La
Germania e i ragazzi del ' 77 «Andranno in pensione a 69 anni»
La demografia Preoccupa l' alta età media della
popolazione «Sì a stranieri qualificati» Anche gli statali La riforma proposta
nel pubblico e nel privato Esclusi i lavori usuranti
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO - Angela Merkel
pensa che quello che le hanno suggerito ieri i cinque saggi dell' economia
tedesca sia «di grande aiuto». Tanto che ne terrà conto in autunno, quando il
governo che guida affronterà le sfide poste dall' andamento demografico del
Paese. Non si tratta di consigli da poco. Primo: aumentare l' età pensionabile
da 67 a 69 anni. Secondo, aprire le porte all' immigrazione. La Germania ha una
curva demografica pessima, la popolazione invecchia e diminuisce: si tratta
dunque di cambiare il profilo della previdenza, per garantire che sia
finanziata, e di sopperire al basso tasso di natalità con forze nuove non
tedesche. «Speriamo che questa sia vista come un' opportunità», ha detto la
cancelliera. I cinque saggi - gli economisti che formano il Consiglio degli
esperti economici - presentano due volte l' anno la loro analisi della
situazione economica. In più approfondiscono alcuni temi che ritengono centrali
per il Paese: questa volta, le conseguenze economiche della scarsa natalità in
Germania. Le conclusioni sono radicali. Per garantire che lo Stato possa pagare
le pensioni occorre che gradualmente l' età dell' uscita dal lavoro sia alzata:
la legge in vigore, che prevede che al 2029 tutti lascino l' impiego a 67 anni,
va bene, dicono. Ma non basta. Questo limite andrà alzato a 69 anni entro il
2060, cominciando ad allungare il periodo di lavoro con gradualità da coloro che
sono nati nel 1977. Ciò deve valere per il settore privato, con eccezioni per i
lavori logoranti, ma anche per i dipendenti dell' amministrazione pubblica, ci
tengono a dire i saggi. La ragione della riforma proposta è chiarita da un dato:
negli anni Sessanta chi andava in pensione ne usufruiva in media per dieci anni,
oggi per più di 18. Il problema della demografia tedesca non è però solo questo.
La diminuzione della popolazione dovuta a un tasso di natalità basso (i nati si
sono dimezzati in 50 anni, a circa 650 mila l' anno) potrebbe portare alla
diminuzione di dieci milioni di abitanti entro il 2050, con un drammatico crollo
della produzione e della ricchezza nazionale. Per mantenere la popolazione
costante, i cinque saggi calcolano che sia necessario un influsso di 350 mila
immigrati l' anno: preferibilmente ad alta qualificazione professionale.
Occorrerebbero inoltre una serie di riforme - in stile Paesi scandinavi - per
liberare molte donne oggi costrette a lavori famigliari e permettere loro di
entrare nel mercato ufficiale del lavoro. Anche la Sanità, troppo cara, andrebbe
riformata per introdurre più concorrenza nel settore. Succede, insomma, che la
Germania non smette un istante di pensare al futuro, anche nell' affrontare una
delle questioni più spinose per tutti i Paesi occidentali, quella demografica,
spesso trascurata ma molto più importante di tante altre. Si alza così l'
asticella per tutti: se ieri Frau Merkel invitava gli europei ad andare in
pensione a 67 anni, come in Germania, tra qualche mese il numero magico che
uscirà da Berlino sarà probabilmente il 69.
Danilo Taino
Macelleria Afghanistan
Attacco alla base italiana di Herat: cinque
feriti, uno è grave. Si intensifica l'offensiva talebana in tutto il paese e la
Nato risponde con massicci bombardamenti aerei che fanno strage di civili
''Vedo
significativi progressi a Herat, una delle aree in cui preso inizierà la
transizione''.
Le ottimistiche parole pronunciate solo una settimana fa dal segretario generale
della Nato, Fogh Rasmussen, sono state clamorosamente smentite questa mattina da
uno dei più sanguinosi attacchi mai condotti contro una base militare italiana
in Afghanistan.
Beffando i controlli di sicurezza all'esterno del Prt di Herat, uno o due
kamikaze si sono fatti esplodere davanti al cancello della base, aprendo una
breccia attraverso la quale un piccolo commando di guerriglieri è penetrato nel
compound, ingaggiando una duro scontro a fuoco con le truppe italiane e con i
soldati afgani di stanza nella base. Ci sono stati almeno quattro morti, ma non
tra gli italiani, tra cui si contano però cinque feriti, di cui uno molto grave.
In questi giorni la guerra in Afghanistan registra un drammatico aumento
d'intensità. Sia in termini di attacchi messi a segno dalla resistenza talebana
(venerdì è stato ucciso in un attentato nel nord del paese uno dei principali
comandanti governativi tagichi, il generale Daud Daud, assieme a due soldati
tedeschi), che in termini di operazioni militari Nato. Di fronte
all'intensificarsi dell'offensiva talebana, il generale David Petraeus ha
lasciato briglia sciolta alle forze aeree, con l'inevitabile corollario di
stragi di civili.
Sabato sera, nella provincia meridionale di Helmand, in rappresaglia a un
attacco pomeridiano contro un avamposto dei marines, elicotteri americani Apache
hanno bombardato un villaggio del distretto di Nawzad. Sotto le macerie di due
abitazioni, rase al suolo dai missili, sono rimasti i corpi senza vita di dodici
bambini e due donne. Diversi bambini avevano meno due anni.
''La mia casa è stata bombardata in piena notte! Hanno ucciso i miei figli! I
talebani erano ormai lontani da casa mia! Perché ci hanno bombardati!?'', chiede
disperato Noor Agha, un superstite, parlando ai giornalisti.
Sempre sabato, il governatore della provincia orientale del Nuristan, Jamaluddin
Badr, ha denunciato l'uccisione di diciotto civili e venti poliziotti in uno dei
pesanti bombardamenti aerei americani condotti la scorsa settimana sul distretto
di Barg-e-Matal, appena conquistato dai talebani. Bombardamenti che in pochi
giorni hanno ucciso almeno un centinaio di persone: tutti insorti secondo i
comandi Nato; in maggioranza civili innocenti secondo le autorità locali.
Enrico Piovesana
La
Germania mai più nucleare
In dieci anni la Germania dirà addio al nucleare.
L'ha annunciato il ministro dell'ambiente Roettgen. Stop da subito ai reattori
più vecchi e progressiva dismissione degli altri fino alla chiusura completa nel
2022. E' il frutto del ripensamento in politica energetica del governo Merkel
dopo il disastro di Fukushima.
Mentre in Italia i furbetti del governo Berlusconi stanno cercando di scippare
il voto sul referendum antinucleare, la Germania ha annunciato la chiusura di
tutti i suoi reattori nucleari entro il 2022, L'hanno deciso i partiti della
coalizione del cancelliere Angela Merkel, in risposta al disastro di Fukushima
che ha determinato una drastica revisione della politica energetica.
La coalizione al governo vuole mantenere lo stop agli otto reattori più vecchi
dei 17 di cui è dotata la Germania. Sette sono stati chiusi temporaneamente a
marzo, subito dopo il terremoto e lo tsunami giapponese che hanno investito
Fukushima. Un altro era bloccato da anni.
Fuori uso entro il 2021 andranno poi altri sei reattori, ha detto alle prime ore
di oggi il ministro dell'Ambiente Norbert Roettgen, dopo una riunione notturna
nell'ufficio del cancelliere tra i leader della coalizione di centrodestra. Gli
ultimi tre reattori, i più nuovi, rimarranno operativi fino al 2022 per
garantire che non ci saranno interruzioni nella fornitura di elettricità.
"E' definitivo, è una decisione irreversibile- l'ultima data per le ultime tre
centrali nucleari è il 2022", ha detto Roettgen dopo il vertice. "Non ci saranno
clausole di revisione".
Intanto, domenica sera, nella finale di Coppa Italia, allo stadio Olimpico di
Roma, i militanti di Greenpeace hanno issato un grande striscione sulle tribune
con la scritta "Fermiamo il nucleare".
Pensioni, disuguaglianza record, dirigenti al top e precari in miseria
L'Istat: importo al Sud più basso del 20 per
cento. Nel Mezzogiorno distribuito il 44,2% dei contributi di tipo
assistenziale, dato in crescita. I co. co. co. arrivano a 1570 euro annui, i
sacerdoti a 7464, i manager a riposo sfiorano i 50mila
di VALENTINA CONTE
ROMA
- La distanza che separa un pilota da un co. co. co o co. co. pro qualunque, se
misurata dall'entità della sua pensione, è davvero incolmabile: 3.500 euro
contro 120 o poco più. Lordi, al mese. Raggelante, poi, se il confronto è con un
dirigente: 3.800 euro contro i soliti 120. Un rapporto quasi di uno a 40.
Si dirà: vuoi mettere, dirigente contro call center, assistente di volo contro
segretaria. Categorie, professioni, qualifiche e stipendi diversi. Vero, ma la
questione non si liquida su due piedi. Tanto più che il numero degli assegni
pensionistici erogati ai precari aumentano di anno in anno a ritmi sostenuti.
Tra il 2009 e il 2010, ad esempio, sono cresciuti del 17%. Più di tutte le altre
categorie. E nel futuro diventeranno una parte molto consistente della spesa
complessiva. Perché è lì che si raggrumano gli incerti, i saltimbanchi del
lavoro. E' lì che galleggiano anche i professionisti degli anni duemila.
Ingegneri, architetti, ricercatori. Oggi giovani "a progetto". Domani anziani
senza rete.
I dati sono scritti nero su bianco. Li riporta l'Inps nel Rapporto annuale
relativo al 2010. A guidare con serenità la classifica delle pensioni sono i
dirigenti (3.788 euro in media al mese), quasi raggiunti da piloti e assistenti
di volo (3.487 euro). Ben a distanza tutti gli altri. Sfiorano i 2 mila euro i
telefonici, in buona compagnia con chi lavorava per le società elettriche (1.879
euro). Gli ex impiegati dei trasporti e delle ferrovie si attestano sui 1.500
euro.
Tutti gli altri crollano sotto gli 800 euro. Tra questi la categoria più
numerosa, quella dei lavoratori dipendenti, quasi nove milioni e mezzo di
persone, che si accontentano di 861 euro. Sempre meglio dei commercianti (707
euro), degli artigiani e agricoltori (2,7 milioni di pensionati a 611 euro) e
dei preti (574 euro). E soprattutto mai così male come i co. co. co.: 1.570 euro
l'anno, 121 euro al mese, 96 euro in media alle donne, 130 euro agli uomini. Per
ora si tratta di 245 mila persone. Ma crescono.
L'Inps spiega che nella voce "gestioni separate" confluiscono "prevalentemente
le pensioni supplementari", ovvero le seconde pensioni, più piccole e non
ricongiunte con le principali, disciplinate da una legge del 1962. Evidenza che
non mitiga il sintomo e dunque l'allarme. Chiaramente percepito, visto che
l'aliquota obbligatoria da versare in questa gestione è passata gradualmente dal
10% del 1996 al 26,72% attuale, sempre più vicina a quella della gestione
principale Inps.
In tema di pensioni, un'altra distanza ormai incancrenita, perché immutata da
almeno cinque anni, è quella tra le aree del Paese. Le pensioni erogate al Sud,
scrive l'Istat nel Rapporto annuale, sono più basse di quelle del Nord-ovest di
quasi un quinto, ovvero del 19,5% e del 12,1% rispetto alla media nazionale. Per
fare un esempio, nel 2009 un pensionato meridionale prendeva in media 9.501 euro
lordi l'anno, una cifra di gran lunga inferiore se paragonata agli assegni
erogati al Nord-ovest (11.805 euro), Nord-est (10.959 euro) e Centro (11.317
euro). E, ovviamente, alla media nazionale pari a 10.808 euro.
In cinque anni, dunque, nulla è cambiato nei redditi degli anziani a Napoli,
Palermo, Bari e Cagliari. Un divario costante con Torino e Milano, quello
monitorato dall'Istat tra il 2004 e il 2009, mantenuto tale dalla crescita, che
pur c'è stata, dell'importo delle pensioni. Un aumento in linea al Sud (+18,8%)
con quello che succedeva nel resto del Paese (+19%). L'assegno del 2009, in
pratica, era più ricco di quello del 2004, come per tutti gli italiani. Ma più
basso in Puglia e Sicilia di quanto incassato in Piemonte e Lombardia.
Nel frattempo, è lievitata la quota di pensioni assistenziali, tra cui
invalidità civile e assegni sociali, erogati al Sud: sono il 44,2% rispetto al
43,8% del 2004. Non così l'importo medio annuo: 4.656 euro nel Mezzogiorno
contro i 4.810 euro del Nord-ovest e i 4.730 euro della media nazionale.
25 maggio
Mario Agostinelli, Luciana Castellina Paul
Ginsborg, Emilio Molinari
Caro
Presidente, il voto non si neutralizza
Signor Presidente, il governo ha posto la fiducia
in parlamento per esercitare, con modalità inedite, una forzatura al fine di far
passare un decreto che "neutralizza" il referendum abrogativo della legge che
ripropone il nucleare nel nostro paese. Tralasciamo qui ogni considerazione
politica sul disprezzo con il quale la sovranità popolare viene umiliata nel
nostro paese e non entriamo nel merito delle valutazioni giuridiche in base alle
quali la Corte di Cassazione deciderà nella sua autonomia. Ci poniamo invece un
problema che, pur nella sua ovvietà fin qui poco considerata, pensiamo sollevi
una questione costituzionale.
Noi pensiamo che se il precedente inaugurato dal governo in questa occasione si
affermasse, una espressione determinante della sovranità e del potere popolare -
il referendum - sarebbe nel nostro paese di fatto liquidato. In una parola, se
di fronte ad ogni richiesta di referendum avanzata dai cittadini ed accolta
dagli organi istituzionali preposti la contromossa dell'esecutivo fosse un
provvedimento a maggioranza di sospensione (per un breve periodo) della legge in
questione, verrebbe sospeso anche il potere abrogativo o convalidativo di cui il
popolo è titolare qualora si raggiungesse il quorum in regolari votazioni. Se
poi il marchingegno per la prima volta introdotto nell'esperienza repubblicana
viene addirittura accompagnato dall'intenzione dichiarata di riproporre la legge
di cui si è chiesta l'abrogazione in un tempo successivo, quando si «saranno
calmate le acque», il referendum diventerebbe un istituto a discrezione della
maggioranza parlamentare, che i cittadini non potrebbero mai riprendere nelle
loro mani.
Signor Presidente, la domanda non è di poco conto e non riguarda soltanto la sua
facoltà di firmare o respingere un provvedimento. La Costituzione riconosce al
Popolo italiano un solo mezzo per esercitare la propria volontà di cambiare le
leggi espresse durante una legislatura dalla maggioranza dei parlamentari da lui
votati. All'istituto del referendum sono stati posti dalla Costituente vincoli
che si rivelano più stringenti nella situazione attuale, al punto da rendere il
raggiungimento del quorum un fatto di per sé straordinario, se si considera la
scarsa informazione che gli italiani residenti e quelli all'estero continuano a
ricevere. Ma oggi, con il voto anomalo di sospensione e rimando di un Parlamento
costretto alla fiducia, rischia di essere definitivamente "neutralizzato" .
Signor Presidente, noi possiamo rivolgerci solo a Lei, per chiederLe di prendere
in esame in tutte le sue implicazioni la prospettiva da noi temuta. Fidiamo in
una sua parola e in un suo intervento.
L'Europa delle destre
La mappa dell'avanzata dei partiti populisti e
xenofobi nel nostro continente
Gli
ultimi sono stati i finlandesi. Un quinto dei quali ha dato il proprio voto alla
formazione di estrema destra alle recenti elezioni politiche: i Veri Finlandesi
hanno ottenuto 39 seggi, da 5 che ne avevano. Uno sconvolgimento, per il
panorama politico della tranquilla e civile nazione scandinava, che ha tuttavia
deciso di escludere il partito dalla formazione del goveno, preferendo un'ampia
coalizione (sempre moderata e conservatrice).
Il regista danese Lars Von Trier, che a Cannes ha dichiarato di simpatizzare per
Hitler e ammirare il suo ministro della propaganda Speer, ha parlato di
'umorismo danese' per giustificarsi. Se anche nel suo Paese chiunque
stigmatizzerebbe dichiarazioni simili, è pur vero che per fronteggiare
l'immigrazione il governo di minoranza ha sospeso il Trattato di Schengen grazie
proprio all'appoggio esterno del Partito del popolo di Pia Kiaersgaard. Quest'ultimo
ha più che raddoppiato i consensi (passando dal 6,8 del 2004 al 15.3 del 2009,
nelle elezioni europee).
Sono solo due delle spie, accese in tutta Europa, che segnalano l'aumento del
consenso per i partiti populisti, conservatori e nazionalisti. I meccanismi
ricalcano ormai modelli noti. Se il voto alle destre riflette condizioni diverse
da Paese a Paese, ad accomunare tutti è l'identificazione dello stesso nemico,
individuato nell'altro, nel diverso, nello straniero. Contro di esso,
l'elettorato si chiude, rilanciando nazionalismo e protezionismo. Questo prende
forme spesso xenofobe, e influenza l'azione di governo nell'elaborazione di
misure anti-immigrati: dalla sospensione di Schengen al divieto di indossare il
velo, al bando sulla costruzione di moschee e via dicendo. Dal 2009, anno delle
europee, e in quasi tutte le consultazioni successive, le formazioni della
destra populista hanno raggiunto e superato il dieci percento in undici Stati:
Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Italia, Lituania, Norvegia,
Olanda, Ungheria, Svizzera.
Partiti ultraconservatori sono recentemente entrati nelle coalizioni di governo
in Belgio, nei Paesi Bassi e in Svezia. Da anni lo sono già in Svizzera e
Italia. Ben note le campagne di Svp (con manifesti che effigiano minareti a
forma di missile o gli immigrati come pecore nere) e Lega Nord (alle scorse
regionali venne distribuito sapone per lavarsi le mani 'dopo aver toccato un
clandestino'). In Francia, l'eredità di Jean-Marie Le Pen è stata raccolta dalla
figlia Marine, che alle scorse regionali ha raccolto il 12 percento.
Sebbene l'estrema destra sia presente da decenni nel panorama europeo,
l'avanzata degli ultimi anni si deve, tra gli altri, a due fenomeni: lo
spostamento verso posizioni più radicali da parte di formazioni ed elettori di
centro-destra e l'assimilazione di politiche di sinistra, come l'attenzione agli
anziani e agli indigenti e la difesa dello stato sociale. Non ultimo, il declino
dei partiti socialdemocratici e il parziale fallimento del multiculturalismo e
dell'integrazione: per le destre, l'immigrato clandestino, disoccupato e non
integrato rappresenta un virus pericoloso nel corpo sociale europeo.
Luca Galassi
Tra
aziende fantasma e finti corsi, così vengono rubati 5 miliardi Ue
Da Nord a Sud imprenditori imbroglioni truffano
l'Europa: ogni anno vengono accertate mille frodi, ma almeno diecimila sfuggono
a ogni controllo. Uno dei trucchi più usati è la falsa fatturazione. In
Lombardia inventati falsi stage di formazione
di ANTONIO FRASCHILLA
ROMA - Fabbriche fantasma al Sud, finti corsi di
formazione al Nord. E in tutte le regioni finte fatturazioni per ottenere soldi
nel settore agricolo. È così che gli italiani hanno scalato - fino a raggiungere
un poco invidiabile primo posto - le classifiche delle frodi all'Unione europea.
Basta leggere gli ultimi dati dell'Olaf, l'organismo della Commissione che si
occupa delle irregolarità nell'utilizzo dei fondi: le ultime frodi accertate
erano state 1.131 nel 2009, per un ammontare di 328 milioni di euro. Trend
confermato e in crescita nel 2010. Secondo la Guardia di finanza in Calabria e
Sicilia, due sole regioni, lo scorso anno sono state denunciate frodi ai danni
della Ue per 212 milioni di euro. Il 2011? I primi cinque mesi promettono bene.
L'ultimo caso, di pochi giorni fa, è quello delle società milanesi che avrebbero
messo in piedi corsi di formazione fantasma per 50 milioni di euro. E il
comandante della Gdf in Sicilia, Domenico Achille, già in aprile aveva lanciato
un altro allarme: "I finanziamenti europei sono entrati nel mirino della
criminalità organizzata". Peccato però che questa sia solo la punta
dell'iceberg: l'ex direttore dell'Olaf, Nicholas Llet, ha dichiarato alla Bbc
che "gli Stati membri perseguono solo il 7 per cento dei casi sospetti". Il che
significa, che solo in Italia sarebbero stati truffati 4,6 miliardi di euro.
Fra l'altro, spiegano poi i sindacati, l'attività di questa grande Azienda
Italia specializzata
nel truffare l'Europa porta con sé macerie sociali e ambientali: operai che da
un giorno all'altro finiscono in mobilità, cattedrali di cemento che si ergono
vuote e abbandonate nel cuore delle aree industriali da Napoli a Palermo, da
Foggia a Cosenza. "Ci troviamo così a dover difendere lavoratori truffati come
lo è stata l'Unione europea da pseudo imprenditori che una volta ottenuti i
finanziamenti vengono fermati con l'accusa di truffa. O, peggio, finito il
periodo di start-up dichiarano crisi di mercato e fuggono via", dicono i
segretari della Fiom Cgil di mezza Italia. Ma chi sono i signori della truffa?
Piccoli imbroglioni di provincia o gruppi organizzati in "centrali"
specializzate nel canalizzare i soldi europei?
SCATOLE VUOTE
L'Olaf nel suo report annuale analizza tutti i paesi che a vario titolo hanno
ricevuto finanziamenti dall'Unione nella programmazione 2000-2006 e in quella
2007-2013, quest'ultima comunque ancora al palo con una spesa media di appena il
15 per cento. Sul fronte delle truffe, i 320,1 milioni di euro accertati (sul
totale di 28 miliardi di fondi erogati) sono solo la parte più evidente di un
sistema illegale più ampio. Se oltre alle frodi si aggiungono le irregolarità,
cioè mancato avvio del progetto e non corretta presentazione dei documenti, i
casi salgono a quota 1.491 per 422 milioni di euro, di cui sono stati recuperati
appena 50 milioni di euro. Il resto è svanito nel nulla, e il dipartimento
Politiche comunitarie italiano calcola ancora in 400 milioni di euro la cifra da
chiedere indietro a società che hanno ottenuto illecitamente i finanziamenti. Al
secondo posto in questa classifica dei furbetti d'Europa si piazza la Polonia,
che a fronte di 7,9 miliardi di euro di contributi erogati ha registrato truffe
per 65 milioni, con una percentuale dello 0,8. La Germania, l'unico paese che ha
avuto più soldi dell'Italia (ben 29 miliardi di euro) ha accertato appena 361
frodi per un importo di 34 milioni di euro. Conti alla mano, le truffe in Italia
rappresentano più della metà di quelle realizzate in tutti gli altri paesi
dell'Unione. Ma come si fa a truffare l'Europa? Quali sono le tecniche illegali
più utilizzate?
La prima è quella della finta certificazione d'investimenti privati necessari
per poter accedere ai fondi di Bruxelles. A Cosenza, per esempio, è stata
scoperta una truffa da 25 milioni di euro: soldi incassati da una società che
sosteneva di avere ingenti capitali arrivati da soci esteri, ma che in realtà
era una scatola vuota. Infatti erano state create ben 11 società nel settore
della produzione di carta che formalmente operavano in mezzo mondo, dalla Spagna
a Dubai, ma che a loro volta erano altre scatole vuote. Con la cessione di quote
di queste società tra loro stesse erano stati creati capitali fittizi per
cofinanziare i progetti. Un altro meccanismo tra i più diffusi per truffare
Bruxelles è quello della falsa attestazione di spese con fatture taroccate per
dimostrare di aver acquistato impianti o macchinari: a Ragusa sono così finiti
in manette 11 imprenditori agricoli che avevano finto di acquistare macchine per
le loro aziende, incassando 1,3 milioni di euro di contributi.
Sempre sul fronte certificazioni, molti per ottenere i contributi denunciano di
avere nella loro disponibilità aree e terreni che in realtà non hanno. A Trento
sono stati condannati ben 28 allevatori che hanno incassato 10 milioni di euro
sostenendo di portare al pascolo le mucche in terreni che erano solo costoni
rocciosi. Ma il vero capolavoro della truffa l'hanno messo in piedi 23 piccoli
imprenditori di Milano, Bergamo, Varese, Modena, Cosenza, Crotone, Catanzaro e
Lamezia Terme: con false fatture emesse da società estere, con sede a Panama e
alle Isole Vergini, avevano finto di avviare un'attività industriale. In più
hanno chiesto perfino il rimborso dell'Iva sulle stesse finte fatture. Totale
della truffa, 20 milioni di euro.
LE FABBRICHE FANTASMA
C'è però un rovescio della medaglia di questa macchina delle truffe: perché
appunto a essere gabbata non è solo l'Ue, che difficilmente riesce poi a
recuperare i fondi, ma pagano anche operai e dipendenti che per qualche mese
avevano pensato di aver raggiunto il tanto ambito posto di lavoro, e poi si sono
ritrovati con un pugno di mosche. Ne sanno qualcosa i 120 dipendenti della Blue
Boat, azienda nel settore della cantieristica navale che nel 2008 ha aperto i
battenti nell'area industriale di Termini Imerese, a due passi da Palermo. Gli
operai hanno lavorato poco più di un anno. Poi nel marzo del 2010 i titolari
dell'azienda, Roberto Grippi e Salvatore Catalano, sono stati arrestati con
l'accusa di aver ottenuto false fatture per 90 milioni di euro, il tutto per
incassare 30 milioni di fondi Ue. Adesso il processo stabilirà se davvero c'è
stata truffa o meno, di certo però gli operai da allora vivono un incubo:
"L'azienda è stata sequestrata e oggi è gestita dall'Agenzia del demanio, che di
punto in bianco ha aperto la procedura di mobilità per tutti i lavoratori",
racconta Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo. Che aggiunge:
"Ci vorrebbe una seria selezione anche nel mondo imprenditoriale: il danno
sociale fatto da finti manager e finti imprenditori è incalcolabile". Oggi la
sede della Blue Boat è abbandonata, e tutto il cantiere è deserto. Stesso
discorso accade a Cosenza. Qui due mega costruzioni di cemento sono rimaste
scheletri vuoti: si tratta di due aziende, la Sensitec e la Printec, che hanno
incassato 6 milioni di euro di contributi europei per avviare la produzione di
contatori per gas liquido e oggetti da cancelleria. Tra i finanziatori
dell'iniziativa c'erano alcuni industriali tedeschi, che secondo la Gdf avevano
messo in piedi un giro di fatture false e acquistato macchinari fatiscenti per
fingere d'iniziare la produzione assumendo una cinquantina di operai. Scoperto
l'inganno, il mese scorso ne è stato richiesto il giudizio insieme ad alcuni
colletti bianchi della zona che avevano certificato il collaudo degli impianti
fasulli.
Spesso ad attrarre finti imprenditori sono proprio le aree del Sud che mettono a
disposizione contributi pubblici per incentivare l'apertura di nuove aziende,
che rimangono poi cattedrali nel deserto. Come accaduto nel "patto d'area di
Manfredonia", in Puglia. Qui la Menti group, società vicentina, era sbarcata nel
2003 per aprire uno stabilimento di lavorazione del ferro e fabbricare utensili.
"Questa società ha ottenuto le agevolazioni con fondi statali ed europei, ha
assunto una ventina di operai, ma poi un blitz della Finanza ha svelato
l'inganno - racconta Antonio La Daga, segretario della Fiom Cgil di Foggia - Il
meccanismo era semplice: l'azienda comprava macchinari nuovi, beneficiando dei
contributi, poi li rivendeva e acquistava degli impianti di seconda mano". Da
sei anni la fabbrica è ferma.
Spesso invece gli impianti rimangono solo sulla carta. O meglio, ci sono nella
documentazione necessaria a ottenere i fondi, ma nella realtà non esistono: a
Siracusa un gruppo d'imprenditori siciliani e milanesi ha utilizzato 10 milioni
di euro di contributi europei non per realizzare un impianto fotovoltaico, come
da progetto, ma per acquistare Bot e Btp.
IL MASTER INESISTENTE
Ma in Italia quali sono le regioni con il tasso più alto di truffe? E,
soprattutto, quali sono i settori più a rischio oggi? La Guardia di finanzia ci
tiene a dire che l'Italia è lo Stato che fa il maggior numero di controlli. Il
comandante del nucleo per la repressioni frodi della presidenza del Consiglio,
Gennaro Vecchione, in questi giorni visita le regioni del Sud per presentare il
piano operativo della Fiamme gialle contro le truffe. I dati che va snocciolando
fanno paura. Soltanto in Calabria sono state denunciate frodi nel 2010 per un
importo record di 145 milioni di euro. In Sicilia le frodi segnalate dalla
Finanza sono state 206 per 67,2 milioni di euro, il 73 per cento in più
dell'anno precedente. Per di più c'è una nuova frontiera della frodi: il 2010 e
questo scorcio di 2011 hanno alzato il velo su un settore ad alto rischio.
Quello della formazione e dell'istruzione, che può contare su una dotazione di
contributi europei di quasi 2 miliardi di euro. La settimana scorsa a Milano la
Commissione europea ha annunciato di volersi costituire parte civile in un
eventuale processo per una truffa ai danni della Ue pari a 50 milioni di euro
per corsi di formazione "inventati", come sostiene la Procura milanese che ha
notificato l'avviso di chiusura indagini a 23 persone. Secondo i magistrati,
attraverso una finta partnership tra società con sede in Inghilterra, Francia,
Grecia, Austria, Svezia, Slovenia e Polonia, un gruppo d'imprenditori milanesi
ha ottenuto finanziamenti per 22 corsi di formazione mai realizzati. Se
confermata da una sentenza, si tratterebbe di una delle più grandi truffe ai
danni della Ue.
Il motivo di questa escalation di truffe? Il direttore del Censis, Giuseppe
Roma, non ha dubbi: "In Italia ci s'inventa imprenditori pur di accaparrarsi il
finanziamento pubblico, visto come un fine e non come un mezzo per sviluppare la
propria attività - dice Roma - Poi c'è un problema legato alla burocrazia
italiana che disperde i fondi in mille rivoli e rende più difficile i controlli:
secondo i nostri dati con la vecchia programmazione 2000-2006 sono stati
finanziati ben 280 mila attività con un importo medio di meno di 100 mila euro,
il che significa fare assistenza e non puntare allo sviluppo".
Tagliati quasi 350 corsi di laurea. Il Cun: "Torniamo a investire"
Sotto la Gelmini, l'Università italiana ha
perso un quinto dei suoi corsi
di CORRADO ZUNINO
ROMA
- Nella stagione in corso l'università italiana ha tagliato 348 corsi di laurea.
Sono 863 in meno se il periodo di riferimento si fissa alle ultime quattro
stagioni. In un solo anno sono scomparse 170 lauree triennali di primo livello e
214 lauree magistrali o specialistiche. E con loro 148 corsi di area
scientifica, 129 umanistici, 125 sociali. "La razionalizzazione dell'università
italiana ha raggiunto un punto oltre al quale non si può andare", dice Andrea
Lenzi presidente del Cun, "consigliere", appunto, del sistema università che
illustra la sua ricerca commentando: "Adesso basta, bisogna tornare a
investire".
I numeri messi in fila fanno impressione: l'università pubblica sotto la Gelmini
ha perso un quinto dei suoi corsi, solo nell'ultimo anno l'8,9% dei corsi di
laurea (gli atenei privati, invece, hanno tagliato solo il 4,4%). Al Sud, dove
si è sprecato di più, si è anche tagliato di più. E gli atenei medi (10-20 mila
iscritti) hanno dovuto ridurre e accorpare con maggiore incisività rispetto ai
"big" e ai "mega" (oltre 40 mila studenti). Per comprendere, l'iperSapienza di
Roma con la riforma Gelmini è passata da ventitré facoltà a undici ricorrendo al
massiccio uso dell'accorpamento.
Oggi i corsi di laurea negli atenei italiani sono 4.597. I tagli più forti si
sono avuti in Ingegneria informatica e industriale, scienze economiche e scienze
della formazione fra i corsi triennali.
Segno della crisi, dicono al Cun: le assunzioni informatiche e industriali nel
paese stanno segnando il passo. E per quanto riguarda i corsi quadriennali le
riduzioni hanno toccato soprattutto le aree di filologia, storia antica,
letteratura antica. In controtendenza l'area sanitaria con 13 corsi in più
nell'ultimo anno e le lauree a ciclo unico (medicina e chirurgia, odontoiatria e
protesi dentaria, veterinaria, farmacia, chimica e tecnologie farmaceutiche,
architettura, ingegneria edile e giurisprudenza): qui i corsi totali sono
passati da 250 a 266. Dice ancora Andrea Lenzi: "Sono stati eliminati i percorsi
di nicchia, superflui o con pochi iscritti. In un comparto dello Stato che ora
abbiamo razionalizzato ci vogliono, però, risorse. Da cinque anni l'Università
ha un serio problema di finanziamenti , ma lo Stato deve trovarli".
25 maggio
Bidone
nucleare al Pincio. "Contiene attivisti Greenpeace"
All'interno un gruppo di persone sono
asserragliate per protesta mentre alla Camera è in discussione il decreto
omnibus: "E' il cavallo di Troia con il quale il governo vuole impedire il
regolare svolgimento del referendum sul nucleare il 12 e 13 giugno". Srotolato
uno striscione: "I pazzi siete voi. Il nucleare non è il nostro futuro"
Mentre alla Camera è ancora in discussione il decreto omnibus, sulla terrazza
del Pincio è comparso un gigantesco bidone nucleare (quattro metri di altezza
per cinque di diametro) sul quale si legge "Liberateci dal nucleare" e
"Attenzione! Contiene attivisti".
IL FINTO BIDONE AL PINCIO
Attivisti di Greenpeace - fanno sapere dall'organizzazione ecologista - sono
infatti asserragliati all'interno del bidone, mentre altri si sono incatenati
all'esterno aprendo uno striscione con scritto "I pazzi siete voi. Il nucleare
non è il nostro futuro". Dalla terrazza del Pincio è stato srotolato uno
striscione leggibile da Piazza del Popolo con scritto "12 e 13 giugno 2011
Referendum. Vota Sì per fermare il nucleare".
"Il decreto omnibus - continua Greenpeace - è il cavallo di Troia con il quale
il governo vuole impedire il regolare svolgimento del referendum sul nucleare il
12 e 13 giugno. E' per questo che la protesta de ipazzisietevoi.org, sostenuta
da Greenpeace, arriva nel centro di Roma sotto forma di bidone nucleare. Gli
attivisti rimarranno barricati dentro fino al giorno del referendum, vivendo con
tutte le difficoltà dell'isolamento e degli spazi ristretti. Tra di loro, anche
Pierpaolo e Giorgio che, dalla casa de ipazzisietevoi.org, si sono trasferiti
nel bidone, radicalizzando la loro protesta".
Greenpeace fa sapere che "gli attivisti asserragliati comunicheranno con
l'esterno solo con videomessaggi, per chiedere agli italiani di ribellarsi
contro il furto di democrazia di un Governo che vuole imporre il nucleare e di
mobilitarsi per portare più persone possibili a votare 'Sì' al Referendum del 12
e 13 giugno".
"Le proteste pacifiche contro il nucleare stanno diventando più forti man a mano
che i cittadini si rendono conto che il Governo sta cercando di rubargli il
diritto di votare al Referendum. Abbiamo portato la nostra protesta a Piazza del
Popolo proprio perché è solo con il voto popolare che possiamo fermare il
ritorno al nucleare in Italia - commenta Salvatore Barbera, responsabile della
campagna Nucleare di Greenpeace Italia - Siamo fieri di supportare la protesta
dei ragazzi di ipazzisietevoi.org, che mostrano il coraggio dei giovani italiani
che si stanno ribellando a una decisione che avrebbe ricadute gravissime per le
generazioni future".
Greenpeace ritiene che questa moratoria sia una "truffa costituzionale: l'unico
motivo per non fare il Referendum sul nucleare è che le norme approvate abbiano
gli stessi effetti giuridici voluti dai proponenti il Referendum. Se invece è
uno stratagemma messo in atto solo per non votare, allora si sta
surrettiziamente cambiando la Costituzione".
Loris Campetti
Italia
in ginocchio
Un paese invecchiato, sfibrato e sfiduciato. Un
paese in ginocchio. È questa la radiografia dell'Italia berlusconizzata in cui
crollano le aspettative di lavoro, i giovani cervelli fuggono all'estero, quelli
che restano conducono una vita precaria sostenuta dai genitori che però stanno
impoverendo. Diminuisce il risparmio, persino la scolarizzazione è in caduta
libera. Si lavora e si studia sempre di meno, non si fanno investimenti, si
ammazza la ricerca. Ieri ce l'ha raccontato l'Istat, domenica l'abbiamo visto in
una delle più efficaci puntate di Report, sabato è stata la volta del Censis.
Altro che luci e ombre, come goffamente sostiene, arrampicandosi su specchi
insaponati, qualche pierino in forza al governo: l'Italia è al collasso, sempre
più diseguale tra nord e sud e tra ricchi e poveri, tra uomini e donne e tra
lavoratori (o aspiranti tali) indigeni e migranti. Certo, lo sapevamo, ce l'ha
raccontato qualche mese fa Marco Revelli nel suo ultimo libro Poveri noi. Il
fatto grave è che non si vede inversione di tendenza; anzi la crisi, che ormai è
anche sociale e culturale, si sta aggravando e il tunnel sembra sempre più lungo
e scuro.
Questa debacle che ci getta nel sottoscala dell'Europa non è tutto «merito» di
Berlusconi, ma nessun altro sarebbe riuscito meglio del telepredicatore delle
paure in questo miracolo al rovescio. Con una politica economica dissennata che
ha distrutto risorse intellettuali e materiali. E viene ancora a raccontarci che
dovremmo avere paura dei comunisti, dei rom, dei minareti, dei centri sociali,
quando è proprio da Berlusconi, dal suo governo e dalle sue politiche che
dobbiamo guardarci. Già parlare di politica economica - per non dire industriale
- è un eufemismo: Berlusconi lo sfrontato e Tremonti il contabile non hanno
progetti per il paese, sanno solo tagliare, tutto tranne i sottosegretari, i
capital games e i loro interessi. Siamo rimasti uno dei pochi paesi in cui
parlare di reddito di cittadinanza è una bestemmia, ci riempiono la testa con
l'amore e la famiglia mentre sterilizzano l'amore (fare figli è un lusso per
pochi) e immiseriscono l'ultimo ammortizzatore sociale per un paio di
generazioni di giovani precarizzati o espulsi. Poi ci dicono che dobbiamo
riprendere a consumare. Finalmente dal paese qualche segnale di vita è arrivato:
dai giovani, dagli operai e dagli studenti che portano in piazza la loro
dignità, e dalle urne, domenica prossima, potrebbe arrivare un secondo segnale
generale: l'Italia ha paura, sì, ma di Berlusconi ed è pronta a liberarsene.
Riccardo Chiari
La
ribellione degli operai di Fincantieri
Nella
notte l’assedio non del tutto pacifico al municipio di Castellamare di Stabia,
conquistato dagli operai del cantiere navale più antico al mondo dopo alcuni
contatti con le forze dell’ordine (quattro poliziotti contusi), e con il
corollario di alcuni evitabili atti vandalici all’interno del palazzo comunale.
Al mattino le manganellate della celere agli operai liguri (due feriti) del
cantiere di Sestri Ponente, raccolti numerosi in presidio sotto la Prefettura di
Genova dopo un lungo e affollato corteo per la strade del capoluogo. E ancora
prolungati blocchi stradali sulla strada statale Sorrentina in Campania, e al
casello autostradale di Sestri Levante, quest’ultimo da parte dei lavoratori del
altro cantiere ligure di Riva Trigoso.
Sono questi i primi effetti collaterali del piano industriale di Fincantieri,
ufficializzato ieri dall’amministratore delegatro Giuseppe Bono. Il piano
prevede di tagliare 2.550 posti di lavoro, la chiusura dei cantieri di
Castellamare di Stabia e di Sestri Ponente, e la semichiusura dell’altro
cantiere ligure di Riva Trigoso, ridotto a presidio meccanico con lo spostamento
di 500 operai su 800 nel cantiere spezzino di Muggiano.
Di fronte al licenziamento di un terzo degli addetti dello storico polo
navalmeccanico pubblico italiano, e alla chiusura di due stabilimenti simbolo
della cantieristica tricolore, ora il governo cerca di correre ai ripari.
Dopo essere stato assente per quasi un anno, nonostante la richiesta ufficiale
di Fiom, Fim e Uilm del novembre scorso di aprire un tavolo di discussione su
Fincantieri, le fortissime proteste operaie, affiancate a quelle delle
istituzioni liguri e campane, hanno convinto il ministro ello Sviluppo economico
Paolo Romani a convocare il 3 giugno prossimo un incontro fra il management
Fincantieri e i sindacati metalmeccanici. “Mentre negli altri paesi si investe
per uscire dalla crisi – ha osservato un operaio ligure al presidio di Genova –
da noi il governo manda la gente a casa”. Operai con un’età media di 40 anni,
famiglie che senza poter lavorare entrano anch’esse ufficialmente nel tunnel
della povertà.
19 maggio
Calabria, acqua rubata. La guerra del lago malato
Una strana privatizzazione e gli affari della
malavita: migliaia di persone costrette a combattere per un servizio fondamental.
Il bacino artificiale dell'Alaco trasformato in un concentrato di veleni che
arriva direttamente nelle case
di PAOLO RUMIZ
La diga dell'Alaco
Attenti. I tamburi delle acque libere rullano a
Sud, nella penultima nocca del ditone calabro, sui monti chiamati "Le Serre". È
la lotta di migliaia di abitanti stanchi di una privatizzazione zoppa che, in
una terra benedetta dalle migliori sorgenti della Penisola, li obbliga a bere un
liquido alla candeggina. Li vedi in processione tra i boschi, silenziosi e
furenti, a caccia delle antiche fontane per riempirsi il cofano con le bottiglie
di sopravvivenza. Tutta gente che promette sfracelli ai referendum di giugno.
Una miccia che inquieta il Palazzo e i padroni delle acque.
Non la vogliono. Quella cosa che esce dai rubinetti è - dicono - iperclorata, sa
di ruggine e ha il colore del fango. E viene dalla diga più malavitosa d'Italia,
quella dell'Alaco, tra Badolato e Serra San Bruno, famosa per essere costata il
decuplo del previsto. Sono anni che la gente ha paura di quell'invaso, ma negli
ultimi mesi un balletto di ordinanze di non potabilità (quella di Vibo Valentia
è durata 106 giorni!) poi revocate a macchia di leopardo, o reiterate
all'interno della stessa rete, ha esasperato il problema, e ora il "tam-tam"
corre anche sul web, contesta le rassicurazioni dei gestori, buca il silenzio di
chi ha paura.
"Che venga, che venga a casa mia il sindaco di Vibo - urla una donna sui
settanta accanto a una fontana sulla strada per Capistrano - venga che gli
cucino gli spaghetti con l'acqua dell'Alaco... se li dovrà mangiare tutti!". In
questi monti di alberi immensi, tornanti e nebbia, le donne
sono le più determinate, il cuore della rivolta. "Figli di p..., scriva che
siamo incazzati e non abbiamo più paura; questa è una guerra per la vita perché
l'acqua è la vita", sibila un anziano ossuto dalla barba lunga, apparentemente
mitissimo, e si fa il segno della Croce dopo la parola "vita" come se avesse
chiamato in causa l'Altissimo in persona.
Assaggio l'acqua di Serra San Bruno: pessima. Cerco di capire, e subito mi perdo
in teorema bizantino. In Calabria funziona così: la raccolta e il pompaggio
delle acque tocca a una società di diritto privato chiamata Sorical, mentre la
distribuzione tramite le condutture spetta ai Comuni. E così, di fronte al
vespaio scoppiato sulle Serre, nel Vibonese e dintorni, ecco l'inevitabile
palleggiamento di responsabilità, con la Sorical che accusa i Comuni di avere
reti colabrodo e la gente dei Comuni che accusa la Sorical di mettere in rete
acqua malata. La fiaba del lupo e l'agnello.
Mettersi contro il sistema non è facile. Il giudice Luigi De Magistris che nel
2008 ha indagato sul business, s'è rotto le corna ed è stato trasferito. Diverso
il destino dell'imprenditore Sergio Abramo che, dopo aver durissimamente
attaccato la Sorical per certe irregolarità nel rapporto con una banca d'affari,
è stato nominato presidente della Sorical medesima ed ora è assai più prudente
nei giudizi.
Il fatto è che dietro la società c'è la francese Véolia, che di fatto comanda
col 46,5 per cento delle azioni e gestisce pure il discusso inceneritore di
Gioia Tauro, destinato al raddoppio. E' questo il potere ed è qui la polpa: il
privato (ma chiamiamolo per comodità "i francesi") che vende all'ingrosso ai
Comuni la loro stessa acqua e lascia ad essi la rogna di gestire la rete. Col
pubblico che si riduce a esattore per conto dei privati, anche a costo di
indebitarsi.
A fronte di questo affare colossale, di canoni in forte rialzo e di investimenti
tutto sommato relativi, scrive Luca Martinelli su "Altraeconomia", i francesi
riconoscono alla Regione "un canone di 500 mila euro l'anno" per l'uso di tutti
gli impianti calabresi. Un'inezia. L'affitto degli impianti di un'intera regione
ricchissima d'acque equivale a un quarantesimo di quanto la società di gestione
milanese paga per gli impianti di quella sola città. Ovvio che ai francesi
piaccia la Calabria.
Ma con la diga dell'Alaco il meccanismo dell'oro blu si inceppa. La Sorical la
eredita nel 2005 dalla Cassa del Mezzogiorno che l'ha appena messa in funzione.
Una cattedrale nel deserto, costruita per spillare denaro pubblico in una zona
umida con sabbie mobili e acque malariche. I fondali del lago artificiale non
sono stati puliti e bonificati delle infiltrazioni di ferro e manganese contigue
alle miniere borboniche di Mongiana. E quando, salutati dal plauso della
politica, i francesi prendono in mano l'impianto dopo alcune migliorie, si
ritrovano a mettere in rete un'acqua che grida vendetta rispetto alle fonti
delle Serre. Una fornitura praticamente imposta dalla politica a 400 mila
persone fino a quel momento agganciate a pozzi o condotte indipendenti, spesso -
si asserisce - di buona qualità.
Nel 2010 persino la Regione Calabria, legata ai francesi, riconosce che qualcosa
non va. L'Agenzia protezione ambiente dimostra che l'inquinamento viene dal
lago, non dalla rete. Intervengono anche i Nas, che mettono sotto sequestro un
serbatoio nel Vibonese. Nel gennaio di quest'anno il sindaco di Vibo dichiara
l'acqua non potabile. Lo stesso accade in altri Comuni. Allora la gente chiede:
riapriteci i vecchi pozzi che avevano acqua sicura. Ma non si può. Non sono più
operativi. Qualcuno, veloce come il vento, li ha già disattivati.
"Macché pozzi buoni! - sbotta al telefono Sergio De Marco, responsabile tecnico
della Sorical - questa dei sindaci è una bufala colossale. Li abbiamo chiusi
perché erano di pessima qualità. Non bastavano, d'estate si svuotavano. E la
storia della nostra acqua che sarebbe peggiore è un'invenzione dei Comuni che
cercano un alibi per non pagarci le forniture. Possibile che per la stessa acqua
altri Comuni non abbiano mai protestato? Centinaia di analisi dimostrano che
l'acqua dell'Alaco è buona. Lo scriva, mi raccomando".
Per la politica, chi critica i francesi è "comunista" o propagatore di allarme.
Alla Sorical si deve credere. Credere che l'acqua è buona, che il fondale del
lago è pulito e che le analisi sono state fatte. Credere che un potabilizzatore
da trecento litri al secondo è sufficiente per 400 mila persone. Così, per
capire, bisogna andare lassù, oltre spettrali alberghi disabitati, fino al lago
maledetto perso nella pioggia tra pale eoliche che paiono croci di un Golgota,
in fondo a boschi così appetibili per "certi affari" che da gennaio vi sono
morte già cinquanta persone per faide tra clan.
Strano, la rete che circonda l'invaso è aperta in più punti. Cancelli senza
lucchetto. Nessuno pattuglia le sponde, tranne mandrie di vacche bianche che
pascolano lasciando escrementi sulla battigia. Di chi sono? Sono le "vacche
sacre", mi diranno a Serra San Bruno. Non hanno bisogno di pastori perché sono
intoccabili. Sono della criminalità organizzata che così dimostra la sua
onnipotenza e segna il territorio. Un simbolo, non un affare.
L'acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata. I ciottoli sono
nerastri, hanno perso il colore originale. Cime di faggi nudi e abeti bianchi
sbucano dalla superficie. Possibile siano cresciuti in acqua, dopo l'asserita
ripulitura e impermeabilizzazione dei fondali? Vado a Serra San Bruno dove la
resistenza, benedetta dal parroco, abita nella tana dell'associazione "I
briganti", guidata da Sergio Gambino, figlio di un giornalista che ha dedicato
la vita intera alla lotta contro la n'drangheta.
"Noi lo sappiamo" dice Gambino, capelli lunghi neri, occhi accesi e barbetta
borbonica, "lo sanno i pastori, i boscaioli, i carbonai... Nessuno ha mai pulito
quel lago... Altri sono venuti e ci hanno versato dentro non si sa cosa... La
diga è in Comune di Brognaturo, retto da Cosma Damiano Tassoni, lo stesso
sindaco che consentì quella diga demenziale... Credo che questi signori non
abbiano idea di quanto siamo determinati a lottare per ciò che ci spetta".
La sera, a Pizzo Calabro mi diranno: "Lo sa? Bossi ha ragione. Siamo una colonia
francese. Ci hanno venduto. Acqua e nucleare. Ecco cos'è il patto
Berlusconi-Sarkozy".
La
laurea? Italiani disincantati, non ci credono quattro su dieci
I giovani italiani sono quelli che in tutta Europa
considerano meno attraente l'opzione dell'istruzione universitaria. E continuano
a preoccuparli il lavoro che non si trova e la paga quasi mai adeguata alle
spese per mantenersi. I risultati dell'indagine di Eurobarometro su aspirazioni
e timori di 30 mila ragazzi europei tra 15 e 35 anni.
di FEDERICO PACE
Forse perché il lavoro continua a essere una
risorsa sempre più introvabile. Forse perché non c'è una sufficiente
informazione sui vantaggi concreti, seppure meno significativi di quanto non
fossero in passato, che ancora può offrire. Forse perché la delusione per le
sempre minori opportunità che vengono offerte loro è ormai il sentimento più
radicato. Sta il fatto che i ragazzi italiani sono quelli che in Europa, tra i
loro coetanei, guardano con meno interesse all'istruzione universitaria. Il
risultato emerge dall'indagine di Eurobarometro che ha sentito più di trentamila
giovani con un'età compresa tra 15 e 35 anni per capirne preoccupazioni e
aspirazioni.
In Italia quattro su dieci, di questi giovanissimi e meno giovani, pensa che
l'istruzione universitaria non sia una soluzione appetibile. E' il dato più alto
di tutta Europa. Quasi il doppio dei valori medi che, in tutti e 27 gli stati
membri, raggiunge appena il 20 per cento. Anche in Francia, a dire il vero, le
percentuali sono preoccupanti (il 35 per cento) e in parte anche in Spagna (il
23 per cento). Molto diverse le proporzioni invece negli altri paesi. In
Danimarca quelli che non la considerano attraente sono solo il 7 per cento e la
quasi totalità guarda a essa come a una chance concreta. Così come accade, ad
esempio, in Norvegia, Belgio, Germania, Repubblica Ceca e Olanda
Le convinzioni dei più giovani. Se si osservano i dati complessivi
europei, nella scomposizione per ambiti socio-demografici, si scopre che sono
soprattutto i giovanissimi a essere più attratti da un'opzione di questo tipo.
Nella media europea, la considerano una scelta interessante l'81 per cento dei
ragazzi con un'età compresa tra 15 e 19 anni. La percentuale scende al 75 per
cento per quelli che invece hanno un'età compresa tra 25 e 35 anni.
Il lavoro sempre più lontano. L'occupazione è per i giovani come un
enigma privo di soluzione. Con quasi un terzo di loro alla ricerca vana di un
posto, sono comprensibili le risposte date riguardo i timori relativi
all'occupazione. La più frequente quella di non riuscire a trovare un impiego
nella città in cui si vive o nella regione di residenza. La dà come prima
risposta il 30 per cento dei ragazzi europei a cui si aggiunge un altro 23 per
cento che la indica come seconda risposta.
C'è poi la preoccupazione di non riuscire a trovare un impiego nell'ambito del
proprio percorso formativo. La propone come prima riposta il 22 per cento e come
seconda il 19 per cento. Crea apprensione pure il livello della paga. Il venti
per cento di loro segnala come primo timore proprio la difficoltà di trovare una
retribuzione adeguata ai costi per mantenersi, mentre per un altro 22 per cento
è la seconda risposta.
La coerenza degli studi. I pensieri dei ragazzi italiani, in questo ambito, sono
simili a quelli dei loro coetanei europei. Semmai, c'è un ancora più acuto
timore riguardo alla possibilità di trovare un impiego coerente con il proprio
percorso di studio. Da noi infatti, tra prima e seconda risposta, lo indica il
50,7 per cento. La disponibilità di un posto nella città o nelle regione di
residenza arriva al 50,3 per cento (ciascuno poteva segnalare più risposte).
Quanto allo stipendio è l'ansia maggiore per il 37,1 per cento dei ragazzi. A
questo si aggiunga che un altro 26,2 per cento (tra prima e seconda risposta)
dice di non conoscere il tipo di offerte di lavoro davvero disponibili sul
mercato dell'occupazione.
Il mancato orientamento. Gli studenti italiani sono quelli che giudicano con
maggiore severità le attività di orientamento e counselling ricevute durante il
percorso scolastico sulle opportunità formative successive e sugli sbocchi
occupazionali. Sono meno di un quarto quelli che danno infatti un giudizio
positivo ai servizi e alle strutture che li hanno supportati. La media europea è
il doppio. Più insoddisfatti degli italiani sono solo i turchi.
Desiderio e necessità. Quando alla volontà di lavorare in un altro paese europeo
le cose si fanno più complesse. Il 31,3 per cento dei ragazzi europei dice di
volere svolgere una professione in un'altra nazione, ma per un limitato periodo
di tempo. Sono invece il 26,2 per cento quelli che desiderano farlo per una più
ampia fase della propria vita. In Italia i numeri sono inferiori. Il 55,4 per
cento dice di non desiderare una soluzione di questo tipo. Solo il 14,1 per
cento guarda a questa opzione in maniera favorevole anche se si trattasse di una
scelta per una significativa porzione di tempo della propria vita. Un altro 23,9
per cento, invece, sarebbe intenzionato a farlo ma solo per un breve periodo.
Gli studi all'estero e i costi. Quanto agli studi, chi va fuori dai confini
nazionali per percorsi scolastici e formazione, lo fa per lo più con fondi
privati. In tutta Europa ricorre ai propri capitali il 65 per cento. Gli altri
ricorrono a fondi o borse di studio offerte da istituzioni europee, nazionali e
regionali o da imprese. In Italia chi si paga da la propria permanenza è il 69
per cento. All'opposto, c'è invece la Norvegia dove solo il 40 per cento è
costretto a pagarsi da sé percorsi di studio all'estero.
Imprenditorialità e aspirazioni. C'è poi la questione della disponibilità e del
desiderio di avviare una propria impresa. In Europa il 43 per cento dei giovani
è pronto a puntare su un progetto imprenditoriale. Una simile proporzione (42
per cento) non ha questa ambizione perché troppo rischiosa, troppo complicata o
perché è troppo difficile accedere ai finanziamenti necessari. In Italia, e
forse anche questo è un altro dato che dà da pensare e che meriterebbe un
maggiore approfondimento, sono molti meno quelli che intravedono per sé
un'attività in proprio. Solo il 27 per cento. Il dato, anche questo, è il più
basso di tutta Europa.
Sud
Sudan, tra sangue e champagne
La sfida interna portata dai generali ribelli e
quella esterna proveniente dal Sudan. Per il nuovo stato, nascere è già
difficile
I
politici di Juba, la capitale, con una mano preparano i bicchieri per il
brindisi e con l'altra lustrano i fucili, consci che il destino del loro Paese
abbia un nonsoché di beffardo: il Sud Sudan rischia di diventare il primo stato
fallito ancor prima di essere nato. Diversi politologi ed esperti di questioni
africane la sentenza l'hanno già emessa: l'atto di nascita e il certificato di
morte del Sud Sudan rischiano di avere la stessa data, 9 luglio 2011, il giorno
in cui l'indipendenza dal Sudan, votata in massa con un referendum il 9 gennaio,
diventerà effettiva. La bandiera, l'inno, il nome sono già pronti ma sono le
uniche cose che possano far pensare ad uno stato: il resto manca tutto. Mancano
soprattutto la stabilità politica e il controllo del territorio. In cinque mesi,
gli scontri tra l'embrione di quello che sarà l'esercito sudsudanese e le tante
milizie ribelli hanno fatto oltre mille morti e più di centomila sfollati. Le
ultime vittime sono cadute tra domenica e lunedì, quando nello stato di Warrap
uomini armati hanno attaccato un villaggio per rubare capi di bestiame,
uccidendo 34 civili. Sono stati inseguiti da soldati del Sudan People's
Liberation Army, il braccio armato del partito-stato del presidente Salva Kiir (Splm)
che hanno freddato 48 aggressori.
E' una guerra tra poveri quella che si combatte nel Sud Sudan: si uccide per
mucche e capre, per appezzamenti, per l'accesso a fonti d'acqua. Ma soprattutto
per potersi sedere al tavolo che conta, dove vengono prese le decisioni. La
violenza, come avviene in molti Paesi fortemente sottosviluppati, è il filo che
lega risorse e politica. E così, i tanti generali ribelli, fuoriusciti dall'Spla,
recentemente si sono dati una struttura politica, formando un Coalition Council,
guidato dal generale George Athor, con altri comandanti di primo piano come
Peter Gatdet (responsabile della Difesa), Gatluak Gai (capo dello Stato
maggiore), Bol Gatkuoth Kol (responsabile Esteri e portavoce). I nomi non dicono
molto al grande pubblico ma si tratta di personaggi che si sono trovati fuori
dalla spartizione della torta e che dall'indipendenza non hanno guadagnato quel
che speravano. Gai, per esempio, ambiva ad un posto di commissario nella contea
di Koch; Kol fino a poco fa sedeva in parlamento come rappresentante proprio di
quell'Splm contro il quale ora ha imbracciato le armi. Apparteneva invece all'Spla
il generale di brigata Karlo Kuom, anche lui con ambizioni di carriera
frustrate. I ribelli l'11 aprile hanno presentato anche un documento, la Mayom
Declaration, un atto politico che attacca "la corruzione rampante, il tribalismo,
l'inettitudine, l'insicurezza che regna nel Paese (e di cui sono
corresponsabili, ndr) " del governo di Juba, che pertanto - dice sempre la
dichiarazione - va rovesciato.
Tutte accuse fondate, a prescindere dalla credibilità di chi le muove. La
conferma si è avuta con la bozza di costituzione, recentemente sottoposta al
presidente Kiir, che a breve la firmerà, la quale crea uno stato su misura del
partito di maggioranza e della sua appendice armata. Uno dei punti più
controversi riguarda la conferma automatica del governo provvisorio in carica,
con le elezioni politiche rinviate di quattro anni. L'Splm e l'Spla vogliono
mungere la mucca fino in fondo e creare i presupposti per continuare a farlo ad
libitum. Anche gli Stati Uniti, notoriamente sostenitori della causa
indipendentista, sono preoccupati per la voracità dell'esecutivo sudsudanese e
per la palese propensione alla corruzione e all'abuso di potere. Chiedono
riforme e una drastica pulizia interna. Ma a preoccuparli di più è l'ombra del
Sudan che si allunga minacciosa sul nuovo stato. Da mesi Juba sostiene che le
insurrezioni armate siano organizzate e finanziate da Khartoum, che ha ogni
interesse a che il Sud precipiti nel caos di una nuova guerra civile interna,
per poter riallacciare quella catena che il referendum ha spezzato. Complottismo
o no, è un dato di fatto che uno dei leader ribelli di maggior peso, il generale
Gatdet, responsabile dei massacri nello stato di Unity, abbia trascorso
recentemente molto tempo in Sudan, così come non è una coincidenza che una delle
figure più attive nella costruzione di un coordinamento tra i ribelli, il
brigadiere James Gaiwach, sia un ex alto ufficiale dell'esercito sudanese.
La posta in palio però non sono solo mucche e capre. Con l'indipendenza di Juba,
Khartoum ha perso il suo bene più prezioso, il petrolio. Tra le tante questioni
rimaste in sospeso tra i due stati, c'é soprattutto il problema petrolifero, che
a sua volta si lega ad un altro nodo insoluto, quello dei confini. La frontiera
è tracciata in modo approssimativo, perché restano numerosi buchi. Tre sono
quelli più importanti: gli stati del Nilo Blu, del Sud Kordofan e soprattutto di
Abiyei, un distretto petrolifero che farebbe parte di quest'ultimo stato ma
titolare di uno statuto speciale. Qui, a gennaio si sarebbe dovuto tenere un
referendum speciale per decidere se aderire al Sudan o al Sud Sudan. Il voto non
ha avuto luogo perché Juba e Khartoum non hanno trovato un accordo su chi
avrebbe potuto votare: solo i residenti, una popolazione di etnia Kgok inserita
nell'orbita del Sud Sudan, o anche i Missereya, pastori nomadi che in passato
hanno combattuto a fianco del nord? Si era scelto di non decidere, consci che -
come rivelato a PeaceReporter da un alto funzionario sudanese - la guerra tra i
due Paese avrebbe potuto facilmente riaccendersi ad Abiyei. Tutto in ordine,
quindi? No, la nuova costituzione sudsudanese riconosce il distretto come parte
del territorio dello stato. Il presidente sudanese Omar al Bashir ha reagito con
un ruggito, sostenendo che Khartoum "non avrebbe ceduto nemmeno un unghia di
Abiyei". La frontiera negli ultimi mesi è andata militarizzandosi. Lo hanno
rivelato i monitoraggi satellitari del progetto americano Sentinel. Il 9 luglio
scadrà ufficialmente quel Comprehensive Peace Agreement che nel 2005 mise fine
ad una guerra civile di 23 anni e da oltre due milioni di morti. Khartoum ha già
detto di essere contraria ad una proroga del trattato di pace. Come dire che con
la secessione muore tutto. Rischiano di morire anche gli accordi di pace e i
movimenti alla frontiera lo confermano.
Alberto Tundo
Loredana Di Cesare
I capi
dei pompieri mettono su casa
Vigili del fuoco in un palazzetto del ‘700 nel
cuore di Roma. Ma non c’è nessun incendio da spegnere, né verifiche di stabilità
da fare. I vigili, che sono sul posto da oltre due mesi, indossano i panni di
muratori: sono impegnati in lavori di ristrutturazione. Accade a Roma in via dei
Quattro Cantoni, nel Rione Monti, una delle zone più prestigiose ed esclusive
della capitale.
A denunciare l’accaduto alcuni colleghi dell’unione sindacale di base (USB)
incuriositi dalla presenza di mezzi appartenenti ai vigili del fuoco nei pressi
dello stabile. Strano vedere una squadra di pompieri, normalmente impiegata nel
soccorso tecnico urgente, con tanto di cazzuola e sacchi di cemento in spalla
entrare e uscire dal palazzo. “Siamo qui per sistemare la casa ai nostri
dirigenti”, è la risposta candida dei ragazzi impegnati nel cantiere. Il
grazioso palazzetto di Rione Monti è di proprietà del demanio ed è stato ceduto
in uso governativo, dunque gratuito, ai vigili del fuoco. All’interno ci sono
tre appartamenti più un quarto, più piccolo situato al piano terra da adibire
probabilmente a uso portineria.
Per fare largo agli alti dirigenti che alloggeranno nel lussuoso
palazzetto sono stati sloggiati i vecchi inquilini, tra cui una signora di 85
anni, nata e vissuta lì, un’associazione italiana di psicologia e psicoterapia e
il telefono antiviolenza. Hanno ricevuto una lettera a firma del direttore
dell’agenzia laziale del demanio, Renzo Pini, in cui perentoriamente si
invitavano gli affittuari a liberare l’immobile. I pompieri-muratori hanno
iniziato i lavori nel mese di febbraio e non sanno dire quando smonteranno il
cantiere. “C’è ancora molto da fare – dice uno del gruppo – è un lavoro che
sembra non finire mai”.
Secondo voci raccolte dal sindacato di base frequenti sono le visite di
alcune persone per decidere la predisposizione e la divisione delle stanze.
“Sappiamo – attacca Antonio Jiritano dell’USB – che le signore degli alti
funzionari, tra cui la moglie del capo del corpo nazionale dei vigili del fuoco,
Alfio Pini sarebbe andata a controllare lo stato dei lavori e se questi
rispondevano al proprio gusto”. Dunque, lo stabile è stato concesso per uso
governativo per realizzare alloggi di servizio per i dirigenti. Non c’è nulla di
illegale in questa procedura, ma certamente si tratta di un criterio
assolutamente discrezionale. Da parte sua, l’agenzia del demanio che gestisce il
patrimonio dello Stato, una volta evasa la richiesta dell’amministrazione che
sollecita a individuare immobili con determinate caratteristiche perde ogni
traccia riguardo alla ristrutturazione e alla conseguente destinazione d’uso:
“Quello di via dei Quattro Cantoni, 48 è un bene pubblico di rilevanza storica e
artistica - specificano dal Demanio - che abbiamo consegnato per uso governativo
a tre amministrazioni diverse: l’agenzia delle dogane, ministero della Difesa e
Vigili del Fuoco”.
Ma possibile che i vigili del fuoco non abbiano altro posto in cui
alloggiare? “Figurarsi –risponde Jiritano – siamo pieni di alloggi nelle nostre
caserme per i dirigenti, certo saranno meno chic ma ci sono eccome. E
continuamente ristrutturate: a Firenze un alto dirigente ha addirittura fatto
cambiare la vasca idromassaggio installata dal precedente beneficiario
dell’appartamento, perché la trovava scomoda. Tutto questo con i soldi dello
Stato mentre intanto le risorse del 115, già scarse, sono state tagliate del 35
per cento negli ultimi due anni. La cosa inaccettabile del corpo nazionale dei
vigili del fuoco è che un ente come il nostro al servizio della gente utilizzi
mezzi e risorse per fare largo a lussuosi appartamenti da consegnare ai nostri
dirigenti sfrattando persone in difficoltà e associazioni di volontariato”.
Resta il mistero di chi sarà il privilegiato che andrà a vivere nello
stabile di via dei Quattro Cantoni. Alfio Pini assicura che non sarà lui e
smentisce tutto: “Non ho alcun interesse di andare a vivere in uno degli
appartamenti di Rione Monti ed è falso che un mio familiare sia andato a vedere
lo stabile. Da tanti anni vivo a Roma per lavoro all’interno di una caserma,
come accade a molti dirigenti sia delle forze di soccorso che di controllo del
territorio e la mia famiglia è a Venezia”. Ma come mai sono i vigili del fuoco a
effettuare la ristrutturazione? “Non è una ristrutturazione – spiega Pini - i
vigili stanno effettuando dei lavori di consolidamento poiché parte dello
stabile in questione era a rischio di crollo”. E che uso si intende fare dello
stabile? “Certamente c’è l’eventualità che in futuro gli appartamenti possano
essere destinati ad alloggi di servizio per dirigenti: è una circostanza
espressamente prevista dalla legge. Noi – spiega Pini - siamo un corpo
assolutamente trasparente ed è nella prassi che un dirigente soggetto a numerosi
trasferimenti possa alloggiare in case messe a disposizione dai vigili del
fuoco”. Quindi non sarà Pini a usufruire dello stabile. Ma sull’uso residenziale
e sul fatto che sia in corso una ristrutturazione ci sono pochi dubbi:
altrimenti cosa ci faceva una cabina doccia scaricata proprio una settimana fa
davanti allo stabile di via dei Quattro Cantoni.
Confindustria e l’ignobile applauso all’ad ThyssenKrupp
Non facciamo gli ipocriti, le scuse della
Confindustria per l’ovazione riservata all’amministratore delegato della Thyssen,
condannato dal tribunale di Torino, non sanano la gravità di quanto è accaduto.
Per quieto vivere e per non esasperare gli animi si può far finta che si sia
trattato di un equivoco, ma le cose non stanno certo così.
Del resto le medesime scuse sono arrivate dopo 5 giorni di silenzio e di
imbarazzi, forse sono state ritenute necessarie perché quell’applauso aveva
offeso la sensibilità di tante persone, e, tra queste, quella del presidente
Napolitano che, della lotta contro le morti sul lavoro, ha fatto un tratto
distintivo della sua presidenza.
Perché la signora Marcegaglia non si è dissociata subito? Perché non ha
replicato a quell’infelice intervento? Perché ha accarezzato il pelo della sua
assemblea?
Perché le scuse sono arrivate così tardi e soprattutto per bocca del direttore
generale della Confindustria?
Del resto l’amministratore condannato non si era certo appropriato del palco e
tanto meno si era impossessato del microfono senza preavviso. Tutti sapevano che
avrebbe parlato e quindi si era scelto di dargli palco e platea, dunque l’evento
era stato concordato.
Avrà pure ecceduto nei toni, ma qualcuno aveva preparato la regia, sapendo di
assecondare la pancia della platea.
Perchè meravigliarsi? La signora Marcegaglia, da tempo, aveva chiesto meno
controlli e meno regole in materia di prevenzione, lei medesima aveva duramente
criticato la sentenza di Torino.
Da ultimo il ministro Tremonti ci ha ricordato “che bisogna stare attenti con le
regole in materia di prevenzione, perchè si rischia di ostacolare gli
investimenti esteri”, come a dire che un po’ di morti e di feriti ci sono sempre
stati e non si potrà mica pensare di mettere le brache al progresso o meglio al
profitto.
Il signore della Thyssen ha solo dato fiato a questi sentimenti perversi e,
proprio per questo, ha ricevuto l’ignobile applauso di chi, alla maniera di un
Berlusconi qualsiasi, mal sopporta i controlli di legalità e quei sindacati e
quei sindacalisti, per la verità non molti ormai, che ancora si ostinano a
contestare e a contrastare quei modelli produttivi che considerano la
prevenzione una anticaglia da riporre nell’armadio delle cose vecchie e di
cattivo gusto.
Questa volta hanno smussato perché l’hanno fatta grossa e perché hanno trovato
donne e uomini che non hanno rinunciato alla loro dignità e non vogliono mettere
in liquidazione la memoria dei loro familiari morti nel rogo “doloso”.
Proprio per questo come articolo 21, abbiamo deciso di assegnare a loro il
premio speciale per la libertà di informazione della associazione, perché con la
loro rabbia civile e determinata hanno impedito che un nuovo oltraggio si
consumasse nell’indifferenza e nel cinismo di chi si era abituato a considerare
le morti sul lavoro solo e soltanto “una tragica fatalità”, una disgrazia caduta
dal cielo, dovuta ad un dio malvagio, e non certo agli errori e talvolta agli
orrori di un cosiddetto imprenditore, con tanto di nome e cognome.
Giuseppe Giulietti
E la
chiamano par condicio
di Mauro Munafò
Per ogni minuto dedicato all'opposizione, ce ne
sono tre dedicati a Berlusconi e al Pdl. E' la media del Tg1 nell'ultima
settimana. Questa è la Rai alla vigilia del voto amministrativo.
La par condicio non è uguale per tutti. Dopo mesi
di segnalazioni, allarmi e numeri alla mano, anche l' Agcom è stata costretta a
ribadire per l'ennesima volta che nei telegiornali delle reti pubbliche B. e
soci hanno molto più tempo per parlare rispetto all'opposizione. Ma la multa
comminata al Tg1, già in diffida e sanzionato con 100 mila euro, è solo l'ultimo
passaggio di una diatriba che va avanti da settimane.
Già il 28 aprile scorso, in seguito alle segnalazioni del Pd, l'Agcom aveva
invitato i telegiornali a riequilibrare i tempi di notizia e di parola dedicati
alla politica. Senza girarci troppo attorno l'Agcom scriveva che «l''Autorità ha
rilevato che nel tempo di notizia vi è un'obiettiva sovraesposizione del
Presidente del Consiglio, il quale, oltre tutto, è direttamente parte nelle
elezioni amministrative in quanto capolista a Milano». La prima segnalazione si
riferiva ai monitoraggi per il periodo dal 31 marzo al 23 aprile: nella
settimana dal 17 al 23 aprile infatti, il Tg1 concedeva 37 minuti al Pdl, 3 e
mezzo alla Lega Nord e 9 a Berlusconi, contro i 19 minuti totali dedicati a
tutti gli altri partiti.
Dopo la segnalazione dell'Agcom la situazione è solo peggiorata. Nell'ultima
settimana il Tg1 ha dedicato 20 minuti di tempo di antenna al Pdl, 7 minuti alla
Lega Nord e altri 30 a Silvio Berlusconi. Le opposizioni hanno rosicchiato in
totale una ventina di minuti: il rapporto è quindi di circa 3 minuti a B e alla
sua maggioranza, contro un minuto per l'opposizione. Per fare un confronto con
gli altri tg, quasi tutti sbilanciati verso la maggioranza, si può prendere il
caso del Tg2 che ha dedicato 11 minuti al Pdl, 3 alla Lega e 15 a Berlusconi,
contro i venti minuti circa dei vari partiti di opposizione messi insieme.
Se da una parte si assiste a uno squilibrio dei tempi dei telegiornali dedicati
a Berlusconi, dall'altro c'è anche un problema di qualità dei servizi
confezionati. L'associazione Articolo 21 promuove da alcuni anni un Osservatorio
che si occupa proprio di "vedere" i tg e non solo di cronometrarli, per fornire
un giudizio sul bilanciamento delle notizie. In questi giorni dall'Osservatorio
hanno potuto registrare, ad esempio, il tentativo delle testate, definite
"esegete", di allestire un secondo miracolo berlusconiano a Napoli, con la
spazzatura che si annuncia di far scomparire e che poi resta lì. Una situazione
che non sembra destinata a cambiare neppure con le multe dell'Agcom visto che,
come si legge nell'ultimo documento di Articolo21 «C'è un'intossicazione da
Berlusconi. Una intossicazione che crea anche dipendenza, visto che quasi tutte
le testate – al contempo vittime e carnefici – continuano ad occuparsi quasi
solo di Lui».
«Qualsiasi cosa faccia il presidente del Consiglio, dai processi agli
interventi, viene usato come pretesto dai tg per parlare di lui», spiega Stefano
Corradino di Articolo 21. «Tutto questo genera un forte squilibrio, come si è
potuto verificare con la vittoria del campionato del Milan, in cui è stata
riproposta l'associazione subliminale tra calcio e politica».
C'è poi il capitolo, spesso sottovalutato, dell'informazione regionale made in
Rai. Anche i Tgr sono infatti finiti sotto la lente dell'Agcom e del Corecom,
che hanno sollecitato a un maggior rispetto della par condicio soprattutto in
Lombardia e in Piemonte. A Milano Berlusconi è infatti capolista per il sindaco
uscente Letizia Moratti, mentre a Torino i dati dell'Osservatorio di Pavia
pubblicati dal Corecom hanno evidenziato una sproporzione informativa nel Tg Rai
per il candidato del centrodestra Michele Coppola. Piccoli Berlusconi crescono.
Stefano Liberti
Nuove
prove sulle omissioni Nato
Dopo
lo scoppio dello scandalo, la Nato si difende. Travolta dalle accuse
suscitate dall'articolo del Guardian, che ha rilanciato le rivelazioni uscite il
15 aprile scorso sul manifesto sulla storia dei 63 migranti lasciati morire di
fame e di sete in mezzo al mare da navi militari e da un elicottero, l'Alleanza
atlantica si mette sulla difensiva.
Interrogato sulla vicenda, un portavoce del comando militare di Napoli sostiene
di non «aver mai ricevuto alcun riferimento a questo sfortunato incidente da
parte delle unità sotto comando Nato». Nella sua riposta scritta, lo stesso
portavoce afferma che «tutte le unità Nato sono consapevoli delle responsabilità
che hanno rispetto alle leggi internazionali del mare riguardo al salvataggio di
vite umane». Per rafforzare questa affermazione, il comando militare di Napoli
segnala che «la notte tra il 26 e il 27 marzo scorso, diverse unità navali della
Nato sono state impegnate in due operazioni di salvataggio in mare nella
regione».
Proprio uno di questi due episodi può aiutare a capire, a partire dai
racconti dei migranti soccorsi e arrivati poi vivi a Lampedusa il giorno dopo,
alcune modalità operative delle unità Nato.
Abdel, richiedente asilo eritreo, era su uno dei due pescherecci, partito da
Tripoli la notte tra il 24 e il 25 marzo con 285 persone a bordo. «Quando il
motore si è inceppato dopo un giorno e mezzo di navigazione, abbiamo cominciato
a imbarcare acqua», racconta oggi. «Una nave canadese si è avvicinata. I soldati
che erano a bordo ci hanno prestato una pompa idraulica per svuotare lo scafo
dall'acqua e alcuni strumenti per riparare il motore. Dopo averci dato bottiglie
d'acqua e pacchi di biscotti, sono ripartiti. Ci hanno abbandonati». Abdel e i
suoi 284 compagni di viaggio sono poi arrivati vivi a Lampedusa, il 27 marzo.
Appena arrivati hanno denunciato di essere stati lasciati in mare. Quello stesso
episodio è presentato dalla Nato come un'operazione di salvataggio condotta
dalle proprie unità. Secondo lo stesso portavoce, il viaggio del peschereccio in
questione dal luogo dell'incidente fino a Lampedusa sarebbe stato monitorato
passo passo con i radar dalle unità della Nato. «Poiché l'imbarcazione poteva
navigare, non c'era motivo di intervenire direttamente», afferma oggi l'Alleanza
atlantica.
Da questa doppia percezione derivano le due versioni discordanti: quella
dei migranti, che affermano di essere stati abbandonati. E quella della Nato,
che sostiene di averli soccorsi e di aver monitorato la loro traversata.
Ma in questa storia c'è un altro elemento che attira l'attenzione e fornisce
qualche chiave di interpretazione. Racconta ancora Abdel: «A un certo momento, i
militari canadesi ci hanno proposto di scortarci in Tunisia. Noi ci siamo
rifiutati e gli abbiamo detto che volevamo andare in Italia. A quel punto dopo
un po' sono ripartiti».
A sentire il racconto di Abdel, una domanda sorge spontanea: le navi
della Nato possono scortare migranti in difficoltà verso la Tunisia, ma non
verso lo spazio Schengen? Forse per evitare problemi di competenza, come i
ripetuti dissidi tra Italia e Malta su chi debba accogliere i migranti
intercettati in acque internazionali, le unità navali preferiscono evitare di
intervenire direttamente? È forse successo questo anche per il drammatico
viaggio dei 72 migranti raccontato dai 9 sopravvissuti?
Queste domande sono probabilmente destinate a rimanere senza risposta. La Nato
nega di aver incrociato il gommone su cui viaggiavano i 72 sventurati. Questi
raccontano di essere stati avvicinati da un elicottero con la scritta «Army», ma
ovviamente non sono in grado di indicare la nazionalità del velivolo.
Una cosa però è chiara. Da quando sono cominciate le operazioni militari
contro la Libia, sono saltati tutti gli accordi anti-immigrazione siglati tra il
regime di Gheddafi e l'Italia. Quegli accordi che, a partire dal Trattato di
amicizia, partenariato e cooperazione dell'agosto 2008, hanno poi dato il via
libera dal maggio 2009 al respingimento in mare verso la Libia di tutte le
barche di migranti intercettate nel canale di Sicilia.
Oggi, che non si possono fare i respingimenti perché la Libia è un paese in
guerra, la Nato sta forse svolgendo silenziosamente quello stesso ruolo che fino
a poco tempo fa svolgevano le unità della Guardia di finanza?
Guerra
globale permanente
Il Congresso americano propone una nuova
dichiarazione di guerra che autorizza l'impiego delle forze armate Usa in un
conflitto senza fine, senza confini e senza un chiaro nemico. L'allarme delle
associazioni per i diritti civili
Chi si illudeva che con l' uccisione di bin Laden
gli Stati Uniti avrebbero proclamato la fine della 'guerra al terrorismo' contro
al Qaeda dichiarata dopo l'11 settembre 2001, si sbagliava.
Al contrario, l'America sta valutando di ampliare i limiti geografici, politici
e temporali del conflitto, trasformandolo in una guerra globale permanente.
In questi giorni la commissione Difesa del Congresso Usa - dallo scorso novembre
a maggioranza repubblicana - sta esaminando il testo di una nuova dichiarazione
di guerra* che 'aggiorna' quella approvata il 18 settembre 2001. A differenza
del vecchio testo, che in nome del diritto di autodifesa autorizzava l'uso della
forza militare ''contro nazioni, organizzazioni e persone responsabili degli
attacchi lanciati contro gli Stati Uniti (...) al fine di prevenire nuovi atti
di terrorismo'', il nuovo testo redatto dal repubblicano Howard McKeon descrive
una guerra senza fine, senza confini e senza un chiaro nemico.
''Gli Stati Uniti - recita la proposta in esame - sono impegnati in un conflitto
armato contro nazioni, organizzazioni e persone che sono parte o sostengono al
Qaeda, i talebani o forze collegate impegnate in ostilità contro gli Usa o i
partner della Coalizione o a favore di suddette nazioni, organizzazioni o
persone''.
La nuova dichiarazione di guerra autorizza anche la detenzione dei nemici senza
limiti di tempo: ''Il presidente ha l'autorità di detenere belligeranti fino al
termine delle ostilità''.
Il testo ha suscitato l'allarme di tutte le associazioni americane per i diritti
civili, per i diritti umani e contro la guerra.
In un'accorata lettera aperta ai membri della commissione Difesa, l' Unione
americana per le libertà civili (Aclu) e altre ventidue organizzazioni chiedono
di non approvare questa legge che ''dà al presidente poteri di guerra vastissimi
e praticamente irrevocabili, impegnando gli Stati Uniti in una guerra su scala
globale senza un chiaro nemico, senza alcun limite geografico e senza termini di
tempo legati al raggiungimento di un obiettivo''.
''A differenza della dichiarazione di guerra del 2001 che autorizzava l'attacco
in Afghanistan e la caccia a Osama bin Laden - si legge ancora nella lettera
dell'Aclu - questa proposta non cita un danno specifico, come gli attacchi
dell'11 settembre, o una specifica minaccia al paese: si afferma che gli Stati
Uniti sono in guerra ovunque vi siano presunti terroristi, a prescindere
dall'esistenza di un reale pericolo. Il Congresso delega al presidente poteri di
guerra assoluti, di un'ampiezza senza precedenti, che lo autorizzano a ordinare
l'uso della forza militare indipendentemente da attacchi avvenuti o potenziali
contro gli Stati Uniti''.
''La nuova dichiarazione di guerra - continua la lettera - non specifica
obiettivi finali e criteri in base ai quali verrebbe meno la delega congressuale
dei poteri di guerra presidenziali: i vasti termini di questo conflitto
potrebbero perdurare decenni''. In base a questo testo ''le forze armate Usa
potrebbero essere impiegate in Somalia, in Yemen, in Iran, in quasi tutti i
paesi del Medio Oriente, dell'Africa e dell'Asia, ma anche nei paesi europei, in
Canada e, ovviamente, negli stessi Stati Uniti contro cittadini americani''.
* Sezione 1034, pagina 20, del National Defense
Authorization Bill per l'anno 2012
Enrico Piovesana
12 maggio
Matteo Bartocci
La
resistenza quotidiana dei giornalai
Di noi conoscono tutto o quasi. Sanno che
squadra tifiamo, se ci piace la vela, il gossip, l'arredamento o la tecnologia.
Spesso sanno anche se in parlamento stiamo a destra o a sinistra. Sono tra noi
da sempre, in ogni piazza d'Italia. Nelle grandi metropoli e nei borghi
abbarbicati tra i monti. Eppure il loro lavoro è quasi un mistero.
Non si tratta della Cia ma dei 33mila edicolanti italiani, il punto finale della
lunga filiera dell'informazione. Di questo piccolo esercito di rivenditori i
giornali non parlano quasi mai.
E invece inondata da migliaia di copertine patinate, c'è una piccola impresa
autonoma che come tutta l'industria delle news ha da tempo problemi molto seri.
Nel paese del tycoon Berlusconi si legge sempre meno. Dal 2006 al 2010 le copie
medie giornaliere sono passate da 5,5 milioni a 4,6 milioni, meno 900mila in
quattro anni (dati Fieg 2010). Per capire quanto siamo messi male basti sapere
che Germania e Inghilterra veleggiano sopra i 15 milioni di copie di quotidiani
al giorno.
Inevitabile il crollo del fatturato delle rivendite: meno 35% negli
ultimi tre anni, con picchi del 40% in Campania e del 50% in Sicilia. Su ogni
euro venduto, l'edicola guadagna poco meno di 19 centesimi (il 18,77% del prezzo
di copertina), il 10-15% va ai distributori e il resto arriva all'editore che ci
paga tutti i costi. Il risultato è che le edicole spariscono. Nel 2001 le
rivendite in tutta Italia erano 42mila, adesso sono circa 33mila. Nella capitale
dell'editoria, Milano, ne sono rimaste solo 600 e nell'ultimo anno 30
rivenditori hanno chiesto di sospendere la licenza, l'anticamera della chiusura.
La razionalizzazione è spietata e si ripercuote anche a monte della filiera.
Dieci anni fa i distributori locali, quelli che ogni giorno portano giornali e
riviste in edicola, erano ben 400. Oggi sono meno di 130. A Roma città, mercato
enorme, ce ne stanno solo due. Tra questi, il principale è di Mondadori e
distribuisce l'80% dei prodotti compresi tutti quelli più appetibili. A livello
nazionale va ancora peggio: i distributori sono solo 6 ma di fatto i primi due
sono di diretta emanazione di Mondadori e Rizzoli-De Agostini (da soli coprono
il 58% del mercato italiano).
Da fuori si potrebbe pensare all'edicola come a un negozio qualsiasi. Ma
l'informazione è un valore costituzionalmente rilevante. E dunque anche se
inquadrati nel settore del commercio i giornalai sono negozianti molto
particolari, con una gestione unica nel suo genere a cominciare da orari
lunghissimi. Il giornalaio non può fissare i prezzi dei prodotti (compito
esclusivo degli editori) né decidere davvero quantità e qualità della merce che
deve vendere (è fissata dal piano vendita e da trattative perfino personali con
i distributori che quasi sempre sono gli unici sul suo territorio). In cambio di
queste condizioni «fisse» dovute alla neutralità politica ed editoriale del
punto vendita secondo il principio della «parità di trattamento», il giornalaio
ha il diritto di restituire quello che non vende (la resa). Ma le pubblicazioni
in Italia sono tante, troppe - le stime oscillano tra 6mila e 9mila testate
iscritte al tribunale o al Roc - e domanda e offerta non si incontrano mai. Il
risultato è che le rese sono enormi per tutti, ben superiori al 45% del
distribuito. L'edicola insomma è come un supermercato iperfornito che ogni
giorno butta via metà della merce.
E' un sistema completamente inefficiente, in cui le edicole subiscono le
politiche di marketing degli editori e le logiche economiche dei distributori.
Gli editori, per esempio, possono vendere riviste a pochi centesimi o
addirittura già uscite (per esempio di viaggi o di cucina) confidando comunque
sulla pubblicità. L'aggio dei rivenditori però è minimo. E per legge non possono
rifiutare nulla.
In più, questo mercato strategico per una democrazia è così concentrato e opaco
che ognuno tira la coperta dalla sua parte senza concordare con nessuno i vari
passaggi. Qui l'informatica è ancora un miraggio, quasi tutti fanno i calcoli
ancora a mano, con ritardi e zone d'ombra che aggravano l'inefficienza e le
rendite di posizione.
Gli scaffali dell'edicola sono un acquario in cui pochi squali si
mangiano tutto. I processi di concentrazione e i conflitti di interesse sono
ovunque. Mentre i tre grandi editori - Mondadori, Rcs ed Espresso - tagliano
giornalisti e redazioni (quindi il prodotto), stanno assorbendo tutte le fasi
della produzione: edizione, raccolta pubblicitaria, distribuzione alle edicole
e, nelle grandi città, anche la vendita diretta a domicilio e ai semafori. Come
dimostrano le vendite, è una logica che produce sprechi, oligopoli e prodotti
sempre meno apprezzati dal pubblico.
Nella tavola rotonda che ha aperto il congresso del Sinagi a Cervia (vedi
sotto), a Matteo Orfini (responsabile comunicazione del Pd) e Massimo Cestaro
(segretario generale Slc Cgil) è toccato il compito di ricordare al governo che
la crisi dell'editoria non è solo congiunturale (calo delle vendite e della
pubblicità) ma è soprattutto strutturale. I marchi di fabbrica delle scelte del
Pdl sono un conflitto di interessi enorme (solo in Italia le tv assorbono il
56,3% delle risorse pubblicitarie contro il 17% dei quotidiani) e i tagli
lineari di Tremonti, che hanno tolto a tutti e dunque allungato le distanze tra
soggetti sempre più disuguali.
Thailandia, se questa è democrazia
Nel Paese si andrà a elezioni il 3 luglio. Ma
l'ombra dell'esercito si allunga sempre più. E il voto non promette di risolvere
le tensioni politiche
Il primo ministro Abhisit Vejjajjva Sarebbe
il caso di inventare l'equivalente thailandese di "Scurdammoce o' passato", in
vista delle elezioni appena annunciate per il 3 luglio nel Paese. Andare avanti,
riconciliarsi, siamo tutti thailandesi: è questo il messaggio che passa il
premier Abhisit Vejjajiva, sottointendendo che il ricordo da cancellare sia
quello relativo ai 91 morti e 1.800 feriti della protesta delle "camicie rosse"
repressa militarmente un anno fa. Il problema è che, se da una parte quel sangue
sembra davvero lontano, le cause che portarono alla battaglia per Bangkok non
sono affatto state affrontate. E continuare a nasconderle sotto il tappeto
potrebbe portare a ben di peggio nei prossimi mesi o anni.
Lo scenario pre-elettorale è questo. Abhisit, mai eletto primo ministro dal voto
popolare, è al potere dopo un gigantesco ribaltone parlamentare nel dicembre
2008, a sua volta venuto dopo due scioglimenti di governi fedeli all'ex premier
Thaksin Shinawatra. Il magnate delle telecomunicazioni, che forte della sua
enorme popolarità aveva sfidato lo status quo di un Paese da sempre controllato
dall'elite monarchico-militare, è tuttora in autoesilio dopo essere stato da un
colpo di stato nel 2006. Ma dall'estero continua a dirigere le politiche del
principale partito di opposizione Puea Thai - la sua candidata premier dovrebbe
essere Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin - promettendo un suo salvifico
ritorno in patria alle classi medio-basse, specie nelle popolose aree rurali del
nord-est, che costituiscono lo zoccolo duro del suo elettorato.
I sondaggi danno un testa a testa tra la coalizione di Abhisit e il movimento
pro-Thaksin. E' quasi certo che il primo partito in Parlamento sarà proprio
quest'ultimo: ma se non supera il 50 per cento e i partiti minori continuano a
schierarsi con Abhisit come ora, verrà formato un governo simile a quello in
carica attualmente. E allora, primo caso di probabile instabilità: le "camicie
rosse", sentendosi derubate, non farebbero fatica a riportare le folle in
piazza. Se invece il Puea Thai dovesse conquistare la maggioranza assoluta, per
l'establishment sarebbe un risultato scioccante.
In un certo, sarebbe la prova del fallimento di tutte le tattiche adottate
finora per convincere i thailandesi a scordarsi Thaksin. Lo hanno demonizzato,
indicato come il più corrotto e il più populista di tutti, accusato di voler
destituire la monarchia e pure di terrorismo, manovrando dall'esilio una
protesta che - nonostante le rassicurazioni sui metodi pacifici del movimento -
ospitava al suo interno anche una ristretta minoranza armata, della quale i
"rossi" non hanno mai riconosciuto l'esistenza. Thaksin non è più universalmente
popolare come lo era dieci anni fa, quando anche la classe medio-alta di Bangkok
era con lui. La continua demonizzazione a opera del sistema mediatico nazionale,
in mano alle elite di Bangkok, ha avuto un effetto anche sull'elettorato
tendenzialmente apolitico, rassicurato dalla faccia da bravo ragazzo del premier
Abhisit.
Ma lo spettro di una sua vittoria turba i sogni dell'establishment, e in
particolare delle forze armate che sostengono Abhisit. E' per questo che, negli
ultimi mesi, le voci su un colpo di stato si sono moltiplicate. I vertici
dell'esercito le hanno smentite pubblicamente - beh, lo fecero anche nei mesi
precedenti al colpo di stato del 2006. Prendendo per buona la loro parola, un
espediente per salvare la faccia e ottenere lo stesso effetto di un golpe ci
sarebbe: sfruttare un evento fuori dal comune per rimandare il voto, una volta
sciolte le Camere, e tirare avanti con un governo di transizione.
Un caso potrebbe essere quello delle ripetute scaramucce al confine con la
Cambogia per il tempio conteso di Preah Vihear - 17 morti nell'ultima serie, 11
lo scorso febbraio e un'altra ventina dal settembre 2008. Bangkok e Phnom Penh
si accusano a vicenda, ed entrambe soffiano sul fuoco del nazionalismo per scopi
di politica interna. Ma dato che la Thailandia è quella che più potrebbe
guadagnare da un rovesciamento dello status quo (il Preah Vihear è stato
assegnato alla Cambogia dall'Onu nel 1962), gli analisti tendono a vedere un
interesse di Bangkok nel tenere aperta una questione che legalmente era stata
regolata quasi cinquant'anni fa. E quindi: si andrebbe al voto, se quelle
scaramucce evolvessero in una minaccia alla sicurezza nazionale a ridosso delle
elezioni?
Di sicuro, la maggioranza in Parlamento e sistema giudiziario-militare stanno
preparando il terreno per il voto in ogni modo che possa favorire l'attuale
governo. Sono state introdotte modifiche alla legge elettorale per favorire i
voti di lista, una misura che favorisce la coalizione di Abhisit. Il premier -
che alcuni anni fa guidava il coro dello scandalo per le misure populistiche di
Thaksin - ha varato una serie di incentivi e agevolazioni economiche alle classi
medio-basse, con il chiaro tentativo di rosicchiare consensi al rivale. Dopo la
censura di decine di migliaia di siti considerati simpatizzanti con i "rossi",
si è passati ai bastoni tra le ruote: una settimana fa, tredici radio locali del
movimento fedele a Thaksin sono state chiuse per mancanza di licenza; deputati
del Puea Thai denunciano già la rimozione di manifesti elettorali dai muri di
Bangkok.
Su tutto questo aleggia l'innominabile figura di re Bhumibol Adulyadej, 83 anni
e sul trono dal 1946. Ufficialmente al di sopra della politica, il sovrano è
genuinamente venerato dai thailandesi ma anche protetto dalle leggi di lesa
maestà più severe al mondo: possono comportare fino a 15 anni di reclusione.
Abhisit ha pubblicamente invocato provvedimenti per punire chi trascina il re
nell'arena politica in vista del voto. Ed ergendosi a difensori della monarchia,
le forze armate hanno iniziato a usare la lesa maestà come clava politica. Il
capo di stato maggiore, generale Prayuth Chan-ocha, ha portato in tribunale
alcuni tra i maggiori leader delle "camicie rosse", in seguito a un comizio dal
palco. E ora, qualche giorno fa, anche Somsak Jiamtirasakul, uno storico
progressista tra i più famosi in Thailandia. Il messaggio è chiaro: chi vota
contro il governo attuale è contro la monarchia. E se vi state chiedendo se ci
saranno osservatori elettorali, il vicepremier Suthep Thaugsuban è già stato
chiaro: la Thailandia non ha bisogno della supervisione straniera.
Alessandro Ursic
Yamaha,
la beffa è in moto
di Riccardo Bocca
Un bilancio 2009 farlocco, con una serie di
costi sovrastimati. Obiettivo: risultare in rosso e avere la scusa per mandare a
casa i lavoratori. E trasferire tutto all'estero. La denuncia dei lavoratori
lombardi licenziati dalla multinazionale
Il presidio resiste dal 13 dicembre scorso. A
turno, i cassintegrati di Yamaha Motor Italia spa occupano tre gazebo nel
parcheggio accanto all'azienda. Scenografia della protesta: Gerno di Lesmo,
cuore della Brianza. A metà strada tra villa San Martino ad Arcore, proprietà
storica di Silvio Berlusconi, e la sua nuova residenza Gernetto. "L'Audi scura
del Cavaliere rallenta spesso davanti alle nostre tende", dicono i sindacalisti
Fim-Cisl, "ma il presidente non scende ad ascoltarci". "Ed è un peccato",
commenta Matteo Gaddi, responsabile per il nord di Rifondazione comunista:
"Scoprirebbe la sventura di lavoratori colpiti da un'azienda che, pur di
delocalizzare, ha tinto di rosso il proprio bilancio". Un'accusa respinta in
blocco dalla multinazionale Yamaha ("Il 2009 è stato il nostro anno peggiore"),
ma rilanciata dai sindacati: "Questa vicenda dovrebbe scuotere l'opinione
pubblica, e invece turba soltanto i parenti degli operai...".
Parole forti, figlie di episodi altrettanto pesanti. A partire da ottobre 2009,
quando Yamaha annuncia il funerale dello stabilimento. A fermare la produzione,
dice, è "la perdurante crisi economica mondiale", da cui deriva il trasferimento
all'estero. Un colpo imprevisto, per gli oltre 200 dipendenti. Proprio nel 2009,
va ricordato, Valentino Rossi vince con la Yamaha il campionato MotoGp. E anche
fuori dai circuiti il clima pare tranquillo: "L'agenzia Asapress", dice il
sindacalista Angelo Caprotti, "titolava "Yamaha, 2009 di successi". Per non
parlare del sito aziendale, che ci definiva leader di mercato".
Lodi surreali, visto lo stop alla produzione. Di colpo, i dipendenti scoprono
che 66 di loro verranno licenziati: 47 nell'area industriale e 19 in quella
commerciale. Niente cassa integrazione, nessuna possibilità di dialogo. Il
preludio di una protesta plateale: "Sei giorni trascorsi sul tetto della
fabbrica da quattro di noi". Un sacrificio ripagato, a breve, con il
riconoscimento almeno degli ammortizzatori sociali: due anni per gli operai, uno
per gli impiegati: "Ma il peggio doveva ancora venire", sottolineano gli operai.
E il 7 gennaio 2010, infatti, quando il sindacato firma l'accordo per la cassa
integrazione. Dopodiché, a luglio, il colpo di scena: "Abbiamo scoperto",
racconta Caprotti, "che nel bilancio 2009 Yamaha Motor Italia ha segnato 9
milioni 761 mila euro per oneri straordinari". Di questi, "2 milioni 621 mila
sono legati al blocco della produzione", mentre altri 7 milioni 140 mila
risultano come "accantonamento prudenziale per oneri e rischi legali legati
all'accordo con i lavoratori, oltre che per eventuale ripristino del sito". Una
cifra enorme che Lorenzo Maresca, oggi direttore generale di Yamaha Italia,
spiega così: "E' una stima totale, con voci che possono sfuggire ai non addetti
ai lavori...".
Parole bocciate dai cassintegrati: "I nostri consulenti hanno verificato che
l'accordo costa all'azienda 736 mila euro: un decimo di quanto indicato". E poi
c'è la relazione dell'analista finanziario Andrea Bracciali, che ha
vivisezionato il bilancio 2009 trovando che Yamaha Italia "godeva di ottima
salute", "fortemente capitalizzata con un patrimonio netto superiore ai 35
milioni", e avendo ripianato "la situazione debitoria verso le banche".
Nessuno, sia chiaro, smentisce la recessione che nel 2009 "ha costretto Yamaha a
rivedere i propri piani", come dice Maresca. Ma ciò non basta a placare i 30
ancora cassintegrati (altri hanno trovato impieghi altrove). Anche perché
ricevono la strana solidarietà dei 56 attuali impiegati dell'azienda. I quali
hanno firmato una lettera titolata "Noi, un gruppo di dipendenti che ha a cuore
il futuro di Yamaha". La sintesi è questa: protestate pure, ma senza danneggiare
la nostra fabbrica...
Quei
vecchi in lotta sul Tevere
di Gianluca Di Feo
Anziani, famiglie e bambini che vivono da più
di mezzo secolo in un borgo costruito sulla foce del fiume. Ora vogliono
cacciarli e abbattere tutto. Per fare spazio agli yacht dei nuovi ricchi. Ma
loro resistono
Foto
di Stephanie GengottiEra un inno di gioia, cantato dalla folla stracciona che
animava un dedalo di case improvvisate: "Ci basta una capanna per vivere e
morire...". Ricordate? "Miracolo a Milano", il capolavoro surreale di Vittorio
De Sica che proprio sessant'anni fa raccontava con il sorriso il dramma di
un'Italia impoverita, con famiglie borghesi, orfani e barboni costretti a
inventarsi la loro città precaria sfidando l'ira di immobiliaristi, speculatori
e forze dell'ordine. Negli stessi giorni in cui "Miracolo a Milano" veniva
girato, sugli argini della foce del Tevere nasceva il borgo fotografato in
queste pagine: un pugno di edifici bianchi e bassi, simile a quelli che si
vedevano nei film western e per questo chiamato spesso "villaggio messicano". Ci
abitavano pescatori, che così avevano casa e bottega insieme: dalle finestre
potevano abbassare le reti a bilanciere direttamente nel fiume, ben più pulito
di oggi. E accanto a loro si insediò l'ultima ondata di sfollati costretta ad
allontanarsi sempre più da Roma, come se la corrente l'avesse gettata fino al
mare.
Quel posto aveva un nome nobile e tecnologico: l'Idroscalo di Ostia. Richiamava
l'epopea di crociere atlantiche, delle epiche ali littorie del regime fascista e
dei colossali idrovolanti che con ardore futurista negli anni Trenta univano i
continenti decollando dall'acqua. Una città per sentirsi moderna doveva avere un
idroscalo e quello della capitale imperiale fu realizzato lì, dove l'estuario
rende placido anche il mare. Nel dopoguerra quadrimotori e jet mandarono in
pensione gli idrovolanti, offrendo le rive inutilizzate all'occupazione dei
pescatori, poi affiancati dai senzatetto. Che, nel giro di decenni, gli hanno
dato la forma di un vero paese: case, strade, spazi comuni per i bambini e
persino una chiesa. Insomma, una comunità in piena regola che con il condono
craxiano del 1985 aveva sperato di diventare legale, sognando a occhi aperti per
le promesse elettorali di tanti politici locali.
I problemi invece sono due, uno formale e l'altro sostanziale, e ancora oggi
restano insuperabili. Il primo è semplice: i terreni appartengono al Demanio,
che ora li ha ceduti al Comune. Molti degli abitanti hanno sempre pagato i
diritti per l'occupazione delle aree, ma non possono ottenere sanatoria e
legalizzazione di edifici sorti su suoli statali. Il secondo è molto più
concreto: il fiume non rinuncia a quelle terre e a ogni piena minaccia di
riconquistarle. Invade il borgo, allaga gli edifici, trasforma le strade in
paludi. La gente di qui lo sa: è sempre stato così. Quando arriva l'onda
rimbocca le maniche, barrica le porte, poi unisce le forze e aiuta chi è stato
meno fortunato ad asciugare e ripulire. I danni materiali sono limitati e non si
ricordano vittime, mentre nel resto d'Italia l'abusivismo fa strage a ogni
temporale nel lassismo collettivo. Invece negli ultimi due anni sgomberare "la
favela di Ostia" è diventata una priorità del Comune di Roma, con le ruspe che
si sono fatte sotto nel 2010 per i primi abbattimenti, la mobilitazione degli
abitanti e un tavolo di trattativa aperto dal sindaco Gianni Alemanno e subito
dimenticato.
Perché questa accelerazione? Il fiume non scorre più veloce, anche se le grandi
piene degli ultimi anni hanno ricordato al mondo quanto il Tevere sappia fare
paura. Ma pochi pensano che la voglia di sbaraccare sia ispirata da istinti
filantropici o volontà legalitarie e rispondono sussurrando un nome inglese
molto glamour: waterfront. E' il progetto di riqualificazione del litorale
romano, che con una bacchetta magica vuole trasformare la foce dell'Idroscalo e
quella costa dall'aria degradata in un paradiso dorato della nautica da diporto.
Scali per yacht da nababbi, negozi e alberghi di lusso, condomini in stile
Montecarlo, cantieri per fuoribordo: un piano benedetto da Comune di destra e
Regione ancora di sinistra, con gli investimenti di alcuni dei grandi
immobiliaristi capitolini. L'idea è semplice e potenzialmente assai redditizia:
offrire ormeggi per i nuovi ricchi, a pochi chilometri dall'aeroporto di
Fiumicino e da Roma. Magnati che così potranno volare da Mosca o da Londra, fare
shopping in via Condotti e poi salpare sul loro panfilo verso la Sardegna, le
Baleari o la Grecia.
Il waterfront rischia di essere sporcato dal "villaggio messicano", una macchia
di casupole che nell'ultimo periodo sono sempre meno curate: "Da quando si parla
di demolizioni molti non spendono più per imbiancare o migliorare, temono che
sia inutile", spiega la signora Anna, che abita qui da 15 anni. Era una
commerciante di Ostia, "con un attico vista mare": quando gli affari sono
crollati, l'unica possibilità che ha avuto è stata trasferirsi qui. E' una sorte
comune a molti: che non hanno i soldi per gli affitti record della periferia
romana e non possono offrire alle banche garanzie per i mutui. Ma la signora
Anna, come gran parte delle 450 famiglie residenti, si irrita a sentire parlare
di baracche: "La mia è una vera casa di 90 metri quadrati, ordinata, pulita, con
tutti i servizi. Adesso che sono pensionata il giardino è la mia vita. In questi
giorni sono fiorite rose, calle e papaveri grandissimi: domenica mattina ho
scelto i migliori per portarli in chiesa". Don Fabio, un sacerdote toscano che
ha fatto dell'Idroscalo la sua terra di missione, è l'unica voce rispettata
dagli abitanti. La sua cappella è diventata il cuore della comunità, aperta a
tutti: credenti e non, italiani e stranieri. "Qui c'è una grande solidarietà e
un'integrazione che non guarda alla nazionalità", spiega la signora Anna.
Studenti, turisti e scrittori si spingono fino all'Idroscalo in pellegrinaggio
nel luogo dove è stato ucciso Pier Paolo Pasolini, a poche centinaia di metri
dalle casette; altri in questa borgata fuori dal tempo cercano vite violente a
metà strada tra "I soliti ignoti" e "Romanzo criminale". Invece Stephanie
Gengotti ha scelto di seguire le storie degli umili, che da tutto il mondo il
Tevere ha trasportato fin qui, fotografandone soprattutto i volti. Come Juan
Carlos, studente fuggito dal Cile di Pinochet che ora vive con la moglie Melania
e ci tiene a mostrare la devozione per Padre Pio: nel Mediterraneo ha fatto
mille lavori, tra contrabbando e imbarchi mercantili. O Lauretta: vedova e
casalinga, che cinque anni fa ha ceduto la casa popolare di Ostia a una coppia
di parenti appena sposati e ne ha comprata una qui. O Dante, "il Sordo": lui
viveva in un alloggio che si era costruito da solo, con la sua corte di 50 cani
e 30 gatti; il nuovo porto - prima opera del futuro waterfront - l'ha
inghiottita e per mandarlo via lo hanno "compensato" con una baracca. O la
signora Ida, negoziante, che si fa ritrarre con orgoglio nella cucina della sua
villetta: "Quando 19 anni fa ho comprato questo posto per 53 milioni di lire,
sembrava un pollaio. Con tanti sacrifici l'ho fatta diventare una casa vera...".
Colpiscono i due uomini anziani della foto qui sopra: i loro sguardi e il
giubbotto con il collo di pelliccia, come quello agognato dai due barboni di
"Miracolo a Milano" che litigavano per esprimere il desiderio più costoso
"Anch'io un milione di milioni... Più uno!". Un'altra Italia, che all'Idroscalo
si può incontrare ancora tra solidarietà e furbizie, onestà esemplare e piccola
delinquenza. Prima che i milioni piovano anche qui, cancellando la dignità di
queste coloratissime illusioni di casa sotto una colata di cemento, molto più
grigio e molto più ricco.
Lega,
censura nel Veneto
di Mauro Munafò
La giunta comunale di Castelfranco (vicino a
Treviso) nega la sala della biblioteca per la presentazione di un libro critico
verso il Carroccio. La scusa: «Parla di politica e sotto elezioni non si può»
Il titolo del volume è stato quanto mai profetico.
Solo che adesso al "Libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere" si
dovrebbe aggiungere come, di questo lavoro, la Lega non voglia neppure si
discuta.
Ne sa qualcosa l'autrice, la giornalista e blogger Eleonora Bianchini, a cui la
giunta comunale leghista di Castelfranco Veneto ha negato la sala della
biblioteca per la presentazione del suo lavoro. La ragione? Siamo sotto elezioni
e certi incontri non sono graditi. Una giustificazione definita "una farsa" dal
Pd locale.
La vicenda inizia quando l'associazione Porte Aperte del comune del trevigiano
invita la Bianchini a parlare del suo libro, un lavoro molto dettagliato sulle
vicende del partito di Bossi, dei suoi scandali e delle sue contraddizioni.
Luogo adibito all'incontro, fissato per lunedì nove maggio, è la sala della
biblioteca comunale. Passano pochi giorni e l'associazione riceve un'inattesa
chiamata dal Comune che, il giovedì precedente, nega la disponibilità della
sala. La notizia viene riportata dalla stampa locale, insieme alla decisione del
Partito Democratico di Castelfranco di offrire la sua sede per la presentazione.
"Riteniamo questo modo di governare le istituzioni un abuso di potere e un
sistema indegno di un paese democratico - afferma in un comunicato la presidente
del circolo Pd Laura Viola - Siamo arrivati al punto in cui la censura è
divenuta un fatto conclamato e sconcertante".
In poche ore viene quindi cambiato il programma e parte la promozione
dell'evento (con locandine e annunci), ma la polemica non si ferma. Basta una
nottata perché il sindaco leghista Dussin ci ripensi e provi a smontare il caso
dando il suo benestare all'uso della sala. L'esponente leghista ribatte anche
sulle accuse di censura: "Avevo suggerito di rinviare la presentazione a
elezioni finite - dichiara a La Tribuna - non è stata censura". La posizione di
Dussin viene però smentita dal Pd che segnala come l'anno precedente, sempre in
periodo di elezioni, la sala sia stata usata per un appuntamento elettorale del
centrosinistra, con ospite il sindaco di Venezia Orsoni.
La scarsa apertura della Lega al confronto con chi sostiene idee differenti non
è però una novità. "Da quando il libro è stato pubblicato mi è stata lanciata
contro ogni tipo di offesa da parte degli esponenti leghisti - spiega Eleonora
Bianchini - Ma queste offese sono sempre lanciate a distanza, nessun
rappresentante viene mai a discutere, anche quando viene invitato". Sempre nel
trevigiano un'altra amministrazione leghista, quella di Preganziol, è diventata
famosa per aver fatto ritirare le copie di 'Gomorra' dalla biblioteca quando
Saviano ha parlato di collegamenti tra 'ndrangheta e Lega Nord. Non contenta di
questa celebrità, poche settimane fa l'amministrazione di Preganziol ha anche
negato la possibilità di usare la sala comunale per la presentazione di un libro
critico nei confronti di Umberto Bossi. Anche alla luce di questi fatti la
Bianchini lancia una nuova sfida alla Lega Nord. "Il 14 giugno presenterò il
libro alla libreria Piola di Bruxelles e vorrei ci fosse l'europarlamentare
Mario Borghezio. E' possibile confrontarsi con i leghisti?".
4 Maggio
Marina Forti
La paura dopo il blitz
È il giorno delle accuse e degli imbarazzi.
«Nonostante anni e anni di negazioni, alla fine Osama bin Laden è stato
trovato sul territorio pakistano.» Per Islamabad tutta questa faccenda è
imbarazzante, diceva ieri l'editoriale di The News, quotidiano pakistano in
lingua inglese, e ben rappresenta lo stato d'animo prevalente nel paese.
Imbarazzo aumentato da un dettaglio emerso ieri: il governo e i vertici
militari pakistani sono stati tenuti all'oscuro dell'imminente raid delle
forze speciali Usa per uccidere il leader di al Qaeda - anzi, sono stati
informati solo a cosa fatte, a riprova della scarsa fiducia che Washington
nutre verso il suo alleato.
Il capo
della Cia Leon Panetta ha dichiarato che la scelta è stata deliberata: se
glielo avessimo detto prima, «c'era il rischio che loro avvertissero
l'obiettivo». Le accuse si moltiplicano. Il consigliere della Casa Bianca
per l'anti-terrorismo, John Brennan, ha detto che «stiamo indagando su come
(bin Laden) abbia potuto nascondersi là così a lungo», «sotto gli occhi di
tutti»: è «inconcepibile» che non abbia avuto un «sistema di sostegno» in
Pakistan.
Alle accuse ha voluto rispondere
il presidente pakistano Asif Ali Zardari, con un commento pubblicato ieri
mattina dal Washington Post: definisce bin Laden «una continua minaccia al
mondo civile», «la fonte del peggiore male del nuovo millennio», e
sottolinea che il Pakistan «è probabilmente la più grande vittima del
terrorismo al mondo». Zardari sottolinea che «gli eventi di domenica non
sono stati un'operazione congiunta» ma rivendica «un decennio di
cooperazione e partnership tra Stati uniti e Pakistan», che «ha portato
all'eliminazione di Osama bin Laden». E sottolinea che il Pakistan «ha
pagato un prezzo enorme per la sua lotta al terrorismo»: più soldati
pakistani sono caduti di tutti quelli della Nato, duemila ufficiali di
polizia, 30mila civili innocenti, «una generazione di progresso sociale
perduta» - senza contare che al Qaeda ha tentato due volte di uccidere sua
moglie, Benazir Bhutto, «la donna leader di un governo democraticamente
eletto, progressivo, moderato, pluralistico», che ha pagato con la sua
vita.
Le parole di Zardari sono dirette all'audience di Washington. Saranno
piaciute anche ai vertici militari del Pakistan? Il portavoce dell'esercito,
l'istituzione più potente del paese, non ha fatto alcun commento ufficiale
dalla notte di domenica - ma funzionari altolocati del servizio di
intelligence militare Isi (che Benazir Bhutto aveva definito «uno stato
nello stato») hanno dichiarato ieri, in modo anonimo, che nell'agenzia c'è
imbarazzo e un alto ufficiale militare ammette che la presenza di bin Laden
a Abbottabad segna «un fallimento di intelligence» (pakistana).
Molti si aspettano che gli Stati uniti
ora aumentino la pressione, magari a tirare fuori altri grandi ricercati -
il vice di Osama bin Laden nel gruppo originario di al Qaeda, Ayman al
Zawahiri. Ma questo rimanda a un altro aspetto dell'imbarazzo pakistano -
anche questo sottolineato dall'editoriale di The News: «Ci potranno essere
altri tentativi di dare la caccia a figure chiave della rete di al Qaeda in
altri centri urbani. Non è una prospettiva incoraggiante, considerate le
implicazioni per la sovranità nazionale». Già: quattro elicotteri militari
Usa arrivano e ripartono un gruppo di militari stranieri compie un raid e
uccide cinque persone...
Nuovi dettagli intanto emergono sul raid della notte di domenica. Viene reso
noto che bin Laden, indicato dall'intelligence Usa con il nome in codice
«Geronimo», è stato sparato due volte. Che non era armato, e che con lui
sono stati uccisi due fratelli, kuweitiani di origine pakistana, che agivano
come corrieri per il leader di al Qaeda, oltre a un figlio di bin Laden e a
una donna. Che i pakistani non saranno stati avvertiti, ma il presidente
Barack Obama e il suo staff alla casa Bianca hanno seguito l'operazione in
diretta, attraverso le mini telecamere che gli agenti speciali avevano sulla
fronte. E ieri sera a Washington si discuteva sull'opportunità di diffondere
le immagini, che ritrarrebbero sia il leader di al Qaeda assassinato, con un
colpo in testa e uno al torace, sia il «funerale islamico» che i militari
Usa hanno inscenato sulla portaerei dalla quale avrebbero gettato in mare il
cadavere dello sceicco saudita.
Le preoccupazioni di chi teme che i dubbi dell'opinione pubblica
internazionale (araba e islamica soprattutto) sull'uccisione di «ObL»
sembravano prevalere su quelle di chi ha paura di un nuovo effetto «Abu
Ghraib», le foto delle torture su prigionieri musulmani che scatenarono
indignazione e rivolte nel mondo islamico.
L’Italia migliori le condizioni di rifugiati, richiedenti asilo e
migranti in fuga dal Nord Africa
In un documento di MSF le testimonianze dei migranti
Roma/Bruxelles
– Lo scorso fine settimana un totale di 12 imbarcazioni con 2.665
rifugiati, richiedenti asilo e migranti è approdato in Italia, mentre
altre 715 persone sono state salvate da una barca in avaria nel canale
di Sicilia. I tre quarti di questi mezzi trasportavano persone in fuga
dal conflitto in Libia. La risposta che le autorità italiane hanno messo
in campo per accoglierle è stata del tutto inadeguata e ciò ha
ulteriormente aggravato la loro sofferenza. L’organizzazione
medico-umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere (MSF) ribadisce
alle autorità italiane di migliorare le condizioni di accoglienza per i
nuovi arrivati, in particolare per i più vulnerabili: le donne e i
bambini, i minori non accompagnati e le persone che sono state vittime
di violenza.
“Sebbene sia risaputo che il numero di imbarcazioni che arrivano
aumentino con il sopraggiungere dell’estate e che adesso la guerra in
Libia costringa molte migliaia di migranti alla fuga, le autorità
italiane continuano a fornire una risposta limitata e inadeguata”,
dichiara Rolando Magnano, Capomissione di MSF per i progetti
sull’immigrazione in Italia. “Lo scorso fine settimana le autorità non
avevano nemmeno coperte né quantità di acqua a sufficienza per le
persone arrivate in ipotermia o sotto schock. Centinaia di persone sono
state costrette a dormire all’aperto, mentre altre nei centri
sovraffollati, dove utilizzavano materassi sporchi, non c'erano
abbastanza asciugamani, coperte o sapone. Tutto ciò è inaccettabile”.
Questi nuovi arrivi dello scorso fine settimana si sono aggiunti alle
27.000 persone che hanno già raggiunto l’Italia via mare quest’anno.
Molti migranti sono stati spinti ad avventurarsi in un pericoloso
viaggio in mare a seguito delle ribellioni e della violenza esplose nel
dicembre 2010 in Nord Africa. La maggior parte delle persone arrivate
nei primi mesi del 2011 erano tunisine, ma il numero di coloro che
fuggono dalla Libia sta aumentando sempre di più, come dimostra lo
sbarco del 19 aprile, il più grande per il numero di migranti stipati
nella stessa imbarcazione mai avvenuto sull'isola di Lampedusa. La
maggior parte delle persone che giungono dalla Libia sono originarie di
Somalia, Eritrea, Sudan e Nigeria: molte sono già fuggite dalla violenza
nei loro rispettivi paesi, prima ancora di scappare dalle disumane
condizioni di detenzione o dall’estrema violenza presente in Libia.
“Coloro che arrivano dalla Libia raccontano delle violenze e delle
minacce che hanno subito, ad alcuni è stato sparato, altri sono stati
picchiati o hanno visto con i propri occhi i loro amici morire”,
aggiunge Rolando Magnano. “Altre persone ci raccontano delle tremende
condizioni di detenzione presenti là, come nel caso di 65 persone
trattenute in una piccola stanza di 40 metri quadrati per un mese con
pochissima acqua a disposizione. Altre ancora, hanno visto affogare i
loro parenti mentre affrontavano il pericoloso viaggio in mare per
raggiungere l’Italia. Tuttavia, una volta che arrivano qui la sofferenza
semplicemente continua. Aumentano ansia e depressione e alcune donne
raccontano di aver troppa paura per dormire, per cambiarsi i vestiti o
persino andare in bagno, perché non vengono separate dagli uomini in
modo adeguato”.
Nei
giorni scorsi 1200 migranti erano stipati nel CSPA (Centro di Soccorso e
Prima Accoglienza) di Lampedusa, che può accoglierne solo 800. Di
solito, dopo aver trascorso qualche giorno a Lampedusa, i migranti e i
rifugiati sono poi trasferiti nelle nuove strutture di accoglienza
italiane, come a Cinisi, Manduria, Caltanissetta e Mineo. Secondo quanto
prevedono gli standard europei, l’Italia ha il dovere di fornire ai
richiedenti asilo che hanno subito violenza un trattamento prioritario e
adatto ai loro bisogni, inclusa l’assistenza medica e il supporto in
salute mentale.
Attualmente queste misure sono del tutto inadeguate. Inoltre, la
separazione fra donne e uomini è insufficiente e i migranti ricevono
scarse informazioni sui loro diritti e sulle procedure legali. A ciò si
aggiunge il fatto che i bambini e i minori non accompagnati sono
trattenuti in centri chiusi simili a “carceri”, il che non giova affatto
alle condizioni di un minore. Una prima valutazione in merito alla
salute mentale compiuta da MSF nei centri di accoglienza nel mese di
aprile, evidenzia nei migranti il rischio di una consistente ansia,
depressione e disperazione, uno stato a cui contribuiscono in parte
anche le condizioni inaccettabili e di totale incertezza che stanno
affrontando. “Mentre in Europa continuano le discussioni politiche sul
futuro dei migranti dei rifugiati, proseguiranno gli sbarchi e le
persone continueranno a soffrire inutilmente. A questo punto l’Italia
deve assolutamente fare un passo avanti ed assumersi la responsabilità
di garantire condizioni di accoglienza adeguate e umane a tutte quelle
persone che arrivano esauste sulle nostre coste”, dichiara Loris De
Filippi, Direttore delle Operazioni di MSF.
MSF
ha cominciato a fornire assistenza medica e supporto mentale in Italia a
migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel 1999, in risposta alla crisi
del Kosovo. Dal 2002 al 2009 MSF ha lavorato a Lampedusa e in Sicilia,
entrambi punti di approdo per i migranti. Da febbraio 2011 MSF è
intervenuta per garantire il triage medico dei pazienti nel porto di
Lampedusa e per seguire il loro stato di salute nei centri di
accoglienza dell’isola. Da febbraio MSF ha effettuato oltre 1300 visite
mediche e ha distribuito 4.500 kits igienico-sanitari e lenzuola e ha
prestato assistenza a 17.000 migranti sbarcati (più di 500 donne e più
di 300 bambini). Soltanto nello scorso fine settimana MSF ha distribuito
1000 coperte e 900 bottiglie d’acqua (450 litri in totale).
Sicilia, il paradosso dei forestali
"841 ufficiali e solo 14 agenti"
Il boom dal 2007, con l'inizio delle promozioni automatiche per
anzianità. Il direttore: "In realtà avremmo bisogno di un organico di
almeno 1300 persone". La Regione pensa a nuove assunzioni per evitare la
paralisi
di
ANTONIO FRASCHILLA
È il
corpo di polizia più pazzo d'Italia, dove tutti comandano ma non c'è
nessuno che possa obbedire. È quello della forestale della Regione
Siciliana, composto da ben 841 tra commissari e ispettori, cioè
ufficiali e sottufficiali, che sulla carta dovrebbero coordinare una
truppa di 14 agenti. Qui tutti hanno i gradi e le stellette, e nessuno è
soldato semplice. Il risultato? Non solo in Sicilia non è rimasto più
nessuno da "comandare", ma ci sono più commissari e ispettori che in
tutto il corpo forestale dello Stato, dove gli ufficiali sono 428 a
fronte di 7111 agenti.
Un paradosso tutto siciliano, che la Regione guidata da Raffaele
Lombardo ha appena scoperto facendo una ricognizione della pianta
organica. E adesso, per metterci una pezza, si cerca disperatamente una
truppa da far comandare ai tanti ufficiali, con l'amministrazione che
vorrebbe riqualificare del personale interno, visto che la Regione ha
appena assunto nei ruoli 5400 precari, chiaramente senza alcun concorso.
"Per fortuna una norma prevede in questi casi l'assegnazione di mansioni
anche inferiori ai graduati, in caso contrario avrei dovuto già chiudere
il corpo, rischio che rimane tale perché in tutto ho un organico di 848
persone e ne ho bisogno di almeno 1.300", dice il neo direttore della
Forestale, Pietro Tolomeo, che si è trovato sul tavolo i dati che hanno
messo nero su bianco questa assurdità, iniziata durante gli anni dall'ex
governo Cuffaro: precisamente il 20 aprile 2007, quando è stato
consentito l'avvio di promozioni automatiche con la semplice anzianità
di servizio.
Il paradosso però adesso è sotto gli occhi di tutti.
Nel dettaglio il direttore Tolomeo guida un comando nel quale ci sono
148 commissari che guadagnano circa 2.400 euro netti al mese (in
organico dovrebbero essere solo 80), 693 ispettori con stipendio da
2.100 euro al mese (in organico dovrebbero essere 200) e solo 14 tra
sovrintendenti e agenti con stipendio da 1.400 euro. Secondo la pianta
organica, che sempre sulla scia dei paradossi siciliani è stata fissata
con lo stesso decreto che promuoveva tutti, gli agenti in ruolo
dovrebbero essere 1.100. Ed è proprio su quest'ultimo numero che
l'amministrazione e perfino i sindacati si appigliano ora per
incrementare l'organico.
Gli ufficiali e i sotto ufficiali, infatti, si lamentano perché svolgono
mansioni che non sono di loro competenza: "Io ho 50 anni è sono
costretto da solo a fare il lavoro dell'agente e del sovrintendente -
dice l'ispettore Gerlando Mazzà, del Cobas-Codir - Qui in passato sono
stati fatti sprechi ed errori, ma le conseguenze le stiamo pagando noi,
perché con un organico ridotto e così squilibrato nessuno può avere
ambizioni di carriera".
Numeri alla mano, comunque, anche con un organico "ridotto" a 848 unità,
la Sicilia non si può lamentare rispetto ad altre regioni d'Italia che
hanno una densità boschiva certamente superiore rispetto a quella
dell'isola: a esempio, in Veneto i berretti verdi sono 425, tra graduati
e agenti, in Toscana 630. Per non parlare della Valle d'Aosta o del
Friuli Venezia Giulia, che nonostante le Alpi hanno corpi di polizia
forestale composti rispettivamente da 157 e 298 unità.
Benzina, nuovo record storico
La verde a un passo da 1,6 euro
I
distributori Tamoil alzano il prezzo a 1,599 euro al litro. In questo modo,
secondo le rilevazioni di Staffetta Quotidiana, la media nazionale arriva a
sfiorare un altro massimo storico. I consumatori: "Aumenti assurdi, in un
anno +410 di spesa"
ROMA -
Nuovo record storico per il prezzo della benzina che, secondo le rilevazioni
di Staffetta Quotidiana, sfiora la soglia di 1,6 euro al litro nella media
nazionale.
Nei distributori Tamoil, infatti, il prezzo alla pompa è salito a 1,599 euro
al litro. Con l'aggiustamento dei prezzi della compagnia libica, aumenta la
media ponderata tra i diversi marchi: il prezzo della benzina guadagna 1
millesimo a 1,589 euro al litro, mentre resta stabile il gasolio a 1,495
euro al litro.
I prezzi medi regionali restano sostanzialmente invariati con Piemonte e
Veneto sempre a guidare la classifica con una media di 1,595 euro al litro
sulla benzina e 1,496 euro al litro sul diesel. Valori massimi in Provincia
autonoma di Bolzano con la verde a 1,632 euro al litro e il gasolio a 1,533
euro al litro. Discorso a parte nelle Regioni dove vige l'addizionale
regionale (Abruzzo, Marche, Liguria, Campania, Molise, Calabria e Puglia)
dove la media della benzina risulta più alta, con la Puglia a fare da
battistrada a quota 1,643 euro al litro.
Intanto ieri sul mercato del Mediterraneo, nella prima sessione dopo due
giorni di chiusura delle contrattazioni, si è registrato un tonfo dei
prezzi. La benzina ha perso 17 dollari la tonnellata a quota 1.145, il
gasolio 15 a 1.054. L'euro ha perso leggermente terreno rispetto al dollaro
e così per i compratori europei il prezzo della benzina si attesta a 585
euro per mille litri (-6), quello del gasolio a 603 (-6).
Le associazioni dei consumatori giudicano "inaudita" e "immotivata", davanti
al calo del petrolio, la ripresa del prezzo della benzina. "Neanche quando
nel luglio 2008 il greggio è schizzato a 148 dollari la benzina ha mai
raggiunto prezzi simili", affermano Adusbef e Federconsumatori,
sottolineando che nel 2008, anno dei massimi petroliferi, i listini si
attestavano a 1,56 euro al litro. "Il sovrapprezzo intollerabile genera
immensi guadagni spartiti tra la filiera petrolifera e l'erario, per via
dell'aumento della tassazione. La filiera petrolifera guadagna 1 miliardo e
92 milioni di euro in più, mentre l'Erario percepisce 468 milioni di euro
annui in più. A farne le spese - denunciano le due associazioni- sono,
ancora una volta, gli automobilisti che, rispetto allo scorso anno, hanno
subito per i carburanti un aumento di 240 euro in più annui per i soli costi
diretti, a cui si aggiungono ricadute di 170 Euro per i costi indiretti,
dovute al fatto che buona parte dei beni è trasportata su gomma. Per un
totale di ben +410 euro".
I rifiuti di Napoli? Tutti in Sicilia
di Marco
Ratti e Michele Schinella
In pochi mesi una montagna
di immondizia è stata trasportata dalla Campania alla discarica di Mazzarrà
Sant'Andrea. Per un giro di affari da sei milioni di euro. Ma
dell'operazione nessuno sembra essere responsabile
(02 maggio 2011)
La
discarica di Mazzarrà Sant'Andrea
Nessuno se
ne era accorto. Cittadini, autorità comunali, amministrazioni provinciali e
regionali. Tutti adesso giurano e spergiurano: "Non ne sapevamo nulla".
Eppure una carovana di diciotto tir traboccanti di rifiuti partiva ogni
giorno dalla Campania, si metteva in fila al porto e attraversava lo stretto
di Messina.
Una volta sbarcati in Sicilia, questi bestioni percorrevano una sessantina
di chilometri, fino al paesino di Mazzarrà Sant'Andrea, dove una discarica
era pronta ad accogliere una montagna di immondizia, circa 500 tonnellate,
quasi la metà di quella prodotta a Napoli in 24 ore.
Tutto questo si è ripetuto dal 22 febbraio al 14 aprile, sabati e domeniche
compresi. E qualcosa di molto simile è accaduto pure dal 17 gennaio al 22
febbraio, anche se resta da ricostruire con precisione il tragitto seguito
dalla monnezza in questo periodo. Non è detto che l'andirivieni sia finito
qui, tanto che è in corso una trattativa per altre assegnazioni. Ma già ora
nei registri il totale fa 31.500 tonnellate di rifiuti.
La bomba l'ha fatta esplodere Centonove, un settimanale regionale, con quel
"Pattumiera Sicilia" sbattuto in prima pagina. Era il 25 marzo, ma la
vicenda non è ancora chiarita. Quali rifiuti sono finiti a Mazzarrà?
Servivano delle autorizzazioni? Perché proprio in Sicilia, dove è stata
decretata l'emergenza rifiuti fino al 2012? E ancora: qual è la strada che
ha preso la monnezza sbarcata sull'isola dal 17 gennaio al 22 febbraio?
Possiamo considerare questa storia finita, o potrebbe riprendere di nuovo
tra qualche settimana?
I diretti interessati, naturalmente, sapevano tutto. Il contratto è stato
sottoscritto dalla Sapna, la società della Provincia di Napoli che ha il
compito di gestire il ciclo dei rifiuti, con la Vincenzo D'Angelo srl di
Alcamo (Trapani) e la Profineco spa con sede a Palermo e stabilimento a
Termini Imerese. Nell'accordo si parlava di circa 200 euro a tonnellata. Un
are da più di 6 milioni di euro, se si moltiplica questo importo per la
montagna di rifiuti portata sull�isola.
Il trasferimento dell'immondizia era affidato a due aziende del Salernitano,
la Adiletta logistica scarl di Nocera Inferiore e la Trasporti San Marino
società cooperativa, che solo nel periodo che va dal 22 febbraio al 28 marzo
hanno utilizzato 593 camion.
Il percorso era questo: caricavano negli Stabilimenti di tritovagliatura e
imballaggio rifiuti (Stir) di Giugliano e Tufino, in provincia di Napoli, e
portavano tutto nella discarica di Mazzarrà, gestita dalla Tirrenoambiente,
una società a capitale misto pubblico-privato. Un lavoro con orari
massacranti per gli autotrasportatori, che però avevano il loro tornaconto.
"Facimmu na vita di merda, ma in questo periodo guadagniamo bene", ammette
uno degli autisti. Che rivela che per ogni viaggio fatto, oltre al fisso si
metteva in tasca altri 230 euro. "Più viaggi riusciamo a fare, più
guadagniamo".
Escluse le imprese e i lavoratori coinvolti, pare che nessun altro fosse a
conoscenza di quel che portavano questi tir. Dalla Regione Campania fanno
sapere che "non è stata fatta alcuna intesa con la Regione Sicilia per il
trasferimento dei rifiuti e, in ogni caso, questi trasferimenti fanno capo
alle società provinciali". Dall'altra parte dello Stretto cambiano le parole
ma la sostanza è la stessa. "Tutto quello che sappiamo lo abbiamo appreso
dalla stampa", ammette il dirigente generale del dipartimento Ambiente della
Sicilia, Vincenzo Emanuele. Che però tiene a ricordare che "abbiamo chiesto
a tutte le Province di informarci quando arriveranno rifiuti dalla Campania,
da altre parti d'Italia o da qualunque parte del mondo". E per quel che è
successo a Mazzarrà è convinto che "per il tipo di rifiuti trasportati non
c'è alcun obbligo di autorizzazione da parte della Regione e, in ogni caso,
la vigilanza spettava alla Provincia".
A dire il vero, il sospetto che qualcosa alla Regione Sicilia si sapesse
anche prima è legittimo.
Il 14 dicembre 2010, prima di firmare l'accordo con la Sapna, Vincenzo
D'Angelo aveva scritto al dipartimento competente per avere un parere
preventivo sulla necessità di un accordo tra Regioni per quel tipo di
rifiuti. La risposta è arrivata una settimana dopo, il 21 dicembre
(protocollo numero 50/34/2). Il documento diceva che non era necessaria
un'intesa ed era firmato dallo stesso Emanuele. L'assessore siciliano ai
Rifiuti e all'energia, Giosuè Marino, spiega che "l'assessorato si è
limitato a richiamare il pieno rispetto della normativa vigente in materia
di trasferimento di rifiuti urbani tra regioni diverse".
2 maggio
Ticket sui farmaci sempre più cari - Quasi un miliardo a carico dei
cittadini
I dati del Rapporto di Federfarma sul 2010: la quota a carico dei
consumatori è passata dal 6,6% nel 2009 al 7,6% nel 2010.Ogni utente paga
una media di 16,8 euro l'anno. Nei prossimi mesi la situazione non accenna a
migliorare. Cala invece la spesa per il Ssn
di VALERIA PINI
Ticket
sui farmaci sempre più cari per i cittadini. Nel 2010 gli italiani hanno
speso quasi un miliardo di euro, con un netto incrementato rispetto all'anno
precedente. L'incidenza sulla spesa lorda delle quote a carico dei
consumatori è passata dal 6,6% del 2009 al 7,6%. Nel 2010 ogni utente ha
ritirato in farmacia in media 18 confezioni di medicinali a carico del
Servizio sanitario nazionale, ma è aumentata la somma che ha pagato di tasca
propria. Risparmia però, rispetto al 2009, il Ssn che ha registrato una
diminuzione della spesa dello 0,7%, sfiorando gli 11 milioni di euro. I dati
sono stati diffusi dal Rapporto di Federfarma sul 2010 1.
Chi entra in farmacia paga da pochi centesimi a diverse decine di euro per i
medicinali: il costo medio su ogni ricetta del Snn è di 1,68 euro, con una
media di 16,8 euro l'anno. L'incidenza maggiore dei ticket si registra in
Sicilia, Veneto e Lombardia con un peso di oltre il 10% per cento sul totale
della spesa, mentre la più bassa è quella di Valle d'Aosta, Trento e
Friuli-Venezia Giulia con il 4%. Crescono i costi per i privati anche nelle
Regioni che non applicano ticket sui farmaci e dove si paga solo l'eventuale
differenza tra tariffa di riferimento e quello della medicina più costosa.
Medicine costose. Se la cifra da pagare di tasca propria anche quando in
mano si ha la ricetta lievita, nei prossimi mesi la situazione non accenna
a migliorare. Una recente delibera dell'Aifa 2 (Agenzia per il farmaco), che
applica quanto previsto dalla manovra economica di luglio, ha infatti
abbassato i prezzi di riferimento di più di 4.000 medicinali. L'obiettivo è
un risparmio di 609 milioni all'anno per le casse del Ssn, ma è chiaro che
questa decisione finirà per ricadere sui bilanci delle famiglie.
Tutto questo in attesa che ra l'altro venga risolta la questione dei farmaci
generici 3. L'Aifa ha infatti abbassato il valore dei rimborsi per i
cosiddetti "equivalenti" dal 10 al 40% per far risparmiare il sistema
sanitario circa 600 milioni all'anno. Il problema è che al provvedimento non
sono seguite riduzioni di prezzo da parte di tutte le aziende produttrici.
Ma su questo punto il ministro Ferruccio Fazio ha spiegato che la questione
sarà presto risolta.
Aumentano le ricette. Il rapporto di Federfarma rivela inoltre che nel 2010
è aumentato il numero complessivo di ricette (+2,6%): in tutto quasi 587
milioni, con una media di poco meno di dieci ricette per cittadino. Le
confezioni di medicinali erogate a carico del Ssn sono state oltre 1
miliardo e 73 milioni, con incremento del +2,6% rispetto al 2009. Questo
perché si prescrivono più farmaci, ma in media il prezzo è più basso. Infine
qualche curiosità sui consumi: nel 2010 i medicinali per il sistema
cardiovascolare sono stati la categoria più prescritta a carico del Ssn, con
un aumento del numero delle confezioni del 2,8%. Questo però con un calo di
spesa (-0,7%), dovuta alla diffusione di farmaci a brevetto scaduto. In
forte aumento, tra le prime dieci categorie, i consumi di medicinali per
l'apparato gastrointestinale (8,7%) e per il sistema nervoso (+4,7%). In
calo, invece il ricorso agli antibiotici (-5%).
Fausto della Porta
Istat: giovani disoccupati crescono
È
un pessimo segno per i giovani, ma anche per il governo dato che molti
di loro si recheranno presto alle urne in molte amministrative importanti.
In Italia la disoccupazione giovanile continua a salire tremendamente: in
marzo, il tasso che riguarda ragazzi e ragazze tra i 15 e i 24 anni è
aumentato al 28,6%, salendo di 0,3 punti percentuali su base mensile e di
1,3 punti su base annua. Lo ha comunicato l'Istat in base a dati
destagionalizzati e a stime provvisorie, aggiungendo che la risalita arriva
dopo la riduzione registrata a febbraio. Mentre il tasso generale nello
stesso periodo è cresciuto di nuovo, fermandosi all'8,3%, un decimo di punto
percentuale in più rispetto a febbraio, quando segnò una lieve flessione, ma
in ribasso su base annua.
Altro cattivo segnale per tutti e per chi non ha lavoro ancora di più, in
aprile l'inflazione ha continua a salire. Secondo l'istituto di statistica
l'indice dei prezzi è salito al 2,6%, dal 2,5% di marzo con un aumento dei
prezzi su base mensile dello 0,5%. Il tasso annuo è il più alto da novembre
2008, quando l'inflazione si attestò al 2,7%, quello congiunturale è il
maggiore dal luglio 2008. L'accelerazione di aprile risente delle tensioni
sui prezzi dei servizi relativi ai trasporti e della dinamica dei beni
energetici non regolamentati (adeguamento delle tariffe elettricità e gas).
È da dicembre 2010 che prosegue la crescita tendenziale dell'inflazione. Il
tasso sale anche nell'eurozona e, secondo Eurostat, nei 17 paesi dell'area
euro il tasso annuale cresce del 2,8%, in aumento rispetto al 2,7% di marzo.
In un paese privo di una politica industriale e paralizzato da
scontri interni alla maggioranza di governo che nulla hanno a che vedere con
politiche di crescita, la Cgil va giù piatta. «Una disoccupazione sopra l'8%
si conferma come un dato strutturale che fra l'altro continua a peggiorare
nella sua qualità. La crisi continua in maniera grave e pervasiva mentre la
ripresa stenta e si conferma fallimentare l'azione del governo», ha detto
Fulvio Fammoni, segretario confederale del sindacato.
«In questa situazione - continua - il conto più salato lo stanno pagando i
giovani: la disoccupazione è costantemente fra il 28 e il 30% e la nuova
occupazione è unicamente fatta di lavoro precario che ormai riguarda l'80%
delle nuove assunzioni. Per loro nessun atto concreto se non l'accusa di non
accettare qualsiasi lavoro e di studiare per troppo tempo».
Sulla stessa linea si attesta il Pd. «Il dramma dei giovani, quasi 30 su 100
senza lavoro, non entra neanche nell'agenda dei ministeri - dice Michele
Ventura - e restano soltanto annunci il piano nazionale per l'occupabilità o
le spese deliberate per la promozione di apprendistato o a sostegno
dell'occupazione dei lavoratori svantaggiati, dei disoccupati di lungo
periodo. Il ministro Sacconi che programma una festa del futuro per il 25
maggio è lo stesso che accusa i giovani di atteggiarsi a vittime.
Ma quel dato del 28,6% di disoccupazione associato all'impressionante
numero degli scoraggiati che neanche cercano più lavoro, dovrebbe stare a
ricordargli il fallimento di tutte le sue politiche». Il presidente del
gruppo del Pd del Senato, Anna Finocchiaro, sottolinea la «situazione di
grave stagnazione» del paese, con il governo che «non sta facendo nulla per
risolvere. Il fatto certamente più allarmante, oltre alla crescita
dell'inflazione, è la disoccupazione giovanile, che continua ad aumentare e
che dovrebbe costituire la preoccupazione prioritaria di un esecutivo che
invece se ne disinteressa».
L'esponente del Pd ricorda quindi le parole di giovedì del governatore di
Bankitalia, Mario Draghi: «Per rilanciare l'economia italiana sarebbero
necessari interventi per sostenere l'occupazione giovanile e femminile e per
dotare il Paese di infrastrutture non più rinviabili».