27 ottobre

Allarme contraffazioni, occhio al cibo

Si chiama "sounding Italy" ed è quel vasto mercato che all'estero sfrutta l'immagine italiana per vendere cibi che, però, con l'Italia hanno poco a che fare. Dal parmesao argentino, all'Asiago - ma del Wisconsin - alla Robiola - ma del Canada, il prosciutto Daniele. O ancora formaggi, paste, dolci fabbricati in altri paesi, magari proprio dai figli degli italiani emigrati tanti anni fa, e rivenduti come italiani grazie a una bandierina tricolore o un paesaggio toscano. Tutto bene, basta che se ne parli? In fondo significa che l'Italia è sempre leader nella gastronomia? "Neanche per idea, si tratta di un affare milionario, e se è vero che l'Italia non avrebbe modo di esportare così grandi quantità di alimenti, è anche vero che taglia le gambe a una potenziale esportazione", osserva Silvia Biasotto, responsabile Sicurezza alimentare del Movimento di difesa del Cittadino.

Ed è proprio la sicurezza alimentare il tema del rapporto presentato stamattina dal Movimento insieme a Legambiente "Italia a Tavola 2011". La notizia buona è che non siamo più in un'epoca in cui bisognava temere di trovare la diossina nella mozzarella, o il metanolo nel vino. Ma è anche vero che le contraffazioni, invece, galoppano. E se non sono strettamente pericolose per la salute, rappresentano pur sempre un abbassamento della qualità del prodotto. D'altro canto, le norme a favore di una maggiore sicurezza alimentare sono aumentate negli ultimi anni, e l'attenzione delle associazioni, ma anche delle forze dell'ordine, nel nostro paese è alta.

Ultima in ordine di apparizione, il regolamento comunitario he ha messo un limite alla presenza di alchilesteri nell'olio extravergine di oliva. Gli alchilesteri sono sostanze utilizzate, tra le altre cose, per "deodorare" - nel senso di togliere l'odore - agli olii che sono stati fabbricati con olive stoccate male, e che quindi non erano totalmente integre. Ora il limite è di 75 grammi per litro. "Basti considerare - dice ancora Biasotto - che in un olio che abbiamo comprato qualche tempo fa per fare una dimostrazione in un convegno ce ne erano 1000 per litro!". Ora, aldilà degli alchisteri, la contraffazione che riguarda soprattutto cibi di qualità - i cibi che espongono marchi di origine come Dop o Ipg - i prodotti artigianali, o tipici, come alcuni vini, assicura milioni ai truffatori e droga l'economia, però è difficile incontrarli nei supermercati. E' facilissimo, invece, beccarli sule bancarelle, oppure nei nuovi canali d'acquisto come l'on line. Bisogna, dunque, stare attenti.

Basti pensare alla quantità di merce sequestrata come contraffatta dal Comando carabinieri Politiche agricole e alimentari. 9 mila i litri d'olio "deodorato" sequestrati quest'anno. E oltre 2 mila i pomodori pelati falsamente indicati come Dop o biologici.

Ma quanto incide la crisi? I truffatori sono spinti a buttare sul mercato merce contraffatta perché così possono contenere il prezzo? "Probabilmente sì - dice Silvia Biasotto - ma sono i consumatori a dover capire come afre la spesa, a cosa dare priorità. Non ha senso acquistare un olio extravergine di oliva che costa due euro in meno, se poi compriamo insalata già lavata in busta, o i salumi invece che al banco già confezionati, oppure pesce sfilettato. Così pensiamo di risparmiare tempo, ma spendiamo di più e alla fine 'cediamo' su prodotti che invece per essere di qualità devono avere un certo prezzo".

E se qualcuno subodora una truffa in qualche negozio? Cosa fare? Esiste il numero verde anticontraffazione 800.020.320 , ma potete postare segnalazioni anche alla mail ccpacdo@carabinieri.it

 

La Lombardia brucia, la ‘ndrangheta alza il tiro. Nel mirino gli amministratori pubblici

Da Milano alla provincia. Dal centro della movida fino a Zelo Buon Persico. Sono decine i roghi dolosi che colpiscono sindaci, consiglieri comunali e locali notturni riferibili alle cosche. Un'escalation criminale dopo i maxi-blitz del 2010

A Milano e nell’hinterland, bar, negozi e auto che vanno a fuoco, fanno suonare forte l’allarme criminalità organizzata. Lampi d’una gomorra meneghina che a fine settembre ha visto andare in fumo lo Sugar Lounge, nel cuore del quartiere Isola a Milano. Il 7 ottobre, il Centro sportivo Ripamonti di via Iseo ad Affori. Ma quel che preoccupa maggiormente è che i piromani, su mandato dei boss, hanno alzato il tiro e colpiscono amministratori pubblici e primi cittadini. A Rozzano, immediatamente a sud della tangenziale ovest, negli ultimi dieci giorni del mese di settembre, sono andati a fuoco il negozio di panetteria di un ex consigliere comunale di maggioranza, Domenico Anselmo e il chiosco di frutta e verdura di un altro consigliere – questa volta ancora in carica – Francesco Cuvello , in minoranza col Pd. Addirittura un sindaco e prima ancora un assessore provinciale, sono invece le vittime a Zelo Buon Persico, paese già in provincia di Lodi, ma non distante dalla prima cintura metropolitana compresa tra Paullo, Mediglia e Pantigliate.

È la notte di domenica 25 settembre, Paolo Della Maggiore , primo cittadino di Zelo in quota Pdl, viene svegliato da alcuni rumori in strada. Si tratta della gente che rumoreggia attorno alla sua auto che scoppietta, avvolta dalle fiamme. Atto doloso, non c’è dubbio. Difficile, invece, inquadrare l’episodio accaduto dieci giorni prima, sempre a Zelo, ma ai danni della vettura di Vanna Cavalleri (Pdl), consigliera alle pari opportunità in Provincia a Lodi e zia dell’assessore ai lavori pubblici del comune, Fabiano Riva . Nel suo caso i vigili del fuoco non escludono l’ipotesi del “corto circuito”.

Il sindaco Della Maggiore, invece, è certo che per quanto lo riguarda non si è trattato della bravata di un gruppo di giovani annoiati. “C’è stata premeditazione e una buona dose di professionalità nel mettere in atto questo disegno scellerato”, dice, mentre i carabinieri pare siano sulle tracce di almeno un paio di persone. Queste ben mimetizzate e al buio, hanno prima cosparso l’auto del sindaco di materiale infiammabile, sul cofano e sul bagagliaio posteriore, poi vi hanno appiccato il fuoco.“È evidente – continua Della Maggiore – che il lavoro della mia amministrazione sta deludendo qualcuno”.

A Zelo, che rimane un centro molto appetibile per la speculazione immobiliare – a pochi minuti da Milano, ma già immerso nella tranquillità della bassa – hanno deciso di rivedere il Piano di governo del territorio, senza concedere ulteriore spazio ai costruttori. Un proposito che può aver rovinato i piani a qualcuno di pericoloso, tenuto conto che il paese si trova incuneato in un territorio che negli anni ha visto al lavoro molte aziende vicine alla ‘ndrangheta.

Secondo un’informativa che i carabinieri del Nucleo investigativo di Monza hanno consegnato alla Direzione distrettuale antimafia di Milano – servita per istruire il processo “Infinito” – nel comune di Merlino, a meno di dieci minuti da quello di Zelo e con esso confinante, nell’edilizia e nel movimento terra hanno operato nel 2008 i mezzi di Francesco Ietto , esponente di spicco di un clan della Locride, attualmente a processo in Calabria per associazione mafiosa. A Tribiano, a 5 chilomentri da Zelo, l’Arma ha segnalato al lavoro assieme a Ietto, Giuseppe Grillo , Antonio Perre , Domenico Cocciolo , Giancarlo Marrazzo, Luigino Gambirasio, Giuseppe Trimboli tutta gente nota alle forze dell’ordine, come pure Giuseppe Cosentino, originario di Isola di Capo Rizzuto, indicato come “uomo di fiducia del Capo Cosca Giuseppe Arena”.

Una criminalità minacciata nei propri interessei, manda segnali espliciti. Torniamo allora a Milano. Il centro sportivo Ripamonti, per esempio, è un bene sequestrato alla ‘ndrangheta ( clan Flachi ). Forse, i compari calabresi, preferiscono che la “loro roba” sia distrutta piuttosto che ceduta allo Stato. Dietro i fatti dello Sugar Lounge, invece, c’è solo una scomoda parentela. Il titolare, Raffaele Falzetta , è parente di Vincenzo Falzetta, 49 anni, accusato nel 2009 di riciclare soldi in appartamenti, negozi, discoteche, bar, pizzerie e ristoranti. Altri interessi criminali, sono probabilmente alla base dei fatti di Rozzano. Qui, una licenza non concessa per una sala slot, può aver mosso i risentimenti di gente poco raccomandabile.

In prospettiva la situazione che preoccupa maggiormente è quella di Zelo Buon Persico. Qui nel mirino c’è il primo cittadino. “Ho provato a darmi delle riposte rivendendo i miei sette anni di amministrazione” dice Della Maggiore. Nel 2007 vietò l’accesso a un bando comunale di Italia 90, un‘azienda che solo qualche anno dopo si scoprì essere nelle disponibilità di Luigi Abbate , detto “Gino u mitra”, uomo d’onore del mandamento mafioso di “Porta Nuova” a Palermo. Dopo il suo arresto e quello del suo prestanome, Claudio Demma, che aveva preso appalti per la gestione dei rifiuti in molti comuni del milanese, del lodigiano e del cremonese, a Italia 90, questa primavera, furono sequestrati beni per oltre 22 milioni di euro. A dare forte impulso alle indagini i dubbi sollevati da Della Maggiore

Pensare però che ci sia solo questa vecchia storia dietro la sua macchina andata a fuoco, potrebbe essere una semplificazione. Bisogna tener conto dell’industria dei compari di ‘ndrangheta, che ha sempre bisogno di nuova terra da divorare. Personaggi impresentabili ottengono il paravento da parte di aziende pulite della zona, tutt’ora in attività. Sono di Paullo, di Dresano, di Melegnano e di Binasco, e tutte impegnate nel movimento terra e di conseguenza nell’edilizia. Un sindaco che ha a cuore la campagna non può che rappresentare una minaccia per tutti loro.

 

Italia, i rifiuti scomparsi dell'ex Sisas di Pioltello

280mila tonnellate di nerofumo, di cui 7.800 altamente inquinanti. Che fine hanno fatto? La Regione 'monitora' e l'Arpa assicura che in Lombardia non c'è pericolo ma i cittadini hanno paura.

Sopra gli impianti fotovoltaici attorno a Inzago , un paese nel nord della provincia di Milano , si è depositata una strana polvere nera . Qualche mese fa, intorno a luglio, in città si sentiva un odore fastidioso , poi scomparso. I cittadini, però, non son tranquilli e hanno chiesto a Fabio Pizzul, consigliere regionale Pd al Pirellone, di fare un'interrogazione all'assessore regionale al territorio, Daniele Bellotti, per capire cosa sta succedendo. Bellotti, ha risposto il 18 ottobre, dicendo che la Regione monitora, per quanto può, e che resta all'erta. Niente di più .

Tutto è cominciato quando, nel marzo del 2011, dall'area ex Sisas di Pioltello , 300mila metri quadri di impianti chimici ormai in disuso, arrivano svariate tonnellate di nerofumo, una forma particolare di rifiuto industriale. Dall'area dovevano sparire 280mila tonnellate di scorie in tempi brevissimi, dato che la Corte di giustizia europea aveva minacciato di multare l'azienda per non aver rispettato la direttiva che prevede l'obbligo di bonifica dei siti d'interesse nazionale (Sin) . Così, lo svuotamento delle discariche di Pioltello avviene in fretta e furia. Ma il nerofumo sepolto nell'ex area Sisal ha diversi gradi d'inquinamento: si passa dalla "fuliggine" agli scarti solidi con codice 19.13.03.01, considerati materiale pericoloso . E alcune delle pratiche per mettere in sicurezza la scoria non vengono espletate come dovrebbero.

L'azienda che se ne occupa, la Daneco impianti , rassicura, però, che a Inzago si tratta di scorie di tipo 19.13.02, materiali solidi non inquinanti, che deve solo essere triturati e miscelati nel terreno. "Io mi sono preoccupato lo stesso quando ci hanno detto che portavano il nerofumo anche qui", dice Silvano Calvi, assessore all'ambiente di Pozzo d'Adda, un comune che dista poche centinaia di metri dalla discarica. Calvi, infatti, aveva letto i giornali, che raccontavano di un fascicolo d'inchiesta aperto dalla magistratura di Milano su segnalazione di Greenpeace.

Qualcosa non torna ai pm Paola Pirotta e Paolo Filippini . Secondo gli inquirenti sulla scrivania di Luigi Pelaggi , capo della segreteria tecnica del ministero dell'Ambiente, è arrivata una tangente da 700mila euro , mandata dalla Daneco con lo scopo di rendere più veloci le pratiche per la bonifica dell'ex Sisas. Inoltre, i pm di Milano pensano che ci sia stato un declassamento di parte dei rifiuti, in modo che risultassero meno pericolosi: da 19.13.02, scorie speciali non pericolose industriali, a 19.12.12, semplici rifiuti urbani. Infatti, il numero di aziende attrezzate per lo smaltimento dei pericolosi in Europa sono poche e molto costose. "In Italia si trovano in tre impianti: parte alla Valle sabbia servizi di Brescia, parte alla Xela di Cortaccia, in provincia di Bolzano e parte residuale all'Ecoenrgy di Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Nessuna di queste, però, ci risulta attrezzata per smaltire rifiuti pericolosi ", spiega Federica Ferrario , autrice del report Il mistero dei rifiuti scomparsi per Greenpeace. Inzago, quindi, sembrerebbe esclusa da questo giro, ma i cittadini ancora non sono sicuri di cosa ci sia interrato a pochi passi dalle loro case. "Che cosa succede sotto? Ora non sentiamo più odori ma non capiamo se i rifiuti stanno inquinando la falda o i terreni", continua Silvano Calvi.
L'Arpa, l'agenzia regionale per la protezione all'ambiente, assicura che i controlli sono stati fatti il 19 maggio e che non sono state riscontrate irregolarità.

Eppure questa storia convince poco l 'ong ambientalista . Molti sono ancora i dubbi lasciati irrisolti dalla Daneco e a cui le istituzioni lombarde non hanno ancora risposto. Per esempio, non si sa ancora dove siano finite le altre 7.800 tonnelate di materiale pericoloso, con un'altissima concentrazione di mercurio al suo interno. Al contrario, Greenpeace ha le prove che buona parte delle 280mila tonnellate di rifiuti bonificate sono finite alla Befesa, un' azienda spagnola che sta a Nerva, nella regione di Huelva. "Sappiamo per certo che in questo caso non c'è stato alcun trattamento dei rifiuti pericolosi", dice Ferrario. Nulla vieta che questo sia accaduto anche nelle discariche italiane. In luglio e in aprile, inoltre, ci sono stati "degli incendi sospetti proprio nelle aree in cui si trovano stoccate le scorie italiane", precisa Ferrario.

Per altro, la bonifica dell'area ex Sisas non è ancora completa. La Daneco ha provveduto a svuotare la discarica A e B, giusto il minimo indispensabile per evitare la multa della Corte europea. Manca ancora di terminare i lavori nella discarica C, oltre al lembo di terra attorno alla zona di scarica, considerato pericoloso. A luglio, l'ultimo bando è stato vinto dalla General smontaggi di Novara, ma i tempi, ora che non pende più la sentenza della Corte europea, rischiano di essere infiniti.

 

25 ottobre

21 ottobre

Proibito il corteo della Fiom

Rocco Di Michele

A memoria di sindacalista , non si ricorda una cosa del genere. Ma il governo prova a trasformare una giornata di conflitto aspro in occasione di vendetta. Verso chi manifesta in genere, certo. E soprattutto nei confronti della Fiom, che della giornata di sabato è stata protagonista pacifica e anche molto arrabbiata per la piega presa dagli eventi.
Quando Maurizio Landini, segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, ha dato notizia in conferenza stampa del divieto disposto dalla Questura sulle tre piazze richieste per la manifestazione di venerdì, molti sono rimasti con un punto interrogativo stampato negli occhi. «La questura non ci ha ancora autorizzato il corteo. Per noi fare il corteo è necessario, a maggior ragione dopo quello che è successo sabato. Chi si è organizzato per mesi lo ha fatto per colpire chi manifestava. Noi garantiamo la sicurezza. Nelle nostre manifestazioni non si viene con i caschi e gli zaini pieni di cose. Si viene con la faccia scoperta e con le mani libere».

In un primo momento era stata richiesta piazza Navona. Ma su questa già gravava un'ordinanza di divieto generico da parte del sindaco della Capitale, l'ex fascista Gianni Alemanno; che aveva a sua volta preso a pretesto un «vandalo» sorpreso mesi fa a danneggiare in perfetta solitudine una delle tre fontane della piazza. Bocciata anche la seconda richiesta - piazza Farnese - giudicata troppo vicina alla prima. Fin qui si era ancora nella «quasi normalità», e queste risposte erano state date ancor prima della manifestazione e degli scontri di sabato. Ma la lunga attesa per una risposta sulla terza piazza - Santi Apostoli - aveva fatto capire che c'è un calcolo e un disegno politico dietro le lungaggini.
Un disegno diventato chiaro nel pomeriggio, quando da via San Vitale è trapelato un divieto formale al corteo. Le parole usate sono però forse ancora più gravi dell'atto in sé; veniva infatti detto che «non c'è nessun divieto a manifestare, ma ai lavoratori della Fiom sarà messa a disposizione venerdí una piazza. Non ci sarà un corteo alla luce di quanto accaduto sabato scorso». Continuava la mediazione per «garantire il diritto di tutti a manifestare» e «venire incontro alle esigenze dei romani che hanno pagato un prezzo troppo alto» a causa del corteo dello scorso sabato. Ma al momento, «per motivi di sicurezza», niente corteo.

Una decisione di una gravità eccezionale . Le «ragioni di sicurezza» sono decisamente una scusa risibile. La manifestazione del 21 interessa soltanto lavoratori della Fiat e di Fincantieri: ovvero gente che lavora da anni fianco a fianco, si conosce benissimo e verrà a Roma mettendosi in piazza per gruppi sostanzialmente omogenei (per azienda e singolo stabilimento). Che in una situazione del genere si possa «infiltrare» qualche giovane «vestito di nero» è assolutamente da escludere. Se anche non si trattasse della Fiom - che ha una storia chiarissima di come «sta in piazza» - quella motivazione non potrebbe reggere a un esame men che superficiale.
Le tute blu non intendono però accettare un diktat del genere e insisteranno «nel chiedere di fare un corteo e di terminare in una piazza». Come hanno sempre fatto. «Speriamo ancora che la questura ci ripensi; noi non consideriamo questa risposta definitiva. Non esiste che non ci diano una piazza». In fondo, spiegano a Corso Trieste, «sarebbe la risposta migliore ai fatti di sabato». Una bella manifestazione operaia, pacifica, per conservare il diritto democratico garantito dalla Costituzione.
«Sembra incredibile che a solo un anno dalla manifestazione del 16 ottobre - quella in cui la Fiom e i movimenti portarono a Roma quasi mezzo milione di persone, ndr - si sia arrivati a questo punto. Se la risposta a 1.000 violenti è vietiamo le manifestazioni, si tratta di una risposta pericolosa». E anche un po' assurda, visto che al corteo era stata invitata a partecipare anche la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso.

Ma il clima politico viene avvelenato in modo bipartisan, rendendo difficile ragionare in modo serio su un argomento serissimo come l'esercizio della democrazia. Da una parte c'è la stampa berlusconiana che sparge allarmismo parlando di «sindacato che prepara un autunno caldo contro il governo» (Il Giornale, ieri), di volontà di «portare in piazza i lavoratori per protestare contro le politiche economiche del governo» - fatto assolutamente normale, visti gli effetti che queste stanno già avendo. Dall'altra c'è una parte della stampa anti-berlusconiana che pensa di poter mettere in difficoltà il Cavaliere sorpassandolo a destra e chiedendo «massima fermezza» nella gestione dell'ordine pubblico. Fino a un Antonio Di Pietro che rispolvera i fasti omicidi della «legge Reale» (254 morti e 371 feriti, quasi tutti innocenti cittadini che si erano trovati a passare nel posto sbagliato al momento sbagliato).
Con «democratici» così, le svolte reazionarie hanno spesso la strada spianata.

 

Il Grande Gioco africano

Manlio Dinucci

Dopo che il «Protettore Unificato» ha demolito lo stato libico, con almeno 40mila bombe sganciate in oltre 10mila missioni di attacco, e fornito armi anche a gruppi islamici fino a ieri classificati come pericolosi terroristi, a Washington si dicono preoccupati che le armi dei depositi governativi finiscano «in mani sbagliate». Il Dipartimento di stato è quindi corso ai ripari, inviando in Libia squadre di contractor militari che, finanziati finora con 30 milioni di dollari, dovrebbero mettere «in stato di sicurezza» l'arsenale libico. Ma, dietro la missione ufficiale, vi è certo quella di assumere tacitamente il controllo delle basi militari libiche.

Nonostante il declamato impegno di non inviare «boots on the ground», operano da tempo sul terreno in Libia agenti segreti e forze speciali di Stati uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Qatar e altri, che hanno guidato gli attacchi aerei e diretto le operazioni terrestri. Loro compito, ora, è assicurare che la Libia «pacificata» resti sotto il controllo delle potenze che sono andate a «liberarla». Il 14 ottobre, lo stesso giorno in cui il Dipartimento di stato rendeva noto l'invio di contractor in Libia, il presidente Obama annunciava l'invio di forze speciali in Africa centrale, all'inizio un centinaio di militari. Loro compito ufficiale è quello di «consiglieri» delle forze armate locali, impegnate contro l'«Esercito di resistenza del Signore». Operazione finanziata dal Dipartimento di stato, finora, con 40 milioni di dollari. Il compito reale di questi corpi d'élite, inviati da Washigton, è creare una rete di controllo militare dell'area comprendente Uganda, Sud Sudan, Burundi, Repubblica centrafricana e Repubblica democratica del Congo. E mentre gli Stati uniti inviano proprie forze in Uganda e Burundi, ufficialmente per proteggerli dalle atrocità dell'«Esercito del Signore» che si dice ispirato al misticismo cristiano, Uganda e Burundi combattono in Somalia per conto degli Stati uniti, con migliaia di soldati, il gruppo islamico al-Shabab. Sostenuti dal Pentagono che, lo scorso giugno, ha fornito loro armi per 45 milioni di dollari, compresi piccoli droni e visori notturni.

Il 16 ottobre, due giorni dopo l'annuncio dell'operazione Usa in Africa centrale, il Kenya ha inviato truppe in Somalia. Iniziativa ufficialmente motivata con la necessità di proteggersi dai banditi e pirati somali, in realtà promossa dagli Stati uniti per propri fini strategici, dopo il fallimento dell'intervento militare etiopico, anch'esso promosso dagli Stati uniti. E in Somalia, dove il «governo» sostenuto da Washington controlla appena un quartiere di Mogadiscio, opera da tempo la Cia, con commandos locali appositamente addestrati e armati e con contractor di compagnie miltari private. Gli Stati uniti mirano, dunque, al controllo militare delle aree strategiche del continente: la Libia, all'intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente; l'Africa orientale e centrale, a cavallo tra Oceano Indiano e Atlantico. Il gioco, apparentemente complicato, diventa chiaro guardando una carta geografica. Meglio su un atlante storico, per vedere come il neocolonialismo somigli in modo impressionante al vecchio colonialismo.

 

Profughi, il caos dei documenti

Direttive poco chiare e documenti in deroga rispetto alle norme vigenti: ecco come i profughi non trovano lavoro.

"Siamo tra l'incudine e il martello: non capiamo più niente . Dalla Questura e dalla Prefettura non sono arrivate circolari scritte". A parlare così è Giuseppe Squillace, responsabile dell' Ufficio per l'impiego di Rozzano , un paesone da 50mila abitanti nella provincia meridionale di Milano. Qui, all'inizio di luglio, si sono presentati circa duecento richiedenti asilo provenienti dal residence Ripamonti di Pieve Emanuele , da Trezzano, da Zibido San Giacomo. Tutti in fila per essere iscritti all'agenzia provinciale che cerca lavoro per i disoccupati. Sono i profughi portati via da Lampedusa in maggio e che ora risiedono in Lombardia in attesa di risposte sul loro futuro. Tutti avevano in mano un permesso di soggiorno in cui si leggeva "attività lavorativa" : "Non ho mai visto documenti di quel tipo", racconta Squillace.

Infatti non sono previsti dalla normativa per la richiesta di asilo. All'articolo 11 del decreto legislativo 140 del 2005 si dice che se dopo sei mesi dal rilascio della domanda il richiedente non per colpa sua non ha ancora ricevuto una risposta "il permesso di soggiorno per richiesta asilo è rinnovato per la durata di sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa fino alla conclusione della procedura di riconoscimento". Perciò la nuova norma è "contra legem", è un'anomalia che ha creato non pochi disguidi . Il rischio è che la confusione normativa, unita alla ridottissima disponibilità di posti di lavoro, condanni tutti i migranti alla disoccupazione. Infatti, per ora, a Pieve nessuno ha ancora un impiego . "Ad alcuni vanno addirittura a chiedere il certificato di residenza, che non è scritto nella legge", racconta il responsabile del presidio della Croce Rossa di Pieve Emanuele, Alberto Bruno , a cui è affidata la gestione dei richiedenti del Ripamonti.

Per la questura la concessione della possibilità di lavorare doveva essere un'opportunità. Data la mole di persone arrivata in Lombardia, serviva un appiglio per potersi costruire una vita. Niente di meglio che potersi dare da fare per cominciare a guadagnare autonomamente. Almeno così è stato interpretato da qualche legale, che preferisce restare anonimo. Peccato, però, che ci sia un'evidente "latitanza organizzativa" da parte degli enti che hanno gestito l'emergenza . Non è nemmeno chiaro il percorso del provvedimento emanato dalla Questura: a quanto riferiscono le associazione, c'è stato un momento in cui è stato sospeso e poi è stato ritrasmesso. Il tutto sempre senza che ci sia stata la minima comunicazione scritta. Ciò che non ha funzionato, quindi, è stata la comunicazione tra gli organi decisionali e gli uffici competenti. La macchina della burocrazia s'è inceppata immediatamente: "Il problema sta nella durata dei permessi - spiega Alberto Bruno -. Un permesso non ostativo al lavoro, quindi che non vieta espressamente, e che vale sei mesi di solito permette la ricerca del lavoro".

Giuseppe Squillace dell'Ufficio per l'impiego di Rozzano racconta che da agosto in avanti la situazione è cambiata : gli altri migranti che sono arrivati agli sportelli avevano un foglio con scritto "in attesa di asilo politico": "A queste persone non abbiamo più rilasciato la dichiarazione di disponibilità al lavoro ". Il responsabile aggiunge poi che dall'alto è arrivata "una comunicazione orale": da quel momento in avanti ai migranti sarebbe solo stato concesso di frequentare corsi di formazione al lavoro . "Ma senza i finanziamenti i corsi non si possono fare", aggiunge Squillace. Per essere ospitati al residence Ripamonti lo Stato spende per ogni profugo 50 euro al giorno . Con 5 euro di più, nei centri d'accoglienza di Milano si paga anche il supporto legale e psicologico, oltre alle borse lavoro, stage retribuiti trovati dal Centri orientamento al lavoro (Celav). Ma tutto questo per Pieve e gli altri "centri dell'emergenza" non esiste.

Lorenzo Bagnoli

 

14 ottobre

Il Governo dello… sbadigliare!

Berlusconi, chiedendo la fiducia, dice che l’Italia è un sistema vitale, ricco, vivo . Dice che loro sentono la responsabilità, che vogliono sconfiggere la strategia della paralisi, che vogliono agire con la rapidità e l’efficienza imposta dai tempi. E mentre lo dice, Umberto Bossi al suo fianco ne mima i significati più intimi e profondi, come un implacabile traduttore istantaneo, uno specchio deforme, una macchina della verità che mostra la reale natura delle cose, celata dall’ennesimo vaniloquio ad uso e consumo di una compagnia di giro che non incanta più nessuno.

Sono ben dodici gli sbadigli profondi e cavernosi che l’élite direzionale del “Governo del fare” riesce a dispensare, assisa sullo scranno più sacro del tempio della Democrazia, nel giro di neppure 19 minuti. Nessun altro simbolo avrebbe potuto essere altrettanto efficace e potente di questo, per sigillare come un epitaffio tombale il declino di un esecutivo narcolettico, catalettico, atonico, vuoto simulacro in rappresentazione della totale paralisi istituzionale, come un bozzolo incartapecorito, abbandonato dalla vita e vittima di un progressivo, pietoso collassato strutturale.

Dopo avere abbondantemente superato il suo termine naturale, la gerontocrazia che infesta i gangli vitali di questo Paese deve giungere immediatamente anche al suo termine istituzionale. Altrimenti, ci trascineranno tutti nella tomba insieme a loro.

 

Il Presidente del postribolo

Oramai siamo al porno-delirio! Qualche tempo fa abbiamo avuto dal presidente Berlusconi la strabiliante notizia che viviamo in «un paese di merda»: C’è da chiedersi se non sia la sua e quella della sua cricca. Ammesso che sia vero, infatti, chi l’ha sgovernata per quasi un ventennio, se non loro? Hanno mangiato e bevuto troppo, a nostre spese, e i risultati della grande abbuffata si vedrebbero, anzi si vedono, eccome!

Ora abbiamo appreso che il partito di maggioranza alle prossime elezioni potrebbe cambiar nome: da “Partito della libertà” a “Forza Gnocca”.

Uno scherzo? Forse, ma non troppo. Intanto, saremmo di fronte ad una terza (ancora?) discesa in campo di B., con un partito rinnovato. Senza Fini, questa volta. E senza Casini. Il quale, battuta per battuta!, a questo punto, dato l’incolpevole nome, potrebbe anche starci e condurre felicemente in porto le trattative segrete per una nuova coalizione. Il web si è scatenato sul “Partito della Gocca”. Su internet si legge dell’iniziativa di divertiti blogger che, tra le altre proposte, modificherebbero così il simbolo del Pdl: “Gnocca” in alto, foto di B. al centro, “B. presidente” in basso.

Il bozzetto coglie nel segno, perché il nuovo nome reinterpreterebbe alla grande il vecchio “Forza Italia”. Vi sembra esagerato? Si è letto sulle cronache che anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, in Via del Plebiscito a Roma, avrebbe mostrato ad alcuni giornalisti, tra il serio e il faceto, il logo del nuovo partito: la vecchia bandiera di “Forza Italia” con la scritta «Viva la Fica, Berlusconi presidente». Avrebbe poi nascosto il foglio e spiegato a voce con tetra spiritosaggine: «C’è scritto: “Viva l’Italia”» .

Spiegazione quanto mai opportuna per capire lo stile (si fa per dire!) dell’uomo, della maggioranza di cui fa parte (le parlamentari del partito, offese nella loro dignità di donne, perché non si ribellano?), e del capo di governo di cui è ministro. Ovviamente, solo un’ipocrita gente di sacrestia può pensare con finto orrore alla sessualità (salvo poi praticarne a volte in segreto forme pervertite e criminali!). Ognuno viva privatamente la sessualità come, quando e con chi vuole, nel rispetto dell’altro/a e delle leggi, si sa.

Ma ridurre la politica ad un postribolo, no, questo no!

Le parole, le metafore, le barzellette di pessimo gusto sfornate a getto continuo da B. (il nuovo nome del partito, tradotto in inglese con “Go Pussy, ha fatto l’ennesimo giro del mondo), hanno superato ormai il livello di guardia. Tanto da far pensare, come molti in rete hanno ricordato, i famosi versi danteschi del Purgatorio: « Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello » (Canto VI, 176-178.). L’Italia dolorosamente asservita ad un regime di antidemocrazia, sgovernata da una cricca di cortigiani famelici e corrotti, talvolta accusati di gravi reati penali; un paese allo sbando, senza una leadership autorevole e un governo che governi, per di più tragicamente in preda alla gran tempesta della crisi mondiale; simile insomma non ad una gran signora, ma ad un bordello.

Questa l’Italia d’oggi?

Se così fosse, aveva allora ragioni da vendere l’“Economist” quando, il 9 giugno 2011, titolava un suo memorabile articolo-inchiesta: «The man who screwed an entire country». L’uomo che ha fottuto un intero paese. Cioè B., manco a dirlo. Quasi un ventennio di leggi ad personam, o ad criccam, col sostegno decisivo della Chiesa/Vaticano, per spolpare l’Italia, e renderla irriconoscibile. L’Italia stuprata. Per rimanere nella brutta metafora, ogni prostituta ha il suo magnaccio, o i suoi magnacci.

Ma la metafora, oltre che brutta, non sembra più rispecchiare il paese reale. A giudicare dagli ultimi successi referendari, si direbbe che la parte maggiore e maggioritaria d’Italia, indipendentemente dalle appartenenze partitiche, non ci sta. O non ci sta più. Forse vuole aria nuova, fresca, pulita, salubre, respirabile a pieni polmoni. Non più appestata dai fetori di questa maggioranza in Parlamento che è minoranza nel paese. Di questo strano Gabinetto di Governo. E del suo Presidente.

Michele Martelli

 

di Giorgia Fletcher

Un disastro off-shore

Ci risiamo, l'ennesima «marea nera» provocata da una nave in avaria che riversa carburante nell'oceano. Il disastro è avvenuto questa volta vicino alle coste della Nuova Zelanda, dove una nave portacontainer - la rena, una sorta di mastodonte di 236 metri, vecchio di 32 anni, bandiera liberiana - si è incagliato nella barriera corallina Astrolabe, circa 11,5 miglia nautiche al largo della North island - la più settentrionale delle due grandi isole che compongono il paese oceanico. Martedì un sopralluogo effettuato dai tecnici di Maritime New Zealand, l'ente incaricato di far fronte a incidenti marittimi, ha rivelato che finora si sono sversate tra 150 e 350 tonnellate di carburante dai serbatoi della nave, cioè molto più di quanto si pensava fino al giorno prima.
Già così, stiamo parlando del più grave disastro ambientale avvenuto in Nuova zelanda, e le autorità stimano che la bonifica richiederà parecchie settimane. Ma in quei serbatoi ci sono 1700 tonnellate di gasolio, così il rischio è di un disastro maggiore. Anche perché nelle ultime ventiquattro ore la nave si è ulteriormente assestata contro la barriera corallina e il danno alla nave si è aggravato. La situazione - e i tentativi di intervento - sono aggravati dalle condizioni meteo nella zona dell'incidente, con venti tra 37 e 46 km/ora e ondate di tre o quattro metri. L'equipaggio è stato evacuato. Ora Maritime New Zealand ha diramato un allarme ai naviganti: la nave può muoversi ulteriormente, e se si inclinerà i containers possono andare liberi e finire a riva. La nave stessa può finire per spezzarsi. Anche per questo la priorità resta pompare via il carburante contenuto nei serbatoi - «un'operazione complessa che richiederà tempo», ha detto ieri il premier John Key.
Nel frattempo sulle coste si vedono le scene solite di un disastro simile - addetti al lavoro per raccogliere il bitume dalle spiagge. Le autorità vogliono tentare con sostanze chimiche che aggrediscono il gasolio, ma le onde rendono difficile l'operazione. Stanni usando il Corexit, un disperdente che, assicurano, è dieci volte meno tossico dei disperdenti normalmente usati. Lunedì gli addetti dell'ente nazionale per i disastri uanno lavorato per far uscire i gas volatili dal serbatoio, prelimibnare per poi installare manualmente una pompa che ne tiri fuori il gasolio. Ma sono operazioni lente - soprattutto per le avversità meteo. Un altro aspetto che allarma le autorità neozelandesi è il fatto che 11 dei container a bordo della Rena trasportano sostanze perocolose - tra cui due container di ferrosilicone, che rischia di incendiarsi a contatto con l'acqua. Per il momento i container sono tutti intatti e non si sono mossi - ma se la situazione si prolunga...
Il gasolio finora sversato sta andando in direzione sud-ovest, e sarà inevitabile che raggiunga le spiagge tra Mount Maunganui e Maketu e il porto di Tauranga, il più grande porto neozelandese (che era la destinazione della nave avariata). La ripulitura delle spiagge non è cominciata, spiegano le autorità, perché il peggio non è ancora arrivato - se fatta subito sarebbe un'operazione da ripetere tra pochi giorni, meglio aspettare che il bitume si accumuli per rimuoverlo tutto insieme Intanto però è emergenza - cittadini ammoniti a stare lontano dalla coste, non mangiare pesce e frutti di mare dalle zone contaminate. Una 70ina di volontari stanno cercando gli uccelli marini che possono essere rimasti inzuppati di gasolio e i naturalisti sono allarmatissimi - è il momento della riproduzione per molte specie. E non solo uccelli - anche mammiferi marini come le foche.
Greenpeace New Zealand sostiene che il disastro della Rena deve suonare un allarme «su quanto sia difficile affrontare gli sversamenti di petrolio in mare e l'impatto vdevastante che possono avere sulla flora e fauna, sulle coste, e sull'economia marina». Greenpeace sta raccogliendo firme su una petizione per chiedere al governo di sospendere in modo permanente le prospezioni petrolifere off-shore.

 

Regione Sicilia, marito promuove la moglie. Diecimila euro al mese in più di stipendio

Luisa Paladino, a capo del Polo museale di Catania è stata promossa a numero uno dell'Unità operativa per i beni storici-artistici alla Soprintendenza etnea. A firmare lo scatto, il marito a sua volta guida del dipartimento dei Beni culturali. La denuncia arriva dai Cobas. Ma la famiglia Campo non è nuova a questi exploit visto che la figlia 27enne è già dirigente della Regione a Bruxelles.

Il simbolo della Regione Sicilia
Il marito, Gesualdo Campo , guida il dipartimento dei Beni culturali della Regione Sicilia, la moglie Luisa Paladino , da dirigente del Polo museale di Catania è stata promossa a capo dell’Unità operativa per i beni storici-artistici alla Soprintendenza etnea: una promozione che ha fatto schizzare in alto la sua busta paga, da 5.164 a 15.494 euro di sola indennità aggiuntiva. E da chi è stata promossa? Dal marito stesso, che con un tratto di penna ha proiettato in alto la carriera della moglie.

Miracoli della burocrazia siciliana che sembra non temere i tempi delle vacche magre annunciati dal governatore Raffaele Lombardo e resta sorda ad ogni appello anti-sprechi lanciato dal presidente della Regione. In nome del ‘’tengo famiglia’’, la busta paga lievita anche a dispetto delle regole: a Palermo, infatti, alla dirigente dell’unità operativa per i beni storici artistici, Campo ha concesso un’indennità pari a 10mila e 800 euro; alla moglie, a Catania, invece, per lo stesso identico tipo di responsabilità, l’importo è di 15mila 494 euro, ‘’ovvero – sottolineano i Cobas , che hanno denunciato il caso – la cifra massima assegnabile a un’unità operativa nella Regione siciliana: comunque, circa il 50% in più dell’importo corrisposto alla collega palermitana”. E ‘’visto il grado di parentela della dirigente catanese con Gesualdo Campo – prosegue il sindacato – sembrerebbe che nessuno si sia preoccupato che ciò possa avere assunto il profilo del cattivo gusto, della mancanza di bon ton istituzionale e, chissà, dell’eccesso di onnipotenza e di danno all’immagine della pubblica amministrazione”. Ecco perché i Cobas segnalano a Lombardo,’’ come da lui stesso richiesto’’ questa storia ‘’per inserirla nel suo blog nel rispetto di una corretta e completa informazione a tutti i cittadini’’.

Del resto, per i colleghi e per il sindacato non è stata una sorpresa l’exploit della famiglia Campo, che nel luglio scorso aveva piazzato a Bruxelles la figlia Giordana , 27 anni, e già dirigente, con una vera e propria “chiamata diretta” per un contratto da funzionario direttivo che ricalca quello utilizzato per i componenti degli Uffici di gabinetto. Giovane, dirigente e con un incarico di tutta comodità: gli uffici della Regione siciliana a Bruxelles non brillano, infatti, per particolare produttività, se Lombardo, nella delibera 161 del 21 giugno , ha sentito il bisogno di specificare che ‘’l’indennità di trasferta ai dipendenti di ruolo verrà corrisposta solo in caso di effettiva presenza nella sede belga’’, dalla quale, evidentemente, in molti, tra gli impiegati, si tenevano alla larga.

 

Un’altra casa da sogno per Scajola. Questa volta all’insaputa del Comune

L'ex ministro ha costruito un campetto di calcio, uno spogliatoio nella sua splendida villa sulle alture di Imperia. Peccato soltanto che non abbia chiesto il permesso. Non basta: la costruzione che gli è costata sanzioni per migliaia di euro è stata realizzata proprio dalla ditta del geometra Gianfranco Gaggero. Sì, il vicesindaco e assessore alle Opere Pubbliche del Comune.

Un’altra casa all’insaputa, ma stavolta del Comune. Claudio Scajola non è fortunato con il mattone: ha costruito un campetto di calcio, uno spogliatoio nella sua splendida villa sulle alture di Imperia. Peccato soltanto che non abbia chiesto il permesso. Non basta: la costruzione che gli è costata sanzioni per migliaia di euro è stata realizzata proprio dalla ditta del geometra Gianfranco Gaggero. Sì, proprio il vicesindaco e assessore alle Opere Pubbliche di Imperia, il Comune cui doveva essere richiesto il permesso.

Per Scajola, che nelle sua Imperia viene ancora chiamato “u ministru”, è la terza volta che il cemento nasconde una rogna. Certo, in passato gli è andata peggio: prima c’è stato l’appartamento con vista sul Colosseo, che, secondo i pm, sarebbe stato pagato dall’imprenditore Diego Anemone con 80 assegni circolari da 12.500 euro. Parliamo della famosa casa comprata, disse l’allora ministro, “a sua insaputa”. La Procura di Roma l’ha indagato per violazione della legge sul finanziamento illecito ai partiti.

Poi sulla testa dell’ex ministro è piovuta un’altra tegola che pochi ricordano: “u ministru” è ancora indagato per associazione a delinquere insieme con l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone (uno dei patriotidellacordataAlitalia).Oggetto dell’inchiesta la costruzione del mega-porticciolo di Imperia, un’opera da 140 milioni di euro fortemente voluta da Scajola. Insomma, da un politico scafato come l’ex ministro ci si sarebbe aspettato che si muovesse con i piedi di piombo. E invece due anni fa ha deciso di realizzare nuove costruzioni nei terreni della sua villa da sogno: ecco allora il campetto per le partitelle con amici e parenti, poi gli spogliatoi, quindi muretti a secco e qualche sentiero. Non un ecomostro, ma bisogna tener presente dove siamo: parliamo di una zona vincolata, uno degli angoli più belli del Ponente ligure. E la villa di Scajola è una via di mezzo tra un’abitazione e un monumento: 29 stanze affacciate sul Golfo di Imperia, un complesso capace di ospitare nel 2002 il vertice tra gli allora ministri dell’Interno italiano e francese, Claudio Scajola e Nicolas Sarkozy .

Un edificio tanto semplice quantoelegante,finitosullepaginepatinate dei magazine di mezza Italia , con le fotografie dell’allora ministro e della signora Maria Teresa Verda ritratti in mezzo ai saloni scintillanti, nel parco e in sella a moto d’epoca. Mentre i cronisti entusiasti scrivevano: “Più che il ministero dello Sviluppo economico avrebbero dovuto dargli quello dell’ambiente”. Scajola disse: “Da casa nostra si cattura tutta Imperia”, una frase che a qualcuno parve quasi un’allusione allo strapotere dell’allora ministro sul Ponente ligure.

Ma qualcosa lo stesso mancava a quel paradiso. Così Scajola ha deciso di aggiungere l’impianto sportivo privato. Senza permesso. Salvo poi “autodenunciarsi”. La pratica alla fine è arrivata sui tavoli della Sovrintendenza e del Comune. Così il 7 giugno la Sovrintendenza ha dichiarato la conformità delle opere, ma “u ministru” ha dovuto pagare 4.000 euro di sanzione (il massimo previsto). Poi la parola è passata al Comune, che ha concesso il permesso dopo il pagamento di un’oblazione di 1.288 euro. Giovanni De Cicco , l’ingegnere che ha presentato il progetto assicura : “Il progetto è compatibile con le norme, sennò non ci avrebbero dato il parere favorevole”.

GAGGERO, vicesindaco e titolare dell’impresa che ha costruito, spiega: “È tutto secondo la legge. In quella zona il piano regolatore prevede che si possano costruire gli impianti che abbiamo realizzato”. Aggiunge: “Noi lavoriamo da quindici anni per Scajola e sappiamo che lui ci tiene a rispettare la legge. È stato lui a insistere per pagare il massimo delle sanzioni previste”. Gaggero è uomo di fiducia di Scajola. Gli è vicino anche Paolo Strescino, il sindaco. Sindaci, vicesindaci, membri del cda di banche e autostrade, “u ministru” nel Ponente è ancora monarca assoluto, in barba agli scandali romani e alle inchieste.

Ma dopo lo scandalo dell’appartamento vista Colosseo, dopo l’inchiesta sul porto, perché costruire senza permesso e pagare 5.200 euro? “Da queste parti lo fanno tutti”, dice una persona vicina a Scajola. Ma da un esponente politico di spicco non ci si potrebbe aspettare di più? “Scajola ha sanato la situazione pagando perfino la sanzione”. Ma c’è chi dà una versione diversa: “La trafila prevista dalla legge richiede tempo. E magari impone variazioni al progetto. Più semplice costruire senza permesso e poi metterci una pezza”.

 

7 ottobre

La tirannia della maggioranza

di Stefano Rodotà

Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato abbastanza discredito internazionale per l'incapacità di gestire la crisi. E anche per l'impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d'informazione, e il mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi classici di “tirannia della maggioranza”, della quale parlò Alexis de Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione dell'informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto addosso).

I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche per riassunto, fino all'udienza-filtro, di cui rimangono incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento, smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell'iniziativa del Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si verrebbe a creare per effetto dell'emendamento. Anche prima dell'udienza-filtro, infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti, come l'ordinanza con la quale viene disposto l'arresto di una persona. Nulla vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.

Questo è un classico meccanismo censorio. L'obiettivo dichiarato di impedire la pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni. Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l'irragionevole tecnica che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l'ennesima volta a leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in cui le informazioni che le riguardano non hanno “alcun rilievo” per l'informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure pubbliche, per i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, parla l'articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono comportarsi con “onore e disciplina”. E tutti noi siamo titolari del diritto di poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.

Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: “l'istituzione dei diritti è (…) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev'essere ancor più sincera”. Se quella logica viene travolta, allora è l'idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il fondamento moderno del sistema dei diritti.

 

Monza, il ministro-assessore ce l’ha fatta: variante ad personam per la Cascinazza

Dopo una lunga battaglia consiliare, adottato il provvedimento tanto caro al titolare dello Sviluppo economico, Paolo Romani: consentirà di edificare 580mila metri cubi di case e uffici sul terreno che il fratello del presidente del Consiglio acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Ma la Procura vuole vederci chiaro su alcuni coincidenze sospette

Il ministro Paolo Romani con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi
Dopo una lunga battaglia in assise civica, il consiglio comunale di Monza ha adottato la variante al Pgt (Piano di governo del territorio) che ridisegna la città brianzola e consente di edificare 580mila metri cubi di case e uffici alla Cascinazza , il celebre terreno che il fratello del presidente del Consiglio acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Il provvedimento è sempre stato molto a cuore al ministro Paolo Romani. Il titolare del Sviluppo economico, del resto, a Monza è assessore con delega all’Expo 2015, ma prima di entrare nel Governo Berlusconi rivestiva la carica di assessore all’Urbanistica. I più maligni, dicono addirittura che il premier l’avesse inviato lì proprio per occuparsi della cambio di destinazione d’uso di quei terreni, che da agricoli rischiano di diventare edificabili.

Una bella rivalutazione dell’area che, calcolando il costo al metro quadro prima e dopo la modifica, la fa valere oggi circa 120 milioni di euro in più rispetto al 2007. Ma la Cascinazza non è l’unico esempio a Monza di terreni agricoli o a verde pubblico che valevano poco o nulla quando sono stati acquistati e che ora, con la variante del centrodestra adottata ieri mattina, sono diventati edificabili per svariati milioni di metri cubi. Chi possiede quei terreni ha potuto beneficiare di una riqualificazione complessiva che si avvicina ai 500 milioni di euro. Di certo una bella fortuna, in tutti i sensi.

Ma la vera sorpresa arriva quando, per soddisfare una semplice curiosità, si va a vedere chi sono i proprietari di alcune delle aree in questione. Un lungo lavoro di controllo che è emerso anche in consiglio comunale e che sta interessando adesso la Procura, alla quale spetterà capire se si tratta solo di coincidenze. Perché la Lenta Ginestra , la società che ha incorporato nel 2008 la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro, non possiede a Monza solo il terreno della Cascinazza. Ne ha almeno due direttamente controllati che si stima valgano 49 milioni di euro in più grazie all’intercessione dell’assessore Paolo Romani , tra cui un’area, all’interno del Parco della Boscherona, dove si potranno costruire 375mila metri cubi di cemento. La Lenta Ginestra è controllata al 70% dal Gruppo Brioschi Sviluppo Immobiliare della nota famiglia Cabassi . L’altro 30%, invece, è in mano alla Axioma Real Estate srl di Angelo Bassani che a sua volta è controllata per il 75% dalla Marconi 2000 Spa di Gabriele Sabatini e di Bassani stesso.

E proprio quest’ultima società possiede altri tre terreni che si stima siano stati rivalutati per circa 11 milioni di euro nel documento urbanistico promosso dall’allora assessore all’Urbanistica Romani e poi concluso da altri. Risultato: rivalutazione complessiva dei sei terreni della società per un totale di circa 180 milioni di euro. Ma Paolo Berlusconi non aveva venduto tutto? Non proprio. Gli addetti ai lavori ravvisano nella struttura statutaria la caratteristica per la quale gli introiti delle operazioni vengono divisi tra i soci, tra cui anche la Istedin stessa, acquisita per incorporazione. Il che significa solo una cosa: in un modo o nell’altro, anche il fratello del premier in questo momento sta sorridendo. Anche perché la Cascinazza era sempre stata la spina nel fianco delle sue operazioni immobiliari.

Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, condannando la Istedin a pagare le spese legali per aver fatto causa al Comune di Monza che non gli permetteva di edificare. “Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà”, stabilì la Cassazione, chiudendo così la questione. Già il ‘Piano Benevolo’, voluto qualche anno fa dalla Lega, rendeva inedificabile l’area. Questo prima che arrivasse Romani e facesse ben altre scelte. Ma adesso quel “terreno maledetto” rischia di tornare ad essere una bella spina nel fianco.

di Olga Fassina

 

Concorso per presidi, nuova figuraccia. Gelmini costretta a cancellare mille quesiti

Una prova per 42mila docenti divenuta un emblema di errori e superficialità. Anche in questo caso il ministero dell'Istruzione aveva parlato di "pochi e irrilevanti errori", oggi sul sito la comunicazione: rimossi 976 test su 5750, quasi uno su cinque

E siamo a tre figuracce - con tanto di smentite del ministro Gelmini che poi risultano fasulle - in meno di una settimana.

I 42 mila aspiranti presidi - in un concorso diventato l'emblema di errori e superficialità - si sono finora esercitati su centinaia di quiz sbagliati, formulati in modo non chiaro o ambigui. Quasi mille, per la precisione.

Ieri sera il ministero dell'Istruzione ha reso noto l'elenco l'atteso dei test risposta multipla, pubblicati il primo settembre, da espungere. Nel corso delle scorse settimane il pacchetto di 5.750 test dai quali saranno estratti i 100 quiz su cui verrà effettuata il prossimo 12 ottobre la preselezione è stata oggetto di mille polemiche.

I candidati hanno trovato tantissimi errori, criticando il Ministero che si è limitato a rispondere alle critiche con un laconico comunicato: "Pochi e irrilevanti gli errori", diceva lo scorso 6 settembre. Ma ad una più ampia revisione una commissione di esperti esterni ha ritenuto opportuno eliminare dal sorteggio 976 domande, il 17. Quasi uno su cinque. Ma è "irrilevante". Come i neutrini, come le minori bocciature occultate.

 

5 ottobre

Via alla riscossione delle tasse. Famiglie nei guai. Salvi i grandi evasori

Il governo accelera sulla riscossione delle imposte. L'obiettivo è portare, nel 2012, la quota di evasione recuperata a 13 miliardi. Nel mirino c'è di tutto: dalle multe al bollo. Nessuna guerra totale al nullatenente con il Suv.

Uno spettro s’aggira per l’Italia. É quello delle nuove procedure di riscossione che il governo ha garantito all’Agenzia delle entrate e quest’ultima a Equitalia, il suo braccio armato. L’obiettivo, spiegano fonti interne, è portare nel 2012 la quota di evasione recuperata a 13 miliardi di euro (quest’anno dovrebbero essere poco più di 11 miliardi). Già questo obiettivo, peraltro, è puramente numerico: nei miliardi recuperati di cui si parla – solamente il 10,4 per cento dell’evasione “scoperta” – rientra di tutto, dalle multe al bollo del motorino fino alle procedure conciliative con maxi-sconto.

Insomma, non è proprio la guerra totale al nullatenente in Suv di cui si nutre l’immaginario collettivo. In ogni caso, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti ha bisogno di soldi per il pareggio di bilancio e tutto fa brodo per aumentare gli incassi di Equitalia, anche i metodi vessatori: ci sono voluti tre interventi legislativi infatti – dalla manovra estiva del 2010 a quella di luglio scorso – ma alla fine il Tesoro è riuscito a mettere in mano ai suoi agenti riscossori una pistola carica. E pazienza se ci sarà qualche vittima.

Fino al 1 ottobre, cioè sabato scorso, la procedura di recupero era la seguente: in caso di mancato pagamento, l’Agenzia delle entrate preparava la cartella esattoriale, poi passava la pratica a Equitalia che notificava l’inizio della fase esecutiva al contribuente, il quale aveva 60 giorni per pagare o fare ricorso. Tempo medio della procedura: 15-18 mesi al netto dei ricorsi. Ora si passa al cosiddetto “accertamento esecutivo”, che velocizza tutto l’iter: già con la cartella dell’Agenzia delle entrate – nota bene: anche se giace in qualche ufficio postale – partono i 60 giorni di tempo per il contribuente e, al 61esimo, la pratica è esecutiva. A quel punto Equitalia, grazie ad una modifica estiva, dovrà comunque sospendere tutto per 180 giorni. Il tempo medio dunque s’aggira attorno agli otto mesi.

Si trattasse solo di un iter più rapido, però, sarebbe benvenuto, solo che le novità non sono finite. Intanto se il contribuente decide di fare ricorso, dovrà comunque versare entro i famosi 60 giorni un terzo dell’importo contestato. E poi esiste una larga possibilità per Equitalia di agire in via discrezionale e preventiva nel caso esistano “fondati motivi” di ritenere in pericolo “il positivo esito della riscossione”: dall’ipoteca sulla casa del presunto evasore, al pignoramento dei suoi conti correnti fino alla ganasce fiscali per i veicoli. Curioso per uno Stato che ritarda di anni i pagamenti ai suoi fornitori o la restituzione dei crediti fiscali.

“Se questo fosse il trattamento che si riserva all’evasore totale sarebbe anche giusto, ma vale per tutti, anche per una piccola impresa che non riesce a pagare una rata per via della crisi o per uno che ha sbagliato a fare la dichiarazione dei redditi”, spiega al Fatto Antonio Iorio , avvocato tributarista, collaboratore del Sole 24 Ore ed ex direttore delle relazioni esterne proprio per l’Agenzia delle Entrate: “La prima cosa da fare, comunque, è migliorare la qualità degli accertamenti. Bisogna sempre ricordare, infatti, che oggi il 40 per cento circa delle contestazioni vengono poi annullate da un giudice: in questo modo c’è il rischio che l’obbligo di versare un terzo della cartella per avviare il ricorso diventi un onere improprio per le imprese. Pensi ad una piccola azienda accusata di aver evaso o comunque non versato al fisco 2 milioni di euro: deve pagarne in due mesi 700 mila solo per fare ricorso e se non lo fa rischia di vedersi ipotecare gli impianti o pignorare i conti correnti col risultato che le banche le chiudono il credito perché viene segnalata alla centrale rischi”.

Nel mirino, insomma, finiranno le Pmi, che già vivono un rapporto difficile con la pubblica amministrazione. E’ lecito dubitare che la pistola gentilmente fornita da Tremonti verrà usata con prudenza: è stata data proprio per sparare. Le pressioni dal Tesoro e dall’Agenzia delle Entrate, confermano fonti di Equitalia, sono tutte dirette al conseguimento degli obiettivi di budget. Tradotto: gli agenti riscossori dovranno portare a casa l’osso dei 13 miliardi e poco male se nel frattempo un altro pezzo di imprenditoria italiana sarà desertificato o si finirà in realtà per aumentare l’evasione. “I veri evasori – spiegano – non pagano quasi niente e mettono da parte una sorta di fondo rischi con cui poi chiudere una procedura di conciliazione col fisco: con gli sconti che strappano ci guadagnano lo stesso. E così anche chi paga pensa comincia a pensare che farlo sia da fessi”. La reazione dei cittadini – per ora sottotraccia – è di esasperazione: il tono dei commenti sul web, per dire, è lo stesso ad ogni latitudine, dal blog di Beppe Grillo ai siti del Sole, del Giornale o della Repubblica. Per capirci su cosa si rischia, in Sardegna – dove ci fu una sollevazione popolare contro Equitalia già ad aprile – vanno in esecuzione oltre 80mila cartelle: “C’è aria di rivolta”, titola un giornale dell’isola.

 

di Marco Palombi

Coldiretti: calo sensibile degli occupati nell'agricoltura

Circa 40mila lavoratori in meno nel settore. Cresce solo il sud +3 percento circa

Quarantamila lavoratori in meno nel secondo trimestre 2011 : il settore dell'agricoltura è davvero in crisi. La notizia è stata diffusa da Coldiretti che ha studiato e analizzato i dati rilasciati dall'Istat. Il calo d' occupazione del settore, -4,6 percento , è il maggiore rispetto agli altri settori.

Dalla Coldiretti sono convinti che l'enorme calo occupazionale sia dovuto alla "crisi economica e finanziaria e alla crisi di mercato che ha colpito alcune coltivazioni a elevato impiego di manodopera ed è stata notevolmente amplificata dalla psicosi determinata del batterio killer in Germania".

Ad essere maggiormente colpita l'agricoltura del nord Italia dove c'è stato un 12,2 percento in meno di occupazione. Solo al sud si è verificato un piccolo incremento di occupati pari al 3,1 percento in più rispetto al trimestre precedente.
Poca differenza fra occupati dipendenti, che hanno perso circa il 5 percento delle presenze e gli occupati indipendenti che hanno subito cali per circa il 4 percento.

I dati sono impressionanti e secondo Coldiretti almeno 50 milioni di chili di frutta e verdura sono rimaste invendute . Ma non va dimenticata anche la situazione meteorologica che ha messo un po' il bastone fra le ruote alla semina e alle forti e continue piogge che si sono verificate nel periodo primaverile.

Ne abbiamo discusso con Gino Rotella, segretario nazionale della Flai-Cgil , il sindacato dei lavoratori del settore agricolo della Cgil. "Tutto sommato non darei troppo perso a questo genere di dati. In agricoltura ci sono dei momenti in cui i raccolti non vanno bene. Il calo d'occupazione riguarda anche quella parte di lavoratori che viene occupata stagionalmente e se una stagione non va molto bene, la logica conseguenza è il minore utilizzo di manodopera. Io comunque i dati li guarderei a fine anno, dove si ha uno specchio maggiore su ciò che è accaduto. Comunque, l'occupazione in agricoltura sta mantenendo quasi inalterato il suo livello di occupazione a differenza di altri settori. Se poi valutiamo gli anni precedenti alla crisi notiamo che la forza lavoro impiegata era costante. Poi dopo con la crisi si è logicamente ridotta. Anche se sembra un paradosso, il settore agricolo è a mio avviso un settore anti-ciclico" racconta Rotella.

"In questo momento dove i consumi si stanno riducendo , il potere di acquisto delle famiglie si abbassa sempre più , il lavoro anche dei titolari di azienda che programmano la produzione non diminuisce. Infatti non credo che ci sia una riduzione del livello produttivo. Tutt'altro. Credo che ci sia una stabilizzazione delle produzioni. Poi è ovvio che le crisi, come quella dell'estate scorsa, si riflettono sulla società con l'aumento dei prezzi più che sulle produzioni. Quindi: il settore soffre ma non per quanto riguarda le quantità prodotte ma per le ripercussioni sui prezzi. E quindi anche per i redditi degli agricoltori ne risentono" conclude Rotella.

Alessandro Grandi

 

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