30 ottobre

 

Ast Terni, Camusso: “Botte a militanti Fiom? Non è un caso, c’è stato un ordine”

Il segretario Cgil interviene sugli scontri a Roma. E sull'europarlamentare Picierno, che l'ha accusata di essere stata eletta con tessere false, dice: "Non mi interessa rispondere al protagonismo di qualcuno".

Da Il Fatto Quotidiano del 30 ottobre 2014, di Salvatore Cannavò

“È gravissimo quello che è accaduto ieri a Roma“. Alla richiesta di un commento sulle frasi di Pina Picierno, il segretario generale della Cgil propone di cambiare discorso. Lei stessa è corsa al Policlinico Umberto I per accertarsi della salute dei militanti Fiom picchiati. Poi ha parlato con Maurizio Landini e ha telefonato al ministro dell’Interno, Angelino Alfano.

Cosa ha detto al ministro Alfano?
Che quello che è avvenuto è gravissimo e chiediamo al governo di risponderne. Gli ho detto che occorre molta attenzione perché in una situazione così difficile non si sa dove si va a finire.

Avvertite una situazione pesante?
Ho incontrato personalmente i lavoratori dimessi, tutti e due raccontano la stessa cosa: c’è stato un ordine esplicito. Stupisce sempre, del resto, che queste cose possano avvenire per caso. Ci deve essere un ordine. Ma le manifestazione pacifiche non possono essere trattate in questo modo. Non voglio fare dietrologia però abbiamo chiesto di convocare il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in modo da rendere esplicita una direttiva su quale deve essere il comportamento delle forze dell’ordine. Quello che è accaduto oggi non deve più verificarsi.

Quanto accaduto potrà anticipare il vostro sciopero generale?
Fino all’8 novembre ci sono mobilitazioni già decise. Continuiamo a pensare che bisogna articolare e allargare le iniziative, dare voce ai territori. Saremo sottoposti a numerose tensioni, a probabili voti di fiducia, non abbiamo in mente una lotta di breve periodo.

La richiesta Cgil è ancora quella di modificare la legge delega o spostate il tiro sulla legge di Stabilità?
La priorità è che si crei lavoro, buon lavoro. Nella legge delega non c’è nulla sul superamento delle tante forme della precarietà. Lo Statuto dei lavoratori va esteso non ridimensionato. Legge delega, legge di Stabilità e riforma della Pubblica amministrazione sono tre cose che vanno insieme, una cosa non derubrica l’altra. In ogni caso, noi non diciamo solo dei “no”. Abbiamo idee, proposte: l’estensione dei diritti, la riduzione della precarietà, la qualità della pubblica amministrazione.

Pensate sia possibile un confronto con il governo o ci avete messo una pietra sopra?
Per stile una pietra sopra non ce la mettiamo mai. Una strada per confrontarsi è la più idonea ma non ne vediamo in questo momento le premesse. Abbiamo proposte e restiamo disponibili al confronto. Non ci chiudiamo in un fortino.

C’è una Cgil sotto assedio?
No. La fase attuale è piuttosto caratterizzata da una grandissima questione sociale. Per correttezza, va detto che la situazione non è tutta figlia di questo governo ma di una lunga stagione di crisi che ha lasciato moltissimi nodi irrisolti. Capisco che ci sia del nervosismo in giro. L’isolamento non ci riguarda a meno che non si voglia intendere una separazione dei temi del lavoro dalle priorità del Paese.

Cosa risponde a Pina Picierno?
Il mio sentimento prevalente è di parlare delle cose concrete e delle cose da fare. Non mi interessa rispondere al protagonismo di qualcuno. Ovviamente, ci riserviamo di valutare gli elementi di diffamazione ma non è questo il punto.

Immaginava che sarebbe stata il segretario dello scontro tra la Cgil e il partito a cui è iscritta?
Devo dire che quando sono stata eletta la preoccupazione era come affrontare una crisi così lunga. Ma forse abbiamo sottovalutato che una crisi così avrebbe cambiato non solo i rapporti sociali ma anche i rapporti sul piano politico. Ciò che invece non è mutata è la forte vocazione di autonomia della Cgil.

Non sentite il problema del rinnovamento, anche generazionale, della Cgil?
La Cgil non è mai un mondo omogeneo. Sabato scorso è stato evidente che siamo più compositi e più giovani di quello che è riconosciuto. Che poi anche noi abbiamo un problema di accelerazione del rinnovamento, non c’è dubbio. Ma questa discussione l’abbiamo aperta prima del “cinegiornale dell’era Renzi”.

 

6 ottobre

 

Rolling Stones a Roma. La Corte dei conti sta esaminando il carteggio tra il Comune e gli organizzatori e la prima cosa che balza agli occhi è che si parla sempre e soltanto del costo dell’occupazione degli spazi per il palco, per gli stand e per i chioschi bar. Della gigantesca area per il pubblico non si fa parola…

Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica”

QUALCOSA non torna nei calcoli che hanno permesso ai Rolling Stones di suonare davanti a 70mila persone pagando soltanto 7.934 euro per l’affitto del Circo Massimo. Ne è convinta la procura regionale della Corte dei conti, che sul caso ha aperto un fascicolo ed è al lavoro per determinare la reale dimensione del possibile danno erariale patito dalle casse del Comune. A confermarlo è lo scambio di comunicazioni intercorso tra organizzatori e gabinetto del sindaco tra l’11 e il 16 giugno, dieci giorni prima dello show. Nel carteggio si determinano le metrature realmente pagate per il concerto dello scorso 22 giugno. E l’enorme platea offerta dalla storica area archeologica non viene mai presa in considerazione.

Ma procediamo con ordine. Capitolo allestimenti: per il palco e l’area alle sue spalle, bisogna dividere in tre diversi momenti l’occupazione di suolo pubblico. Dall’11 al 17 giugno i metri quadrati impegnati sono 781. Salgono a 2.194 fino al giorno dello spettacolo e, in fase di smontaggio, scendono a 1.500. Seconda e terza voce, i 416 metri quadrati di punti ristoro e i 252 per i chioschi del merchandising ufficiale della rock band britannica.

Mai nelle richieste di occupazione di suolo pubblico si fa menzione di tutto ciò che resta del Circo Massimo, di quei 50mila metri quadrati (la stima è al ribasso) che sono stati transennati e riservati alle decine di migliaia di fan che si sono potuti permettere un biglietto da 78 euro. Riprendendo allora in mano le tariffe della delibera 75 del 2010 e moltiplicando l’area per il canone previsto per le “occupazioni di qualsiasi natura di suolo pubblico” e per il coefficiente “per attività aventi scopo di lucro”, il totale segna 104.650 euro.

Anche se si volesse considerare il concerto dei Rolling Stones una “manifestazione politica, culturale, sindacale, di volontariato, sportiva o ricreativa”, il risultato finale dell’operazione sarebbe di 72.800 euro. In ogni caso, somme mai incassate dal Campidoglio per un’area che di fatto romani e turisti non hanno potuto utilizzare per giorni, tra allestimento, evento e pulizie.

Ora, però, spetta al vice procuratore generale Guido Patti, titolare del fascicolo, determinare l’esatta entità del danno erariale. E, soprattutto, i responsabili che potrebbero essere chiamati a risarcire il Comune. Dalle prime battute dell’inchiesta, appare comunque improbabile che possano essere individuati tra i firmatari della vecchia delibera — poi rivista al rialzo — che determinava le tariffe per l’occupazione di suolo pubblico. Nel mirino della procura della Corte dei conti del Lazio, allora, potrebbe entrare chi si è occupato di stabilire quanti e soprattutto quali metri quadrati dovessero essere pagati dalla band di Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts per prendere in prestito il Circo Massimo.

Un’area sulla quale gli organizzatori del maxi-evento dello scorso 22 giugno sarebbero disposti ad allestire nuovi concerti. All’indomani dello scoppio della polemica sui 7.934 euro versati per impadronirsi dell’area, il proprietario dell’agenzia The Base aveva rilanciato: «I monumenti vanno difesi, ma fatti anche vivere. A noi piacerebbe fare un concerto al Circo Massimo ogni anno». Una proposta che ora, a tariffe riviste e con controlli più serrati, potrebbe anche far sorridere il sindaco Ignazio Marino.

 

La battaglia per il cibo del futuro

Non si ferma la corsa di Stati, multinazionali e fondi di investimento per impadronirsi di terre fertili a prezzi stracciati. Un tentativo di garantirsi le risorse alimentari di cui il Pianeta avrà presto bisogno che assume sempre più il volto di una nuova colonizzazione. E che sta gettando le basi di futuri conflitti per il controllo della poca acqua disponibile. Ecco chi sono i nuovi padroni del mondo che rispondono solo le logiche del profitto e come condizioneranno la nostra esistenza.

di Michele Di Salvo

ROMA - Quella che sta avvenendo è la più imponente operazione di invasione e colonizzazione della storia dell'umanità, che farebbe impallidire le mitologie su Genghis Khan o le manie di grandezza di Hitler, ma che non teme nemmeno la concorrenza storica del colonialismo dei secoli scorsi. Non è un'esagerazione, soprattutto se consideriamo che mentre quei fatti e fenomeni storici avevano delle "bandiere chiare", ovvero si sapeva più o meno esattamente chi attaccava chi e quali aree occupava, oggi quest'aggressione è "senza Stati e senza bandiere".

Interessi geopolitici. I conquistatori di oggi sono grandi multinazionali e fondi comuni di investimento che hanno azionisti, proprietari, investitori transnazionali, che hanno poco a che fare con ragioni e interessi geopolitici. Soggetti cui non è possibile chiedere o imporre risarcimenti di guerra, che non hanno sottoscritto alcuna convenzione di Ginevra né hanno obblighi di rispetto di diritti umani o sono interessati a ricostruzioni di qualsiasi tipo. Rispondono solo ed esclusivamente a logiche di profitto. Maggiore è la differenza tra costo di acquisizione e ricavo dalla vendita del bene prodotto, maggiormente è soddisfatto l'interesse delle aziende. Può sembrare una visione cinica o radicale, ma è un concetto economico "neutro": è la regola del "comportamento sociale" delle multinazionali, e va intesa come chiave di lettura unica per comprendere davvero quello che sta accadendo.

Gli analisti hanno definito questo fenomeno come land grabbing, più o meno "accaparramento di terra", ovvero l'acquisto o la locazione a lungo termine di estensioni terriere da parte di investitori stranieri. Il fenomeno emerge con forza alla fine del 2006, a seguito di un improvviso shock dei prezzi che fa impennare vertiginosamente il Food-Index mondiale, ovvero l'indice di borsa sui prezzi degli alimenti agricoli primari (grano, riso, cereali...).
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I contratti sottoscritti. Si scopre così grazie al lavoro di alcune Ong che mettono insieme i dati rilevati individualmente, che nel solo 2006 sono stati sottoscritti (quelli conosciuti) 416 maxi contratti di "accaparramento di suolo" in 66 paesi del mondo (quelli monitorati) per complessivi 87 milioni di ettari di terre coltivabili. Per intenderci sulla portata ci basta fare un paragone: l'intera superficie coltivabile italiana è inferiore a 17 milioni (considerando anche orti, giardini e parchi pubblici).

Il braccio finanziario dell'operazione

Secondo un rapporto pubblicato da Grain nel giugno 2011, le grandi acquisizioni su larga scala di terreni agricoli generano conflitti in tutto il mondo. Secondo l'Ong, questi progetti promuovono il tipo sbagliato di agricoltura per un mondo alle prese con gravi problemi alimentari e crisi ambientali. Eppure i fondi continuano a fluire verso terreni agricoli all'estero a causa dei rendimenti finanziari. Alcuni dei più grandi players che cercano di trarre profitto dai terreni agricoli sono i fondi pensione, con miliardi di dollari investiti. I fondi pensione degli Stati Uniti attualmente occupano circa 23.000 miliardi di dollari in "beni", di cui circa 100 miliardi di dollari si ritiene in materie prime. Di questi, una cifra tra i 5 e i 15 miliardi sono indirizzati in acquisizioni di terreni agricoli. E si prevede che entro il 2015 questa cifra verrà raddoppiata.

Si suppone che i fondi pensione lavorino per i lavoratori, contribuendo a mantenere i loro risparmi per la pensione in sicurezza. Solo per questo motivo, ci dovrebbe essere un livello di responsabilità pubblica o di altri soggetti coinvolti quando si tratta di strategie di investimento e di prendere le conseguenti decisioni. In altre parole, i fondi pensione possono essere una delle poche categorie di speculatori sulla terra agricola che le persone possono fermare, in virtù del fatto che è il loro denaro.

Oggi, le pensioni delle persone sono spesso gestite da aziende private per conto di sindacati, governi, datori di lavoro. Queste società sono responsabili della salvaguardia e "crescita" del risparmio previdenziale delle persone, in modo che queste risorse possano essere versate ai lavoratori in maniera regolare mensilmente dopo il pensionamento. A livello globale, si tratta di un una enorme quantità di denaro, regolarmente accresciuto da continua liquidità. I fondi pensione sono attualmente un grande player da 23 miliardi di dollari di patrimonio. I fondi più grandi del mondo sono quelli controllati dai governi, come il Giappone, Norvegia, Paesi Bassi, Corea e Stati Uniti

Beni "fondamentali". Il mercato dei capitali, e soprattutto i fondi previdenziali e pensionistici, sono stati colpiti duramente dalle oscillazioni dei prezzi delle materie prime sul finire degli anni novanta e delle risorse energetiche nei primi anni del nuovo secolo. In questo momento i gestori stanno cercando di ricostruire le partecipazioni a lungo termine per i loro clienti. Vedono nei terreni agricoli che chiamano beni "fondamentali" un chiaro modello economico della domanda e dell'offerta, che in questo caso dipende da una popolazione mondiale crescente il bisogno di essere alimentato, e le risorse per nutrire queste persone essere un bene limitato. I gestori di fondi osservano prezzi dei terreni relativamente bassi in luoghi come l'Australia, Sudan, Uruguay, Russia, Zambia o Brasile. Vedono tali prezzi muoversi in sincronia con l'inflazione (e, soprattutto, con i salari), ma non come altre merci nei loro portafogli di investimento, fornendo in tal modo un flusso di reddito diversificato.

Vedono a lungo termine un guadagno dal valore crescente dei terreni agricoli e il flusso di cassa che, nel frattempo, proviene dalle vendite delle colture, gli allevamenti da latte e produzione di carne. La scala è un fattore che rende il ruolo di questi fondi importanti. I fondi pensione hanno cominciato ad investire in materie prime, tra cui cibo e terreni agricoli, solo di recente. Con il valore delle materie prime e dei prodotti alimentari in così ripida crescita l'agricoltura è una fonte chiara e incontrovertibile di guadagno per gli investitori istituzionali

Secondo Barclays Capital, una parte consistente dei 320 miliardi di dollari di fondi istituzionali sono attualmente investiti in "prodotti di base", rispetto ai soli 6 miliardi di dollari di dieci anni prima. Gli hedge fund rappresentano un valore aggiuntivo di 60-100 miliardi di dollari. Queste cifre sono destinate a raddoppiare nei prossimi cinque anni. All'interno di questo panorama, i fondi pensione si dice che sono i maggiori investitori istituzionali in materie prime in generale (100 miliardi di dollari degli Stati Uniti dei 320 miliardi dollari di cui sopra) e di terreni agricoli, in particolare.

Dobbiamo inoltre tenere conto di alcune caratteristiche della gestione tipica dei fondi pensione: prima tra tutte la tendenza ad avere grandi posizioni di liquidità immediata per far fronte alle erogazioni previdenziali, spesso collegate anche a costi di sanità privata e oneri sociali. Sempre normalmente, la tendenza prudenziale della gestione tende a privilegiare una percentuale complessivamente elevata (anche per ragioni politiche interne) generalmente intorno al 20-25% dei capitali gestiti o in "pronti contro termine" o in titoli di Stato, nazionali ed esteri, e grandi investimenti immobiliari o investimenti in mutui, generalmente fondiari a medio termine (quelli per intenderci a costruttori o cooperative per la realizzazione di complessi edilizi da poi rivendere ai privati). Questo tecnicamente riduce - se possiamo dire così considerando la mole di denaro gestita - la forbice percentuale investibile al 50-60% del capitale. Il che rende quel 5% in realtà pari a circa il doppio, se lo consideriamo in funzione di quanto può davvero operare un fondo pensione ad esempio pubblico (le percentuali dei fondi privati normalmente sono differenti, ma non troppo).

Land grabbing, domande e risposte

Come sono strutturati i contratti di land grabbing?
Per non far risultare le terre nel proprio patrimonio "tassabile", vengono prese in locazione per periodi da 50 a 99 anni direttamente dagli Stati, senza tener contro di diritti di proprietà o di uso delle comunità locali. Questi contratti prevedono inoltre il pieno ed esclusivo utilizzo di tutte le risorse sottostanti e sovrastanti la terra. Questo comporta, ad esempio, che venga concesso un breve lasso di tempo alle popolazioni locali per lasciare la propria terra e portare via i propri beni, dopo di ché tutto quello che insiste su quel suolo diventa di proprietà delle aziende locatarie. Ma questo significa anche che senza un limite contrattuale, qualsiasi sia la coltura che quell'azienda decide di impiantare in un determinato appezzamento, può disporre di tutta l'acqua che ritiene, senza alcun limite e senza versare alcun canone aggiuntivo.

Si tratta di terreni ricchi di risorse idriche?
Le tensioni nel sud-ovest dell'Etiopia mostrano l'importanza fondamentale di accesso all'acqua nella corsa alla conquista globale. Dietro l'attuale corsa alla terra, c'è in realtà una vera e propria guerra mondiale per l'acqua. Coloro che si stanno accaparrando oggi grandi quantità di terra, sanno bene che il vero guadagno di lungo periodo è l'accesso alle risorse idriche, spesso incluso gratuitamente e senza alcuna restrizione, e che tale valore è certamente maggiore di quello stesso dei terreni agricoli. Pochi paesi in Africa hanno ricevuto più interesse verso i propri terreni agricoli rispetto a quelli serviti dal fiume Nilo (Egitto, l'Etiopia, Sud Sudan, Sudan e Uganda).

Quant'è l'acqua effettivamente disponibile?
Il Nilo resta un'ancora di salvezza ed è già una fonte di notevoli tensioni geopolitiche aggravate dai numerosi grandi progetti di irrigazione nella regione, con il risultato che il fiume che un tempo forniva acqua dolce al Mediterraneo ora invece è invaso nel suo delta dall'acqua salata proveniente dal mare, minando la produzione agricola. Per portare i territori in produzione dovranno essere irrigati e la prima domanda che ci si dovrebbe porre è proprio se ci sia abbastanza acqua per farlo. Ma nessuno di coloro che sono coinvolti nelle offerte dei terreni, siano essi gli accaparratori di terra o quelli che le terre le offrono, sembrano aver dato peso alla questione. L'Etiopia è la fonte di circa l'80% delle acque del Nilo. Nella sua regione di Gambela al confine con il Sud Sudan, aziende come Karaturi Global e l'Arabia Stars stanno già costruendo grandi canali di irrigazione che aumenteranno enormemente la capacità di prelievo di acqua dal Nilo da parte dell'Etiopia. Questi sono solo due degli attori coinvolti in una serie di azioni che consumeranno risorse idriche e minerali pari a nove volte il consumo annuale.

C'è un nesso tra land grabbing e instabilità politica?
Sì, anche se pochissimi lo ammettono. Molto spesso questa instabilità è generata e finanziata dalle multinazionali proprio come strumento di pressione per concludere i propri affari, o dalla corruzione necessaria per chiudere gli accordi, o il sorgere di movimenti "di liberazione" spontanei è dovuto proprio alle spinte migratorie dovute alla cacciata di intere popolazioni da terre che prima hanno occupato da millenni pacificamente. Contestualmente possiamo vedere che nelle regioni chiave dei paesi maggiormente aggrediti da questo fenomeno sono stati individuati dall'intelligence focolai non meglio qualificati etichettati genericamente come jihadisti e qaedisti. In corrispondenza di quelle aree strategicamente nevralgiche, sono state posizionate altrettante basi militari, ufficialmente legate ad Africacorps, ma con personale e mezzi americani, spesso con notevoli appalti affidati ad "imprese private".

Chi garantisce la produzione in territori potenzialmente ostili?
Oggi gli Stati Uniti mantengono in Africa un numero sorprendente di basi. La ragione ufficiale è "aumentare le capacità operative" degli eserciti africani, ma questa espressione nasconde molto di più. Alle forze americane si affiancano come secondo contingente internazionale i Francesi. Le loro forze in Africa sommano a circa 5 mila militari in una decina di basi.

Terra, acqua, cibo: quali prospettive ci riservano i prossimi anni?
L'economia ci insegna che il prezzo di un prodotto aumenta se la domanda di quel prodotto aumenta, ed è quello che è avvenuto e che avverrà in futuro per il cibo: una progressiva e, per certi versi, inesorabile accelerazione della domanda alimentare dovuta principalmente alla crescita della popolazione mondiale che prevedibilmente è destinata a passare dai 6 ai 9miliardi di individui entro il 2050. Considerato che già oggi una quota consistente degli abitanti del nostro pianeta soffre di scarsità di cibo ed acqua è facile prevedere che nei prossimi decenni le forniture alimentari diverranno sempre più scarse e sempre più costose. Se non verranno messe a punto innovazioni tali da aumentare e/o razionalizzare la produzione di cibo e quindi la coltivazione dei terreni, cosa probabile ma non certa, la situazione già difficile potrà diventare in futuro tragica.

Un inganno come ai tempi delle colonie

di MAURIZIO RICCI

Prendete un foglio e dividetelo a metà. Da una parte, scrivete, in colonna: Sud Sudan, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Sudan, Liberia, Argentina, Sierra Leone, Madagascar. Dall'altra: Stati Uniti, Malaysia, Emirati Arabi, Gran Bretagna, Singapore, Cina, Arabia Saudita, Hong Kong, India. La storia del land grabbing, dell'accaparramento di terre coltivabili su scala mondiale, è tutta qui. La prima colonna è quella dei paesi dove più massiccio è stato l'accaparramento di terre. La seconda colonna è quella dei paesi che l'accaparramento l'hanno fatto. L'incrocio delle due colonne racconta il colonialismo del XXI secolo. Un colonialismo senza "bwana" e senza fucili, ma, nel suo nocciolo, simile al suo predecessore, il colonialismo degli albori, XVI-XVIII secolo: anche quello iniziò sventolando titoli di proprietà.

Come allora, esiste un'autorità morale che tenta di incanalare e indirizzare il fenomeno, cercando di attutire l'impatto sulle popolazioni. Oggi, non è la Chiesa, ma la World Bank. Il suo decalogo chiede a chi si imbarca in questi contratti di rispettare i diritti esistenti, a cominciare dall'acqua, di rafforzare e non indebolire la produzione locale di cibo, di realizzare accordi trasparenti, dopo averli fatti passare attraverso una minuziosa consultazione delle popolazioni interessate.

Ma non ci sono né organi di controllo né sanzioni. In Africa, come tre secoli fa, solo il 10 per cento dei contadini ha un titolo legale di proprietà da far valere in una controversia con i land grabbers. Come avveniva nel '6-'700 per i coloni più pii, insomma, tutto è affidato alla buona volontà dei colonizzatori. Il problema, però, non è soltanto di buona condotta. Il fenomeno è troppo grosso per essere lasciato ai dibattiti morali. Chi pensa che il land grabbing sia un fatto marginale, confinato ad un pugno di grandi latifondi in posti remoti, sbaglia. Negli ultimi anni, sono stati accaparrati terreni - solitamente i migliori disponibili sul posto - per 87 milioni di ettari. Significa cinque volte la superficie arabile d'Italia. Stiamo parlando del 2 per cento delle terre coltivabili nel mondo.

L'immagine che viene subito in mente è quella dell'effetto serra, di paesi presto riarsi dalla calura, dove la gente è stata allontanata dalle terre migliori e, soprattutto, dalle riserve di acqua che le rendono tali. Ma non c'è bisogno di arrivare a scenari catastrofici, se pur realistici. I problemi arrivano anche prima. Il principale è smantellare l'idea che il land grabbing associ i profitti dei nuovi colonizzatori ad investimenti e progressi tecnologici che, altrimenti, in paesi poveri, non avverrebbero mai e che il risultato finale sia un miglioramento qualitativo e quantitativo dell'agricoltura locale.

Non è così. La controprova viene dai due più massicci episodi di land grabbing a cui storicamente possiamo fare riferimento. L'assalto alla foresta amazzonica per allargare l'area di allevamento dei bovini. E l'assalto a quella del Borneo per alimentare la corsa alle piantagioni di palme da olio. Perché il nodo da sciogliere, nel land grabbing, non è accertare che qualcuno, effettivamente, investa dei soldi e non stia solo rubando della terra, ma capire per cosa lo fa. Spesso, l'obiettivo non ha niente a che fare con la produzione alimentare. Sono le piantagioni per i biocarburanti, dal granturco, alla jalopha, alla canna da zucchero. Ma anche se l'investimento è per produrre cibo, bisogna capire come. Dietro i difensori del land grabbing c'è l'idea che introdurre l'agricoltura industriale sia un aiuto ai paesi poveri. I primi a non crederci, oggi, sono gli esperti, a cominciare da quelli della Fao. L'ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è allargare l'area dell'agricoltura industriale (allevamenti intensivi, supersfruttamento del suolo, pesticidi e fertilizzanti chimici) che, nei paesi ricchi, si sta già dimostrando non sostenibile.

E, probabilmente, anche meno efficiente. Gli studi econometrici sono sempre discutibili, ma uno recente mostra che se, in Tanzania, la terra anziché ai progetti di grandi latifondisti, fosse stata data (e irrigata) ai piccoli contadini, tre milioni di persone in più troverebbero da mangiare.

Per salvarci dobbiamo cambiare dieta

di ANTONIO CIANCIULLO

Un hamburger costa 2.400 litri di acqua. Una fiorentina da mezzo chilo 8 mila litri. Per un chilo di aglio ne bastano 518 e per un chilo di cereali 1.543. Ma per sgranocchiare un chilo di pistacchi bisogna investire ben 10.864 litri di acqua. E per un chilo di vaniglia si arriva a 96.649 litri.

È il prezzario idrico del cibo. L'impronta idrica. L'acqua virtuale. I nomi sono molti ma il concetto è sempre lo stesso e drammaticamente semplice: per produrre cibo in quantità crescente (seguendo l'aumento dei consumi pro capite e del numero di esseri umani) ci vuole acqua, una mare di acqua dolce. Più di quella naturalmente disponibile in molte aree. E infatti si utilizzano anche le falde di acqua fossile, quella che si ricarica solo in tempi lentissimi e che quindi non garantisce l'approvvigionamento sul lungo periodo.

Per ora a queste difficoltà si risponde in modo - più o meno - indolore con il commercio. Chi non ha acqua la compra inglobata nei prodotti alimentari. Ma, calcolando che a livello globale il 70 per cento dell'acqua viene utilizzata in agricoltura e che nelle zone aride si arriva al 90 per cento, è facile prevedere che l'acqua virtuale diventerà, con l'accentuarsi del cambiamento climatico, sempre di più una risorsa strategica e una fonte crescente di tensione.

Come disinnescare questa mina? Non esiste un unico rimedio ma due direzioni di marcia sono interessanti. La prima è quella seguita da un filone dell'agricoltura che punta a reintrodurre varietà con un bisogno idrico ridotto e sistemi di coltivazione non estensivi. Cultivar scartati perché poco compatibili con le regole dell'agricoltura intensiva oggi potrebbero tornare utili per le loro capacità di resistenza alle difficoltà climatiche e alla siccità.

La seconda riguarda la dieta. "In Italia siamo diventati il terzo importatore netto di acqua virtuale al mondo per colpa del peggioramento delle nostre abitudini alimentari", spiega Francesca Greco, la ricercatrice del King's College di Londra che assieme a Marta Antonelli ha curato uno studio presentato dal Wwf. "In Italia il consumo di cibo è responsabile dell'89 per cento dei consumi di acqua e questo dato ci dovrebbe aiutare perché la dieta mediterranea ha un impatto idrico molto minore di quella a base di carne. Peccato che negli ultimi anni il nostro stile di vita sia peggiorato: siamo passati dal pollo ruspante al wurstel, dalla ricotta con latte di pecora al pascolo ai latticini d'importazione provenienti da allevamenti intensivi e importiamo grandi quantità di beni che richiedono molta acqua come la carne di maiale tedesca".

 

2 ottobre

 

Mosca: "Se attaccati, chiuderemo Internet"

Cremlino pronto a mettere in stand by il web russo in caso di "azioni distruttive" che riguardino proprio il settore. Putin accusa alcuni Stati di usare il potere sulla Rete a scopi economici

Fonte: La Repubblica

MOSCA - Nessuna limitazione di accesso a Internet, né controlli totali del web. Ma alla Russia "servono misure aggiuntive di sicurezza per il cyberspazio" ed è pronta a "mettere in stand by il web russo" in caso di "azioni distruttive" che riguardino proprio il settore. Lo ha detto il ministro delle Comunicazioni Nikolai Nikiforov, dopo che si è tenuto il Consiglio di sicurezza della Federazione russa sulla possibilità di isolare l'Internet russo dal resto del mondo, in caso di "minacce alla sicurezza nazionale".

Dmitri Peskov, il portavoce del capo dello Stato russo aveva confermato che in risposta "alla totale imprevedibilità di Stati Uniti e l'Unione europea, ci impegniamo a garantire la nostra sicurezza" e quindi "misure riguardanti la sicurezza dell'internet russo sono allo studio a diversi livelli e sotto diverse giurisdizioni". È probabile che il Consiglio di sicurezza stia studiando una legge che preveda una stretta sul libero uso di Internet.

Il presidente russo, Vladimir Putin, stamani aveva usato toni più accomodanti rispetto alle voci che, negli ultimi giorni, annunciavano severe restrizioni all'uso della Rete (che il capo del Cremlino ha, però, definito 'progetto della Cia', usato dall'opposizione per organizzare proteste contro di lui nel Paese). Il presidente russo è intervenuto al Consiglio di sicurezza nazionale, puntando però il dito contro "certi Stati che usano il proprio ruolo dominante sul web per scopi economici e politici", ma ha dichirato di non avere intenzione di imbavagliare la Rete.

Annunciata dalla stampa, la tematica aveva sollevato polemiche e preoccupazioni per una nuova stretta delle autorità sul web. Il quotidiano Vedomosti aveva ipotizzato che il Cremlino si preparasse a varare misure per staccare il segmento russo di Internet dalla rete globale. ''Vorrei sottolineare che non solo non ci saranno limiti ingiustificati, ma che non li stiamo neppure prendendo in considerazione'', ha assicurato oggi Putin. La Russia ha introdotto, ultimamente, leggi che rafforzano il controllo su internet: giganti del web come Google, Facebook e Twitter dovranno avere i loro sever sul territorio della Federazione, pena la loro chiusura; i blogger con più di 3.000 visitatori dovranno registrarsi come una testata giornalistica, mentre chi ritwitta informazioni ''offensive'' rischia il carcere fino a cinque anni; i siti internet ritenuti ''estremisti'' possono essere oscurati senza l'ordine di un giudice, su decisione dell'agenzia governativa preposta.

All'inizio dell'anno, il fondatore del Facebook russo, Pavel Durov, ha venduto tutte le sue quote nella sua popolarissima creatura Vkontakte e ha lasciato il Paese, denunciando pressioni dai servizi segreti. Ci sono 70 milioni di internauti in Russia, circa la metà della popolazione.

 

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