier Berlusconi anni Settanta" (Kaos). I due
libri raccontano la storia di un giovane costruttore brianzolo, schermato da
strani paraventi svizzeri, che 40 anni fa compra per quattro soldi 700 mila
metri quadri di terreni a Segrate e inizia a costruirvi la città satellite
Milano2. Sventuratamente la quiete di quel paradiso è turbata dal frastuono
di oltre 100 decibel degli aerei che decollano ogni 90 secondi dalla vicina
Linate. Il che dovrebbe sconsigliare vivamente la costruzione di
insediamenti residenziali e tanto più ospedalieri. Ma il palazzinaro regala
un pezzo di terreni a un prete più spregiudicato di lui, sospeso a divinis
dalla Curia milanese, perché vi eriga una bella clinica privata con soldi
pubblici: il San Raffaele. Poi il gatto e la volpe, cioè il palazzinaro e il
cappellano piagnucolano: non si possono ammorbare i malati con quel rumore.
E così, ungendo le giuste ruote, ottengono da governo e Alitalia il
dirottamento delle rotte aeree dalla nuova città pressoché disabitata e dal
nuovo ospedale ancora semideserto sui comuni vicini, popolati da decenni.
Risultato: il prezzo degli appartamenti di Milano2 triplica in un
battibaleno. Già che ci sono, le autorità aeronautiche falsificano pure le
carte di volo gabellando l'intera zona residenziale per "ospedaliera", così
gli aerei girano al largo. Proteste, denunce, battaglie legali, processi.
Anche perché don Verzè offre a uno dei pochi politici che gli resistono,
l'assessore regionale alla Sanità Vittorio Rivolta, una tangente del 5 per
cento sul miliardo e mezzo di lire di fondi pubblici che stanno per
piovergli da Roma. Per questo nel 1977 sarà condannato in primo grado a un
anno e quattro mesi per istigazione alla corruzione (condanna poi prescritta
in appello) e definito dal Tribunale "imprenditore abile e spregiudicato,
inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli sul piano etico
e penale". I giudici collegheranno la deviazione delle rotte aeree ai
sospetti di "pressioni illecite, non esclusa la corruzione, sulle competenti
autorità locali e centrali".
Fin dal 1975 Giorgio Bocca si occupa, sul "Giorno", del prete affarista:
"Quello che allontana gli aerei e cura non solo i malanni fisici, ma anche
'le anime preternaturali' dei pazienti", intanto "il prezzo al metro quadro
passa dalle 150 mila alle 400 mila lire. L'arte dei grandi speculatori è
avere molti complici". Ma già nel 1973 "il manifesto" aveva denunciato lo
scandalo. Titolo: "Per portare avanti la speculazione Milano2 prima rendono
sordi i segratesi con i jet, ora li vogliono appestare con un immondezzaio".
Svolgimento: "Il problema vero non è quello 'sonoro', ma la puzza di marcio
che ci sta dietro, le aree, la speculazione edilizia: è una barca molto
grande, in cui ci son dentro tutti, la Regione, i democristiani e anche i
socialisti... Ma la più sporca di tutte l'ha fatta il Vaticano che, con
l'aiuto delle banche svizzere, ha appoggiato l'operazione Milano2 con
l'insediamento, nella zona, dell'ospedale San Raffaele... Dal 1972 è
riconosciuto da un decreto del ministero della Sanità 'Istituto di ricovero
a carattere scientifico'... Ma è privo persino dei servizi di base: non
dispone di pronto soccorso e ha difficoltà a occuparsi delle operazioni di
appendicite... Ma se i segratesi sono sordi, non sono anche ciechi e si
stanno ribellando con molta forza a quel che gli (sic, ndr) succede sopra la
loro testa".
L'autrice di questa prosa tanto sgangherata quanto generosa è Tiziana Maiolo,
giovane cronista del "manifesto", non ancora folgorata sulla via di Arcore.
Come passa il tempo.
Falsi (tagli) in bilancio
Ecco come deputati e senatori si
arrampiacano sui vetri per giustificare i loro privilegi. Enzo Raisi (Fli):
Io non mi taglio i capelli qui dentro. Vado dal mio barbiere che sicuramente
costa meno"
La Camera vota i tagli al bilancio Stasera, hanno messo la firma sui
soldi spesi l’anno passato e hanno approvato il preventivo di quelli messi
in conto per l’anno in corso. Praticamente gli stessi, ma con l’alibi dello
stop all’inflazione: se non fossimo intervenuti, spiegano, le spese del
palazzo sarebbero aumentate. Due milioni di euro “risparmiati” dalla stretta
sui viaggi dei deputati, il “contributo di solidarietà” sui vitalizi, la
chiusura di un ristorante, lo stop agli affitti degli uffici di 180
parlamentari. Al Senato, si aggiungono tagli alle spese per la carta e i
lavaggi auto, sforbiciata alle forniture di saponi e asciugamani. Risparmio
totale: 0,34 per cento rispetto a un anno fa.
Prima di votare, però, Camera e Senato, hanno messo qualche puntino sulle i.
Che ladri non sono, che non c’è nulla di cui vergognarsi a guadagnare 12
mila euro al mese, che i costi della politica sono un’assicurazione per la
democrazia. Così, salvo qualche rara eccezione, i dibattiti in corso a
palazzo Madama e Montecitorio sono una collezione di giustificazioni
memorabili. Podio al deputato Pdl Lucio Malan: per spiegare il costo di un
politico al contribuente arriva a fare il paragone con il prezzo di
copertina del best seller di Rizzo e Stella, “La Casta”: “Colleghi – spiega
in aula – La dotazione del Senato per il 2011 è di 526 milioni e 950.000
euro. (…) . Si tratta dello 0,05 per cento della spesa pubblica, 56
centesimi al mese per ogni contribuente. Insomma, l’intero Senato costa a un
singolo cittadino molto meno di un decimo, forse un ventesimo
dell’iscrizione al sindacato. Con il costo di una copia del libro La Casta
un cittadino si campa l’intero Senato per quasi tre anni”.
Dal punto di vista matematico può anche darsi che regga, da quello
comunicativo molto meno. Lo sa anche il Pd. Mentre Malan fa i conti al
Senato, alla Camera il democratico Pierluigi Castagnetti dice: “Apprezzo le
proposte fatte dal Collegio dei questori perché cercano di ridurre le spese
in varie direzioni, imponendo sacrifici al lavoro della Camera e ai
parlamentari. È assai probabile – immagina il deputato Pd – che tali misure
vengano giudicate dall’opinione pubblica insufficienti non per una
valutazione oggettiva, ma per un’aspettativa punitiva nei confronti del ceto
politico sulle cui ragioni occorrerà riflettere piuttosto che respingerle
come un fenomeno storicamente ricorrente e dunque prevedibilmente
riassorbibile. No, cari colleghi, la cosa è seria, molto seria, e faremmo
bene a non archiviarla frettolosamente”. Teoria condivisa (senza ipotesi di
soluzioni) anche dalla Lega. Il deputato del Carroccio Giacomo Stucchi sa
benissimo che sui tagli bisogna muoversi “con tutto il tatto che ci vuole”,
perché le “proposte necessitano di uno studio approfondito” e di “tempi
molto lunghi prima di poterle concretizzare”. Comunque qualche cosa si può
fare, spiega, per esempio “giustificare la spesa di questa somma” (parla del
rimborso ai collaboratori) “perché così togliamo anche quest’alibi
all’antipolitica imperante in questo momento”.
Intanto al Senato Giuseppe Astore (ex Idv ora di Partecipazione Democratica)
si sente “braccato, mi sento un accattone e non un parassita ma un
parlamentare che ha inteso lavorare”. Se la prende con casa sua, con il
Senato stesso: “Nessuno ci ha difeso con una conferenza stampa, con
trasparenza, con un ufficio apposito in cui senza paura dire quale è la
verità e quale la bugia, perché nessuno si vergogna di prendere 12mila euro
al mese ma di benefit che si possono cancellare”.
Per il finiano Enzo Raisi è un “problema di informazione”. “Io, peraltro,
faccio parte della categoria degli sfortunati, perché sono entrato nel 2001
e hanno cambiato le regole per il vitalizio – spiega ai colleghi della
Camera – Una volta lo concedevano subito, ora si percepisce a 65 anni. Da
quando sono qui hanno bloccato l’indennizzo e per due volte hanno ridotto lo
stipendio; lo ripeto, per due volte da quando sono parlamentare in questi
dieci anni, per tre mandati. Peraltro, questo nessuno lo sa, perché se
uscite e chiedete alla gente se sa che il Parlamento – la Camera dei
deputati, vorrei sottolineare anche questa differenza – ha diminuito per due
volte lo stipendio dei parlamentari nessuno sa rispondere, anzi, vi
chiederanno quando finalmente decideremo di ridurre il nostro stipendio”. E
non ha nessuna remora, Raisi, a definirsi “becco e bastonato”, la versione
emiliana del cornuto e mazziato. “Il massimo è stato la barberia, che noi
paghiamo correttamente ma del quale tutti pensano che noi usufruiamo gratis
(c’è anche questo problema di immagine): applica tariffe che, una volta
viste, risultano essere più alte di quelle di mercato. Infatti, io non mi
taglio mai i capelli qua dentro, ma vado dal mio barbiere che, per carità, è
opinabile se mi tagli i capelli bene o male, però sicuramente costa meno, ed
è un signor barbiere. Allora, mi dovete spiegare perché devo essere becco e
bastonato”. Poi chiarisce il punto: “La gente fuori crede che io abbia il
servizio gratis e in più lo pago molto più di quello di mercato”. Becco,
bastonato, e pure senza parcheggio. Dice ancora Raisi: “Io sono un povero
“peone”, come ce ne sono tanti qua dentro, però ho la mia macchinina che mi
sono comprato dal 2001, una povera Smart (…). Qui basta essere presidenti di
un comitatino qualsiasi e hai diritto all’utilizzo dell’auto blu. (…) Poi se
si aggiunge che questi adesso parcheggiano anche dentro il parcheggio della
Camera, sei “becco e bastonato” anche in quel senso, perché se non arrivi in
tempo trovi tutto lo spazio di parcheggio occupato dalle auto blu”.
'Sparategli!', viaggio nel Terzo mondo d'Italia
Intervista a Jacopo Storni, autore del
libro-inchiesta che racconta chi sono e come vivono "i nuovi schiavi" del
nostro Paese
C'è Jasmin, la minorenne nigeriana portata a
battere lungo i marciapiedi di Castel Volturno e marchiata a fuoco dalla sua
"madame"; c'é Mihaela arrivata dalla Romania per lavorare nelle serre del
Siracusano e rimasta intrappolata nello squallore dei "festini agricoli";
c'è Tsara, bimba tretlapegica che vive al Triboniano, enorme baraccopoli del
nordovest di Milano, Navtaj, l'indiano al quale dei ragazzini diedero fuoco
per noia alla stazione di Ostia. E poi ci sono quelli di cui non sapremo mai
nulla, le tante vittime dei viaggi della speranza sepolte in fondo al
Mediterraneo. Sono i tanti fili di una sola storia di disperazione, miseria
e disumanità raccontata in Sparategli! Nuovi schiavi d'Italia da Jacopo
Storni, giornalista di Redattore Sociale e del Corriere Fiorentino (Editori
Riuniti, con prefazione di Ettore Mo). Non l'ennesimo libro sul dramma del
caporalato o sullo sfruttamento della prostituzione ma una ricognizione
complessiva delle molte e moderne forme di schiavitù ignorate o tollerate
nel nostro Paese. Da Milano a Vittoria, da Firenze alla Capitanata, Storni
entra con tatto nelle storie dei "nuovi schiavi" e dà un nome e un volto a
quelli che altrimenti rimarrebbero solo statistiche. Peacereporter ne ha
parlato con l'autore.
Una cosa che colpisce del libro è l'esaustività della trattazione. Di
inchieste e reportage su diverse emergenze sociali ce ne sono molti però fa
una certa impressione imbattersi in un'analisi che le raccoglie tutte, fatta
di tante testimonianze dirette. Cosa l'ha spinta a lavorare a quello che di
fatto è un viaggio nel dolore?
Un primo stimolo è arrivato proprio dalla consapevolezza che, nonostante ci
fossero tanti libri sull'immigrazione, sulle condizioni in cui si lavora
nelle campagne del Mezzogiorno o nei cantieri edili, non c'era una
ricognizione delle condizioni più atroci, disumane e nascoste riguardante
tutta Italia e tutti i tipi di schiavitù; qualcosa che raccontasse anche
quelli che vivono nelle baraccopoli, le vittime degli atti di razzismo,
quelli che vivono sulla strada come le prostitute, i mendicanti e i
clochard. E poi ci sono i detenuti e i morti tra i lavoratori in nero.
Vedevo la mancanza di una mappatura geografica e tematica delle disumanità
che vivono gli immigrati. E un po', naturalmente, ha pesato anche la mia
formazione. Sono sempre stato interessato al tema del Terzo mondo, del
sottosviluppo,della povertà e delle questioni relative all'Africa
subsahariana però mi sono detto che forse avrei dovuto guardarmi prima in
casa e cercare il "Terzo mondo d'Italia", che poi è il titolo che avevo
proposto in origine ma che forse non era abbastanza forte. In Italia ci sono
fette agghiaccianti di Terzo mondo, persone che vivono come si può vivere in
una favela brasiliana o in uno slum keniano, però alle porte di Milano,
Firenze e Roma; gente schiavizzata, torturata, che vive per strada nella più
totale miseria. Ho quindi pensato che, invece di cercare di salvare
l'umanità dall'altra parte del pianeta, fosse giusto raccontare "il nostro
Terzo mondo".
Ha scelto un titolo molto forte.
Non è stata una scelta mia. Io avevo in testa qualcosa come "Il Terzo mondo
d'Italia". Quando la casa editrice mi ha proposto questo titolo sono rimasto
di sasso. Mi sembrava molto forte, ero perplesso. Poi, dopo che mi sono
preso del tempo per riflettere, mi sono reso conto che era un titolo
perfetto perché sintetizzava da una parte quello che a volte dicono
espressamente alcuni politici. Ma è anche una sintesi del contesto che
emerge, che si nota come sfondo delle storie raccontate nel libro, quello di
un Paese sempre più intollerante, ignorante, diffidente. Sparategli vuol
dire tante cose, non è solo riferito allo sparare col fucile.
Quanto ci ha lavorato?
Ho cominciato più o meno alla fine del 2009 e quindi in tutto quasi due
anni, durante i quali ovviamente ho fatto anche altro. Ogni capitolo è il
frutto di un contatto piuttosto prolungato con le persone che si sono
raccontate. Non mi piace andare lì un'ora e poi venir via perché così non si
entra in contatto con la realtà che si vuole indagare. Qualcuno mi ha detto
che ho avuto stomaco ma la verità è che l'hanno loro il coraggio, quelli che
vivono in queste realtà. Il giornalista è un po' ipocrita perché può anche
passare due notti con i raccoglitori di arance di Rosarno, come ho fatto io
– e sono state due notti da incubo – ma poi se ne torna a casa.
Nel libro lei smonta quella che spesso è la nostra scusa autoassolutoria:
"Ma tanto qui da noi stanno meglio". Molte delle persone delle quali scrive
dicono chiaramente di rimpiangere la miseria, la guerra e tutte le
sofferenze del loro Paese d'origine perché qui stanno peggio.
Questo è agghiacciante. C'è una cosa che mi ha colpito molto. A Firenze, che
poi è la mia città, sotto un cavalcavia, in una casa squallida e fatiscente,
vivono un centinaio di somali, profughi di guerra. Hanno esposto uno
striscione che dice: "Siamo scappati dalle bombe ma abbiamo trovato le bombe
dell'indifferenza che fanno ancora più male". Parlando con uno di loro, gli
ho chiesto di cosa avesse bisogno e lui mi ha risposto che gli servivano
cinquecento euro. L'ho guardato perplesso ma lui ha anticipato ogni mia
obiezione spiegandomi che gli servivano per comprare un biglietto e tornare
in Somalia, che preferiva morire in guerra nella sua terra e tra i suoi cari
che di stenti su un marciapiede in un Paese che non è il suo. Anche la
guerra è meglio della vita che fa qui.
Alcune storie sono note, come delle condizioni drammatiche in cui vivono
e lavorano i raccoglitori di arance nella piana di Gioia Tauro e pomodori in
Puglia o i manovali nei cantieri. Altre invece si conoscono meno e
potrebbero stupire il lettore. Anche lei ha avuto sorprese e ha scoperto
cose che non si aspettava?
Diciamo che quando si va in un posto é sempre una scoperta, perché un conto
è leggere qualcosa sul giornale o in un'agenzia, un conto è vivere
un'emozione sul luogo. Per quanto riguarda le scoperte, non posso
dimenticare la questione dei sikh che vivono come schiavi nella campagna
intorno a Sabaudia, né quella più agghiacciante con la quale ho deciso di
aprire il libro: la storia delle lavoratrici rumene impiegate nelle serre di
Vittoria, provincia di Ragusa, che per arrotondare la misera paga mensile
allietano le notti di colui che chiamano il "padrone" con prestazioni
sessuali che, anche se consensuali, sono il frutto di una evidente
sudditanza psicologica ed economica. Diciamo che, più in generale, ho
scoperto situazioni che sono ancora più al limite di quanto si potrebbe
immaginare. Perché quando uno si mette a cercare scopre cose peggiori di
quelle che raccontano, anzi che non raccontano, i giornali. Scopre
situazioni da Medioevo, come quella di Vittoria, nei cui consultori ci sono
file di donne, negli ospedali ci sono decine di aborti ogni mese di queste
rumene che rimangono incinta. Alla fine, questo viaggio nel Terzo mondo
d'Italia, tra campi, cantieri, baracche e marciapiedi diventa anche un
viaggio nell'Italia stessa. Se c'è qualcosa che ho scoperto è il degrado
morale che avvolge alcune zone del Paese, di tutto il Paese. Don Beniamino
Sacco, che è il sacerdote che ha scoperto i festini notturni di Vittoria,
parla di regressione al Medioevo.