31 agosto

Libia: la Nato può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra

 di Agostino Spataro

DECENNALE 9/11: INVECE DEL PROCESSO SI CELEBRERA’ UNA VEDETTA DI STATO

Gheddafi farà la stessa fine di Osama Bin Laden? Probabilmente, sì. Alcuni lo auspicano, taluni lo minacciano, apertamente.

Se ciò dovesse accadere non sarà certo per “spirito di vendetta degli “insorti”. Quali ragioni avrebbero di vendicarsi quei suoi sodali che fino all’altro ieri, per 42 anni, hanno comandato e condiviso col dittatore potere e ricchezza?

Sarebbe ucciso per tappargli la bocca, per evitare che in un processo equo e pubblico potesse chiamare in correità i suoi ex amici, libici e internazionali.

Del resto, la soluzione sarebbe in linea con la sorprendente decisione assunta dalla presidenza Usa di assassinare Osama Bin Laden, facendone addirittura sparire il corpo.

Per tale decisione molti hanno esultato. La gran parte dei cittadini Usa e del mondo intero, invece, hanno visto in questo atto fin troppo sbrigativo la negazione di un loro diritto fondamentale: quello di poter processare un capo terrorista che- secondo la versione ufficiale- è stato l’autore del più tremendo attentato della storia che provocò circa tremila vittime innocenti statunitensi.

Insomma, il diritto alla giustizia vera, non sommaria, il diritto alla verità.

Quale migliore celebrazione si poteva fare del Decennale, se il prossimo 11 Settembre si fosse aperto, a New York, il processo a Osama Bin Laden per l’accertamento pieno delle responsabilità e della verità?

Invece, sarà celebrata soltanto un’oscura vendetta di Stato.

CON GHEDDAFI BISOGNAVA CHIUDERE QUALCHE ANNO FA, INVECE…

Con Gheddafi il copione potrebbe ripetersi, per evitare che, parlando in un processo, possa creare molti imbarazzi e bloccare fulminanti carriere politiche in Libia e all’estero.

Soprattutto, di tanti capi di Stato occidentali i quali, nonostante il dittatore libico avesse ammesso la tremenda responsabilità per i due attentati agli aerei civili nei quali perirono circa 600 persone innocenti, lo hanno premiato accogliendolo nel club esclusivo dei loro amici e protetti..

Con Gheddafi, bisognava chiudere allora, isolandolo e invocando il principio di giustizia. Invece, non se ne fece nulla. (1) Nemmeno al Tribunale dell’Aja hanno aperto un fascicolo di atti relativi.

E’ bastato che il colonnello pagasse un indennizzo alle famiglie delle vittime,( ch’era la conferma agghiacciante della sua responsabilità) per fare esattamente il contrario di quanto andava fatto.

Si è avviata, infatti, fra i capi di Stato e di governo dell’Occidente una sorta di gara a chi per prima riusciva a “sdoganare” un terrorista reo confesso, a riceverlo presso le più prestigiose cancellerie, baciandogli persino la mano. Tutti, non solo Berlusconi.

Compresi i signori Sarkoszy, Obama e i premier inglesi che come “cadeau” gli hanno consegnato libero l’unico imputato libico detenuto in Gran Bretagna per la strage di Loockerbie.

Il problema, dunque, che si pone non è nominalistico, ma di coerenza politica e morale e di rispetto dei principi della legalità internazionale e della nostra civiltà giuridica che condannano le ingerenze esterne e la barbarie delle esecuzioni sommarie e i processi-farsa.

Oggi, in Libia si corre questo rischio. Il popolo libico, nell’ambito della propria legislazione, ha il diritto di processare Gheddafi per le colpe e i reati attribuitigli ed anche tutti coloro che hanno cooperato col dittatore.

Un processo equo sarebbe una vittoria della giustizia e una condizione basilare per avviare, con idee e uomini veramente nuovi, una riforma in senso democratico dello Stato e dell’economia libici.

INTERVENTI “UMANITARI”: PIU’ DISASTROSI DELLE MALEFATTE DEI DITTATORI

Andiamo ora a questo ennesimo intervento militare “umanitario” che in realtà si sta dimostrando essere una guerra della Nato, con gli “insorti” al seguito, i quali - come ha detto efficacemente Edward Luttwak:  “sparano per i cameraman delle televisioni”

E poi, conti alla mano, si è dimostrato che questi interventi hanno provocato più morti e distruzioni di quelle provocate dai carnefici che si vorrebbero bloccare e punire.

Basta guardare l’abisso in cui sono stati trascinati la Somalia, l’Afghanistan e ora la Libia.

Il caso dell’Iraq è davvero emblematico: Saddam Hussein è stato impiccato perché accusato di avere ordinato la strage di alcune migliaia di poveri sciiti, mentre la guerra di Bush junior, fino ad oggi, ha provocato diverse centinaia di migliaia di innocenti vittime irachene.

C’è chi parla di circa 600.000!

Anche la soppressione ingiusta di una sola persona dovrebbe far inorridire la coscienza di ognuno di noi. Tuttavia, se i numeri e la vita degli uomini hanno ancora un senso, tremila o cinquemila vittime di Saddam non sono la stessa cosa delle trecento o cinquecentomila provocate dall’invasione militare di Bush e della coalizione internazionale che- com’è comprovato- hanno deliberatamente falsato le prove per invadere l’Iraq.

Se Saddam ha pagato i suoi crimini con l’impiccagione, perché non devono pagare coloro che hanno provocato questo più grande sterminio? Perché l’ineffabile tribunale dell’Aja non ha aperto un fascicolo, un’inchiesta?

L’INELUTTABILITA’ DELLA GUERRA COME RISPOSTA ALLA CRISI GLOBLE?

A queste e ad altre drammatiche domande nessuno dei responsabili risponde.

Forse, i capi delle grandi potenze occidentali pensano di cavarsela sempre a buon mercato, impunemente, cospargendo l’umanità di vecchi e nuovi terrori, anche inesistenti, per meglio  imporre il loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni internazionali.

Come se questo nostro Occidente, in decadenza e in mano a poteri forti e invisibili, eletti solo dai consigli di amministrazione di banche e società d’affari, non riuscisse più ad elaborare risposte a questa crisi globale, epocale, diverse dall' opzione militare. Siamo all’ineluttabilità della guerra?

Speriamo, sinceramente, di sbagliare l’analisi, ma in giro si avvertono strani sentori.

C’è una crisi anche del pensiero occidentale? Sicuramente, pesano l’infiacchimento della democrazia rappresentativa, l’umiliazione della politica oramai asservita ai disegni della finanza e delle consorterie economiche internazionali, il dilagare dei poteri criminali.

Sopra tutto, pesa la crisi del ruolo economico dell’Occidente che non riesce a produrre più la ricchezza (tanta) che consuma, che importa e spreca risorse energetiche, inquinando il Pianeta e devastandolo con guerre micidiali e infinite per procurarsele.

Come sta facendo in Libia, in Iraq e altrove.

Sappiamo che le crisi ci sono sempre state e, bene o male, sono state superate. Questa volta, però all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s’intravede una soluzione degna e  condivisa, a garanzia del benessere e della convivenza pacifica mondiali. Qui sta il punto di novità ineludibile: con la globalizzazione, l’Occidente non è più il principale protagonista della storia.

ITALIA: FINCHE’ C’E’ GUERRA NON C’E’ SPERANZA

L’Italia, da almeno un ventennio, sembra essersi avviata su questa china. Siamo un Paese bellissimo, ma pieno di debiti e di storture che si da arie da grande potenza.

Partecipiamo a tutte le missioni militari all’estero, a tutte le guerre in giro per il mondo, acquistiamo sistemi d’arma costosissimi come se dovessimo entrare in guerra con la Cina o con gli Usa.

Insomma, una spesa militare enorme (insopportabile per un paese come l’Italia che sta tagliando scuole, ospedali e assistenza ai più deboli) per partecipare alla folle corsa al riarmo ripresa su scala planetaria.

Un solo esempio: l’Italia ha impegnato ben 15 miliardi di euro (mezza manovra di Tremonti) per l’acquisto di un centinaio di bombardieri F35.

Domanda: oggi che la crisi incalza, perché non si annulla, non si rinvia o almeno non si sospende questa colossale commessa?

Insomma, finché c’è guerra c’è speranza. Di questo passo, quante altre guerre ci vorranno? Oggi è il turno della Libia. Ieri è stato quello della Costa d’Avorio. Domani, chissà, forse quello del Venezuela, di Cuba, ecc.

L’Italia, per la sua tradizione, per la sua Costituzione pacifista e antifascista, per i suoi interessi nazionali, non può accodarsi supinamente all’interventismo di altri.

Ieri a quello disastroso di Bush, oggi a quello avventuroso del presidente francese che tanto preoccupa l’opinione pubblica mondiale e europea ed allarma molti governi legittimi, in Africa e in Medio Oriente, che lo percepiscono come una seria minaccia d’ingerenza e d’instabilità internazionale. Insomma, nessuno si sente più sicuro in casa propria!

LA GUERRA A DEBITO DELLE GRANDI POTENZE

Tutto ciò è inaccettabile, immorale per una società libera e democratica. Si stanno devastando i bilanci degli Stati, contraendo debiti sopra debiti per finanziare guerre, nient’affatto umanitarie.

Perché deve essere chiaro che queste “grandi potenze” fanno le guerre a debito ossia con i soldi prestati dalla Cina e dai piccoli risparmiatori locali.

Questa notazione vale in particolare per gli Usa, meno per l’Italia il cui debito pubblico (sproporzionato) è prevalentemente finanziato dal risparmio interno ed europeo.

Inoltre, ribadisco che l’Italia partecipando alla guerra in Libia ha solo da perdere sul piano dell’immagine politica e su quello delle sue relazioni economiche e commerciali. Per certi aspetti, questa guerra è anche contro l’Italia.

Ovviamente, il nostro discorso è prima tutto politico, umanitario; coerente con il pacifismo insito nell’articolo 11 della nostra Costituzione che non può essere oscurato da quel vergognoso codicillo introdotto per vanificarlo.

Oggi, anche i grandi giornali italiani che hanno incitato alla guerra scrivono, allarmati, di come si potrà spartire il “bottino” ossia il tesoro del popolo libico: i grandi giacimenti d’idrocarburi e- a quanto si dice- le cospicue riserve finanziarie, anche in oro, e in titoli azionari, ecc.

Tutto sarà deciso a Parigi, su iniziativa di Sarkozky, il principale promotore del progetto “insurrezionale”, che vorrà fare la parte del leone, in accordo con gli altri due paesi della triade bellicista (GB e USA).

 SI PUO’ VINCERE LA GUERRA, MA PERDERE IL DOPOGUERRA

Non sappiamo che cosa sia stato promesso alle più alte Autorità italiane per indurle a far entrare il Paese in questa avventura, mettendo a disposizione navi, aerei e diverse basi italiane.

A quanto si vede, gli “insorti” preferiscono trattare con la triade e trascurano il governo italiano.

Se la tendenza venisse confermata, si aprirebbero scenari molto problematici per l’Italia.

Il governo e il ceto politico italiano (di destra e di centro-sinistra), stranamente unito in questa scelta improvvida, sapevano a quali conseguenze si andava incontro e avrebbero dovuto chiarirlo al Paese, al Parlamento. Non è stato fatto. Perciò, crescono le inquietudini nell’opinione pubblica. E’ tempo che i nostri responsabili rispondano ai tanti quesiti che la gente si pone e fra questi alcuni davvero pregnanti e prioritari:

1) quale sarà il futuro dei nostri rifornimenti d’idrocarburi derivati dalla Libia (circa il 25% del fabbisogno totale italiano);

2) quali squilibri si potranno determinare nella bilancia commerciale italo-libica, unica in equilibrio con un paese petrolifero;

3) che fine faranno gli ambiziosi programmi d’investimento (in ricerca e produzione) di Eni e il ruolo stesso di questo colosso dell’energia (al 70% privatizzato) che fa ombra a molti all’estero e purtroppo anche in Italia.

4) cosa ne sarà dell’accordo d' indennizzo e di cooperazione firmato da Berlusconi e Gheddafi con un costo per l’Italia di cinque miliardi di euro in 20 anni;

5) come spiegano, infine, il rifiuto della Germania, paese membro della Nato e locomotiva dell’Unione Europea, di partecipare all’avventura libica. Insensibilità o preveggenza della signora Merkel?

Le risposte, probabilmente, non verranno poiché questi signori si sentono invincibili con… i deboli. Attenzione, però, che si può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra.

              

26 agosto

Quanto paghiamo per la Chiesa

di Mauro Munafò

L'esenzione da Ici e Ires. L'Irpef dei dipendenti vaticani. L'otto per mille, incluso quello di chi non sceglie di darlo alla Santa Sede. Lo stipendio degli insegnanti di religione. I finanziamenti alle scuole cattoliche. Perfino l'acqua e i depuratori del papa. Ecco, voce per voce, quali sarebbero i tagli 'sacrosanti'

Benedetto XVI Benedetto XVIDurante il week end la pagina Facebook 'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.

La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta.

A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti".

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche".

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati".

Caccia, sconto ai bracconieri

di Federico Formica

Alla vigilia della nuova stagione venatoria, il governo approva una legge secondo cui uccidere animali selvatici protetti non è reato se questo avviene "in quantità trascurabile" e con "impatto trascurabile" sulla specie

L'Italia recepisce la direttiva europea contro la caccia selvaggia. Almeno a parole. Perché la realtà è un'altra: il nostro Paese continuerà a essere una vera pacchia per i bracconieri. Il decreto legislativo 121 entrato in vigore lo scorso 16 agosto - e presentato come una rivoluzione - è stato depotenziato e svuotato della filosofia originale: punire duramente i reati contro l'ambiente con multe salate e carcere. Il nuovo testo è riuscito a scontentare tutti: dagli animalisti a Federcaccia, l'associazione che riunisce circa 400.000 cacciatori italiani sui 750.000 totali.

Nel recepire la direttiva Ue 2008/99 il Parlamento ha introdotto due nuovi articoli nel codice penale. Per punire i killer di animali protetti e chi distrugge gli habitat di un sito sotto tutela. Ma si tratta di reati simbolici perché i bracconieri italiani continuano a rischiare pochissimo. Grazie a una parola magica: "oblazione". Cosa significa? Che chi uccide un lupo in Italia non fa neanche un giorno di prigione e resta con la fedina penale pulita. Basta pagare la metà della pena pecuniaria - in questo caso circa 1000 euro - per vedere cancellato il proprio reato, come se non fosse mai esistito. La nuova legge di ispirazione europea non corregge questa stortura. Anzi, la riprende.

Ed ecco che le pene previste dal decreto 121 appaiono severe solo a un occhio inesperto: carcere da uno a sei mesi o ammenda fino a 4000 euro per chi caccia animali protetti. Oltre ad essere all'acqua di rose, la legge anti-bracconaggio è come una scatola vuota. Perché protegge solo quegli animali che la nostra legislazione non ha ancora messo sotto tutela. E sono pochissimi. La stragrande maggioranza delle specie protette è già compresa nella nostra legge 157/1992. In poche parole il nuovo testo non verrà quasi mai citato nelle aule dei tribunali italiani.

Da venti anni la 157 è l'arma spuntata che la magistratura utilizza contro i pirati con la doppietta. Stabilisce chi, come, quando e dove si può sparare. E soprattutto quali specie risparmiare. Con un'attenzione speciale verso lupo, orso, lince, puzzola, cervo sardo, camoscio d'Abruzzo. Solo per citare i mammiferi. Insomma, una legge cardine. Che prevede pene esemplari solo a parole. Da due a otto mesi di reclusione o un'ammenda da 750 a 2000 euro, almeno sulla carta.

"Sono reati di facciata, puniti come contravvenzioni anziché come delitti" commenta Maurizio Santoloci, magistrato e direttore della testata online Diritto all'Ambiente "l'effetto deterrente è insignificante perché il bracconiere ha la possibilità di oblazionare, cioè di cancellare il reato".

Anche i reati previsti dalla direttiva europea, con cui Bruxelles si era ripromessa di dichiarare guerra ai pirati ambientali, in Italia vengono considerati contravvenzioni oltre ad essere oblazionabili. Quindi di serie B. Da punire, sì, ma senza esagerare.

Il nuovo decreto fissa anche un principio piuttosto vago: le pene non si applicano se il bracconiere uccide una quantità "trascurabile" di esemplari. Chi stabilisce se tre lupi uccisi debbano essere trascurati e in base a quali principi rimane un mistero.

"Un regalo ai bracconieri" sostengono Lav (lega antivivisezione) e l'Associazione vittime della caccia. E per una volta sono tutti d'accordo. Anche la lobby dei cacciatori: secondo Gianluca Dall'Olio, il presidente di Federcaccia, "questa legge è un pasticcio. Il bracconaggio è una piaga che si estirpa solo con provvedimenti chiari. Così, invece, è tutto lasciato alla discrezionalità del giudice".

Secondo Patrizia Santilli, responsabile dell'ufficio legale di Wwf Italia, "il decreto è un copia-incolla della direttiva europea. Nessuno si è preoccupato di spiegare meglio il concetto di 'trascurabile'. Ma non per questo sarà un favore ai bracconieri, già perseguibili dalla nostra legge". Per dirla con il magistrato Santoloci: "Il decreto rivoluzionario non ha cambiato nulla. Nel nostro paese chi ruba calzini al supermarket è punito più severamente di chi uccide un lupo per avere il trofeo nel salotto di casa".

Santilli considera il decreto più un'occasione persa che uno strumento dannoso: "Il Parlamento ha solo recepito una parte della direttiva Ue, quando poteva cogliere l'occasione per varare una riforma dei delitti ambientali, una disciplina sulla quale siamo molto indietro rispetto ad altri paesi europei". Mentre la nuova stagione della caccia si avvicina - a settembre si ricomincia a sparare - nulla è cambiato. E per i bracconieri questo è ancora il paese dei balocchi.

 

9 agosto

La mala depurazione inquina la Calabria

Un mare di illegalità, una situazione drammatica, un'emergenza quotidiana. «La Calabria è al terzo posto nella classifica del mare illegale» denuncia Legambiente nel suo annuale dossier "Mare Monstrum 2011" che fotografa la salute delle acque del 2010. Oltre 1700 violazioni, pari al 14,8% del totale nazionale, 558 infrazioni accertate, 680 persone arrestate, 194 sequestri effettuati. Per ogni chilometro di litorale sono 2,4 le infrazioni contro una media nazionale di 1,6.

UN SISTEMA AL COLLASSO

Lungo i 700 km di costa calabresi una miriade di scarichi abusivi, cattiva depurazione e cemento da spiaggia vanno a braccetto. Ma il vero scandalo riguarda la depurazione. Solo il 37,4% dei cittadini è servito da un sistema di filtraggio adeguato. Sostiene Legambiente nel dossier Acque Nere: «Il mare calabrese viene continuamente violato ed avvelenato. Ad ogni estate si presentano i problemi legati al trattamento delle acque. Mare marrone, miasmi insopportabili, fiumi e mari trasformati in fogne a cielo aperto». Insomma, il sistema è al collasso. E la stagione estiva in corso è finanche peggiore. Prendiamo ad esempio Reggio Calabria, che con 694 reati accertati ha il record in materia di depuratori, scarichi fognari e inquinamento da idrocarburi. Una vera fogna con vista sullo Stretto è quella adiacente al lido comunale "Genoese Zerbi", al centro della città, molto frequentato dai bagnanti e da sempre considerato, nonostante il degrado, la struttura balneare pubblica cittadina più importante e prestigiosa. Ma nessun cartello che indichi ai bagnanti il divieto di balneazione. Una storia che si ripete ogni anno e puntualmente denunciata dal capogruppo consiliare del movimento Energia Pulita, Antonino Liotta e da Massimo Canale, coordinatore dell'opposizione.

Per verificare la denuncia di Energia Pulita basta poi collegarsi al sito di Portaleacque.it del Ministero della Salute per accorgersi subito che non solo il lido comunale ma anche le acque antistanti il Circolo Velico (più di un chilometro di costa sempre al centro della città) sono praticamente out per la balneazione a causa della presenza eccessiva di batteri fecali. «Se le acque non sono balneabili - spiega Eleonora Uccellini di Energia Pulita - i cittadini devono essere informati e il Comune ha l'obbligo di individuare le zone e segnalarle con appositi cartelli». A ciò bisogna aggiungere, secondo i dati del portale internet, i 500 metri di costa adiacenti al torrente Annunziata, i 1100 metri di costa del circolo nautico, oltre a diverse zone periferiche, ma sempre affollate di bagnanti, di Pellaro Lume, Catona, Gallico, tutte zone ben identificate dai tecnici dell'Arpacal e censite secondo il nuovo schema di valutazione delle acque di balneazione. Tutte zone classificate con una x che indica l'acqua «di qualità scarsa» e quindi con valori molto alti per quanto riguarda la presenza di escherichiacoli e enterococchi. E malgrado tutto considerati balneabili.

LA SCIMMIETTA

I guai maggiori riguardano, però, la costa calabrese che affaccia sul Tirreno. Con depuratori vecchi e malandati, senza manutenzione o in stato di completo abbandono. Un disastro fin troppo evidente, dal vibonese fino al Tirreno cosentino. Tuttavia la Regione e il suo presidente Peppe Scopelliti (unitamente ai sindaci della zona) come le tre scimmiette fanno finta di non vedere e di non sentire.
Le larghe chiazze marroni che sono venute a galla tra Paola, Fuscaldo e Amantea lo hanno, però, indotto ad effettuare un sopralluogo sull'area del paolano. Secondo il Comune i depuratori funzionano e sono in regola e «tutto questo può dipendere solo dagli scarichi abusivi». E così Scopelliti, insieme all'assessore all'Ambiente Franco Pugliano, dieci giorni fa ha effettuato una ricognizione in elicottero del Tirreno cosentino. «Nel corso della verifica - ha dichiarato il presidente - non sono emerse situazioni anomale, a conferma dei rilievi effettuati periodicamente dall'Arpacal che quotidianamente aggiorna il proprio sito internet per informare i cittadini e le amministrazioni sullo stato di salute del mare calabrese. Allo stato attuale vengono confermati i dati che certificano oltre il 90% di balneabilità delle coste regionali».

Nonostante le (grottesche) rassicurazioni, restano le macchie in mare e le proteste dei turisti. «La verità è che sono degli incapaci - tuona Silvio Greco del movimento Slega la Calabria, biologo marino già assessore all'Ambiente - il sistema depurativo è praticamente bloccato da quando si sono insediati. Non è stato effettuato alcun controllo, non è stata esercitata nessuna vigilanza e le ditte a cui avevamo affidato i lavori si sono fermate perché Scopelliti e i suoi non hanno più seguito i lavori predisposti. Il funesto risultato è sotto gli occhi di tutti. Nessun contratto firmato, nessun bando emanato, un'inerzia mista ad incapacità che sta pregiudicando la risorsa più importante che abbiamo, il mare. I dati Arpacal che la destra millanta sono quelli degli anni precedenti e, come tali, vanno presi con le molle. In realtà per loro meno se ne parla e se ne scrive e meglio è. Basti pensare all'ostracismo che mostrano verso Il Quotidiano della Calabria». Intanto, la Procura della Repubblica di Paola, coordinata dal procuratore capo Bruno Giordano, prosegue nel fitto monitoraggio dei depuratori della costa, avviato già dallo scorso mese di marzo e anche la Procura di Crotone ha avviato accertamenti sui rifiuti riversati in acqua. Anche nella Riserva marina di Capo Rizzuto la situazione ha raggiunto i livelli di guardia: divieto di balneazione per la spiaggia di Capo Piccolo perché nei pressi c'è un torrente che scarica liquami fognari in mare.
D'altronde, sin dal 2009 l'Unione Europea aveva aperto una procedura d'infrazione contro l'Italia per deficit depurativo con ben 22 comuni calabresi nella lista di quelli inadempienti. Per di più, i dati raccolti da Legambiente rivelano una condizione inquietante e le indagini della magistratura descrivono una situazione disarmante: manutenzione degli impianti inesistente, scarichi non allacciati perché all'interno di lottizzazioni abusive senza rete fognaria, versamenti illegali di fanghi di lavorazione industriale.

PIU' CEMENTO PER TUTTI

Un muro di cemento illegale sta soffocando l'intera Calabria, seconda regione per numero di reati edilizi. «Su un totale di 715 km di costa - secondo Legambiente - gli abusi sono lievitati in maniera esponenziale nel 2010, con 700 infrazioni accertate, 610 sequestri eseguiti, 600 persone arrestate». Dai palazzi condominiali alle villette, dai camping ai villaggi turistici, fino alle aree demaniali "privatizzate" e alle costruzioni mai terminate, il cemento sui litorali è una valanga senza fine. C'è poi la piaga degli ecomostri come quello di Fiuzzi a Praia a Mare, l'Aviosuperfice di Scalea, il cosiddetto Alveare di Copanello, per proseguire con il cemento da spiaggia della Palafitta di Falerna e continuare con le 700 ville delle 'ndrine nell'Area Marina protetta di Capo Rizzuto. Più a nord, a Capo Colonna, c'è la deturpazione dell'omonimo Parco archeologico con ben 40 manufatti abusivi. Insomma, di tutto e di più: il mare è inquinato, il turismo è in panne, la Calabria affonda. Riusciranno prima o poi i calabresi ad invertire la rotta per una "rivoluzione verde"?

 

Pena di morte in Asia è pratica diffusa. Esecuzioni in aumento, in Cina soprattutto

La relazione dell'associazione "Nessuno tocchi Caino". Sebbene si assista ad una sostanziale diminuzione dei paesi dove le esecuzioni capitali sono state abolite (anche se in Usa due stati l'hanno reintrodotta) laddove vene usata come strumento penale, le persone mandate sulla forca sono sempre di più

di VITTORIA VIOLA

ROMA - Si spara un colpo di fucile a distanza ravvicinata al cuore oppure alla nuca con il condannato in ginocchio, le caviglie legate e le mani ammanettate dietro la schiena. Anche se dal 1997 è stato introdotto il metodo dell'iniezione letale, quello di essere giustiziati con una puntura, in Cina, è un "privilegio"riservato a pochi: ex alti funzionari del regime e cittadini stranieri. In totale, per il 2010, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati almeno 22, rispetto alle 19 del 2009 e alle 26 del 2008. Si registrano 5.837 esecuzioni, a fronte delle 5.741 del 2009 e delle 5.735 del 2008. Ancora una volta, l'Asia si conferma il continente dove si pratica la quasi totalità delle pene di morte nel mondo.

In Cina l'85% del totale. Il rapporto 2011 Nessuno tocchi Caino 1 parla chiaro: la grande Cina è il "Paese boia" per eccellenza. Nel 2010, le esecuzioni ammontano a circa 5.000, l'85,6% del totale mondiale (più o meno come nel 2009) e il dato complessivo nel continente asiatico corrisponde al 98,4% del totale, in aumento rispetto al 2009.

Iran, Corea del Nord. Di solito, il regime comunista cinese punisce con la morte i traditori politici. Lo stesso avviene in Corea del Nord, in Iran e in Vietnam. Nel 2010 e nei primi mesi del 2011 è qui che si sono verificati il maggior numeri di reati politici e di opinione puniti con l'esecuzione. I dati mostrano che l'Iran e la Corea del Nord si aggiungono alla Cina conquistando il titolo di primi tre "Paesi-boia" del 2010 nel mondo. L'Iran ne ha effettuate 546 nel 2010, la Corea del Nord circa 60. Nel primo caso le pene capitali sono passate dalle 402 del 2009 alle 546 del 2010. Nel 2010, sono state impiccate sulla pubblica piazza almeno 19 persone. E già nel 2011, le esecuzioni pubbliche sono aumentate mentre, al 20 giugno, erano già state impiccate in pubblico almeno 36 persone.

In Giappone. Il numero delle esecuzioni sono diminuite in maniera significativa da quando il Partito Democratico del Giappone ha preso il potere nel settembre 2009, dopo oltre 50 anni di ininterrotto governo conservatore. Le sole esecuzioni sono avvenute nel luglio del 2010, quando due uomini sono stati impiccati, dopo essere stati riconosciuti colpevoli di omicidio. Prima del cambio di governo, nel 2009 erano stati giustiziati 7 detenuti.

Nel mondo. Nel 2010, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati almeno 22, rispetto ai 19 del 2009 e ai 26 del 2008. Ma se nel 2010 e nei primi sei mesi del 2011 non si sono registrate esecuzioni in 3 Paesi - Oman, Singapore e Thailandia - al contrario 8 Paesi hanno ripreso la pratica: l'Autorità Nazionale Palestinese (5), Bahrein (1), Bielorussia (2), Guinea Equatoriale (4), Somalia (almeno 8) e Taiwan (4) nel 2010; Afghanistan (2) ed Emirati Arabi Uniti (1) nel 2011.

Negli Stati Uniti. Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Usa, l'unico Paese che ha compiuto esecuzioni (46) nel 2010. Nessuno Stato "abolizionista" ha reintrodotto la pena di morte, ma in due casi hanno fatto marcia indietro. Nel giugno 2010 è stato il momento dello Utah e, nel settembre 2010, è toccato allo Stato di Washington, che ha effettuato la prima esecuzione dal 2001. Le 46 esecuzioni del 2010 sono avvenute in Texas (7), Ohio (8), Alabama (5), Oklahoma, Virginia e Mississippi (3), Georgia (2), Florida, Louisiana, Louisiana, Arizona, Utah e Washington (1). Il 1° gennaio 2011 nei bracci della morte c'erano 3.261 persone. Alla stessa data dell'anno precedente erano 2 di più, 3.263. Il numero massimo di detenuti nel braccio della morte si registrò nel 2000, con 3.593. Da allora è diminuito costantemente.

In Africa. Nel 2010 la pena di morte è stata eseguita in 6 Paesi (erano stati 4 nel 2009) e sono state registrate almeno 43 esecuzioni: Libia (almeno 18), Somalia (almeno 8), Sudan (almeno 8), Egitto (4), Guinea Equatoriale (4) e Botswana (1). Nel 2009 le esecuzioni effettuate in tutto il continente erano state 19, come nel 2008 contro le 26 del 2007 e le 87 del 2006.

In Europa. La Bielorussia continua a costituire l'unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte. Nel 2010 due uomini sono stati giustiziati per omicidio e altri due sono stati uccisi il 21 luglio 2011. Dei 42 mantenitori della pena di morte, 35 sono Paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In 18 di questi, sono state compiute circa il 99% del totale mondiale delle esecuzioni. Tra l'altro, molti di questi Paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.

Nessun tocchi Caino. Il rapporto 2011 conferma un'evoluzione positiva verso l'abolizione della pena di morte in atto nel mondo da qualche anni. I paesi mantenitori della pena capitale sono infatti scesi a 42 a fronte dei 45 del 2009, dei 48 del 2008, dei 49 del 2007 dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005. Nessun tocchi Caino ha un obiettivo: abolire la pena di morte nel mondo. Un successo è già arrivati nel dicembre dle 2007 con l'approvazione della risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capotali da parte dell'assemblea generale delle nazioni unite. Il banco di prova però è nel decisivo cambio di regime nei paesi arabvi, a partire dall'egitto. Nessun tocchi Caino farà la sua parte con un progetto chwe vedrà impegnata l'associazione nei prossimi due anni in 17 paesi del nord africa, medio oriente, est e sud-est asiatico con un obiettivo: superare i segreti di stato sulla pena di morte spingendo le istituzioni ad approvare atti che rispondano alle richieste dell'Onu in materia.

 

8 agosto

 

L'attacco speculativo contro l'Italia

L'opinione di Marco Causi

Marco Causi è professore associato di Economia all'Università di Roma Tre e deputato del PD. In questa doppia veste di economista e di parlamentare dell'opposizione ha accettato questa conversazione con Paneacqua per aiutarci a capire meglio ciò che sta accadendo, in Italia e in Europa, dopo la fibrillazione dei mercati finanziari di venerdì e di lunedì, e soprattutto in vista del dibattito in Parlamento sulla manovra economica presentata dal governo

Intanto, una prima rassicurazione, da parte di Marco Causi. Secondo l'economista, l'Italia non è a rischio di default, ovvero quella situazione in cui uno stato sovrano non fosse più in grado di rispettare i patti relativi al proprio indebitamento pubblico. "In realtà", afferma Causi, "stiamo assistendo ad un attacco della speculazione su tutti i mercati europei. Cosa vuol dire? Molti investitori internazionali scommettono sulla debolezza degli stati. È accaduto con i cosiddetti ‘pigs', Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, e oggi accade con l'Italia, Paese che quegli investitori considerano debole, politicamente ed economicamente. Ciò in conseguenza della elevatezza del debito pubblico e della debolezza del nostro governo. Ma aggiungo, soprattutto per effetto degli errori di Berlusconi. Invece di occuparsi di dare soluzione alla crisi, che è ancora in corso e fa sentire oggi i suoi effetti durissimi, il premier si è occupato d'altro, dei suoi problemi giudiziari. Nessun beneficio per l'Italia, anzi un'esposizione sui mercati, che oggi hanno approfittato di questa fragilità".
Sulla manovra economica presentata dal ministro Tremonti, Marco Causi ha ovviamente le idee molto chiare. A partire dai costi, dalle cifre. Sostanzialmente, sostiene l'economista, occorre seguire i patti concordati in sede di Unione Europea. L'obiettivo è quello del pareggio di bilancio entro il 2014, secondo una manovra triennale che incida sul 2,3 per cento del nostro PIL, con un ammontare di 40 miliardi di euro. "Questi sono i patti. Chi oggi sostiene che la manovra non sia più sufficiente, incorre in un errore, perché somma anno su anno. Invece, da economista sostengo che quelle cifre concordate con la UE debbano essere rispettate, perché rispettano, a regime, il pareggio di bilancio. Il problema, semmai, è un altro, è nella struttura stessa dei meccanismi presentati da Tremonti. Vediamo. Intanto, grava un primo giudizio di incompletezza. In realtà, nel Decreto Legge, fra minori spese e maggiori entrate, sono previsti 25 miliardi di euro. Mentre i restanti 15 miliardi di euro dovrebbero arrivare dalle deleghe fiscali. Dunque, su ben 15 miliardi non c'è, ancora, di fatto, copertura finanziaria. Questo è il vero problema della manovra targata Tremonti. Una serie di pasticci, che corriamo il rischio serissimo di pagar cari".
Marco Causi elenca alcuni di questi enormi pasticci tremontiani. Il più grande, a suo avviso, è che l'accordo con l'Unione Europea prevede il dettaglio dei conti della manovra entro ottobre 2011. Invece, c'è stata un'accelerazione senza alcuna ragione economica, né politica, apparente. Si è giunti a varare una manovra incompleta e punitiva con una fretta sospetta, in un frangente delicato nel quale il governo, il suo premier e il suo ministro dell'Economia appaiono molto indeboliti, da vicende di governo e da vicende private. Invece, secondo Marco Causi, "oggi occorre restituire all'Italia quella credibilità perduta, adempiendo in tutti i modi ai patti e ai vincoli sottoscritti con l'Unione Europea. La credibilità del Paese fa da argine ai tentativi della speculazione di colpirlo sui mercati finanziari. Il mio parere è che invece la manovra economica, a questo punto così decisiva per il futuro dell'Italia, debba avere una larghissima condivisione, seguendo esattamente le esortazioni del presidente Napolitano. La condivisione larga attribuisce quella credibilità che oggi manca, perché gli analisti finanziari si convincono che chiunque sia al governo (che si voti nel 2012 o nel 2013) adempirà a quei patti sottoscritti".
Al contrario, la maggioranza ha voluto blindare il Decreto Legge annunciando il voto di fiducia. E questo ha indebolito la posizione dell'Italia sui mercati finanziari. Da una parte, l'inconsistenza della manovra e dall'altra la debolezza del governo, una miscela esplosiva che può rivelarsi una tragedia economica. Si aggiunga a questa situazione nazionale anche l'oggettivo aggravamento costituito dalla decisione della BCE, la Banca Centrale Europea, di elevare i tassi di interesse, peggiorando le prospettive finanziarie dei Paesi più indebitati, come se i guai interni non bastassero.
"Noi del PD abbiamo ripetutamente chiesto alla maggioranza di trasformare il Decreto Legge in Disegno di Legge", prosegue nella sua analisi Marco Causi, "garantendone l'approvazione entro settembre. In tempo utile, secondo i patti siglati con l'Unione Europea. La risposta è stata un secco niet. E il ricorso al voto di fiducia. Ora vedremo nei prossimi giorni se il governo si aprirà ai nostri pochi ma sostanziali emendamenti, o se invece cercherà nuovamente di blindarsi, come ha fatto in questi anni". A proposito di emendamenti sostanziali, Causi ne cita tre decisivi.
"Un primo emendamento tende a non far ricadere sulle pensioni il peso economico della manovra. Occorre una rimodulazione dei tetti, in modo da colpire le pensioni più elevate, tenendo quelle medie e basse al riparo. Un secondo emendamento riguarda la tassazione sulle rendite finanziarie, comprese le stock options. Ad esclusione dei titoli di stato, occorre riportare la tassazione sulle rendite ai livelli europei, ovvero al 20%, mentre oggi sono ferme al 12.5%. Si tratta di un provvedimento strutturale che riallinea il sistema fiscale italiano a quello europeo. A coloro che obiettano sfracelli sui mercati finanziari, rispondo che la speculazione finanziaria a breve termine non è certo influenzata da calcoli di convenienza fiscale. Le aspettative sono a breve o a brevissimo termine sui titoli sui quali si scommette. Un terzo emendamento prevede interventi sulle cosiddette agevolazioni fiscali, che pesano per ben 140 miliardi di euro. Il ministro Tremonti aveva disposto un gruppo di lavoro che si occupasse di valutare i regimi. Ma non è successo nulla. Invece, è giunto il momento in cui si cominci a produrre qualche risultato, eliminando alcune agevolazioni e razionalizzando il resto. Dobbiamo convincere tutte le categorie interessate alle agevolazioni, agricoltori, cooperatori, trasportatori, industriali, ecc., a sedersi attorno a un tavolo per partecipare tutti in egual misura ai sacrifici imposti dalla crisi".
"In realtà", conclude Causi, "siamo nel pieno della bufera. Ma si tratta di un deja vue . Già nel 1992 fummo colpiti da una medesima situazione, quando fummo costretti a uscire dal Sistema Monetario Europeo, e solo la manovra di Amato, pari a 90 mila miliardi di lire, ci mise in condizione di rientrarvi. Ora, muta il rapporto con le istituzioni europee. Compito di una opposizione responsabile è fare di tutto per garantire il rispetto degli accordi assunti in sede di Unione Europea, a proposito di pareggio di bilancio, a regime, entro il 2014. Tuttavia, noi abbiamo anche l'obbligo di dire al Paese che questo è l'effetto più nefasto di dieci anni di governo Berlusconi. Ha ingannato gli italiani, dicendo loro che sarebbero stati più ricchi. Invece, ci ritroviamo tutti molto, ma molto, più poveri".

 

4 agosto

 

Lo scempio laziale

L'ultimo numero del settimanale del Sole 24 Ore dedicato al territorio denuncia il fallimento dell'ulteriore allentamento delle regole portato avanti dal governo Berlusconi. I numeri confermano che aver reso pressoché automatico i permessi di costruzione senza controllo da parte delle amministrazioni pubbliche, non ha fatto aumentare per nulla il numero delle iniziative edilizie in tutte le regioni. Segno evidente che il mercato è saturo e necessiterebbe di ragionamenti e politiche di ampio respiro.
La giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini non è tra i lettori dell'autorevole rivista e, guidata dal cieco furore contro le funzioni pubbliche, ha approvato il peggior piano casa tra le regioni italiane. Non c'è infatti il minimo disegno strategico nel distribuire a piene mani la rendita parassitaria fondiaria. Sono soltanto due i risultati ottenuti: il primo è quello di aver cancellato forse per sempre l'urbanistica dal panorama legislativo: dall'urbanistica al piano casa, come sostiene Italo Insolera. Il secondo è quello di aver colpito duramente le poche forme di controllo pubblico su quanto avviene nelle città che diventeranno così più invivibili.
Nelle zone a bassa densità, le uniche spesso che conservano un po' di qualità, chi avrà le possibilità potrà aumentare altezza e volumetrie del proprio edificio. Gli altri, i vicini che non hanno le stesse possibilità economiche vedranno sparire spazi verdi, alberi, panorami. Avranno più traffico automobilistico e ne riceveranno un danno economico. I selvaggi che scrivono le leggi regionali saranno soddisfatti.
Gli effetti su quanto resta del tessuto industriale regionale saranno devastanti. È previsto infatti l'aumento delle cubature dei capannoni industriali e la possibilità di riconvertirli in abitazioni. Al difficile percorso dell'innovazione tecnologica, alla ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati, al rischio d'impresa viene contrapposta una gigantesca autostrada per dismettere tutto, lucrare rendita e portare i soldi nei paradisi fiscali. Ci penserà Tremonti o chi per lui a farli tornare con generosissime aliquote.

C'è poi l'aspetto più grave, forse quello per cui si sono battuti con maggior determinazione i pasdaran della Regione: aggredire le aree vincolate, cancellare i vincoli paesaggistici, minare la stessa sopravvivenza dei pochi e asfittici parchi regionali. Con la nuova legge si possono aumentare le cubature anche nelle zone sottoposte a vincolo di legge, costruendo addirittura decine di nuovi porti; si possono agevolmente superare i vincoli dei piani paesaggistici che infatti non si approveranno mai; si può costruire anche nelle aree pregiate dei parchi regionali.
Infine, la ciliegina che ha fatto inorridire perfino l'ex presidente della regione Veneto Galan, che pure dovrebbe avere uno stomaco di ferro per aver digerito l'alluvione di capannoni che funesta la regione che ha governato per tanti anni. Galan ha tuonato contro l'ennesimo condono edilizio mascherato presente nella legge. Ecco dunque il piano casa peggiore d'Italia: un miscuglio di incultura, deroghe e condoni.
Il Partito democratico si è distinto per un emendamento vergognoso, a ulteriore conferma che dalla cultura del mattone e della speculazione non si sposta ed è identico alla destra liberista. Ma una novità si coglie nell'atteggiamento della sinistra. I verdi di Angelo Bonelli e Sel hanno svolto con coerenza il proprio ruolo di disegnare un'alternativa. Di una nuova cultura che ambisce a diventare maggioritaria basata su un concetto semplice: città e territori sono beni comuni.

 

B. e don Verzè, la vera storia

di Marco Travaglio

La carriera del prete affarista è sempre stata intrecciata a quella del Cavaliere. Da quando trafficavano insieme per spostare le rotte Alitalia da Milano 2. Il marcio iniziò così e proseguì per decenni. Sempre con i due a braccetto

A proposito di don Luigi Verzè, già cappellano di Craxi ("in lui vedo Cristo") e di Berlusconi ("un dono di Dio all'Italia"), ma anche ben ammanicato con Nichi Vendola che gli ha spalancato le porte della Puglia ("uno dei pochissimi politici italiani ad avere un fondo di santità"), l'unico sentimento che non si può provare davanti al disastro del suo San Raffaele è lo stupore. La carriera di questo prete simoniaco è indissolubilmente legata a quella del premier: naturale che, se il Cav declina, il Don si senta poco bene.

Chi volesse saperne di più non ha che da leggere "L'Unto del Signore" di Gumpel e Pinotti (Bur) e "Dossier Berlusconi anni Settanta" (Kaos). I due libri raccontano la storia di un giovane costruttore brianzolo, schermato da strani paraventi svizzeri, che 40 anni fa compra per quattro soldi 700 mila metri quadri di terreni a Segrate e inizia a costruirvi la città satellite Milano2. Sventuratamente la quiete di quel paradiso è turbata dal frastuono di oltre 100 decibel degli aerei che decollano ogni 90 secondi dalla vicina Linate. Il che dovrebbe sconsigliare vivamente la costruzione di insediamenti residenziali e tanto più ospedalieri. Ma il palazzinaro regala un pezzo di terreni a un prete più spregiudicato di lui, sospeso a divinis dalla Curia milanese, perché vi eriga una bella clinica privata con soldi pubblici: il San Raffaele. Poi il gatto e la volpe, cioè il palazzinaro e il cappellano piagnucolano: non si possono ammorbare i malati con quel rumore.

E così, ungendo le giuste ruote, ottengono da governo e Alitalia il dirottamento delle rotte aeree dalla nuova città pressoché disabitata e dal nuovo ospedale ancora semideserto sui comuni vicini, popolati da decenni. Risultato: il prezzo degli appartamenti di Milano2 triplica in un battibaleno. Già che ci sono, le autorità aeronautiche falsificano pure le carte di volo gabellando l'intera zona residenziale per "ospedaliera", così gli aerei girano al largo. Proteste, denunce, battaglie legali, processi. Anche perché don Verzè offre a uno dei pochi politici che gli resistono, l'assessore regionale alla Sanità Vittorio Rivolta, una tangente del 5 per cento sul miliardo e mezzo di lire di fondi pubblici che stanno per piovergli da Roma. Per questo nel 1977 sarà condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per istigazione alla corruzione (condanna poi prescritta in appello) e definito dal Tribunale "imprenditore abile e spregiudicato, inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli sul piano etico e penale". I giudici collegheranno la deviazione delle rotte aeree ai sospetti di "pressioni illecite, non esclusa la corruzione, sulle competenti autorità locali e centrali".

Fin dal 1975 Giorgio Bocca si occupa, sul "Giorno", del prete affarista: "Quello che allontana gli aerei e cura non solo i malanni fisici, ma anche 'le anime preternaturali' dei pazienti", intanto "il prezzo al metro quadro passa dalle 150 mila alle 400 mila lire. L'arte dei grandi speculatori è avere molti complici". Ma già nel 1973 "il manifesto" aveva denunciato lo scandalo. Titolo: "Per portare avanti la speculazione Milano2 prima rendono sordi i segratesi con i jet, ora li vogliono appestare con un immondezzaio". Svolgimento: "Il problema vero non è quello 'sonoro', ma la puzza di marcio che ci sta dietro, le aree, la speculazione edilizia: è una barca molto grande, in cui ci son dentro tutti, la Regione, i democristiani e anche i socialisti... Ma la più sporca di tutte l'ha fatta il Vaticano che, con l'aiuto delle banche svizzere, ha appoggiato l'operazione Milano2 con l'insediamento, nella zona, dell'ospedale San Raffaele... Dal 1972 è riconosciuto da un decreto del ministero della Sanità 'Istituto di ricovero a carattere scientifico'... Ma è privo persino dei servizi di base: non dispone di pronto soccorso e ha difficoltà a occuparsi delle operazioni di appendicite... Ma se i segratesi sono sordi, non sono anche ciechi e si stanno ribellando con molta forza a quel che gli (sic, ndr) succede sopra la loro testa".

L'autrice di questa prosa tanto sgangherata quanto generosa è Tiziana Maiolo, giovane cronista del "manifesto", non ancora folgorata sulla via di Arcore. Come passa il tempo.

 

Falsi (tagli) in bilancio

Ecco come deputati e senatori si arrampiacano sui vetri per giustificare i loro privilegi. Enzo Raisi (Fli): Io non mi taglio i capelli qui dentro. Vado dal mio barbiere che sicuramente costa meno"

La Camera vota i tagli al bilancio
Stasera, hanno messo la firma sui soldi spesi l’anno passato e hanno approvato il preventivo di quelli messi in conto per l’anno in corso. Praticamente gli stessi, ma con l’alibi dello stop all’inflazione: se non fossimo intervenuti, spiegano, le spese del palazzo sarebbero aumentate. Due milioni di euro “risparmiati” dalla stretta sui viaggi dei deputati, il “contributo di solidarietà” sui vitalizi, la chiusura di un ristorante, lo stop agli affitti degli uffici di 180 parlamentari. Al Senato, si aggiungono tagli alle spese per la carta e i lavaggi auto, sforbiciata alle forniture di saponi e asciugamani. Risparmio totale: 0,34 per cento rispetto a un anno fa.

Prima di votare, però, Camera e Senato, hanno messo qualche puntino sulle i. Che ladri non sono, che non c’è nulla di cui vergognarsi a guadagnare 12 mila euro al mese, che i costi della politica sono un’assicurazione per la democrazia. Così, salvo qualche rara eccezione, i dibattiti in corso a palazzo Madama e Montecitorio sono una collezione di giustificazioni memorabili. Podio al deputato Pdl Lucio Malan: per spiegare il costo di un politico al contribuente arriva a fare il paragone con il prezzo di copertina del best seller di Rizzo e Stella, “La Casta”: “Colleghi – spiega in aula – La dotazione del Senato per il 2011 è di 526 milioni e 950.000 euro. (…) . Si tratta dello 0,05 per cento della spesa pubblica, 56 centesimi al mese per ogni contribuente. Insomma, l’intero Senato costa a un singolo cittadino molto meno di un decimo, forse un ventesimo dell’iscrizione al sindacato. Con il costo di una copia del libro La Casta un cittadino si campa l’intero Senato per quasi tre anni”.

Dal punto di vista matematico può anche darsi che regga, da quello comunicativo molto meno. Lo sa anche il Pd. Mentre Malan fa i conti al Senato, alla Camera il democratico Pierluigi Castagnetti dice: “Apprezzo le proposte fatte dal Collegio dei questori perché cercano di ridurre le spese in varie direzioni, imponendo sacrifici al lavoro della Camera e ai parlamentari. È assai probabile – immagina il deputato Pd – che tali misure vengano giudicate dall’opinione pubblica insufficienti non per una valutazione oggettiva, ma per un’aspettativa punitiva nei confronti del ceto politico sulle cui ragioni occorrerà riflettere piuttosto che respingerle come un fenomeno storicamente ricorrente e dunque prevedibilmente riassorbibile. No, cari colleghi, la cosa è seria, molto seria, e faremmo bene a non archiviarla frettolosamente”. Teoria condivisa (senza ipotesi di soluzioni) anche dalla Lega. Il deputato del Carroccio Giacomo Stucchi sa benissimo che sui tagli bisogna muoversi “con tutto il tatto che ci vuole”, perché le “proposte necessitano di uno studio approfondito” e di “tempi molto lunghi prima di poterle concretizzare”. Comunque qualche cosa si può fare, spiega, per esempio “giustificare la spesa di questa somma” (parla del rimborso ai collaboratori) “perché così togliamo anche quest’alibi all’antipolitica imperante in questo momento”.

Intanto al Senato Giuseppe Astore (ex Idv ora di Partecipazione Democratica) si sente “braccato, mi sento un accattone e non un parassita ma un parlamentare che ha inteso lavorare”. Se la prende con casa sua, con il Senato stesso: “Nessuno ci ha difeso con una conferenza stampa, con trasparenza, con un ufficio apposito in cui senza paura dire quale è la verità e quale la bugia, perché nessuno si vergogna di prendere 12mila euro al mese ma di benefit che si possono cancellare”.

Per il finiano Enzo Raisi è un “problema di informazione”. “Io, peraltro, faccio parte della categoria degli sfortunati, perché sono entrato nel 2001 e hanno cambiato le regole per il vitalizio – spiega ai colleghi della Camera – Una volta lo concedevano subito, ora si percepisce a 65 anni. Da quando sono qui hanno bloccato l’indennizzo e per due volte hanno ridotto lo stipendio; lo ripeto, per due volte da quando sono parlamentare in questi dieci anni, per tre mandati. Peraltro, questo nessuno lo sa, perché se uscite e chiedete alla gente se sa che il Parlamento – la Camera dei deputati, vorrei sottolineare anche questa differenza – ha diminuito per due volte lo stipendio dei parlamentari nessuno sa rispondere, anzi, vi chiederanno quando finalmente decideremo di ridurre il nostro stipendio”. E non ha nessuna remora, Raisi, a definirsi “becco e bastonato”, la versione emiliana del cornuto e mazziato. “Il massimo è stato la barberia, che noi paghiamo correttamente ma del quale tutti pensano che noi usufruiamo gratis (c’è anche questo problema di immagine): applica tariffe che, una volta viste, risultano essere più alte di quelle di mercato. Infatti, io non mi taglio mai i capelli qua dentro, ma vado dal mio barbiere che, per carità, è opinabile se mi tagli i capelli bene o male, però sicuramente costa meno, ed è un signor barbiere. Allora, mi dovete spiegare perché devo essere becco e bastonato”. Poi chiarisce il punto: “La gente fuori crede che io abbia il servizio gratis e in più lo pago molto più di quello di mercato”. Becco, bastonato, e pure senza parcheggio. Dice ancora Raisi: “Io sono un povero “peone”, come ce ne sono tanti qua dentro, però ho la mia macchinina che mi sono comprato dal 2001, una povera Smart (…). Qui basta essere presidenti di un comitatino qualsiasi e hai diritto all’utilizzo dell’auto blu. (…) Poi se si aggiunge che questi adesso parcheggiano anche dentro il parcheggio della Camera, sei “becco e bastonato” anche in quel senso, perché se non arrivi in tempo trovi tutto lo spazio di parcheggio occupato dalle auto blu”.

 

'Sparategli!', viaggio nel Terzo mondo d'Italia

Intervista a Jacopo Storni, autore del libro-inchiesta che racconta chi sono e come vivono "i nuovi schiavi" del nostro Paese

C'è Jasmin, la minorenne nigeriana portata a battere lungo i marciapiedi di Castel Volturno e marchiata a fuoco dalla sua "madame"; c'é Mihaela arrivata dalla Romania per lavorare nelle serre del Siracusano e rimasta intrappolata nello squallore dei "festini agricoli"; c'è Tsara, bimba tretlapegica che vive al Triboniano, enorme baraccopoli del nordovest di Milano, Navtaj, l'indiano al quale dei ragazzini diedero fuoco per noia alla stazione di Ostia. E poi ci sono quelli di cui non sapremo mai nulla, le tante vittime dei viaggi della speranza sepolte in fondo al Mediterraneo. Sono i tanti fili di una sola storia di disperazione, miseria e disumanità raccontata in Sparategli! Nuovi schiavi d'Italia da Jacopo Storni, giornalista di Redattore Sociale e del Corriere Fiorentino (Editori Riuniti, con prefazione di Ettore Mo). Non l'ennesimo libro sul dramma del caporalato o sullo sfruttamento della prostituzione ma una ricognizione complessiva delle molte e moderne forme di schiavitù ignorate o tollerate nel nostro Paese. Da Milano a Vittoria, da Firenze alla Capitanata, Storni entra con tatto nelle storie dei "nuovi schiavi" e dà un nome e un volto a quelli che altrimenti rimarrebbero solo statistiche. Peacereporter ne ha parlato con l'autore.

Una cosa che colpisce del libro è l'esaustività della trattazione. Di inchieste e reportage su diverse emergenze sociali ce ne sono molti però fa una certa impressione imbattersi in un'analisi che le raccoglie tutte, fatta di tante testimonianze dirette. Cosa l'ha spinta a lavorare a quello che di fatto è un viaggio nel dolore?

Un primo stimolo è arrivato proprio dalla consapevolezza che, nonostante ci fossero tanti libri sull'immigrazione, sulle condizioni in cui si lavora nelle campagne del Mezzogiorno o nei cantieri edili, non c'era una ricognizione delle condizioni più atroci, disumane e nascoste riguardante tutta Italia e tutti i tipi di schiavitù; qualcosa che raccontasse anche quelli che vivono nelle baraccopoli, le vittime degli atti di razzismo, quelli che vivono sulla strada come le prostitute, i mendicanti e i clochard. E poi ci sono i detenuti e i morti tra i lavoratori in nero. Vedevo la mancanza di una mappatura geografica e tematica delle disumanità che vivono gli immigrati. E un po', naturalmente, ha pesato anche la mia formazione. Sono sempre stato interessato al tema del Terzo mondo, del sottosviluppo,della povertà e delle questioni relative all'Africa subsahariana però mi sono detto che forse avrei dovuto guardarmi prima in casa e cercare il "Terzo mondo d'Italia", che poi è il titolo che avevo proposto in origine ma che forse non era abbastanza forte. In Italia ci sono fette agghiaccianti di Terzo mondo, persone che vivono come si può vivere in una favela brasiliana o in uno slum keniano, però alle porte di Milano, Firenze e Roma; gente schiavizzata, torturata, che vive per strada nella più totale miseria. Ho quindi pensato che, invece di cercare di salvare l'umanità dall'altra parte del pianeta, fosse giusto raccontare "il nostro Terzo mondo".

Ha scelto un titolo molto forte.

Non è stata una scelta mia. Io avevo in testa qualcosa come "Il Terzo mondo d'Italia". Quando la casa editrice mi ha proposto questo titolo sono rimasto di sasso. Mi sembrava molto forte, ero perplesso. Poi, dopo che mi sono preso del tempo per riflettere, mi sono reso conto che era un titolo perfetto perché sintetizzava da una parte quello che a volte dicono espressamente alcuni politici. Ma è anche una sintesi del contesto che emerge, che si nota come sfondo delle storie raccontate nel libro, quello di un Paese sempre più intollerante, ignorante, diffidente. Sparategli vuol dire tante cose, non è solo riferito allo sparare col fucile.

Quanto ci ha lavorato?

Ho cominciato più o meno alla fine del 2009 e quindi in tutto quasi due anni, durante i quali ovviamente ho fatto anche altro. Ogni capitolo è il frutto di un contatto piuttosto prolungato con le persone che si sono raccontate. Non mi piace andare lì un'ora e poi venir via perché così non si entra in contatto con la realtà che si vuole indagare. Qualcuno mi ha detto che ho avuto stomaco ma la verità è che l'hanno loro il coraggio, quelli che vivono in queste realtà. Il giornalista è un po' ipocrita perché può anche passare due notti con i raccoglitori di arance di Rosarno, come ho fatto io – e sono state due notti da incubo – ma poi se ne torna a casa.

Nel libro lei smonta quella che spesso è la nostra scusa autoassolutoria: "Ma tanto qui da noi stanno meglio". Molte delle persone delle quali scrive dicono chiaramente di rimpiangere la miseria, la guerra e tutte le sofferenze del loro Paese d'origine perché qui stanno peggio.

Questo è agghiacciante. C'è una cosa che mi ha colpito molto. A Firenze, che poi è la mia città, sotto un cavalcavia, in una casa squallida e fatiscente, vivono un centinaio di somali, profughi di guerra. Hanno esposto uno striscione che dice: "Siamo scappati dalle bombe ma abbiamo trovato le bombe dell'indifferenza che fanno ancora più male". Parlando con uno di loro, gli ho chiesto di cosa avesse bisogno e lui mi ha risposto che gli servivano cinquecento euro. L'ho guardato perplesso ma lui ha anticipato ogni mia obiezione spiegandomi che gli servivano per comprare un biglietto e tornare in Somalia, che preferiva morire in guerra nella sua terra e tra i suoi cari che di stenti su un marciapiede in un Paese che non è il suo. Anche la guerra è meglio della vita che fa qui.

Alcune storie sono note, come delle condizioni drammatiche in cui vivono e lavorano i raccoglitori di arance nella piana di Gioia Tauro e pomodori in Puglia o i manovali nei cantieri. Altre invece si conoscono meno e potrebbero stupire il lettore. Anche lei ha avuto sorprese e ha scoperto cose che non si aspettava?

Diciamo che quando si va in un posto é sempre una scoperta, perché un conto è leggere qualcosa sul giornale o in un'agenzia, un conto è vivere un'emozione sul luogo. Per quanto riguarda le scoperte, non posso dimenticare la questione dei sikh che vivono come schiavi nella campagna intorno a Sabaudia, né quella più agghiacciante con la quale ho deciso di aprire il libro: la storia delle lavoratrici rumene impiegate nelle serre di Vittoria, provincia di Ragusa, che per arrotondare la misera paga mensile allietano le notti di colui che chiamano il "padrone" con prestazioni sessuali che, anche se consensuali, sono il frutto di una evidente sudditanza psicologica ed economica. Diciamo che, più in generale, ho scoperto situazioni che sono ancora più al limite di quanto si potrebbe immaginare. Perché quando uno si mette a cercare scopre cose peggiori di quelle che raccontano, anzi che non raccontano, i giornali. Scopre situazioni da Medioevo, come quella di Vittoria, nei cui consultori ci sono file di donne, negli ospedali ci sono decine di aborti ogni mese di queste rumene che rimangono incinta. Alla fine, questo viaggio nel Terzo mondo d'Italia, tra campi, cantieri, baracche e marciapiedi diventa anche un viaggio nell'Italia stessa. Se c'è qualcosa che ho scoperto è il degrado morale che avvolge alcune zone del Paese, di tutto il Paese. Don Beniamino Sacco, che è il sacerdote che ha scoperto i festini notturni di Vittoria, parla di regressione al Medioevo.

Alberto Tundo

 

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