Ast Terni, Camusso: “Botte a
militanti Fiom? Non è un caso, c’è stato un ordine”
Il
segretario Cgil interviene sugli scontri a Roma. E sull'europarlamentare
Picierno, che l'ha accusata di essere stata eletta con tessere false, dice: "Non
mi interessa rispondere al protagonismo di qualcuno".
Da Il Fatto Quotidiano del 30 ottobre 2014, di
Salvatore Cannavò
“È gravissimo quello che è accaduto ieri a Roma“.
Alla richiesta di un commento sulle frasi di Pina Picierno, il segretario
generale della Cgil propone di cambiare discorso. Lei stessa è corsa al
Policlinico Umberto I per accertarsi della salute dei militanti Fiom picchiati.
Poi ha parlato con Maurizio Landini e ha telefonato al ministro dell’Interno,
Angelino Alfano.
Cosa ha detto al ministro Alfano? Che quello che è avvenuto è gravissimo e chiediamo al governo di
risponderne. Gli ho detto che occorre molta attenzione perché in una situazione
così difficile non si sa dove si va a finire.
Avvertite una situazione pesante? Ho incontrato personalmente i lavoratori dimessi, tutti e due raccontano la
stessa cosa: c’è stato un ordine esplicito. Stupisce sempre, del resto, che
queste cose possano avvenire per caso. Ci deve essere un ordine. Ma le
manifestazione pacifiche non possono essere trattate in questo modo. Non voglio
fare dietrologia però abbiamo chiesto di convocare il Comitato per l’ordine e la
sicurezza pubblica in modo da rendere esplicita una direttiva su quale deve
essere il comportamento delle forze dell’ordine. Quello che è accaduto oggi non
deve più verificarsi.
Quanto accaduto potrà anticipare il vostro sciopero generale? Fino all’8 novembre ci sono mobilitazioni già decise. Continuiamo a pensare
che bisogna articolare e allargare le iniziative, dare voce ai territori. Saremo
sottoposti a numerose tensioni, a probabili voti di fiducia, non abbiamo in
mente una lotta di breve periodo.
La richiesta Cgil è ancora quella di modificare la legge delega o spostate il
tiro sulla legge di Stabilità? La priorità è che si crei lavoro, buon lavoro. Nella legge delega non c’è
nulla sul superamento delle tante forme della precarietà. Lo Statuto dei
lavoratori va esteso non ridimensionato. Legge delega, legge di Stabilità e
riforma della Pubblica amministrazione sono tre cose che vanno insieme, una cosa
non derubrica l’altra. In ogni caso, noi non diciamo solo dei “no”. Abbiamo
idee, proposte: l’estensione dei diritti, la riduzione della precarietà, la
qualità della pubblica amministrazione.
Pensate sia possibile un confronto con il governo o ci avete messo una pietra
sopra? Per stile una pietra sopra non ce la mettiamo mai. Una strada per
confrontarsi è la più idonea ma non ne vediamo in questo momento le premesse.
Abbiamo proposte e restiamo disponibili al confronto. Non ci chiudiamo in un
fortino.
C’è una Cgil sotto assedio? No. La fase attuale è piuttosto caratterizzata da una grandissima questione
sociale. Per correttezza, va detto che la situazione non è tutta figlia di
questo governo ma di una lunga stagione di crisi che ha lasciato moltissimi nodi
irrisolti. Capisco che ci sia del nervosismo in giro. L’isolamento non ci
riguarda a meno che non si voglia intendere una separazione dei temi del lavoro
dalle priorità del Paese.
Cosa risponde a Pina Picierno? Il mio sentimento prevalente è di parlare delle cose concrete e delle cose
da fare. Non mi interessa rispondere al protagonismo di qualcuno. Ovviamente, ci
riserviamo di valutare gli elementi di diffamazione ma non è questo il punto.
Immaginava che sarebbe stata il segretario dello scontro tra la Cgil e il
partito a cui è iscritta? Devo dire che quando sono stata eletta la preoccupazione era come affrontare
una crisi così lunga. Ma forse abbiamo sottovalutato che una crisi così avrebbe
cambiato non solo i rapporti sociali ma anche i rapporti sul piano politico. Ciò
che invece non è mutata è la forte vocazione di autonomia della Cgil.
Non sentite il problema del rinnovamento, anche generazionale, della Cgil? La Cgil non è mai un mondo omogeneo. Sabato scorso è stato evidente che
siamo più compositi e più giovani di quello che è riconosciuto. Che poi anche
noi abbiamo un problema di accelerazione del rinnovamento, non c’è dubbio. Ma
questa discussione l’abbiamo aperta prima del “cinegiornale dell’era Renzi”.
6 ottobre
Rolling Stones a Roma. La Corte dei conti sta
esaminando il carteggio tra il Comune e gli organizzatori e la prima cosa che
balza agli occhi è che si parla sempre e soltanto del costo dell’occupazione
degli spazi per il palco, per gli stand e per i chioschi bar. Della gigantesca
area per il pubblico non si fa parola…
Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica”
QUALCOSA non torna nei calcoli che hanno permesso ai Rolling Stones di suonare
davanti a 70mila persone pagando soltanto 7.934 euro per l’affitto del Circo
Massimo. Ne è convinta la procura regionale della Corte dei conti, che sul caso
ha aperto un fascicolo ed è al lavoro per determinare la reale dimensione del
possibile danno erariale patito dalle casse del Comune. A confermarlo è lo
scambio di comunicazioni intercorso tra organizzatori e gabinetto del sindaco
tra l’11 e il 16 giugno, dieci giorni prima dello show. Nel carteggio si
determinano le metrature realmente pagate per il concerto dello scorso 22
giugno. E l’enorme platea offerta dalla storica area archeologica non viene mai
presa in considerazione.
Ma procediamo con ordine. Capitolo allestimenti: per il palco e l’area alle sue
spalle, bisogna dividere in tre diversi momenti l’occupazione di suolo pubblico.
Dall’11 al 17 giugno i metri quadrati impegnati sono 781. Salgono a 2.194 fino
al giorno dello spettacolo e, in fase di smontaggio, scendono a 1.500. Seconda e
terza voce, i 416 metri quadrati di punti ristoro e i 252 per i chioschi del
merchandising ufficiale della rock band britannica.
Mai nelle richieste di occupazione di suolo pubblico si fa menzione di tutto ciò
che resta del Circo Massimo, di quei 50mila metri quadrati (la stima è al
ribasso) che sono stati transennati e riservati alle decine di migliaia di fan
che si sono potuti permettere un biglietto da 78 euro. Riprendendo allora in
mano le tariffe della delibera 75 del 2010 e moltiplicando l’area per il canone
previsto per le “occupazioni di qualsiasi natura di suolo pubblico” e per il
coefficiente “per attività aventi scopo di lucro”, il totale segna 104.650 euro.
Anche se si volesse considerare il concerto dei Rolling Stones una
“manifestazione politica, culturale, sindacale, di volontariato, sportiva o
ricreativa”, il risultato finale dell’operazione sarebbe di 72.800 euro. In ogni
caso, somme mai incassate dal Campidoglio per un’area che di fatto romani e
turisti non hanno potuto utilizzare per giorni, tra allestimento, evento e
pulizie.
Ora, però, spetta al vice procuratore generale Guido Patti, titolare del
fascicolo, determinare l’esatta entità del danno erariale. E, soprattutto, i
responsabili che potrebbero essere chiamati a risarcire il Comune. Dalle prime
battute dell’inchiesta, appare comunque improbabile che possano essere
individuati tra i firmatari della vecchia delibera — poi rivista al rialzo — che
determinava le tariffe per l’occupazione di suolo pubblico. Nel mirino della
procura della Corte dei conti del Lazio, allora, potrebbe entrare chi si è
occupato di stabilire quanti e soprattutto quali metri quadrati dovessero essere
pagati dalla band di Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts
per prendere in prestito il Circo Massimo.
Un’area sulla quale gli organizzatori del maxi-evento dello scorso 22 giugno
sarebbero disposti ad allestire nuovi concerti. All’indomani dello scoppio della
polemica sui 7.934 euro versati per impadronirsi dell’area, il proprietario
dell’agenzia The Base aveva rilanciato: «I monumenti vanno difesi, ma fatti
anche vivere. A noi piacerebbe fare un concerto al Circo Massimo ogni anno». Una
proposta che ora, a tariffe riviste e con controlli più serrati, potrebbe anche
far sorridere il sindaco Ignazio Marino.
La battaglia per il cibo del
futuro
Non
si ferma la corsa di Stati, multinazionali e fondi di investimento per
impadronirsi di terre fertili a prezzi stracciati. Un tentativo di garantirsi le
risorse alimentari di cui il Pianeta avrà presto bisogno che assume sempre più
il volto di una nuova colonizzazione. E che sta gettando le basi di futuri
conflitti per il controllo della poca acqua disponibile. Ecco chi sono i nuovi
padroni del mondo che rispondono solo le logiche del profitto e come
condizioneranno la nostra esistenza.
di Michele Di Salvo
ROMA - Quella che sta avvenendo è la più imponente operazione di invasione e
colonizzazione della storia dell'umanità, che farebbe impallidire le mitologie
su Genghis Khan o le manie di grandezza di Hitler, ma che non teme nemmeno la
concorrenza storica del colonialismo dei secoli scorsi. Non è un'esagerazione,
soprattutto se consideriamo che mentre quei fatti e fenomeni storici avevano
delle "bandiere chiare", ovvero si sapeva più o meno esattamente chi attaccava
chi e quali aree occupava, oggi quest'aggressione è "senza Stati e senza
bandiere".
Interessi geopolitici. I conquistatori di oggi sono grandi multinazionali e
fondi comuni di investimento che hanno azionisti, proprietari, investitori
transnazionali, che hanno poco a che fare con ragioni e interessi geopolitici.
Soggetti cui non è possibile chiedere o imporre risarcimenti di guerra, che non
hanno sottoscritto alcuna convenzione di Ginevra né hanno obblighi di rispetto
di diritti umani o sono interessati a ricostruzioni di qualsiasi tipo.
Rispondono solo ed esclusivamente a logiche di profitto. Maggiore è la
differenza tra costo di acquisizione e ricavo dalla vendita del bene prodotto,
maggiormente è soddisfatto l'interesse delle aziende. Può sembrare una visione
cinica o radicale, ma è un concetto economico "neutro": è la regola del
"comportamento sociale" delle multinazionali, e va intesa come chiave di lettura
unica per comprendere davvero quello che sta accadendo.
Gli analisti hanno definito questo fenomeno come land grabbing, più o meno
"accaparramento di terra", ovvero l'acquisto o la locazione a lungo termine di
estensioni terriere da parte di investitori stranieri. Il fenomeno emerge con
forza alla fine del 2006, a seguito di un improvviso shock dei prezzi che fa
impennare vertiginosamente il Food-Index mondiale, ovvero l'indice di borsa sui
prezzi degli alimenti agricoli primari (grano, riso, cereali...).
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I contratti sottoscritti. Si scopre così grazie al lavoro di alcune Ong che
mettono insieme i dati rilevati individualmente, che nel solo 2006 sono stati
sottoscritti (quelli conosciuti) 416 maxi contratti di "accaparramento di suolo"
in 66 paesi del mondo (quelli monitorati) per complessivi 87 milioni di ettari
di terre coltivabili. Per intenderci sulla portata ci basta fare un paragone:
l'intera superficie coltivabile italiana è inferiore a 17 milioni (considerando
anche orti, giardini e parchi pubblici).
Il braccio finanziario
dell'operazione
Secondo un rapporto pubblicato da Grain nel giugno 2011, le grandi acquisizioni
su larga scala di terreni agricoli generano conflitti in tutto il mondo. Secondo
l'Ong, questi progetti promuovono il tipo sbagliato di agricoltura per un mondo
alle prese con gravi problemi alimentari e crisi ambientali. Eppure i fondi
continuano a fluire verso terreni agricoli all'estero a causa dei rendimenti
finanziari. Alcuni dei più grandi players che cercano di trarre profitto dai
terreni agricoli sono i fondi pensione, con miliardi di dollari investiti. I
fondi pensione degli Stati Uniti attualmente occupano circa 23.000 miliardi di
dollari in "beni", di cui circa 100 miliardi di dollari si ritiene in materie
prime. Di questi, una cifra tra i 5 e i 15 miliardi sono indirizzati in
acquisizioni di terreni agricoli. E si prevede che entro il 2015 questa cifra
verrà raddoppiata.
Si suppone che i fondi pensione lavorino per i lavoratori, contribuendo a
mantenere i loro risparmi per la pensione in sicurezza. Solo per questo motivo,
ci dovrebbe essere un livello di responsabilità pubblica o di altri soggetti
coinvolti quando si tratta di strategie di investimento e di prendere le
conseguenti decisioni. In altre parole, i fondi pensione possono essere una
delle poche categorie di speculatori sulla terra agricola che le persone possono
fermare, in virtù del fatto che è il loro denaro.
Oggi, le pensioni delle persone sono spesso gestite da aziende private per conto
di sindacati, governi, datori di lavoro. Queste società sono responsabili della
salvaguardia e "crescita" del risparmio previdenziale delle persone, in modo che
queste risorse possano essere versate ai lavoratori in maniera regolare
mensilmente dopo il pensionamento. A livello globale, si tratta di un una enorme
quantità di denaro, regolarmente accresciuto da continua liquidità. I fondi
pensione sono attualmente un grande player da 23 miliardi di dollari di
patrimonio. I fondi più grandi del mondo sono quelli controllati dai governi,
come il Giappone, Norvegia, Paesi Bassi, Corea e Stati Uniti
Beni "fondamentali". Il mercato dei capitali, e soprattutto i fondi
previdenziali e pensionistici, sono stati colpiti duramente dalle oscillazioni
dei prezzi delle materie prime sul finire degli anni novanta e delle risorse
energetiche nei primi anni del nuovo secolo. In questo momento i gestori stanno
cercando di ricostruire le partecipazioni a lungo termine per i loro clienti.
Vedono nei terreni agricoli che chiamano beni "fondamentali" un chiaro modello
economico della domanda e dell'offerta, che in questo caso dipende da una
popolazione mondiale crescente il bisogno di essere alimentato, e le risorse per
nutrire queste persone essere un bene limitato. I gestori di fondi osservano
prezzi dei terreni relativamente bassi in luoghi come l'Australia, Sudan,
Uruguay, Russia, Zambia o Brasile. Vedono tali prezzi muoversi in sincronia con
l'inflazione (e, soprattutto, con i salari), ma non come altre merci nei loro
portafogli di investimento, fornendo in tal modo un flusso di reddito
diversificato.
Vedono a lungo termine un guadagno dal valore crescente dei terreni agricoli e
il flusso di cassa che, nel frattempo, proviene dalle vendite delle colture, gli
allevamenti da latte e produzione di carne. La scala è un fattore che rende il
ruolo di questi fondi importanti. I fondi pensione hanno cominciato ad investire
in materie prime, tra cui cibo e terreni agricoli, solo di recente. Con il
valore delle materie prime e dei prodotti alimentari in così ripida crescita
l'agricoltura è una fonte chiara e incontrovertibile di guadagno per gli
investitori istituzionali
Secondo Barclays Capital, una parte consistente dei 320 miliardi di dollari di
fondi istituzionali sono attualmente investiti in "prodotti di base", rispetto
ai soli 6 miliardi di dollari di dieci anni prima. Gli hedge fund rappresentano
un valore aggiuntivo di 60-100 miliardi di dollari. Queste cifre sono destinate
a raddoppiare nei prossimi cinque anni. All'interno di questo panorama, i fondi
pensione si dice che sono i maggiori investitori istituzionali in materie prime
in generale (100 miliardi di dollari degli Stati Uniti dei 320 miliardi dollari
di cui sopra) e di terreni agricoli, in particolare.
Dobbiamo inoltre tenere conto di alcune caratteristiche della gestione tipica
dei fondi pensione: prima tra tutte la tendenza ad avere grandi posizioni di
liquidità immediata per far fronte alle erogazioni previdenziali, spesso
collegate anche a costi di sanità privata e oneri sociali. Sempre normalmente,
la tendenza prudenziale della gestione tende a privilegiare una percentuale
complessivamente elevata (anche per ragioni politiche interne) generalmente
intorno al 20-25% dei capitali gestiti o in "pronti contro termine" o in titoli
di Stato, nazionali ed esteri, e grandi investimenti immobiliari o investimenti
in mutui, generalmente fondiari a medio termine (quelli per intenderci a
costruttori o cooperative per la realizzazione di complessi edilizi da poi
rivendere ai privati). Questo tecnicamente riduce - se possiamo dire così
considerando la mole di denaro gestita - la forbice percentuale investibile al
50-60% del capitale. Il che rende quel 5% in realtà pari a circa il doppio, se
lo consideriamo in funzione di quanto può davvero operare un fondo pensione ad
esempio pubblico (le percentuali dei fondi privati normalmente sono differenti,
ma non troppo).
Land grabbing, domande e risposte
Come sono strutturati i contratti di land grabbing?
Per non far risultare le terre nel proprio patrimonio "tassabile", vengono prese
in locazione per periodi da 50 a 99 anni direttamente dagli Stati, senza tener
contro di diritti di proprietà o di uso delle comunità locali. Questi contratti
prevedono inoltre il pieno ed esclusivo utilizzo di tutte le risorse sottostanti
e sovrastanti la terra. Questo comporta, ad esempio, che venga concesso un breve
lasso di tempo alle popolazioni locali per lasciare la propria terra e portare
via i propri beni, dopo di ché tutto quello che insiste su quel suolo diventa di
proprietà delle aziende locatarie. Ma questo significa anche che senza un limite
contrattuale, qualsiasi sia la coltura che quell'azienda decide di impiantare in
un determinato appezzamento, può disporre di tutta l'acqua che ritiene, senza
alcun limite e senza versare alcun canone aggiuntivo.
Si tratta di terreni ricchi di risorse idriche?
Le tensioni nel sud-ovest dell'Etiopia mostrano l'importanza fondamentale di
accesso all'acqua nella corsa alla conquista globale. Dietro l'attuale corsa
alla terra, c'è in realtà una vera e propria guerra mondiale per l'acqua. Coloro
che si stanno accaparrando oggi grandi quantità di terra, sanno bene che il vero
guadagno di lungo periodo è l'accesso alle risorse idriche, spesso incluso
gratuitamente e senza alcuna restrizione, e che tale valore è certamente
maggiore di quello stesso dei terreni agricoli. Pochi paesi in Africa hanno
ricevuto più interesse verso i propri terreni agricoli rispetto a quelli serviti
dal fiume Nilo (Egitto, l'Etiopia, Sud Sudan, Sudan e Uganda).
Quant'è l'acqua effettivamente disponibile?
Il Nilo resta un'ancora di salvezza ed è già una fonte di notevoli tensioni
geopolitiche aggravate dai numerosi grandi progetti di irrigazione nella
regione, con il risultato che il fiume che un tempo forniva acqua dolce al
Mediterraneo ora invece è invaso nel suo delta dall'acqua salata proveniente dal
mare, minando la produzione agricola. Per portare i territori in produzione
dovranno essere irrigati e la prima domanda che ci si dovrebbe porre è proprio
se ci sia abbastanza acqua per farlo. Ma nessuno di coloro che sono coinvolti
nelle offerte dei terreni, siano essi gli accaparratori di terra o quelli che le
terre le offrono, sembrano aver dato peso alla questione. L'Etiopia è la fonte
di circa l'80% delle acque del Nilo. Nella sua regione di Gambela al confine con
il Sud Sudan, aziende come Karaturi Global e l'Arabia Stars stanno già
costruendo grandi canali di irrigazione che aumenteranno enormemente la capacità
di prelievo di acqua dal Nilo da parte dell'Etiopia. Questi sono solo due degli
attori coinvolti in una serie di azioni che consumeranno risorse idriche e
minerali pari a nove volte il consumo annuale.
C'è un nesso tra land grabbing e instabilità politica?
Sì, anche se pochissimi lo ammettono. Molto spesso questa instabilità è generata
e finanziata dalle multinazionali proprio come strumento di pressione per
concludere i propri affari, o dalla corruzione necessaria per chiudere gli
accordi, o il sorgere di movimenti "di liberazione" spontanei è dovuto proprio
alle spinte migratorie dovute alla cacciata di intere popolazioni da terre che
prima hanno occupato da millenni pacificamente. Contestualmente possiamo vedere
che nelle regioni chiave dei paesi maggiormente aggrediti da questo fenomeno
sono stati individuati dall'intelligence focolai non meglio qualificati
etichettati genericamente come jihadisti e qaedisti. In corrispondenza di quelle
aree strategicamente nevralgiche, sono state posizionate altrettante basi
militari, ufficialmente legate ad Africacorps, ma con personale e mezzi
americani, spesso con notevoli appalti affidati ad "imprese private".
Chi garantisce la produzione in territori potenzialmente ostili?
Oggi gli Stati Uniti mantengono in Africa un numero sorprendente di basi. La
ragione ufficiale è "aumentare le capacità operative" degli eserciti africani,
ma questa espressione nasconde molto di più. Alle forze americane si affiancano
come secondo contingente internazionale i Francesi. Le loro forze in Africa
sommano a circa 5 mila militari in una decina di basi.
Terra, acqua, cibo: quali prospettive ci riservano i prossimi anni?
L'economia ci insegna che il prezzo di un prodotto aumenta se la domanda di quel
prodotto aumenta, ed è quello che è avvenuto e che avverrà in futuro per il
cibo: una progressiva e, per certi versi, inesorabile accelerazione della
domanda alimentare dovuta principalmente alla crescita della popolazione
mondiale che prevedibilmente è destinata a passare dai 6 ai 9miliardi di
individui entro il 2050. Considerato che già oggi una quota consistente degli
abitanti del nostro pianeta soffre di scarsità di cibo ed acqua è facile
prevedere che nei prossimi decenni le forniture alimentari diverranno sempre più
scarse e sempre più costose. Se non verranno messe a punto innovazioni tali da
aumentare e/o razionalizzare la produzione di cibo e quindi la coltivazione dei
terreni, cosa probabile ma non certa, la situazione già difficile potrà
diventare in futuro tragica.
Un inganno come ai
tempi delle colonie
di MAURIZIO RICCI
Prendete un foglio e dividetelo a metà. Da una parte, scrivete, in colonna: Sud
Sudan, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo,
Mozambico, Sudan, Liberia, Argentina, Sierra Leone, Madagascar. Dall'altra:
Stati Uniti, Malaysia, Emirati Arabi, Gran Bretagna, Singapore, Cina, Arabia
Saudita, Hong Kong, India. La storia del land grabbing, dell'accaparramento di
terre coltivabili su scala mondiale, è tutta qui. La prima colonna è quella dei
paesi dove più massiccio è stato l'accaparramento di terre. La seconda colonna è
quella dei paesi che l'accaparramento l'hanno fatto. L'incrocio delle due
colonne racconta il colonialismo del XXI secolo. Un colonialismo senza "bwana" e
senza fucili, ma, nel suo nocciolo, simile al suo predecessore, il colonialismo
degli albori, XVI-XVIII secolo: anche quello iniziò sventolando titoli di
proprietà.
Come allora, esiste un'autorità morale che tenta di incanalare e indirizzare il
fenomeno, cercando di attutire l'impatto sulle popolazioni. Oggi, non è la
Chiesa, ma la World Bank. Il suo decalogo chiede a chi si imbarca in questi
contratti di rispettare i diritti esistenti, a cominciare dall'acqua, di
rafforzare e non indebolire la produzione locale di cibo, di realizzare accordi
trasparenti, dopo averli fatti passare attraverso una minuziosa consultazione
delle popolazioni interessate.
Ma non ci sono né organi di controllo né sanzioni. In Africa, come tre secoli
fa, solo il 10 per cento dei contadini ha un titolo legale di proprietà da far
valere in una controversia con i land grabbers. Come avveniva nel '6-'700 per i
coloni più pii, insomma, tutto è affidato alla buona volontà dei colonizzatori.
Il problema, però, non è soltanto di buona condotta. Il fenomeno è troppo grosso
per essere lasciato ai dibattiti morali. Chi pensa che il land grabbing sia un
fatto marginale, confinato ad un pugno di grandi latifondi in posti remoti,
sbaglia. Negli ultimi anni, sono stati accaparrati terreni - solitamente i
migliori disponibili sul posto - per 87 milioni di ettari. Significa cinque
volte la superficie arabile d'Italia. Stiamo parlando del 2 per cento delle
terre coltivabili nel mondo.
L'immagine che viene subito in mente è quella dell'effetto serra, di paesi
presto riarsi dalla calura, dove la gente è stata allontanata dalle terre
migliori e, soprattutto, dalle riserve di acqua che le rendono tali. Ma non c'è
bisogno di arrivare a scenari catastrofici, se pur realistici. I problemi
arrivano anche prima. Il principale è smantellare l'idea che il land grabbing
associ i profitti dei nuovi colonizzatori ad investimenti e progressi
tecnologici che, altrimenti, in paesi poveri, non avverrebbero mai e che il
risultato finale sia un miglioramento qualitativo e quantitativo
dell'agricoltura locale.
Non
è così. La controprova viene dai due più massicci episodi di land grabbing a cui
storicamente possiamo fare riferimento. L'assalto alla foresta amazzonica per
allargare l'area di allevamento dei bovini. E l'assalto a quella del Borneo per
alimentare la corsa alle piantagioni di palme da olio. Perché il nodo da
sciogliere, nel land grabbing, non è accertare che qualcuno, effettivamente,
investa dei soldi e non stia solo rubando della terra, ma capire per cosa lo fa.
Spesso, l'obiettivo non ha niente a che fare con la produzione alimentare. Sono
le piantagioni per i biocarburanti, dal granturco, alla jalopha, alla canna da
zucchero. Ma anche se l'investimento è per produrre cibo, bisogna capire come.
Dietro i difensori del land grabbing c'è l'idea che introdurre l'agricoltura
industriale sia un aiuto ai paesi poveri. I primi a non crederci, oggi, sono gli
esperti, a cominciare da quelli della Fao. L'ultima cosa di cui il mondo ha
bisogno è allargare l'area dell'agricoltura industriale (allevamenti intensivi,
supersfruttamento del suolo, pesticidi e fertilizzanti chimici) che, nei paesi
ricchi, si sta già dimostrando non sostenibile.
E, probabilmente, anche meno efficiente. Gli studi econometrici sono sempre
discutibili, ma uno recente mostra che se, in Tanzania, la terra anziché ai
progetti di grandi latifondisti, fosse stata data (e irrigata) ai piccoli
contadini, tre milioni di persone in più troverebbero da mangiare.
Per salvarci dobbiamo
cambiare dieta
di ANTONIO CIANCIULLO
Un hamburger costa 2.400 litri di acqua. Una fiorentina da mezzo chilo 8 mila
litri. Per un chilo di aglio ne bastano 518 e per un chilo di cereali 1.543. Ma
per sgranocchiare un chilo di pistacchi bisogna investire ben 10.864 litri di
acqua. E per un chilo di vaniglia si arriva a 96.649 litri.
È il prezzario idrico del cibo. L'impronta idrica. L'acqua virtuale. I nomi sono
molti ma il concetto è sempre lo stesso e drammaticamente semplice: per produrre
cibo in quantità crescente (seguendo l'aumento dei consumi pro capite e del
numero di esseri umani) ci vuole acqua, una mare di acqua dolce. Più di quella
naturalmente disponibile in molte aree. E infatti si utilizzano anche le falde
di acqua fossile, quella che si ricarica solo in tempi lentissimi e che quindi
non garantisce l'approvvigionamento sul lungo periodo.
Per ora a queste difficoltà si risponde in modo - più o meno - indolore con il
commercio. Chi non ha acqua la compra inglobata nei prodotti alimentari. Ma,
calcolando che a livello globale il 70 per cento dell'acqua viene utilizzata in
agricoltura e che nelle zone aride si arriva al 90 per cento, è facile prevedere
che l'acqua virtuale diventerà, con l'accentuarsi del cambiamento climatico,
sempre di più una risorsa strategica e una fonte crescente di tensione.
Come disinnescare questa mina? Non esiste un unico rimedio ma due direzioni di
marcia sono interessanti. La prima è quella seguita da un filone
dell'agricoltura che punta a reintrodurre varietà con un bisogno idrico ridotto
e sistemi di coltivazione non estensivi. Cultivar scartati perché poco
compatibili con le regole dell'agricoltura intensiva oggi potrebbero tornare
utili per le loro capacità di resistenza alle difficoltà climatiche e alla
siccità.
La seconda riguarda la dieta. "In Italia siamo diventati il terzo importatore
netto di acqua virtuale al mondo per colpa del peggioramento delle nostre
abitudini alimentari", spiega Francesca Greco, la ricercatrice del King's
College di Londra che assieme a Marta Antonelli ha curato uno studio presentato
dal Wwf. "In Italia il consumo di cibo è responsabile dell'89 per cento dei
consumi di acqua e questo dato ci dovrebbe aiutare perché la dieta mediterranea
ha un impatto idrico molto minore di quella a base di carne. Peccato che negli
ultimi anni il nostro stile di vita sia peggiorato: siamo passati dal pollo
ruspante al wurstel, dalla ricotta con latte di pecora al pascolo ai latticini
d'importazione provenienti da allevamenti intensivi e importiamo grandi quantità
di beni che richiedono molta acqua come la carne di maiale tedesca".
2 ottobre
Mosca: "Se attaccati,
chiuderemo Internet"
Cremlino pronto a mettere in stand by il web
russo in caso di "azioni distruttive" che riguardino proprio il settore. Putin
accusa alcuni Stati di usare il potere sulla Rete a scopi economici
Fonte: La Repubblica
MOSCA - Nessuna limitazione di accesso a Internet,
né controlli totali del web. Ma alla Russia "servono misure aggiuntive di
sicurezza per il cyberspazio" ed è pronta a "mettere in stand by il web russo"
in caso di "azioni distruttive" che riguardino proprio il settore. Lo ha detto
il ministro delle Comunicazioni Nikolai Nikiforov, dopo che si è tenuto il
Consiglio di sicurezza della Federazione russa sulla possibilità di isolare
l'Internet russo dal resto del mondo, in caso di "minacce alla sicurezza
nazionale".
Dmitri Peskov, il portavoce del capo dello Stato russo aveva confermato che in
risposta "alla totale imprevedibilità di Stati Uniti e l'Unione europea, ci
impegniamo a garantire la nostra sicurezza" e quindi "misure riguardanti la
sicurezza dell'internet russo sono allo studio a diversi livelli e sotto diverse
giurisdizioni". È probabile che il Consiglio di sicurezza stia studiando una
legge che preveda una stretta sul libero uso di Internet.
Il presidente russo, Vladimir Putin, stamani aveva usato toni più accomodanti
rispetto alle voci che, negli ultimi giorni, annunciavano severe restrizioni
all'uso della Rete (che il capo del Cremlino ha, però, definito 'progetto della
Cia', usato dall'opposizione per organizzare proteste contro di lui nel Paese).
Il presidente russo è intervenuto al Consiglio di sicurezza nazionale, puntando
però il dito contro "certi Stati che usano il proprio ruolo dominante sul web
per scopi economici e politici", ma ha dichirato di non avere intenzione di
imbavagliare la Rete.
Annunciata dalla stampa, la tematica aveva sollevato polemiche e preoccupazioni
per una nuova stretta delle autorità sul web. Il quotidiano Vedomosti aveva
ipotizzato che il Cremlino si preparasse a varare misure per staccare il
segmento russo di Internet dalla rete globale. ''Vorrei sottolineare che non
solo non ci saranno limiti ingiustificati, ma che non li stiamo neppure
prendendo in considerazione'', ha assicurato oggi Putin. La Russia ha
introdotto, ultimamente, leggi che rafforzano il controllo su internet: giganti
del web come Google, Facebook e Twitter dovranno avere i loro sever sul
territorio della Federazione, pena la loro chiusura; i blogger con più di 3.000
visitatori dovranno registrarsi come una testata giornalistica, mentre chi
ritwitta informazioni ''offensive'' rischia il carcere fino a cinque anni; i
siti internet ritenuti ''estremisti'' possono essere oscurati senza l'ordine di
un giudice, su decisione dell'agenzia governativa preposta.
All'inizio dell'anno, il fondatore del Facebook russo, Pavel Durov, ha venduto
tutte le sue quote nella sua popolarissima creatura Vkontakte e ha lasciato il
Paese, denunciando pressioni dai servizi segreti. Ci sono 70 milioni di
internauti in Russia, circa la metà della popolazione.