Si chiama "sounding Italy" ed è quel vasto mercato
che all'estero sfrutta l'immagine italiana per vendere cibi che, però, con
l'Italia hanno poco a che fare. Dal parmesao argentino, all'Asiago - ma del
Wisconsin - alla Robiola - ma del Canada, il prosciutto Daniele. O ancora
formaggi, paste, dolci fabbricati in altri paesi, magari proprio dai figli degli
italiani emigrati tanti anni fa, e rivenduti come italiani grazie a una
bandierina tricolore o un paesaggio toscano. Tutto bene, basta che se ne parli?
In fondo significa che l'Italia è sempre leader nella gastronomia? "Neanche per
idea, si tratta di un affare milionario, e se è vero che l'Italia non avrebbe
modo di esportare così grandi quantità di alimenti, è anche vero che taglia le
gambe a una potenziale esportazione", osserva Silvia Biasotto, responsabile
Sicurezza alimentare del Movimento di difesa del Cittadino.
Ed è proprio la sicurezza alimentare il tema del rapporto presentato stamattina
dal Movimento insieme a Legambiente "Italia a Tavola 2011". La notizia buona è
che non siamo più in un'epoca in cui bisognava temere di trovare la diossina
nella mozzarella, o il metanolo nel vino. Ma è anche vero che le contraffazioni,
invece, galoppano. E se non sono strettamente pericolose per la salute,
rappresentano pur sempre un abbassamento della qualità del prodotto. D'altro
canto, le norme a favore di una maggiore sicurezza alimentare sono aumentate
negli ultimi anni, e l'attenzione delle associazioni, ma anche delle forze
dell'ordine, nel nostro paese è alta.
Ultima in ordine di apparizione, il regolamento comunitario he ha messo un
limite alla presenza di alchilesteri nell'olio extravergine di oliva. Gli
alchilesteri sono sostanze utilizzate, tra le altre cose, per "deodorare" - nel
senso di togliere l'odore - agli olii che sono stati fabbricati con olive
stoccate male, e che quindi non erano totalmente integre. Ora il limite è di 75
grammi per litro. "Basti considerare - dice ancora Biasotto - che in un olio che
abbiamo comprato qualche tempo fa per fare una dimostrazione in un convegno ce
ne erano 1000 per litro!". Ora, aldilà degli alchisteri, la contraffazione che
riguarda soprattutto cibi di qualità - i cibi che espongono marchi di origine
come Dop o Ipg - i prodotti artigianali, o tipici, come alcuni vini, assicura
milioni ai truffatori e droga l'economia, però è difficile incontrarli nei
supermercati. E' facilissimo, invece, beccarli sule bancarelle, oppure nei nuovi
canali d'acquisto come l'on line. Bisogna, dunque, stare attenti.
Basti pensare alla quantità di merce sequestrata come contraffatta dal Comando
carabinieri Politiche agricole e alimentari. 9 mila i litri d'olio "deodorato"
sequestrati quest'anno. E oltre 2 mila i pomodori pelati falsamente indicati
come Dop o biologici.
Ma quanto incide la crisi? I truffatori sono spinti a buttare sul mercato merce
contraffatta perché così possono contenere il prezzo? "Probabilmente sì - dice
Silvia Biasotto - ma sono i consumatori a dover capire come afre la spesa, a
cosa dare priorità. Non ha senso acquistare un olio extravergine di oliva che
costa due euro in meno, se poi compriamo insalata già lavata in busta, o i
salumi invece che al banco già confezionati, oppure pesce sfilettato. Così
pensiamo di risparmiare tempo, ma spendiamo di più e alla fine 'cediamo' su
prodotti che invece per essere di qualità devono avere un certo prezzo".
E se qualcuno subodora una truffa in qualche negozio? Cosa fare? Esiste il
numero verde anticontraffazione 800.020.320 , ma potete postare segnalazioni
anche alla mail ccpacdo@carabinieri.it
La Lombardia brucia, la
‘ndrangheta alza il tiro. Nel mirino gli amministratori pubblici
Da Milano alla provincia. Dal centro della movida
fino a Zelo Buon Persico. Sono decine i roghi dolosi che colpiscono sindaci,
consiglieri comunali e locali notturni riferibili alle cosche. Un'escalation
criminale dopo i maxi-blitz del 2010
A Milano e nell’hinterland, bar, negozi e auto che vanno a fuoco, fanno suonare
forte l’allarme criminalità organizzata. Lampi d’una gomorra meneghina che a
fine settembre ha visto andare in fumo lo Sugar Lounge, nel cuore del quartiere
Isola a Milano. Il 7 ottobre, il Centro sportivo Ripamonti di via Iseo ad Affori.
Ma quel che preoccupa maggiormente è che i piromani, su mandato dei boss, hanno
alzato il tiro e colpiscono amministratori pubblici e primi cittadini. A Rozzano,
immediatamente a sud della tangenziale ovest, negli ultimi dieci giorni del mese
di settembre, sono andati a fuoco il negozio di panetteria di un ex consigliere
comunale di maggioranza, Domenico Anselmo e il chiosco di frutta e verdura di un
altro consigliere – questa volta ancora in carica – Francesco Cuvello , in
minoranza col Pd. Addirittura un sindaco e prima ancora un assessore
provinciale, sono invece le vittime a Zelo Buon Persico, paese già in provincia
di Lodi, ma non distante dalla prima cintura metropolitana compresa tra Paullo,
Mediglia e Pantigliate.
È la notte di domenica 25 settembre, Paolo Della Maggiore , primo cittadino di
Zelo in quota Pdl, viene svegliato da alcuni rumori in strada. Si tratta della
gente che rumoreggia attorno alla sua auto che scoppietta, avvolta dalle fiamme.
Atto doloso, non c’è dubbio. Difficile, invece, inquadrare l’episodio accaduto
dieci giorni prima, sempre a Zelo, ma ai danni della vettura di Vanna Cavalleri
(Pdl), consigliera alle pari opportunità in Provincia a Lodi e zia
dell’assessore ai lavori pubblici del comune, Fabiano Riva . Nel suo caso i
vigili del fuoco non escludono l’ipotesi del “corto circuito”.
Il sindaco Della Maggiore, invece, è certo che per quanto lo riguarda non si è
trattato della bravata di un gruppo di giovani annoiati. “C’è stata
premeditazione e una buona dose di professionalità nel mettere in atto questo
disegno scellerato”, dice, mentre i carabinieri pare siano sulle tracce di
almeno un paio di persone. Queste ben mimetizzate e al buio, hanno prima
cosparso l’auto del sindaco di materiale infiammabile, sul cofano e sul
bagagliaio posteriore, poi vi hanno appiccato il fuoco.“È evidente – continua
Della Maggiore – che il lavoro della mia amministrazione sta deludendo
qualcuno”.
A Zelo, che rimane un centro molto appetibile per la speculazione immobiliare –
a pochi minuti da Milano, ma già immerso nella tranquillità della bassa – hanno
deciso di rivedere il Piano di governo del territorio, senza concedere ulteriore
spazio ai costruttori. Un proposito che può aver rovinato i piani a qualcuno di
pericoloso, tenuto conto che il paese si trova incuneato in un territorio che
negli anni ha visto al lavoro molte aziende vicine alla ‘ndrangheta.
Secondo un’informativa che i carabinieri del Nucleo investigativo di Monza hanno
consegnato alla Direzione distrettuale antimafia di Milano – servita per
istruire il processo “Infinito” – nel comune di Merlino, a meno di dieci minuti
da quello di Zelo e con esso confinante, nell’edilizia e nel movimento terra
hanno operato nel 2008 i mezzi di Francesco Ietto , esponente di spicco di un
clan della Locride, attualmente a processo in Calabria per associazione mafiosa.
A Tribiano, a 5 chilomentri da Zelo, l’Arma ha segnalato al lavoro assieme a
Ietto, Giuseppe Grillo , Antonio Perre , Domenico Cocciolo , Giancarlo Marrazzo,
Luigino Gambirasio, Giuseppe Trimboli tutta gente nota alle forze dell’ordine,
come pure Giuseppe Cosentino, originario di Isola di Capo Rizzuto, indicato come
“uomo di fiducia del Capo Cosca Giuseppe Arena”.
Una criminalità minacciata nei propri interessei, manda segnali espliciti.
Torniamo allora a Milano. Il centro sportivo Ripamonti, per esempio, è un bene
sequestrato alla ‘ndrangheta ( clan Flachi ). Forse, i compari calabresi,
preferiscono che la “loro roba” sia distrutta piuttosto che ceduta allo Stato.
Dietro i fatti dello Sugar Lounge, invece, c’è solo una scomoda parentela. Il
titolare, Raffaele Falzetta , è parente di Vincenzo Falzetta, 49 anni, accusato
nel 2009 di riciclare soldi in appartamenti, negozi, discoteche, bar, pizzerie e
ristoranti. Altri interessi criminali, sono probabilmente alla base dei fatti di
Rozzano. Qui, una licenza non concessa per una sala slot, può aver mosso i
risentimenti di gente poco raccomandabile.
In prospettiva la situazione che preoccupa maggiormente è quella di Zelo Buon
Persico. Qui nel mirino c’è il primo cittadino. “Ho provato a darmi delle
riposte rivendendo i miei sette anni di amministrazione” dice Della Maggiore.
Nel 2007 vietò l’accesso a un bando comunale di Italia 90, un‘azienda che solo
qualche anno dopo si scoprì essere nelle disponibilità di Luigi Abbate , detto
“Gino u mitra”, uomo d’onore del mandamento mafioso di “Porta Nuova” a Palermo.
Dopo il suo arresto e quello del suo prestanome, Claudio Demma, che aveva preso
appalti per la gestione dei rifiuti in molti comuni del milanese, del lodigiano
e del cremonese, a Italia 90, questa primavera, furono sequestrati beni per
oltre 22 milioni di euro. A dare forte impulso alle indagini i dubbi sollevati
da Della Maggiore
Pensare però che ci sia solo questa vecchia storia dietro la sua macchina andata
a fuoco, potrebbe essere una semplificazione. Bisogna tener conto dell’industria
dei compari di ‘ndrangheta, che ha sempre bisogno di nuova terra da divorare.
Personaggi impresentabili ottengono il paravento da parte di aziende pulite
della zona, tutt’ora in attività. Sono di Paullo, di Dresano, di Melegnano e di
Binasco, e tutte impegnate nel movimento terra e di conseguenza nell’edilizia.
Un sindaco che ha a cuore la campagna non può che rappresentare una minaccia per
tutti loro.
Italia, i rifiuti scomparsi
dell'ex Sisas di Pioltello
280mila tonnellate di nerofumo, di cui 7.800
altamente inquinanti. Che fine hanno fatto? La Regione 'monitora' e l'Arpa
assicura che in Lombardia non c'è pericolo ma i cittadini hanno paura.
Sopra
gli impianti fotovoltaici attorno a Inzago , un paese nel nord della provincia
di Milano , si è depositata una strana polvere nera . Qualche mese fa, intorno a
luglio, in città si sentiva un odore fastidioso , poi scomparso. I cittadini,
però, non son tranquilli e hanno chiesto a Fabio Pizzul, consigliere regionale
Pd al Pirellone, di fare un'interrogazione all'assessore regionale al
territorio, Daniele Bellotti, per capire cosa sta succedendo. Bellotti, ha
risposto il 18 ottobre, dicendo che la Regione monitora, per quanto può, e che
resta all'erta. Niente di più .
Tutto è cominciato quando, nel marzo del 2011, dall'area ex Sisas di Pioltello ,
300mila metri quadri di impianti chimici ormai in disuso, arrivano svariate
tonnellate di nerofumo, una forma particolare di rifiuto industriale. Dall'area
dovevano sparire 280mila tonnellate di scorie in tempi brevissimi, dato che la
Corte di giustizia europea aveva minacciato di multare l'azienda per non aver
rispettato la direttiva che prevede l'obbligo di bonifica dei siti d'interesse
nazionale (Sin) . Così, lo svuotamento delle discariche di Pioltello avviene in
fretta e furia. Ma il nerofumo sepolto nell'ex area Sisal ha diversi gradi
d'inquinamento: si passa dalla "fuliggine" agli scarti solidi con codice
19.13.03.01, considerati materiale pericoloso . E alcune delle pratiche per
mettere in sicurezza la scoria non vengono espletate come dovrebbero.
L'azienda che se ne occupa, la Daneco impianti , rassicura, però, che a Inzago
si tratta di scorie di tipo 19.13.02, materiali solidi non inquinanti, che deve
solo essere triturati e miscelati nel terreno. "Io mi sono preoccupato lo stesso
quando ci hanno detto che portavano il nerofumo anche qui", dice Silvano Calvi,
assessore all'ambiente di Pozzo d'Adda, un comune che dista poche centinaia di
metri dalla discarica. Calvi, infatti, aveva letto i giornali, che raccontavano
di un fascicolo d'inchiesta aperto dalla magistratura di Milano su segnalazione
di Greenpeace.
Qualcosa non torna ai pm Paola Pirotta e Paolo Filippini . Secondo gli
inquirenti sulla scrivania di Luigi Pelaggi , capo della segreteria tecnica del
ministero dell'Ambiente, è arrivata una tangente da 700mila euro , mandata dalla
Daneco con lo scopo di rendere più veloci le pratiche per la bonifica dell'ex
Sisas. Inoltre, i pm di Milano pensano che ci sia stato un declassamento di
parte dei rifiuti, in modo che risultassero meno pericolosi: da 19.13.02, scorie
speciali non pericolose industriali, a 19.12.12, semplici rifiuti urbani.
Infatti, il numero di aziende attrezzate per lo smaltimento dei pericolosi in
Europa sono poche e molto costose. "In Italia si trovano in tre impianti: parte
alla Valle sabbia servizi di Brescia, parte alla Xela di Cortaccia, in provincia
di Bolzano e parte residuale all'Ecoenrgy di Noventa di Piave, in provincia di
Venezia. Nessuna di queste, però, ci risulta attrezzata per smaltire rifiuti
pericolosi ", spiega Federica Ferrario , autrice del report Il mistero dei
rifiuti scomparsi per Greenpeace. Inzago, quindi, sembrerebbe esclusa da questo
giro, ma i cittadini ancora non sono sicuri di cosa ci sia interrato a pochi
passi dalle loro case. "Che cosa succede sotto? Ora non sentiamo più odori ma
non capiamo se i rifiuti stanno inquinando la falda o i terreni", continua
Silvano Calvi.
L'Arpa, l'agenzia regionale per la protezione all'ambiente, assicura che i
controlli sono stati fatti il 19 maggio e che non sono state riscontrate
irregolarità.
Eppure questa storia convince poco l 'ong ambientalista . Molti sono ancora i
dubbi lasciati irrisolti dalla Daneco e a cui le istituzioni lombarde non hanno
ancora risposto. Per esempio, non si sa ancora dove siano finite le altre 7.800
tonnelate di materiale pericoloso, con un'altissima concentrazione di mercurio
al suo interno. Al contrario, Greenpeace ha le prove che buona parte delle
280mila tonnellate di rifiuti bonificate sono finite alla Befesa, un' azienda
spagnola che sta a Nerva, nella regione di Huelva. "Sappiamo per certo che in
questo caso non c'è stato alcun trattamento dei rifiuti pericolosi", dice
Ferrario. Nulla vieta che questo sia accaduto anche nelle discariche italiane.
In luglio e in aprile, inoltre, ci sono stati "degli incendi sospetti proprio
nelle aree in cui si trovano stoccate le scorie italiane", precisa Ferrario.
Per altro, la bonifica dell'area ex Sisas non è ancora completa. La Daneco ha
provveduto a svuotare la discarica A e B, giusto il minimo indispensabile per
evitare la multa della Corte europea. Manca ancora di terminare i lavori nella
discarica C, oltre al lembo di terra attorno alla zona di scarica, considerato
pericoloso. A luglio, l'ultimo bando è stato vinto dalla General smontaggi di
Novara, ma i tempi, ora che non pende più la sentenza della Corte europea,
rischiano di essere infiniti.
25 ottobre
21 ottobre
Proibito il corteo della
Fiom
Rocco Di Michele
A
memoria di sindacalista , non si ricorda una cosa del genere. Ma il governo
prova a trasformare una giornata di conflitto aspro in occasione di vendetta.
Verso chi manifesta in genere, certo. E soprattutto nei confronti della Fiom,
che della giornata di sabato è stata protagonista pacifica e anche molto
arrabbiata per la piega presa dagli eventi.
Quando Maurizio Landini, segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, ha
dato notizia in conferenza stampa del divieto disposto dalla Questura sulle tre
piazze richieste per la manifestazione di venerdì, molti sono rimasti con un
punto interrogativo stampato negli occhi. «La questura non ci ha ancora
autorizzato il corteo. Per noi fare il corteo è necessario, a maggior ragione
dopo quello che è successo sabato. Chi si è organizzato per mesi lo ha fatto per
colpire chi manifestava. Noi garantiamo la sicurezza. Nelle nostre
manifestazioni non si viene con i caschi e gli zaini pieni di cose. Si viene con
la faccia scoperta e con le mani libere».
In un primo momento era stata richiesta piazza Navona. Ma su questa già gravava
un'ordinanza di divieto generico da parte del sindaco della Capitale, l'ex
fascista Gianni Alemanno; che aveva a sua volta preso a pretesto un «vandalo»
sorpreso mesi fa a danneggiare in perfetta solitudine una delle tre fontane
della piazza. Bocciata anche la seconda richiesta - piazza Farnese - giudicata
troppo vicina alla prima. Fin qui si era ancora nella «quasi normalità», e
queste risposte erano state date ancor prima della manifestazione e degli
scontri di sabato. Ma la lunga attesa per una risposta sulla terza piazza -
Santi Apostoli - aveva fatto capire che c'è un calcolo e un disegno politico
dietro le lungaggini.
Un disegno diventato chiaro nel pomeriggio, quando da via San Vitale è trapelato
un divieto formale al corteo. Le parole usate sono però forse ancora più gravi
dell'atto in sé; veniva infatti detto che «non c'è nessun divieto a manifestare,
ma ai lavoratori della Fiom sarà messa a disposizione venerdí una piazza. Non ci
sarà un corteo alla luce di quanto accaduto sabato scorso». Continuava la
mediazione per «garantire il diritto di tutti a manifestare» e «venire incontro
alle esigenze dei romani che hanno pagato un prezzo troppo alto» a causa del
corteo dello scorso sabato. Ma al momento, «per motivi di sicurezza», niente
corteo.
Una decisione di una gravità eccezionale . Le «ragioni di sicurezza» sono
decisamente una scusa risibile. La manifestazione del 21 interessa soltanto
lavoratori della Fiat e di Fincantieri: ovvero gente che lavora da anni fianco a
fianco, si conosce benissimo e verrà a Roma mettendosi in piazza per gruppi
sostanzialmente omogenei (per azienda e singolo stabilimento). Che in una
situazione del genere si possa «infiltrare» qualche giovane «vestito di nero» è
assolutamente da escludere. Se anche non si trattasse della Fiom - che ha una
storia chiarissima di come «sta in piazza» - quella motivazione non potrebbe
reggere a un esame men che superficiale.
Le tute blu non intendono però accettare un diktat del genere e insisteranno
«nel chiedere di fare un corteo e di terminare in una piazza». Come hanno sempre
fatto. «Speriamo ancora che la questura ci ripensi; noi non consideriamo questa
risposta definitiva. Non esiste che non ci diano una piazza». In fondo, spiegano
a Corso Trieste, «sarebbe la risposta migliore ai fatti di sabato». Una bella
manifestazione operaia, pacifica, per conservare il diritto democratico
garantito dalla Costituzione.
«Sembra incredibile che a solo un anno dalla manifestazione del 16 ottobre -
quella in cui la Fiom e i movimenti portarono a Roma quasi mezzo milione di
persone, ndr - si sia arrivati a questo punto. Se la risposta a 1.000 violenti è
vietiamo le manifestazioni, si tratta di una risposta pericolosa». E anche un
po' assurda, visto che al corteo era stata invitata a partecipare anche la
segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso.
Ma il clima politico viene avvelenato in modo bipartisan, rendendo difficile
ragionare in modo serio su un argomento serissimo come l'esercizio della
democrazia. Da una parte c'è la stampa berlusconiana che sparge allarmismo
parlando di «sindacato che prepara un autunno caldo contro il governo» (Il
Giornale, ieri), di volontà di «portare in piazza i lavoratori per protestare
contro le politiche economiche del governo» - fatto assolutamente normale, visti
gli effetti che queste stanno già avendo. Dall'altra c'è una parte della stampa
anti-berlusconiana che pensa di poter mettere in difficoltà il Cavaliere
sorpassandolo a destra e chiedendo «massima fermezza» nella gestione dell'ordine
pubblico. Fino a un Antonio Di Pietro che rispolvera i fasti omicidi della
«legge Reale» (254 morti e 371 feriti, quasi tutti innocenti cittadini che si
erano trovati a passare nel posto sbagliato al momento sbagliato).
Con «democratici» così, le svolte reazionarie hanno spesso la strada spianata.
Il Grande Gioco africano
Manlio Dinucci
Dopo
che il «Protettore Unificato» ha demolito lo stato libico, con almeno 40mila
bombe sganciate in oltre 10mila missioni di attacco, e fornito armi anche a
gruppi islamici fino a ieri classificati come pericolosi terroristi, a
Washington si dicono preoccupati che le armi dei depositi governativi finiscano
«in mani sbagliate». Il Dipartimento di stato è quindi corso ai ripari, inviando
in Libia squadre di contractor militari che, finanziati finora con 30 milioni di
dollari, dovrebbero mettere «in stato di sicurezza» l'arsenale libico. Ma,
dietro la missione ufficiale, vi è certo quella di assumere tacitamente il
controllo delle basi militari libiche.
Nonostante il declamato impegno di non inviare «boots on the ground», operano da
tempo sul terreno in Libia agenti segreti e forze speciali di Stati uniti, Gran
Bretagna, Francia, Italia, Qatar e altri, che hanno guidato gli attacchi aerei e
diretto le operazioni terrestri. Loro compito, ora, è assicurare che la Libia
«pacificata» resti sotto il controllo delle potenze che sono andate a
«liberarla». Il 14 ottobre, lo stesso giorno in cui il Dipartimento di stato
rendeva noto l'invio di contractor in Libia, il presidente Obama annunciava
l'invio di forze speciali in Africa centrale, all'inizio un centinaio di
militari. Loro compito ufficiale è quello di «consiglieri» delle forze armate
locali, impegnate contro l'«Esercito di resistenza del Signore». Operazione
finanziata dal Dipartimento di stato, finora, con 40 milioni di dollari. Il
compito reale di questi corpi d'élite, inviati da Washigton, è creare una rete
di controllo militare dell'area comprendente Uganda, Sud Sudan, Burundi,
Repubblica centrafricana e Repubblica democratica del Congo. E mentre gli Stati
uniti inviano proprie forze in Uganda e Burundi, ufficialmente per proteggerli
dalle atrocità dell'«Esercito del Signore» che si dice ispirato al misticismo
cristiano, Uganda e Burundi combattono in Somalia per conto degli Stati uniti,
con migliaia di soldati, il gruppo islamico al-Shabab. Sostenuti dal Pentagono
che, lo scorso giugno, ha fornito loro armi per 45 milioni di dollari, compresi
piccoli droni e visori notturni.
Il 16 ottobre, due giorni dopo l'annuncio dell'operazione Usa in Africa
centrale, il Kenya ha inviato truppe in Somalia. Iniziativa ufficialmente
motivata con la necessità di proteggersi dai banditi e pirati somali, in realtà
promossa dagli Stati uniti per propri fini strategici, dopo il fallimento
dell'intervento militare etiopico, anch'esso promosso dagli Stati uniti. E in
Somalia, dove il «governo» sostenuto da Washington controlla appena un quartiere
di Mogadiscio, opera da tempo la Cia, con commandos locali appositamente
addestrati e armati e con contractor di compagnie miltari private. Gli Stati
uniti mirano, dunque, al controllo militare delle aree strategiche del
continente: la Libia, all'intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente;
l'Africa orientale e centrale, a cavallo tra Oceano Indiano e Atlantico. Il
gioco, apparentemente complicato, diventa chiaro guardando una carta geografica.
Meglio su un atlante storico, per vedere come il neocolonialismo somigli in modo
impressionante al vecchio colonialismo.
Profughi, il caos dei
documenti
Direttive poco chiare e documenti in deroga rispetto alle norme vigenti: ecco
come i profughi non trovano lavoro.
"Siamo
tra l'incudine e il martello: non capiamo più niente . Dalla Questura e dalla
Prefettura non sono arrivate circolari scritte". A parlare così è Giuseppe
Squillace, responsabile dell' Ufficio per l'impiego di Rozzano , un paesone da
50mila abitanti nella provincia meridionale di Milano. Qui, all'inizio di
luglio, si sono presentati circa duecento richiedenti asilo provenienti dal
residence Ripamonti di Pieve Emanuele , da Trezzano, da Zibido San Giacomo.
Tutti in fila per essere iscritti all'agenzia provinciale che cerca lavoro per i
disoccupati. Sono i profughi portati via da Lampedusa in maggio e che ora
risiedono in Lombardia in attesa di risposte sul loro futuro. Tutti avevano in
mano un permesso di soggiorno in cui si leggeva "attività lavorativa" : "Non ho
mai visto documenti di quel tipo", racconta Squillace.
Infatti non sono previsti dalla normativa per la richiesta di asilo.
All'articolo 11 del decreto legislativo 140 del 2005 si dice che se dopo sei
mesi dal rilascio della domanda il richiedente non per colpa sua non ha ancora
ricevuto una risposta "il permesso di soggiorno per richiesta asilo è rinnovato
per la durata di sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa fino alla
conclusione della procedura di riconoscimento". Perciò la nuova norma è "contra
legem", è un'anomalia che ha creato non pochi disguidi . Il rischio è che la
confusione normativa, unita alla ridottissima disponibilità di posti di lavoro,
condanni tutti i migranti alla disoccupazione. Infatti, per ora, a Pieve nessuno
ha ancora un impiego . "Ad alcuni vanno addirittura a chiedere il certificato di
residenza, che non è scritto nella legge", racconta il responsabile del presidio
della Croce Rossa di Pieve Emanuele, Alberto Bruno , a cui è affidata la
gestione dei richiedenti del Ripamonti.
Per la questura la concessione della possibilità di lavorare doveva essere
un'opportunità. Data la mole di persone arrivata in Lombardia, serviva un
appiglio per potersi costruire una vita. Niente di meglio che potersi dare da
fare per cominciare a guadagnare autonomamente. Almeno così è stato interpretato
da qualche legale, che preferisce restare anonimo. Peccato, però, che ci sia
un'evidente "latitanza organizzativa" da parte degli enti che hanno gestito
l'emergenza . Non è nemmeno chiaro il percorso del provvedimento emanato dalla
Questura: a quanto riferiscono le associazione, c'è stato un momento in cui è
stato sospeso e poi è stato ritrasmesso. Il tutto sempre senza che ci sia stata
la minima comunicazione scritta. Ciò che non ha funzionato, quindi, è stata la
comunicazione tra gli organi decisionali e gli uffici competenti. La macchina
della burocrazia s'è inceppata immediatamente: "Il problema sta nella durata dei
permessi - spiega Alberto Bruno -. Un permesso non ostativo al lavoro, quindi
che non vieta espressamente, e che vale sei mesi di solito permette la ricerca
del lavoro".
Giuseppe Squillace dell'Ufficio per l'impiego di Rozzano racconta che da agosto
in avanti la situazione è cambiata : gli altri migranti che sono arrivati agli
sportelli avevano un foglio con scritto "in attesa di asilo politico": "A queste
persone non abbiamo più rilasciato la dichiarazione di disponibilità al lavoro
". Il responsabile aggiunge poi che dall'alto è arrivata "una comunicazione
orale": da quel momento in avanti ai migranti sarebbe solo stato concesso di
frequentare corsi di formazione al lavoro . "Ma senza i finanziamenti i corsi
non si possono fare", aggiunge Squillace. Per essere ospitati al residence
Ripamonti lo Stato spende per ogni profugo 50 euro al giorno . Con 5 euro di
più, nei centri d'accoglienza di Milano si paga anche il supporto legale e
psicologico, oltre alle borse lavoro, stage retribuiti trovati dal Centri
orientamento al lavoro (Celav). Ma tutto questo per Pieve e gli altri "centri
dell'emergenza" non esiste.
Lorenzo Bagnoli
14 ottobre
Il Governo dello…
sbadigliare!
Berlusconi, chiedendo la fiducia, dice che
l’Italia è un sistema vitale, ricco, vivo . Dice che loro sentono la
responsabilità, che vogliono sconfiggere la strategia della paralisi, che
vogliono agire con la rapidità e l’efficienza imposta dai tempi. E mentre lo
dice, Umberto Bossi al suo fianco ne mima i significati più intimi e profondi,
come un implacabile traduttore istantaneo, uno specchio deforme, una macchina
della verità che mostra la reale natura delle cose, celata dall’ennesimo
vaniloquio ad uso e consumo di una compagnia di giro che non incanta più
nessuno.
Sono ben dodici gli sbadigli profondi e cavernosi che l’élite direzionale del
“Governo del fare” riesce a dispensare, assisa sullo scranno più sacro del
tempio della Democrazia, nel giro di neppure 19 minuti. Nessun altro simbolo
avrebbe potuto essere altrettanto efficace e potente di questo, per sigillare
come un epitaffio tombale il declino di un esecutivo narcolettico, catalettico,
atonico, vuoto simulacro in rappresentazione della totale paralisi
istituzionale, come un bozzolo incartapecorito, abbandonato dalla vita e vittima
di un progressivo, pietoso collassato strutturale.
Dopo avere abbondantemente superato il suo termine naturale, la gerontocrazia
che infesta i gangli vitali di questo Paese deve giungere immediatamente anche
al suo termine istituzionale. Altrimenti, ci trascineranno tutti nella tomba
insieme a loro.
Il Presidente del postribolo
Oramai siamo al porno-delirio! Qualche tempo fa
abbiamo avuto dal presidente Berlusconi la strabiliante notizia che viviamo in
«un paese di merda»: C’è da chiedersi se non sia la sua e quella della sua
cricca. Ammesso che sia vero, infatti, chi l’ha sgovernata per quasi un
ventennio, se non loro? Hanno mangiato e bevuto troppo, a nostre spese, e i
risultati della grande abbuffata si vedrebbero, anzi si vedono, eccome!
Ora abbiamo appreso che il partito di maggioranza alle prossime elezioni
potrebbe cambiar nome: da “Partito della libertà” a “Forza Gnocca”.
Uno scherzo? Forse, ma non troppo. Intanto, saremmo di fronte ad una terza
(ancora?) discesa in campo di B., con un partito rinnovato. Senza Fini, questa
volta. E senza Casini. Il quale, battuta per battuta!, a questo punto, dato
l’incolpevole nome, potrebbe anche starci e condurre felicemente in porto le
trattative segrete per una nuova coalizione. Il web si è scatenato sul “Partito
della Gocca”. Su internet si legge dell’iniziativa di divertiti blogger che, tra
le altre proposte, modificherebbero così il simbolo del Pdl: “Gnocca” in alto,
foto di B. al centro, “B. presidente” in basso.
Il bozzetto coglie nel segno, perché il nuovo nome reinterpreterebbe alla grande
il vecchio “Forza Italia”. Vi sembra esagerato? Si è letto sulle cronache che
anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, in Via del Plebiscito a Roma,
avrebbe mostrato ad alcuni giornalisti, tra il serio e il faceto, il logo del
nuovo partito: la vecchia bandiera di “Forza Italia” con la scritta «Viva la
Fica, Berlusconi presidente». Avrebbe poi nascosto il foglio e spiegato a voce
con tetra spiritosaggine: «C’è scritto: “Viva l’Italia”» .
Spiegazione quanto mai opportuna per capire lo stile (si fa per dire!)
dell’uomo, della maggioranza di cui fa parte (le parlamentari del partito,
offese nella loro dignità di donne, perché non si ribellano?), e del capo di
governo di cui è ministro. Ovviamente, solo un’ipocrita gente di sacrestia può
pensare con finto orrore alla sessualità (salvo poi praticarne a volte in
segreto forme pervertite e criminali!). Ognuno viva privatamente la sessualità
come, quando e con chi vuole, nel rispetto dell’altro/a e delle leggi, si sa.
Ma ridurre la politica ad un postribolo, no, questo no!
Le parole, le metafore, le barzellette di pessimo gusto sfornate a getto
continuo da B. (il nuovo nome del partito, tradotto in inglese con “Go Pussy, ha
fatto l’ennesimo giro del mondo), hanno superato ormai il livello di guardia.
Tanto da far pensare, come molti in rete hanno ricordato, i famosi versi
danteschi del Purgatorio: « Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza
nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello » (Canto VI,
176-178.). L’Italia dolorosamente asservita ad un regime di antidemocrazia,
sgovernata da una cricca di cortigiani famelici e corrotti, talvolta accusati di
gravi reati penali; un paese allo sbando, senza una leadership autorevole e un
governo che governi, per di più tragicamente in preda alla gran tempesta della
crisi mondiale; simile insomma non ad una gran signora, ma ad un bordello.
Questa l’Italia d’oggi?
Se così fosse, aveva allora ragioni da vendere l’“Economist” quando, il 9 giugno
2011, titolava un suo memorabile articolo-inchiesta: «The man who screwed an
entire country». L’uomo che ha fottuto un intero paese. Cioè B., manco a dirlo.
Quasi un ventennio di leggi ad personam, o ad criccam, col sostegno decisivo
della Chiesa/Vaticano, per spolpare l’Italia, e renderla irriconoscibile.
L’Italia stuprata. Per rimanere nella brutta metafora, ogni prostituta ha il suo
magnaccio, o i suoi magnacci.
Ma la metafora, oltre che brutta, non sembra più rispecchiare il paese reale. A
giudicare dagli ultimi successi referendari, si direbbe che la parte maggiore e
maggioritaria d’Italia, indipendentemente dalle appartenenze partitiche, non ci
sta. O non ci sta più. Forse vuole aria nuova, fresca, pulita, salubre,
respirabile a pieni polmoni. Non più appestata dai fetori di questa maggioranza
in Parlamento che è minoranza nel paese. Di questo strano Gabinetto di Governo.
E del suo Presidente.
Michele Martelli
di Giorgia Fletcher
Un disastro off-shore
Ci risiamo, l'ennesima «marea nera» provocata da
una nave in avaria che riversa carburante nell'oceano. Il disastro è avvenuto
questa volta vicino alle coste della Nuova Zelanda, dove una nave portacontainer
- la rena, una sorta di mastodonte di 236 metri, vecchio di 32 anni, bandiera
liberiana - si è incagliato nella barriera corallina Astrolabe, circa 11,5
miglia nautiche al largo della North island - la più settentrionale delle due
grandi isole che compongono il paese oceanico. Martedì un sopralluogo effettuato
dai tecnici di Maritime New Zealand, l'ente incaricato di far fronte a incidenti
marittimi, ha rivelato che finora si sono sversate tra 150 e 350 tonnellate di
carburante dai serbatoi della nave, cioè molto più di quanto si pensava fino al
giorno prima.
Già così, stiamo parlando del più grave disastro ambientale avvenuto in Nuova
zelanda, e le autorità stimano che la bonifica richiederà parecchie settimane.
Ma in quei serbatoi ci sono 1700 tonnellate di gasolio, così il rischio è di un
disastro maggiore. Anche perché nelle ultime ventiquattro ore la nave si è
ulteriormente assestata contro la barriera corallina e il danno alla nave si è
aggravato. La situazione - e i tentativi di intervento - sono aggravati dalle
condizioni meteo nella zona dell'incidente, con venti tra 37 e 46 km/ora e
ondate di tre o quattro metri. L'equipaggio è stato evacuato. Ora Maritime New
Zealand ha diramato un allarme ai naviganti: la nave può muoversi ulteriormente,
e se si inclinerà i containers possono andare liberi e finire a riva. La nave
stessa può finire per spezzarsi. Anche per questo la priorità resta pompare via
il carburante contenuto nei serbatoi - «un'operazione complessa che richiederà
tempo», ha detto ieri il premier John Key.
Nel frattempo sulle coste si vedono le scene solite di un disastro simile -
addetti al lavoro per raccogliere il bitume dalle spiagge. Le autorità vogliono
tentare con sostanze chimiche che aggrediscono il gasolio, ma le onde rendono
difficile l'operazione. Stanni usando il Corexit, un disperdente che,
assicurano, è dieci volte meno tossico dei disperdenti normalmente usati. Lunedì
gli addetti dell'ente nazionale per i disastri uanno lavorato per far uscire i
gas volatili dal serbatoio, prelimibnare per poi installare manualmente una
pompa che ne tiri fuori il gasolio. Ma sono operazioni lente - soprattutto per
le avversità meteo. Un altro aspetto che allarma le autorità neozelandesi è il
fatto che 11 dei container a bordo della Rena trasportano sostanze perocolose -
tra cui due container di ferrosilicone, che rischia di incendiarsi a contatto
con l'acqua. Per il momento i container sono tutti intatti e non si sono mossi -
ma se la situazione si prolunga...
Il gasolio finora sversato sta andando in direzione sud-ovest, e sarà
inevitabile che raggiunga le spiagge tra Mount Maunganui e Maketu e il porto di
Tauranga, il più grande porto neozelandese (che era la destinazione della nave
avariata). La ripulitura delle spiagge non è cominciata, spiegano le autorità,
perché il peggio non è ancora arrivato - se fatta subito sarebbe un'operazione
da ripetere tra pochi giorni, meglio aspettare che il bitume si accumuli per
rimuoverlo tutto insieme Intanto però è emergenza - cittadini ammoniti a stare
lontano dalla coste, non mangiare pesce e frutti di mare dalle zone contaminate.
Una 70ina di volontari stanno cercando gli uccelli marini che possono essere
rimasti inzuppati di gasolio e i naturalisti sono allarmatissimi - è il momento
della riproduzione per molte specie. E non solo uccelli - anche mammiferi marini
come le foche.
Greenpeace New Zealand sostiene che il disastro della Rena deve suonare un
allarme «su quanto sia difficile affrontare gli sversamenti di petrolio in mare
e l'impatto vdevastante che possono avere sulla flora e fauna, sulle coste, e
sull'economia marina». Greenpeace sta raccogliendo firme su una petizione per
chiedere al governo di sospendere in modo permanente le prospezioni petrolifere
off-shore.
Regione Sicilia, marito
promuove la moglie. Diecimila euro al mese in più di stipendio
Luisa Paladino, a capo del Polo museale di Catania
è stata promossa a numero uno dell'Unità operativa per i beni storici-artistici
alla Soprintendenza etnea. A firmare lo scatto, il marito a sua volta guida del
dipartimento dei Beni culturali. La denuncia arriva dai Cobas. Ma la famiglia
Campo non è nuova a questi exploit visto che la figlia 27enne è già dirigente
della Regione a Bruxelles.
Il simbolo della Regione Sicilia Il marito, Gesualdo Campo , guida il
dipartimento dei Beni culturali della Regione Sicilia, la moglie Luisa Paladino
, da dirigente del Polo museale di Catania è stata promossa a capo dell’Unità
operativa per i beni storici-artistici alla Soprintendenza etnea: una promozione
che ha fatto schizzare in alto la sua busta paga, da 5.164 a 15.494 euro di sola
indennità aggiuntiva. E da chi è stata promossa? Dal marito stesso, che con un
tratto di penna ha proiettato in alto la carriera della moglie.
Miracoli della burocrazia siciliana che sembra non temere i tempi delle vacche
magre annunciati dal governatore Raffaele Lombardo e resta sorda ad ogni appello
anti-sprechi lanciato dal presidente della Regione. In nome del ‘’tengo
famiglia’’, la busta paga lievita anche a dispetto delle regole: a Palermo,
infatti, alla dirigente dell’unità operativa per i beni storici artistici, Campo
ha concesso un’indennità pari a 10mila e 800 euro; alla moglie, a Catania,
invece, per lo stesso identico tipo di responsabilità, l’importo è di 15mila 494
euro, ‘’ovvero – sottolineano i Cobas , che hanno denunciato il caso – la cifra
massima assegnabile a un’unità operativa nella Regione siciliana: comunque,
circa il 50% in più dell’importo corrisposto alla collega palermitana”. E
‘’visto il grado di parentela della dirigente catanese con Gesualdo Campo –
prosegue il sindacato – sembrerebbe che nessuno si sia preoccupato che ciò possa
avere assunto il profilo del cattivo gusto, della mancanza di bon ton
istituzionale e, chissà, dell’eccesso di onnipotenza e di danno all’immagine
della pubblica amministrazione”. Ecco perché i Cobas segnalano a Lombardo,’’
come da lui stesso richiesto’’ questa storia ‘’per inserirla nel suo blog nel
rispetto di una corretta e completa informazione a tutti i cittadini’’.
Del resto, per i colleghi e per il sindacato non è stata una sorpresa l’exploit
della famiglia Campo, che nel luglio scorso aveva piazzato a Bruxelles la figlia
Giordana , 27 anni, e già dirigente, con una vera e propria “chiamata diretta”
per un contratto da funzionario direttivo che ricalca quello utilizzato per i
componenti degli Uffici di gabinetto. Giovane, dirigente e con un incarico di
tutta comodità: gli uffici della Regione siciliana a Bruxelles non brillano,
infatti, per particolare produttività, se Lombardo, nella delibera 161 del 21
giugno , ha sentito il bisogno di specificare che ‘’l’indennità di trasferta ai
dipendenti di ruolo verrà corrisposta solo in caso di effettiva presenza nella
sede belga’’, dalla quale, evidentemente, in molti, tra gli impiegati, si
tenevano alla larga.
Un’altra casa da sogno per
Scajola. Questa volta all’insaputa del Comune
L'ex ministro ha costruito un campetto di
calcio, uno spogliatoio nella sua splendida villa sulle alture di Imperia.
Peccato soltanto che non abbia chiesto il permesso. Non basta: la costruzione
che gli è costata sanzioni per migliaia di euro è stata realizzata proprio dalla
ditta del geometra Gianfranco Gaggero. Sì, il vicesindaco e assessore alle Opere
Pubbliche del Comune.
Un’altra casa all’insaputa, ma stavolta del Comune. Claudio Scajola non è
fortunato con il mattone: ha costruito un campetto di calcio, uno spogliatoio
nella sua splendida villa sulle alture di Imperia. Peccato soltanto che non
abbia chiesto il permesso. Non basta: la costruzione che gli è costata sanzioni
per migliaia di euro è stata realizzata proprio dalla ditta del geometra
Gianfranco Gaggero. Sì, proprio il vicesindaco e assessore alle Opere Pubbliche
di Imperia, il Comune cui doveva essere richiesto il permesso.
Per Scajola, che nelle sua Imperia viene ancora chiamato “u ministru”, è la
terza volta che il cemento nasconde una rogna. Certo, in passato gli è andata
peggio: prima c’è stato l’appartamento con vista sul Colosseo, che, secondo i pm,
sarebbe stato pagato dall’imprenditore Diego Anemone con 80 assegni circolari da
12.500 euro. Parliamo della famosa casa comprata, disse l’allora ministro, “a
sua insaputa”. La Procura di Roma l’ha indagato per violazione della legge sul
finanziamento illecito ai partiti.
Poi sulla testa dell’ex ministro è piovuta un’altra tegola che pochi ricordano:
“u ministru” è ancora indagato per associazione a delinquere insieme con
l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone (uno dei
patriotidellacordataAlitalia).Oggetto dell’inchiesta la costruzione del
mega-porticciolo di Imperia, un’opera da 140 milioni di euro fortemente voluta
da Scajola. Insomma, da un politico scafato come l’ex ministro ci si sarebbe
aspettato che si muovesse con i piedi di piombo. E invece due anni fa ha deciso
di realizzare nuove costruzioni nei terreni della sua villa da sogno: ecco
allora il campetto per le partitelle con amici e parenti, poi gli spogliatoi,
quindi muretti a secco e qualche sentiero. Non un ecomostro, ma bisogna tener
presente dove siamo: parliamo di una zona vincolata, uno degli angoli più belli
del Ponente ligure. E la villa di Scajola è una via di mezzo tra un’abitazione e
un monumento: 29 stanze affacciate sul Golfo di Imperia, un complesso capace di
ospitare nel 2002 il vertice tra gli allora ministri dell’Interno italiano e
francese, Claudio Scajola e Nicolas Sarkozy .
Un edificio tanto semplice quantoelegante,finitosullepaginepatinate dei magazine
di mezza Italia , con le fotografie dell’allora ministro e della signora Maria
Teresa Verda ritratti in mezzo ai saloni scintillanti, nel parco e in sella a
moto d’epoca. Mentre i cronisti entusiasti scrivevano: “Più che il ministero
dello Sviluppo economico avrebbero dovuto dargli quello dell’ambiente”. Scajola
disse: “Da casa nostra si cattura tutta Imperia”, una frase che a qualcuno parve
quasi un’allusione allo strapotere dell’allora ministro sul Ponente ligure.
Ma qualcosa lo stesso mancava a quel paradiso. Così Scajola ha deciso di
aggiungere l’impianto sportivo privato. Senza permesso. Salvo poi “autodenunciarsi”.
La pratica alla fine è arrivata sui tavoli della Sovrintendenza e del Comune.
Così il 7 giugno la Sovrintendenza ha dichiarato la conformità delle opere, ma
“u ministru” ha dovuto pagare 4.000 euro di sanzione (il massimo previsto). Poi
la parola è passata al Comune, che ha concesso il permesso dopo il pagamento di
un’oblazione di 1.288 euro. Giovanni De Cicco , l’ingegnere che ha presentato il
progetto assicura : “Il progetto è compatibile con le norme, sennò non ci
avrebbero dato il parere favorevole”.
GAGGERO, vicesindaco e titolare dell’impresa che ha costruito, spiega: “È tutto
secondo la legge. In quella zona il piano regolatore prevede che si possano
costruire gli impianti che abbiamo realizzato”. Aggiunge: “Noi lavoriamo da
quindici anni per Scajola e sappiamo che lui ci tiene a rispettare la legge. È
stato lui a insistere per pagare il massimo delle sanzioni previste”. Gaggero è
uomo di fiducia di Scajola. Gli è vicino anche Paolo Strescino, il sindaco.
Sindaci, vicesindaci, membri del cda di banche e autostrade, “u ministru” nel
Ponente è ancora monarca assoluto, in barba agli scandali romani e alle
inchieste.
Ma dopo lo scandalo dell’appartamento vista Colosseo, dopo l’inchiesta sul
porto, perché costruire senza permesso e pagare 5.200 euro? “Da queste parti lo
fanno tutti”, dice una persona vicina a Scajola. Ma da un esponente politico di
spicco non ci si potrebbe aspettare di più? “Scajola ha sanato la situazione
pagando perfino la sanzione”. Ma c’è chi dà una versione diversa: “La trafila
prevista dalla legge richiede tempo. E magari impone variazioni al progetto. Più
semplice costruire senza permesso e poi metterci una pezza”.
7 ottobre
La tirannia della
maggioranza
di Stefano Rodotà
Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato
abbastanza discredito internazionale per l'incapacità di gestire la crisi. E
anche per l'impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora
si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di
centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d'informazione, e il
mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e
ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi
classici di “tirannia della maggioranza”, della quale parlò Alexis de
Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno
annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione
dell'informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la
natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una
pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su
questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto
addosso).
I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal
Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle
intercettazioni, anche per riassunto, fino all'udienza-filtro, di cui rimangono
incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione
giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento,
smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della
Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo
già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell'iniziativa del
Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si
verrebbe a creare per effetto dell'emendamento. Anche prima dell'udienza-filtro,
infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal
segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante
dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti,
come l'ordinanza con la quale viene disposto l'arresto di una persona. Nulla
vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo
ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole
a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti
comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni
rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e
sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.
Questo è un classico meccanismo censorio. L'obiettivo dichiarato di impedire la
pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere
perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni.
Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l'irragionevole tecnica
che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la
sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l'ennesima volta a
leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in
cui le informazioni che le riguardano non hanno “alcun rilievo” per
l'informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure
pubbliche, per i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, parla
l'articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono
comportarsi con “onore e disciplina”. E tutti noi siamo titolari del diritto di
poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.
Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo
essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel
doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico
fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il
meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla
responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di
conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può
indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona
politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente
vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: “l'istituzione dei
diritti è (…) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla
minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le
divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole
far funzionare il diritto, dev'essere ancor più sincera”. Se quella logica viene
travolta, allora è l'idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il
fondamento moderno del sistema dei diritti.
Monza, il ministro-assessore
ce l’ha fatta: variante ad personam per la Cascinazza
Dopo una lunga battaglia consiliare, adottato il provvedimento tanto caro al
titolare dello Sviluppo economico, Paolo Romani: consentirà di edificare 580mila
metri cubi di case e uffici sul terreno che il fratello del presidente del
Consiglio acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Ma la Procura
vuole vederci chiaro su alcuni coincidenze sospette
Il ministro Paolo Romani con il presidente
del Consiglio Silvio Berlusconi Dopo una lunga battaglia in assise civica, il consiglio comunale di Monza ha
adottato la variante al Pgt (Piano di governo del territorio) che ridisegna la
città brianzola e consente di edificare 580mila metri cubi di case e uffici alla
Cascinazza , il celebre terreno che il fratello del presidente del Consiglio
acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Il provvedimento è sempre
stato molto a cuore al ministro Paolo Romani. Il titolare del Sviluppo
economico, del resto, a Monza è assessore con delega all’Expo 2015, ma prima di
entrare nel Governo Berlusconi rivestiva la carica di assessore all’Urbanistica.
I più maligni, dicono addirittura che il premier l’avesse inviato lì proprio per
occuparsi della cambio di destinazione d’uso di quei terreni, che da agricoli
rischiano di diventare edificabili.
Una bella rivalutazione dell’area che, calcolando il costo al metro quadro prima
e dopo la modifica, la fa valere oggi circa 120 milioni di euro in più rispetto
al 2007. Ma la Cascinazza non è l’unico esempio a Monza di terreni agricoli o a
verde pubblico che valevano poco o nulla quando sono stati acquistati e che ora,
con la variante del centrodestra adottata ieri mattina, sono diventati
edificabili per svariati milioni di metri cubi. Chi possiede quei terreni ha
potuto beneficiare di una riqualificazione complessiva che si avvicina ai 500
milioni di euro. Di certo una bella fortuna, in tutti i sensi.
Ma la vera sorpresa arriva quando, per soddisfare una semplice curiosità, si va
a vedere chi sono i proprietari di alcune delle aree in questione. Un lungo
lavoro di controllo che è emerso anche in consiglio comunale e che sta
interessando adesso la Procura, alla quale spetterà capire se si tratta solo di
coincidenze. Perché la Lenta Ginestra , la società che ha incorporato nel 2008
la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo
per corrispettivi 40 milioni di euro, non possiede a Monza solo il terreno della
Cascinazza. Ne ha almeno due direttamente controllati che si stima valgano 49
milioni di euro in più grazie all’intercessione dell’assessore Paolo Romani ,
tra cui un’area, all’interno del Parco della Boscherona, dove si potranno
costruire 375mila metri cubi di cemento. La Lenta Ginestra è controllata al 70%
dal Gruppo Brioschi Sviluppo Immobiliare della nota famiglia Cabassi . L’altro
30%, invece, è in mano alla Axioma Real Estate srl di Angelo Bassani che a sua
volta è controllata per il 75% dalla Marconi 2000 Spa di Gabriele Sabatini e di
Bassani stesso.
E proprio quest’ultima società possiede altri tre terreni che si stima siano
stati rivalutati per circa 11 milioni di euro nel documento urbanistico promosso
dall’allora assessore all’Urbanistica Romani e poi concluso da altri. Risultato:
rivalutazione complessiva dei sei terreni della società per un totale di circa
180 milioni di euro. Ma Paolo Berlusconi non aveva venduto tutto? Non proprio.
Gli addetti ai lavori ravvisano nella struttura statutaria la caratteristica per
la quale gli introiti delle operazioni vengono divisi tra i soci, tra cui anche
la Istedin stessa, acquisita per incorporazione. Il che significa solo una cosa:
in un modo o nell’altro, anche il fratello del premier in questo momento sta
sorridendo. Anche perché la Cascinazza era sempre stata la spina nel fianco
delle sue operazioni immobiliari.
Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato
11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo
l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome). I nuovi proprietari però
avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di
lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino
a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola,
condannando la Istedin a pagare le spese legali per aver fatto causa al Comune
di Monza che non gli permetteva di edificare. “Deve essere rigettato il ricorso
che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà”,
stabilì la Cassazione, chiudendo così la questione. Già il ‘Piano Benevolo’,
voluto qualche anno fa dalla Lega, rendeva inedificabile l’area. Questo prima
che arrivasse Romani e facesse ben altre scelte. Ma adesso quel “terreno
maledetto” rischia di tornare ad essere una bella spina nel fianco.
di Olga Fassina
Concorso per presidi, nuova
figuraccia. Gelmini costretta a cancellare mille quesiti
Una prova per 42mila docenti divenuta un emblema di errori e superficialità.
Anche in questo caso il ministero dell'Istruzione aveva parlato di "pochi e
irrilevanti errori", oggi sul sito la comunicazione: rimossi 976 test su 5750,
quasi uno su cinque
E siamo a tre figuracce - con tanto di smentite del ministro Gelmini che poi
risultano fasulle - in meno di una settimana.
I 42 mila aspiranti presidi - in un concorso diventato l'emblema di errori e
superficialità - si sono finora esercitati su centinaia di quiz sbagliati,
formulati in modo non chiaro o ambigui. Quasi mille, per la precisione.
Ieri sera il ministero dell'Istruzione ha reso noto l'elenco l'atteso dei test
risposta multipla, pubblicati il primo settembre, da espungere. Nel corso delle
scorse settimane il pacchetto di 5.750 test dai quali saranno estratti i 100
quiz su cui verrà effettuata il prossimo 12 ottobre la preselezione è stata
oggetto di mille polemiche.
I candidati hanno trovato tantissimi errori, criticando il Ministero che si è
limitato a rispondere alle critiche con un laconico comunicato: "Pochi e
irrilevanti gli errori", diceva lo scorso 6 settembre. Ma ad una più ampia
revisione una commissione di esperti esterni ha ritenuto opportuno eliminare dal
sorteggio 976 domande, il 17. Quasi uno su cinque. Ma è "irrilevante". Come i
neutrini, come le minori bocciature occultate.
5 ottobre
Via alla
riscossione delle tasse. Famiglie nei guai. Salvi i grandi evasori
Il governo accelera sulla riscossione delle imposte. L'obiettivo è portare, nel
2012, la quota di evasione recuperata a 13 miliardi. Nel mirino c'è di tutto:
dalle multe al bollo. Nessuna guerra totale al nullatenente con il Suv.
Uno spettro s’aggira per l’Italia. É quello delle nuove procedure di riscossione
che il governo ha garantito all’Agenzia delle entrate e quest’ultima a Equitalia,
il suo braccio armato. L’obiettivo, spiegano fonti interne, è portare nel 2012
la quota di evasione recuperata a 13 miliardi di euro (quest’anno dovrebbero
essere poco più di 11 miliardi). Già questo obiettivo, peraltro, è puramente
numerico: nei miliardi recuperati di cui si parla – solamente il 10,4 per cento
dell’evasione “scoperta” – rientra di tutto, dalle multe al bollo del motorino
fino alle procedure conciliative con maxi-sconto.
Insomma, non è proprio la guerra totale al nullatenente in Suv di cui si nutre
l’immaginario collettivo. In ogni caso, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti
ha bisogno di soldi per il pareggio di bilancio e tutto fa brodo per aumentare
gli incassi di Equitalia, anche i metodi vessatori: ci sono voluti tre
interventi legislativi infatti – dalla manovra estiva del 2010 a quella di
luglio scorso – ma alla fine il Tesoro è riuscito a mettere in mano ai suoi
agenti riscossori una pistola carica. E pazienza se ci sarà qualche vittima.
Fino al 1 ottobre, cioè sabato scorso, la procedura di recupero era la seguente:
in caso di mancato pagamento, l’Agenzia delle entrate preparava la cartella
esattoriale, poi passava la pratica a Equitalia che notificava l’inizio della
fase esecutiva al contribuente, il quale aveva 60 giorni per pagare o fare
ricorso. Tempo medio della procedura: 15-18 mesi al netto dei ricorsi. Ora si
passa al cosiddetto “accertamento esecutivo”, che velocizza tutto l’iter: già
con la cartella dell’Agenzia delle entrate – nota bene: anche se giace in
qualche ufficio postale – partono i 60 giorni di tempo per il contribuente e, al
61esimo, la pratica è esecutiva. A quel punto Equitalia, grazie ad una modifica
estiva, dovrà comunque sospendere tutto per 180 giorni. Il tempo medio dunque
s’aggira attorno agli otto mesi.
Si trattasse solo di un iter più rapido, però, sarebbe benvenuto, solo che le
novità non sono finite. Intanto se il contribuente decide di fare ricorso, dovrà
comunque versare entro i famosi 60 giorni un terzo dell’importo contestato. E
poi esiste una larga possibilità per Equitalia di agire in via discrezionale e
preventiva nel caso esistano “fondati motivi” di ritenere in pericolo “il
positivo esito della riscossione”: dall’ipoteca sulla casa del presunto evasore,
al pignoramento dei suoi conti correnti fino alla ganasce fiscali per i veicoli.
Curioso per uno Stato che ritarda di anni i pagamenti ai suoi fornitori o la
restituzione dei crediti fiscali.
“Se questo fosse il trattamento che si riserva all’evasore totale sarebbe anche
giusto, ma vale per tutti, anche per una piccola impresa che non riesce a pagare
una rata per via della crisi o per uno che ha sbagliato a fare la dichiarazione
dei redditi”, spiega al Fatto Antonio Iorio , avvocato tributarista,
collaboratore del Sole 24 Ore ed ex direttore delle relazioni esterne proprio
per l’Agenzia delle Entrate: “La prima cosa da fare, comunque, è migliorare la
qualità degli accertamenti. Bisogna sempre ricordare, infatti, che oggi il 40
per cento circa delle contestazioni vengono poi annullate da un giudice: in
questo modo c’è il rischio che l’obbligo di versare un terzo della cartella per
avviare il ricorso diventi un onere improprio per le imprese. Pensi ad una
piccola azienda accusata di aver evaso o comunque non versato al fisco 2 milioni
di euro: deve pagarne in due mesi 700 mila solo per fare ricorso e se non lo fa
rischia di vedersi ipotecare gli impianti o pignorare i conti correnti col
risultato che le banche le chiudono il credito perché viene segnalata alla
centrale rischi”.
Nel mirino, insomma, finiranno le Pmi, che già vivono un rapporto difficile con
la pubblica amministrazione. E’ lecito dubitare che la pistola gentilmente
fornita da Tremonti verrà usata con prudenza: è stata data proprio per sparare.
Le pressioni dal Tesoro e dall’Agenzia delle Entrate, confermano fonti di
Equitalia, sono tutte dirette al conseguimento degli obiettivi di budget.
Tradotto: gli agenti riscossori dovranno portare a casa l’osso dei 13 miliardi e
poco male se nel frattempo un altro pezzo di imprenditoria italiana sarà
desertificato o si finirà in realtà per aumentare l’evasione. “I veri evasori –
spiegano – non pagano quasi niente e mettono da parte una sorta di fondo rischi
con cui poi chiudere una procedura di conciliazione col fisco: con gli sconti
che strappano ci guadagnano lo stesso. E così anche chi paga pensa comincia a
pensare che farlo sia da fessi”. La reazione dei cittadini – per ora
sottotraccia – è di esasperazione: il tono dei commenti sul web, per dire, è lo
stesso ad ogni latitudine, dal blog di Beppe Grillo ai siti del Sole, del
Giornale o della Repubblica. Per capirci su cosa si rischia, in Sardegna – dove
ci fu una sollevazione popolare contro Equitalia già ad aprile – vanno in
esecuzione oltre 80mila cartelle: “C’è aria di rivolta”, titola un giornale
dell’isola.
di Marco Palombi
Coldiretti: calo sensibile degli occupati nell'agricoltura
Circa 40mila lavoratori in meno nel settore. Cresce solo il sud +3 percento
circa
Quarantamila
lavoratori in meno nel secondo trimestre 2011 : il settore dell'agricoltura è
davvero in crisi. La notizia è stata diffusa da Coldiretti che ha studiato e
analizzato i dati rilasciati dall'Istat. Il calo d' occupazione del settore,
-4,6 percento , è il maggiore rispetto agli altri settori.
Dalla Coldiretti sono convinti che l'enorme calo occupazionale sia dovuto alla
"crisi economica e finanziaria e alla crisi di mercato che ha colpito alcune
coltivazioni a elevato impiego di manodopera ed è stata notevolmente amplificata
dalla psicosi determinata del batterio killer in Germania".
Ad essere maggiormente colpita l'agricoltura del nord Italia dove c'è stato un
12,2 percento in meno di occupazione. Solo al sud si è verificato un piccolo
incremento di occupati pari al 3,1 percento in più rispetto al trimestre
precedente.
Poca differenza fra occupati dipendenti, che hanno perso circa il 5 percento
delle presenze e gli occupati indipendenti che hanno subito cali per circa il 4
percento.
I dati sono impressionanti e secondo Coldiretti almeno 50 milioni di chili di
frutta e verdura sono rimaste invendute . Ma non va dimenticata anche la
situazione meteorologica che ha messo un po' il bastone fra le ruote alla semina
e alle forti e continue piogge che si sono verificate nel periodo primaverile.
Ne abbiamo discusso con Gino Rotella, segretario nazionale della Flai-Cgil , il
sindacato dei lavoratori del settore agricolo della Cgil. "Tutto sommato non
darei troppo perso a questo genere di dati. In agricoltura ci sono dei momenti
in cui i raccolti non vanno bene. Il calo d'occupazione riguarda anche quella
parte di lavoratori che viene occupata stagionalmente e se una stagione non va
molto bene, la logica conseguenza è il minore utilizzo di manodopera. Io
comunque i dati li guarderei a fine anno, dove si ha uno specchio maggiore su
ciò che è accaduto. Comunque, l'occupazione in agricoltura sta mantenendo quasi
inalterato il suo livello di occupazione a differenza di altri settori. Se poi
valutiamo gli anni precedenti alla crisi notiamo che la forza lavoro impiegata
era costante. Poi dopo con la crisi si è logicamente ridotta. Anche se sembra un
paradosso, il settore agricolo è a mio avviso un settore anti-ciclico" racconta
Rotella.
"In questo momento dove i consumi si stanno riducendo , il potere di acquisto
delle famiglie si abbassa sempre più , il lavoro anche dei titolari di azienda
che programmano la produzione non diminuisce. Infatti non credo che ci sia una
riduzione del livello produttivo. Tutt'altro. Credo che ci sia una
stabilizzazione delle produzioni. Poi è ovvio che le crisi, come quella
dell'estate scorsa, si riflettono sulla società con l'aumento dei prezzi più che
sulle produzioni. Quindi: il settore soffre ma non per quanto riguarda le
quantità prodotte ma per le ripercussioni sui prezzi. E quindi anche per i
redditi degli agricoltori ne risentono" conclude Rotella.