Ritardi, scandali e appalti
sospetti, il sogno dell'Expo è diventato un incubo
Viaggio nei cantieri di Milano, 4350 metri quadrati che dovrebbero essere
pronti per il primo maggio del 2015. Un miracolo il rispetto dei tempi. Scatta
l’allarme a un anno dall’evento. Il rischio di una figuraccia mondiale. Il ruolo
negli affari del clan Formigoni
di ALBERTO STATERA
MILANO.
Una landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un
milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri,
che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache
scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la
fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce
spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per
una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e
ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi
ci viene a Rho?»
Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da
quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau
International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo
decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra
della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra
il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la
Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni. Tutti insieme si spesero,
anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio
nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del
latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di
orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo.
Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di
spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti
e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette
della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia
definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del
ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva
rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in
quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo
presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà
necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si
dichiara il protagonista.
Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle
città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a
intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura
milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi
conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa
contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il
primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire.
Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla
sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti,
si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti,
il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo
momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del
bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca
cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del
casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la
fede ma incapace di sottrarsi al peccato, non ha perso occasione per accumulare
potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato”
attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende
associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato
dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.
Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste
c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la
sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche.
Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con
le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla
mangiatoia delle opere pubbliche. Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta
sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato
ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via
Melchiorre Gioia a perenne celebrazione
della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina,
come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano
è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale
dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta
partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano
Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco
Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio
Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per
gli appalti dell’Expo.
Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha
ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la
vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al
posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello
scambiando
appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40
per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti
prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la
dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella
corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per
il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso,
regnante Berlusconi.
Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani,
società di
cui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto
Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona
Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato
di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo
Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo
voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io
conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo
di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica,
come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi
il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno
yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesiano di via
Copernico.
Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno
mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro,
già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato
cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua,
cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della
darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta
inumidita. Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio
internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera.
Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci.
Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red
Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici
disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari.
L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni
di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un
angoscioso ricordo.
Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in
pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno
stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città
nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di
famiglia.
20 marzo
I caccia rimangono
1. RENZI PROVA A TOGLIERE SOLDI AI CACCIA MADE
IN USA E RE GIORGIO L’HA SUBITO FERMATO - 2. IL CONSIGLIO SUPREMO DI DIFESA
UFFICIALMENTE HA PARLATO D’ALTRO, MA INTANTO SPOSTA OGNI DECISIONE SUI TAGLI
ALLA DIFESA A FINE ANNO E HA MESSO NERO SU BIANCO CHE “RESTANO FERMI I
PROVVEDIMENTI E LE INIZIATIVE DA ATTUARE” IN AMBITO INTERNAZIONALE - 3. IL
DIFFICILE SLALOM DELLA PODISTA PINOTTI E LA LEVATA DI SCUDI DI AMMIRAGLI E
GENERALI, ABILMENTE “PROVOCATI” CON LA BUFALA DI UNA VENDITA DELLA PORTAEREI
GARIBALDI- 4. DIETRO QUESTO DERBY SOTTERRANEO TRA NAPOLITANO E RENZI NON CI SONO
SOLTANTO I 12 MILIARDI DI EURO D PER ACQUISTARE I 90 CACCIA SUI QUALI PERSINO IL
PENTAGONO NUTRE QUALCHE DUBBIO, MA LA SOSTANZA STESSA DEI RAPPORTI CON
WASHINGTON- 5. IL “FACCENDIERE” DI MATTEUCCIO, MARCO CARRAI, COSA CI FA IN
VIAGGIO IN ISRAELE?
Francesco Bonazzi per Dagospia
Tagli sì, ma gli impegni internazionali si
mantengono. E per decidere dove e come impugnare le forbici, si deve aspettare
la più classica delle indagini conoscitive, naturalmente chiamata "Libro
bianco", su tutta la riorganizzazione del comparto Difesa.
Il Consiglio supremo di Difesa, presieduto stamani da Giorgio Napolitano,
ufficialmente non si è occupato del taglio al programma di acquisto degli F35
che ingolosisce Tesoro e Palazzo Chigi, a caccia di soldi "popolari" per
tagliare l'Irpef in busta paga. Ma ha dato indirettamente un secco "stop" a
qualsiasi fantasia del genere, spostando il momento delle decisioni concrete
almeno di sei mesi e mettendo l'integrità della commessa a stelle e strisce al
riparo di un "ragionamento di sistema".
Dietro questo derby sotterraneo tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi non ci
sono soltanto i 12 miliardi di euro da spendere per acquistare i 90 caccia sui
quali persino il Pentagono nutre
Il Rottam'attore dimezzerebbe volentieri quella spesa e ha mosso le sue pedine
in Parlamento perché venga approvato un documento in cui si parla di
"significativo ridimensionamento" del programma. Ed è bastato che due giorni fa,
in un'intervista a Sky Tg24, il ministro della Difesa Roberta Pinotti definisse
"lecito" anche solo "immaginare un ripensamento o una riduzione" dell'impegno
sul progetto F35 per scatenare una serie di scosse telluriche.
Si è mosso tantissimo John Phillips, l'ambasciatore Usa di stanza a Roma che può
vantare uno splendido casale in Toscana e un consolidato rapporto con Renzi, fin
dai tempi in cui il sindaco di Firenze era solo il Rottamatore della Leopolda.
Il diplomatico americano, da esperto avvocato d'affari, ha incontrato tutti i
deputati che contano nelle commissioni Esteri e Difesa delle Camere, perché sa
che adesso anche il Parlamento ha diritto di parola su materie come questa. E
avrà certo fatto valere i suoi stretti legami con Marco Carrai, l'imprenditore
fiorentino di assoluta fiducia del premier che in questi giorni è in viaggio in
Israele, ma aggiorna costantemente l'"amico Matteo" su ogni dossier
internazionale.
E l'ipotesi di un blitz del governo sui soldi destinati ai caccia Usa è
prontamente abortita. Un argomento importante è stato di natura squisitamente
tecnica: non ci sono miliardi già in cassa da stornare su altri capitoli, ma
solo una serie di impegni internazionali per cominciare a comprare gli F35 dal
prossimo anno.
Poi ha pesato la levata di scudi di tutti i vertici militari, abilmente
"provocati" con la bufala di una prossima vendita della portaerei Garibaldi,
magari da affidare alle manone di Lurch Cottarelli. Infine, come sempre, è stata
decisiva la "linea della fermezza" (atlantica) di Re Giorgio, che già in passato
ha difeso l'impegno internazionale sugli F35.
Non è un caso se stamani, sul Corriere, il sottosegretario Graziano Delrio ha
cercato di far passare il messaggio che sui super-caccia, come su tutto il
bilancio della Difesa, "decide il ministro Pinotti". Una decisione da
schiacciare un governo, figuriamoci un ministro. La Pinotti però non ha fatto
una piega e a chi ha potuto parlarle in queste ore ha ripetuto in sostanza un
solo concetto: "Io sono determinata a decidere come ministro. Ma è sbagliato
parlare di un solo programma, come quello sugli F35, perché prima bisogna
discutere il progetto d'insieme".
Palla lunga e pedalare, si direbbe in gergo calcistico. Ma intanto non si tocca
nulla e si sigla una tregua che evita pericolosi scontri tra il Capo dello Stato
e il presidente del Consiglio. Il comunicato finale del Consiglio superiore di
Difesa, guidato da Napolitano, è un capolavoro di diplomazia e messaggi vari.
Si riconoscono "le pressanti esigenze di contenimento della spesa pubblica che
impongono di ripensare e riorganizzare profondamente" la Difesa, ma si rimandano
tutte le decisioni strategiche a un "Libro Bianco" che dovrà essere pronto entro
fine anno.
Nel frattempo, però, "restano fermi i provvedimenti e le iniziative da attuare
con immediatezza in ambito nazionale ed europeo". Certo, il riferimento
esplicito agli F35 non c'è, ma intanto Re Giorgio manda a dire a Pittibimbo che
su certe materie le chiacchiere stanno a zero.
La Terra dei fuochi e la
Terra delle menzogne
Il dossier ministeriale sull'inquinamento dei
terreni tra Napoli e Caserta suscita perplessità. È solo il punto di partenza.
Ecco come andare avanti
di ROBERTO SAVIANO
Il presente falsificato genera un futuro malato.
La storia si vendica". Mi sono venute in mente le parole dello scrittore polacco
Slawomir Mrozek quando ho letto il documento della commissione interministeriale
sui "Risultati delle indagini tecniche per la mappatura dei terreni destinati
all'agricoltura della Regione Campania". La parola d'ordine di questa operazione
è una sola: minimizzare. Minimizzare l'emergenza connessa all'inquinamento dei
suoli in Campania. Minimizzare l'entità dei danni subiti dall'ambiente.
Minimizzare l'impatto che l'inquinamento ha sulla vita e sulla salute delle
persone. Minimizzare le colpe di chi si è reso responsabile e complice di questo
disastro. Minimizzare l'entità del disastro.
Ma per gettare luce sul presente falsificato, dobbiamo capire come è stato
prodotto questo documento, qual è la sua funzione e per cosa invece lo stanno
spacciando. Con semplice intuizione comprenderemo che è solo un primo movimento,
primissimo, per districarsi nel ginepraio della Terra dei fuochi e il Paese che
osserva, che ascolta, che segue, non può credere che si tratti del verbo che
chiarisce le falsità costruite su questi territori.
Ho letto il dossier con interesse e attenzione e, per quanto mi sforzi, mi
risulta difficile credere che questo documento sia considerato davvero
affidabile e finale. Non posso credere che si sia cercato con solerzia di
minimizzare ciò che negli ultimi decenni è avvenuto in Campania e non posso
credere che le autorità e gli enti coinvolti davvero ritengano di avere tra le
mani i risultati conclusivi di una indagine scrupolosa. È evidente, piuttosto,
che quello compiuto in questi primissimi mesi di lavoro è soltanto l'esiguo
passo iniziale per la comprensione di ciò che è accaduto e continua ad accadere.
E i sorrisi imbarazzati, le parole studiate sin nel dettaglio, le risposte
parziali date alla stampa, ne sono la dimostrazione.
Ma la cosa più paradossale, grottesca e offensiva è quel grafico a torta in cui
spicca un unico dato, posto lì trionfante, come a voler chiudere definitivamente
il sipario su tutto ciò che si è detto e scritto in questi anni sulla Terra dei
fuochi. Un microscopico spicchio rosso con su scritto 2% e l'intera
circonferenza verde a segnalare, persino nel colore, la sanità della parte
maggiore dei territori.
Un grafico semplice di quelli che non vengono utilizzati più nemmeno a scuola
per studiare i diagrammi, senza una legenda, senza spiegazioni coerenti, il cui
messaggio è: fidatevi di questo dato, tutto è nella norma. La parte maggiore è
quella distesa verde rasserenante, quel piccolo invisibile spicchio rosso è
l’unica preoccupazione. Meno di un fazzoletto di terra: quel 2% ritenuto
pericoloso. Niente di cui allarmarsi, dunque. Niente di apocalittico in
quell'area tra Napoli e Caserta. E infatti non sono tardate tristi affermazioni
del tipo: “Vedete? È tutto falso, il Nord non ha inquinato il Sud come ci hanno
raccontato”.
Come se raccontare il sodalizio criminale tra quelle aziende del Nord che
volevano smaltire rifiuti speciali a basso costo e la criminalità organizzata
del Sud che glielo ha consentito, sia stato tifare per una squadra piuttosto che
per un’altra. Come se sia ancora possibile negare che in ventidue anni sono
stati smaltiti nella Terra dei fuochi oltre 10 milioni di tonnellate di rifiuti
di ogni specie. Dal 1991 al 2013 sono state censite da Legambiente 82 inchieste
per traffico di rifiuti, con 915 ordinanze di custodia cautelare, 1.806 persone
denunciate e il coinvolgimento di 443 aziende in gran parte del Centro e del
Nord Italia. Negli ultimi cinque anni nella Terra dei fuochi si sono concentrati
205 arresti per traffici e smaltimenti illegali, pari al 29,2% del totale
nazionale, e oltre mille sequestri, il 10% di quelli effettuati in tutta Italia.
Tutti questi dati, già dimostrati dalle inchieste, dove sono finiti? Cancellati,
e al loro posto arriva quel 2% come un pugno nello stomaco, che toglie il
respiro e annebbia la vista.
Eppure non sarebbe stato difficile ammettere che tutto questo era solo un punto
di partenza: per quanto riguarda i roghi monitorati, ad esempio, a essere prese
in considerazione sono state soltanto quelle aree per cui si è reso necessario
un intervento dei Vigili del fuoco superiore alle cinque ore. Non si fa cenno ai
6.915 roghi censiti dal lavoro del Prefetto Donato Cafagna tra il gennaio 2012 e
il dicembre 2013. Vengono tralasciati tutti gli incendi che hanno richiesto
interventi inferiori alle cinque ore di lavoro: roghi piccoli e continui di
rifiuti, pneumatici e vestiti che sono migliaia e che influiscono anche loro
nella contaminazione dei terreni. Nulla importa che dai calcoli siano escluse le
aree agricole vicine agli impianti di smaltimento dei rifiuti o le cosiddette
“aree vaste” già contaminate come “Lo Uttaro”, per le quali c’è da attendere
un'analisi più approfondita che sarebbe dovuta durare un anno. E nulla importa
che le aree vengano ritenute a rischio solo sulla base di vecchi dati, perché in
questo ambito riferirsi a dati di novembre 2013 vuol dire parlare di preistoria.
Le associazioni sono rimaste senza alcuna voce in capitolo. Legambiente non è
stata interpellata, i comitati cittadini, che pure si sono impegnati in prima
linea, non sono stati ascoltati. Chi ha redatto la relazione non ha fatto una
reale campionatura della terra: infatti, se si fa riferimento alla tabella della
sintesi per la conferenza stampa, per ogni classe di rischio, le analisi
risultano ancora un progetto (e addirittura vengono previsti i tempi in cui
attuarle). Ed è proprio qui che risiede il paradosso: nell’avere con imprudenza
sbattuto in faccia alla popolazione l'assenza di pericolo per tante aree
agricole, sulla base di analisi ancora non svolte. Non sono stati fatti
carotaggi, ma si rimanda sempre e genericamente ad analisi successive, a
prelevamenti di campioni dal sottosuolo.
Il 98% del terreno destinato alle coltivazioni, quindi, non sarebbe a rischio
inquinamento. Viene il dubbio, credo ragionevole, che tutta questa pantomima cui
si sono prestati ministri e governatori sia in realtà un’operazione per salvare
il salvabile, per evitare la completa rovina dell’economia campana basata sui
prodotti agricoli. Dovremmo quindi voltare pagina quando la verità sulla Terra
dei fuochi è ancora tutta da scrivere. Del resto, quel 2% costituirebbe un’area
talmente piccola che potrebbe giustificare un esiguo stanziamento di fondi per
le bonifiche che devono essere pianificate. Se le aree da bonificare fossero
maggiori, siamo sicuri che la Regione Campania e il Paese avrebbero la forza
economica per poterle gestire? Il 74% dei circa duemila siti censiti non ha
avuto alcuna bonifica. Mentre chi ha inquinato quei 21,5 chilometri quadrati di
territorio ha potuto farlo perché non ha rischiato e, tuttora, non rischia
nulla. Ecco perché è indispensabile che il Senato approvi quanto prima
l'introduzione dei delitti contro l'ambiente nel codice penale. Qui si gioca un
altro dei paradossi furbi di questo documento: le aree sono state classificate
sulla base di analisi datate e circoscritte attraverso un monitoraggio aereo. Il
dossier non a caso parla di “georeferenziazione” della Terra dei fuochi che è
sinonimo di geolocalizzazione. Questo significa che, fino ad ora, la mappatura
che è stata fatta prescinde dalla necessità di approfondire le analisi chimiche
dei terreni e qui giunge un’altra verità: incredibilmente i sette siti più a
rischio non coincidono con le aree di stoccaggio delle ecoballe e delle
discariche. Si sono accumulati oltre 5 milioni di ecoballe corrispondenti a 6
milioni di tonnellate di rifiuti che non potrebbero essere smaltiti con
termovalorizzazione perché non composti a norma. Le ecoballe sono state stoccate
in giro per la regione. Tutto questo rientra in quello spicchietto rosso? Pare
di no.
L’unica cosa davvero certa, riguardo ai dati diffusi, è che c’è tanto lavoro da
fare perché i numeri siano credibili. Bisogna censire e classificare le aree
agricole delle cosiddette “aree vaste”, devono essere prese in considerazione le
terre limitrofe agli impianti di smaltimento dei rifiuti, vanno fatte le analisi
dei terreni interessati dai roghi, le ricadute al suolo degli inquinanti,
l'eventuale utilizzo delle acque di falde contaminate, captate con pozzi
agricoli abusivi.
Come deve muoversi il governo davanti a tutto questo? Confrontandosi per esempio
con persone come Peppe Ruggiero ed Enrico Fontana, osservatori delle Terre dei
fuochi da oltre un decennio e aprire la ricerca e il monitoraggio. Hanno visto
le decine di documentari? Uno fra tutti “Biutiful Cauntri”?
Il ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina dovrebbe richiamare all'ordine
quei dirigenti un po' troppo solerti che hanno scambiato l'avvio di un lavoro
per la sua rassicurante conclusione, che hanno circoscritto il dramma della
Terra dei fuochi a 64 ettari di terreno. Bisogna vigilare affinché lo stesso
metodo non si applichi allo screening sanitario. Ho la percezione che il
prossimo passo possa essere minimizzare anche in questo ambito. Minimizzare, per
far serpeggiare l'idea di una farsa. Temo che al governo prema piuttosto
archiviare immediatamente la pratica come risolta e nel tempo suggerire che non
esistono epidemie, che i morti bambini sono nell’ordinaria strage che il cancro
genera in ogni angolo di mondo, ammorbando ogni famiglia, ogni territorio. Senza
responsabilità dirette. E in Campania, incredibilmente, non esiste ancora un
registro per i tumori (a dire il vero lo hanno appena approvato, e quindi sono
nel giusto se dico che di fatto non esiste) che a scriverla questa cosa sembra
già un bestemmia. Perché a oggi non lo sappiamo a cosa siano dovute le morti di
cancro; se, come dice il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, alle cattive
abitudini o ad altro.
Credo sia piuttosto una cattiva abitudine svolgere il proprio lavoro in questo
modo, non avendo altro come obiettivo che una costante campagna elettorale. Ci
si augura, ma i dubbi sorgono, che lo screening sanitario non venga effettuato
con la stessa superficialità, magari prendendo unicamente i dati ufficiali
pregressi o dando per veritieri i soli dati di ospedali locali, con la certezza
che a curarsi e a morire si va nelle strutture del Nord. Lo screening dovrà
essere reale e non costruito ad arte. Limitandosi a leggere questa relazione, si
comprende che c'è stato un drammatico fraintendimento: il lavoro di censimento è
appena agli inizi e sulla base dei dati disponibili è emersa l'esistenza di 21,5
km quadrati di territori a rischio di cui 9,2 agricoli; sempre sulla base di
tali dati sono stati individuati già 64 ettari di terreni in cui vietare
immediatamente la produzione agricola.
Invece di essere letto come un dato allarmante, ovvero, se attraverso i dati già
disponibili siamo giunti a questo risultato, immaginiamo cosa potrà emergere da
analisi dettagliate. Ecco, invece di essere questo l’assunto di partenza, il
dossier appena redatto è sembrato il trionfo dell’ottimismo sul pessimismo. Del
pragmatismo sull’allarmismo.
Come è possibile non rendersi conto che in questo modo si dà ragione alla
peggiore informazione, informazione che in questi anni ha giocato sporco,
considerando esagerazione e propaganda politica le denunce, giustificando così
la propria omertà e incompetenza su questi temi. Allo stesso tempo si sono date
munizioni all’isteria collettiva pronta a credere al disastro nucleare, a quella
fazione cialtronesca che in questi mesi ha svelato inesistenti contaminazioni e
nel migliore dei casi ha parlato con la sola pressione dell’emotività. Questi
ora potranno dire e sarà difficile dargli torto: “Vedete come il potere nasconde
i fatti?'. E verranno ascoltati più di quanto lo siano adesso. E verranno
ascoltati perché alla censura dei governi fa sempre il paio l’emotività più
dirompente e nefasta. Il puzzo dalla Terra dei fuochi non è scomparso e, per
quanto lo si neghi, in tutte le famiglie ci sono devastanti esperienze di cancro
infantile.
A tutto questo non si può rispondere con quel diagramma. Per tutti quei
ricercatori, quegli analisti, per chi negli anni ha raccontato il territorio,
sarà sempre più complesso cercare di differenziarsi in questo coro di delirio.
Per quegli imprenditori che continuano a credere nel Sud nonostante la politica
italiana (non solo quella campana) faccia di tutto per mortificarne la passione,
la dedizione e la professiona-lità, questo dossier è un’umiliazione. Se produco
mele, se produco vino, se produco conserve, se produco pasta in Campania vorrei
poter orgogliosamente dire che il mio Paese ha condotto analisi serie e che il
terreno che produce il mio grano, le mie mele, le mie uve è un terreno sano, è
un terreno monitorato, è un terreno, se occorre, bonificato. È un terreno ridato
alla vita. Non vorrei che sui miei prodotti stagnassero ombre gettate
dall’incompetenza di chi non sa affrontare le emergenze. Che non vede le
emergenze come opportunità per risolvere e rilanciare un territorio.
A volte provo invidia per come in altri luoghi si riescano ad affrontare
situazioni gravissime con pragmatismo e serietà, per come si riesca a
comprendere che a tutto c’è un limite, alla propria carriera, al proprio
arricchimento personale, in nome di qualcosa di più grande e di più alto. Nel
2002 la petroliera “Prestige” affondò al largo della Galizia provocando un
disastro ambientale di dimensioni gigantesche. La Galizia è una regione povera
che vive prevalentemente di pesca ma questa tragedia invece di mortificarla l’ha
fatta rinascere. L’anno dopo il disastro e le operazioni di estrazione del
combustibile le spiagge della Galizia avevano più bandiere azzurre di prima. E
questo perché nonostante gli errori e i ritardi della politica, le persone
avevano adottato la loro terra, l’avevano amata come mai prima di allora e con
tutto l’ardore che la possibilità di cambiamento dona avevano bonificato
chilometri e chilometri di costa. Ma certo tutto questo da noi non sarà
possibile se la lucidità lascerà il posto alla ragion di Stato per uno Stato che
non ha ragioni da vantare.
Spero che possano essere chiarite la funzione e la natura di questo documento.
Spero che i politici campani, quelli che hanno percorso centinaia di volte la
Nola-Villa Literno e che centinaia di volte hanno dovuto turarsi il naso,
quelli che sanno come si vive nelle provincie di Napoli e Caserta, dove basta
una minima emergenza per inondare le strade di monnezza e bloccare finanche gli
accessi alle scuole, pretendano serietà, rigore e trasparenza. Vorremmo non
dover utilizzare anche riguardo alla Terra dei fuochi quelle parole terribili
che Karl Kraus scrisse nel 1918: «Nero su bianco: ora la menzogna si presenta
così».
18 marzo
Dia, così sprechi e tagli
spuntano le armi all'Antimafia
Di Alberto Custodero
Da una parte meno missioni all'estero e
personale insufficiente, dall'altra l'utilizzo di ditte private per predisporre
le intercettazioni e una nuova sede da centinaia di migliaia di euro. Alla
Direzione Investigativa Antimafia si risparmia sulle indagini e si pratica una
strana spending review al contrario. E sugli appalti di Expo 2015 e del dopo
terremoto i controlli sono quasi impossibili
ROMA - La trasferta costa troppo. E la Dia non va
all'estero per fare indagini sulla violentissima mafia russo-georgiana che
ricicla, traffica in armi e droga, e si autofinanzia con i reati predatori.
All'indagine partecipano molte polizie europee, che più volte hanno invitato i
nostri investigatori per un ovvio coordinamento. Per mancanza di fondi,
tuttavia, gli agenti della Dia hanno dovuto declinare gli inviti. Ma davvero
mancano i fondi per fare le indagini sulle mafie internazionali? E perché
l'organismo antimafia voluto da Falcone sta diventando sempre più "debole"? Più
in generale, com'è stato possibile che in questi ultimi cinque anni di crisi la
polizia si sia indebolita, come ha detto il capo, il prefetto Alessandro Pansa?
E la mafia si sia rinforzata, come confermato dal sottosegretario ai servizi
segreti Marco Minniti?
La Dia, Direzione Investigativa Antimafia, l'ha fortemente voluta Giovanni
Falcone. Lui aveva capito che per sconfiggere Cosa nostra, e i suoi tre livelli
(manovalanza del crimine, banche e politica), ci sarebbe voluto un organismo
interforze che (sulla falsariga del Gat antiterrorismo di Dalla Chiesa) si fosse
occupato solo di criminalità organizzata. Oggi però, proprio come avvenuto per i
super poteri antiterrorismo del prefetto Dalla Chiesa, sbandierati dal governo,
ma mai attribuitigli, la Dia si trova a essere una grande incompiuta. Anziché
potenziarla, viene lentamente smantellata. Anziché unificare e rafforzare,
prevale il concetto divide et impera. E le attività antimafia, anziché essere
accentrate nella Dia, sono ancora suddivise tra le forze di polizia. L'Arma che
ha i Ros, la Finanza lo Scico, la Polizia lo Sco. La grande idea di Falcone di
costituire un unico, potentissimo organismo antimafia, a ventidue anni dalla
strage di Capaci, non s'è mai realizzata. Perché?
LA BEFFA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA
I numeri, del resto, parlano da soli. Negli ultimi anni si è assistito a una
costante riduzione dei fondi per la Dia, passati dai 28 milioni di euro del 2001
ai 13,5 milioni di euro del 2014. Stanziamento, questo, che ha già subito due
tagli. L'organico della Dia è attualmente di circa 1300 unità. A marzo del 2012,
il generale Giuseppe Tavormina, primo Direttore della Dia, nel corso di
un'audizione davanti alla Commissione Antimafia, ha affermato che, in origine,
la Dia, per poter operare a pieno regime, avrebbe avuto bisogno di una pianta
organica di almeno 3000 unità. Ad oggi non è stata attuata alcuna misura per
coprire l'organico di personale mancante. La carenza di fondi, inoltre, non
consente al personale di frequentare corsi di aggiornamento. Per risparmiare si
assiste ad incredibili paradossi. Quando la Dia deve mettere le microspie per
intercettare qualche indagato, sempre più sovente non lo fa con il proprio
personale specializzato. Ma si rivolge alle ditte private esterne che
collaborano con le procure che poi provvedono al pagamento. "Da una parte si
assiste a un taglio di risorse destinate alle indagini", denuncia il sindacato
Silp-Cgil, "dall'altra, però, il direttore della Dia, Arturo De Felice, ha tolto
alla metà del personale la possibilità di accesso alle banche dati delle forze
di polizia. Tenuto conto che la Dia ha tra le competenze anche il monitoraggio
dei grandi appalti, c'è da chiedersi come mai, alla vigilia di Expo 2015, e
durante la ricostruzione post terremoto sia in Emilia che in Abruzzo,
all'organismo antimafia siano state spuntate le armi. E non siano state
rinforzate per combattere l'infiltrazione mafiosa negli appalti".
Ma è proprio vero che mancano i fondi? Oppure la verità, come denuncia Daniele
Tissone, segretario del sindacato Silp-Cgil, è un'altra e "si spendono male"?
Casi di spending review al contrario, e di sperpero di risorse, nei bilanci
della Dia non mancano. Il caso più clamoroso è quello della scelta della nuova
sede del centro operativo di Roma. Tra le varie opzioni (palazzina piazza Cola
di Rienzo, affitto 600mila euro annui; palazzina via Sicilia, affitto 800mila
euro; palazzina via Cisalpina, gratis in quanto confiscata dalla Dia a un boss)
è stata scelta la più costosa. Quella di via Sicilia. Perché, si chiede il
Silp-Cgil, "il direttore che risparmia sugli accessi alle banche dati, sulle
missioni, sullo straordinario, sapendo che avrebbe lasciato la vecchia sede, ha
speso migliaia di euro per fare là il suo ufficio di rappresentanza, che
peraltro ha già nella sede centrale dell'Anagnina?". "E perché", aggiungono i
sindacati, "nella nuova sede di via Sicilia, quella più costosa, si è fatto fare
anche là un altro ufficio di rappresentanza?". La nuova palazzina di via
Sicilia, nonostante sia stata completamente ristrutturata a spese del Viminale,
a soli tre mesi dall'ingresso del personale ha già grossi problemi di
infiltrazione di acque piovane. A proposito di sprechi, infine, va ricordato che
la sede centrale della Dia, a Roma, quartiere Anagnina, costa 17 milioni di
affitto all'anno. Quando, a pochi chilometri di distanza, quartiere Cecchignola,
ci sono disponibili le ex caserme dell'esercito. Gratis in quanto di proprietà
del Demanio.
11 marzo
Monte dei Pacchi infiniti
Non
si capisce perché una banca debba essere azionista di una società elettrica.
Così Mps si fa fregare pure dalla Sorgenia: ha già dovuto svalutare l'1,17% per
40 milioni.
Mps è socia dal 2007, quando presidente era Mussari. Iscritta a bilancio per 33
milioni, la quota era lievitata fino a 47 milioni nel 2010. Si poteva fare una
piccola plusvalenza. E invece no, perché nel 2012 c’è stato il crollo del valore
di bilancio della partecipazione, passato da 40 a 7,7 milioni…
Fabio Pavesi per ‘ Il Sole 24 Ore
Di tutte le banche coinvolte nella trattativa sul
debito di Sorgenia, ce n'è una che, al di là di come si chiuderà la partita, ha
già perso dei soldi. È Mps, che non solo è tra i più grandi creditori di
Sorgenia, ma è anche azionista.
Un azionista quasi simbolico con l'1,17% del capitale, ma non per questo meno
danneggiato dalla debàcle di Sorgenia che ha cumulato perdite tra il 2012 e i
primi nove mesi del 2013 per oltre 600 milioni. Mps ha quella quota dal 2007
quando presidente era Giuseppe Mussari. Iscritta a bilancio per 33 milioni era
lievitata fino a 47 milioni nel 2010.
Si poteva fare una piccola plusvalenza. E invece no. È arrivato il crollo e già
nel bilancio del 2012 Mps ha portato il valore di Sorgenia da 40 milioni a soli
7,7 milioni, l'80% in meno. Non si capisce perchè una banca debba essere
azionista di una società elettrica. Cumuli il rischio di credito e quello di
capitale. Mps ha fatto il passo più lungo della gamba.
Non che il resto del sistema bancario abbia dimostrato grande senno, dato che
dal 2009 ha incrementato l'esposizione nei confronti del gruppo energetico per
600 milioni (quelli oggi considerati in eccesso) proprio quando la marginalità
di Sorgenia cominciava a flettere paurosamente. E ora le banche (tutte) si
accollerranno il rischio di fare gli azionisti della malconcia Sorgenia.
10 marzo
Gli invisibili dell'Europa
di Barbara Spinelli
“Il dolore sta producendo risultati": fa impressione, proprio ora che è
divenuto ministro dell'Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il
29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale
dell'Ocse.
Già allora i dati sull'economia reale smentivano una così impudente
glorificazione dell'austerità - e addirittura dei patimenti sociali che
infliggeva - ma l'ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in
Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più
che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che
irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre
Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: "Queste cose sono il
meglio che possa accadere. La caduta dell'uomo e la maledizione entrano
necessariamente nel migliore dei mondi possibili".
Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche
mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un
ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto:
la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno
squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti
specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia
di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine
prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose
le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette.
Nel cuore d'Europa e della sua cultura, s'aggira la morte e la chiamano dolore
produttivo.
"Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica", constata la rivista, "ma
nonostante l'evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella
strategia negazionista". Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia
possibile che il dolore e la morte siano "efficaci", e salvifiche per questo le
riforme strutturali fin qui adottate.
Né è solo "questione di comunicazione" sbagliata, come sosteneva nell'intervista
Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale,
ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al
pungiglione della morte. Trasforma solo un'improvvida teoria economica in legge
naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta.
Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli
indebitati-impoveriti: la "fatica delle riforme" (reform fatigue), peccato
sempre in agguato quando i governi "sono alle prese con resistenze sociali molto
forti". Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che
l'Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati
a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi
hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno
pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e
destinati in primis alle banche.
Difficile dar torto alle "forti resistenze sociali", se solo guardiamo le cifre
fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge,
Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della
disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell'accesso sempre
più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti
bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di
bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.
Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012,
l'incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s'estende
l'Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata.
Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest'ultima
assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come
Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o
dell'Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che
insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col
consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del
popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla
democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.
Non così in Grecia. L'Unione l'ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li
avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a
un'ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente
politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive
grazie all'eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui
attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali "di
strada" son passati dal 3-4% al 30%. S'aggiungono poi i suicidi, in crescita
come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l'aumento è del 45%. In principio
s'ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe
assommata l'Italia, è vicina all'inferno greco. Alexander Kentikelenis,
sociologo dell'università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la
rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non
esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po' come avviene per
il clima). L'unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e
controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.
La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non
mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia
esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è
menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità:
"L'Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali" - "l'Italia
non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo
fondamentale". Nessuno sa quale contributo.
Scrive l'economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi "interpretano il
risanamento come fattore di disciplinamento sociale". Ma forse le cose stanno
messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando
da bambini e anziani. Regna l'oblio storico di quel che è stata l'Europa, del
perché s'è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il
'14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per
redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: "Se diamo per
scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi
figli rimanere nella fame e nell'indigenza [...], se miriamo deliberatamente
all'umiliazione dell'Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non
tarderà".
La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più
saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e
potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in
difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all'Unione
poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e
ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse
quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero
morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c'era spazio, a quei
tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.
5 marzo
Arte perduta per cemento e
degrado: da nord a sud, tutte le Pompei d’Italia
Da Roma a Sibari (Cs), da Bologna a Vicenza, da Bacoli (Na) a Crotone: la
mappa dei luoghi storici e artistici minacciati dall'abbandono e dalla cattiva
gestione. Non ci sono stime definitive al riguardo, ma si parla di almeno un 20%
di monumenti andati distrutti
di Manlio Lilli La
storia dell’Italia unita è scandita da indagini archeologiche, ma anche da
troppi abbandoni. Da distruzioni di ogni tipo. Dagli sterri dei primi decenni
del Novecento alle indagini preliminari più recenti, una parte del patrimonio,
dissipato. Per risorse indiscutibilmente insufficienti, ma anche per evidenti
incapacità gestionali. Per politiche, anche culturali, inadeguate. Già nel 1878,
in una sintesi della storia urbana di Roma rivolta al pubblico dell’Esposizione
Internazionale di Parigi, Rodolfo Lanciani, uno dei più grandi archeologi romani
di tutti i tempi, chiedeva una maggiore attenzione al patrimonio archeologico
del sottosuolo urbano. Condannando la sistematica distruzione subita dalle ville
storiche ed esprimendosi in maniera quanto mai critica in merito ai risvolti
affaristici e speculativi della crescita edilizia della città.
La capitale del degrado artistico
I diversi Prg che si sono succeduti nella Capitale, senza dare un ordine alla
città in espansione, hanno per certi versi agevolato la distruzione di un numero
impressionante di monumenti di ogni tipo e mole. Nonostante sia innegabile che
le nuove norme ed un’accresciuta sensibilità, almeno a partire dagli anni
Ottanta, abbiano costituito un strumento di salvaguardia. Spesso incerto: interi
quartieri costruiti cancellando quasi per intero il popolamento antico. Singoli
edifici ed opere di urbanizzazione a far scomparire tessere preziose di un
grande puzzle. Alla Bufalotta e agli ex Mercati Generali all’Ostiense. A Casal
Bertone e a Tor Marancia, su via di Grotta Perfetta. Al Gianicolo e a Dragona.
Villae, ma anche tracciati stradali, necropoli, stazioni di posta, templi,
acquedotti, ponti, terme, teatri e anfiteatri e moltissimo altro. Per non
parlare della campagna romana in cui la dilatazione di alcuni paesi e il
fenomeno delle seconde case hanno comportato l’obliterazione perpetua di
tantissimi resti antichi.
Roma, specchio dell’Italia
Centinaia e centinaia di metri cubi di costruzioni antiche polverizzate. Oppure
ri-sepolte dopo la scoperta, in attesa di risorse che probabilmente non
arriveranno mai. A Napoli come a Bologna, a Cagliari come sulle colline
marchigiane. Nel reggiano come a Torino. Ovunque lavori edilizi, sia pubblici
che privati, troppo frequentemente abusivi, abbiano comportato scavi. Quasi non
c’è città, paese e territorio che non abbia sacrificato, più o meno
consciamente, parti cospicue del suo passato. La “foga cieca e distruttrice”,
come sostiene Settis nel libro Paesaggio, Costituzione, Cemento del 2010, uno
dei grandi mali. Una delle cause del disastro. Perché non esistono solo
l’abbandono e il degrado, che uniscono Pompei a Sibari, Crotone ad Ancona,
Paestum a Cales. Accanto a questi ci sono le troppe distruzioni, tante volte
regolarmente autorizzate. Il caso del quartiere produttivo di Pompei,
individuato nel comune di Torre Annunziata, sacrificato per lasciare spazio ad
un nuovo megastore è solo l’ultimo di una lista quasi infinita.
Non ci sono stime al riguardo. Ma in molti dei casi per i quali siano noti
significativi elementi, i numeri sulla distruzione parlano di almeno un 20% di
monumenti andati distrutti. Così pezzo dopo pezzo l’Italia assottiglia il suo
patrimonio archeologico. Peraltro ancora solo parzialmente noto. Secondo la
recente indagine effettuata dall’Istat, in collaborazione con il Ministero dei
Beni e delle Attività culturali e del turismo, nel 2011 le aree o parchi
archeologici erano 240, mentre 501 i monumenti e i complessi monumentali. In
realtà il loro numero deve ritenersi di gran lunga maggiore, anche se non
quantificabile, considerando i resti di varia consistenza disseminati per il
Paese. Il quadro che se ne ricava è desolante. Valorizziamo in maniera
inadeguata una parte più che esigua dell’esistente. Tuteliamo pochissimo di quel
che si scopre. Mentre la gran parte degli addetti ai lavori, a partire dagli
archeologi, cerca di sopravvivere come può alla continua emergenza. Viene da
credere che nonostante i proclami, il patrimonio archeologico continui ad essere
un fastidioso “peso”. Del quale disfarsi.
La mappa – necessariamente incompleta – dei luoghi minacciati
Verona, Piazza Corrubbio. Tra il 2009 e il 2011, nelle indagini preliminari alla
realizzazione di un parcheggio interrato, scoperta un’estesa necropoli con
sepolture datate tra il III e l’VIII secolo. Distrutta.
Vicenza. Corso Fogazzaro. Nel corso dei lavori di rifacimento della
pavimentazione al di sotto dei portici, alla fine del 2012, si sono rinvenuti
dodici pilastri relativi all’acquedotto della città romana. In attesa di una
loro valorizzazione i resti sono stati reinterrati.
Bologna. Via Orfeo. Nel 2013, nel corso delle indagini preliminari per la
realizzazione di un grande complesso residenziale nel centro storico, nell’area
del Convento del Sacro Cuore, si è rinvenuta una necropoli. Le oltre 150 tombe,
databili tra il 1200 e il 1300, non hanno fermato il progetto.
Roma. Gianicolo, Rampa Torlonia. Resti della villa di Agrippina scoperti durante
i lavori per la realizzazione della rampa che conduce al megaparcheggio di
propaganda Fide, in occasione del Giubileo del 2000. Le strutture, rimosse dal
luogo della scoperta, a lungo in una sorta di deposito Atac nelle vicinanze.
Anni dopo, le pitture con le teste di Medusa e gli uccellini asportate dalle
strutture per essere esposte. Altri resti sono visibili all’interno dell’Hotel
“Gran Melia Villa Agrippina”.
Roma. Via di Casal Bertone. Nel corso delle indagini archeologiche preventive
per la realizzazione della Tav Roma-Napoli, tra il 2007 e il 2008, sono stati
scoperti i resti di una grande fullonica, estesa su circa 1000 mq. L’impianto,
datato II secolo, era allineato ad un vicino tratto della via Collatina antica,
accanto ad alcuni edifici funerari. Il più grande impianto industriale antico
noto. Non potendo conservare in situ l’impianto, è stato mappato e “smontato” in
attesa di poterlo ricomporre in un luogo adatto alla sua conservazione ed alla
visita del pubblico.
Roma. Via Ostiense. Ex Mercati Generali. Nelle indagini archeologiche
preliminari alla realizzazione della “Città dei Giovani” progettata da Rem
Koolhaas, negli 82mila mq. degli ex Mercati Generali, scoperti tra il 2007 e il
2008 estesissimi resti di un impianto di bonifica idraulica realizzata con
migliaia di anfore betiche, oltre a due tracciati stradali e un’area di
necropoli. Ricoperti immediatamente al termine delle indagini nel 2009. In
quelle aree ancora debbono essere realizzate le opere edilizie previste dalla
trasformazione urbana presentata dal sindaco Veltroni nel dicembre 2003.
Roma, Bufalotta. Resti di tracciati stradali scavati nel banco naturale (con
pareti alte fino a 10 metri) e basolati, un’ampia area di necropoli, che
dall’età protostorica raggiunge il III-IV secolo d. C., una villa. Distrutti
dalla costruzione di palazzi e centro commerciale Porta di Roma. Si è salvata
l’area della necropoli, lungo viale Carmelo Bene, che inizialmente avrebbe
dovuto essere musealizzata. Ricoperta e adibita a giardino.
Roma, zona Laurentina, via di Grottaperfetta. Resti di una villa romana, una
necropoli e due tracciati stradali, scavati tra il 2009 e il 2011 e ricoperti.
Su di essi è prevista la costruzione del Piano I-60. Oltre 400mila metri cubi di
cemento, di cui 280mila destinati ad usi residenziali e 120mila da utilizzare in
servizi turistico-ricettivi. In attesa del pronunciamento della Soprintendenza
archeologica di Roma sulla richiesta di vincolo sottoposta dal Coordinamento
Stop I-60, sono iniziate le opere di urbanizzazione.
Roma, via della Lega Lombarda. Nel corso degli scavi preliminari per la
realizzazione della “Città del Sole”, un intervento edilizio che prevede la
copertura di una superficie di 11.800 mq, nell’agosto 2010 sono state scoperte
strutture antiche, forse riconducibili ad un complesso cultuale. In particolare
un mitreo e un colombario del III secolo, una vasca monumentale di età
repubblicana e una grande necropoli datata tra la prima e la tarda età
imperiale. Scoperto anche un deposito di fossili animali, tra i quali una zanna
ed un femore, di un “Elephas”, databile 650mila anni fa, che rappresenta una
rarità rispetto ai già noti giacimenti del Pleistocene presenti sul territorio
romano. Ormai completati gli edifici progettati al di sopra.
Artena (Rm). Resti del basolato della via Latina in pieno centro cittadino
coperti dal cemento di nuovi edifici. Nonostante il tracciato stradale fosse
noto ed esistesse anche una denuncia al procuratore della Repubblica di Velletri
del 18 aprile 2011.
Velletri (Rm). Madonna degli Angeli. Abusi edilizi reiterati, anche recenti,
nell’area della cd. villa di Augusto, nonostante l’esistenza di un vincolo
archeologico. Gran parte delle strutture note, obliterate da nuove costruzioni
che ne hanno comportato anche la distruzione.
Velletri (Rm). Colle Lenza. Sull’altura lungo il km 4 della SS. 600 Ariana, una
lottizzazione (abusiva) alla fine degli anni Ottanta ha comportato la
distruzione delle strutture superstiti di un grande impianto
rustico-residenziale di età romana, dal quale negli anni Quaranta si recuperò
una testa marmorea di Ottavia (?), conservata al Museo Nazionale Romano.
Genzano di Roma (Rm). Monte Cagnoletto. Sull’altura affacciata sulla via Appia
antica, a partire dagli anni Ottanta, è stata realizzata un’urbanizzazione
massiccia nonostante l’esistenza, anche documentaria, di rilevantissime
strutture antiche relative ad impianti residenziali antichi. Rimangono soltanto
pochi resti.
Ariccia (Rm). Via Appia antica. Lavori di trasformazione realizzati agli inizi
degli anni Novanta all’edificio in Valle Ariccia, presso il XVI miglio della
strada antica, nel quale era da tempo identificata una stazione di posta antica,
hanno provocato la distruzione dei resti antichi superstiti.
Frosinone. Via Giacomo De Mattheis. Nel 2007 negli scavi per la realizzazione di
un parcheggio si rinvengono cospicue strutture delle terme di età imperiale.
Distrutte.
Bolsena (Vt), via della Pescara. Tratto di mura con blocchi incisi da lettere e
segni ed un’area pavimentata, rinvenuti tra il 2003 e il 2009, coperti nel 2011
dalla costruzione di una palazzina. Con permesso di costruire del Comune di
Bolsena del 22 febbraio 2011, dopo il nulla osta della Soprintendenza
archeologica dell’Etruria dell’aprile 2010.
Bacoli (Na). Lido turistico “El Piranha”. Sequestrato nel dicembre 2004 dai
Carabinieri perche le strutture del lido avrebbero distrutto parte dei resti
sommersi della villa imperiale romana. Per gli inquirenti, molti dei 600 pali di
ferro utilizzati per allestire i pontili illegali del “Piranha”, sarebbero stati
conficcati direttamente sui resti archeologici.
Giugliano (Na). Via Ripuaria. Nel 2009, nei lavori per la realizzazione del
parco Obelisco si rinvenne per un lungo tratto il tracciato basolato della via
Domiziana. In parte distrutto per la costruzione di un edificio.
Soleto (Le). I terreni immediatamente all’esterno del parco archeologico,
venduti dal Comune come regolarmente edificabili, in mancanza di un vincolo
archeologico.
Oria (Br). Nel 2002 una necropoli messapica datata al III secolo a. C., scoperta
nell’area del cortile del palazzo dei missionari di San Vincenzo, è stata
distrutta per la realizzazione di un campo di calcio a cinque. Nonostante
l’esistenza sull’area di vincoli dettati da un decreto del 16 marzo 1998, che
poneva limiti di edificabilità, tuttora in vigore.
Crotone. Stadio Ezio Scida. Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi degli anni
Novanta, gli scavi per la realizzazione della struttura, in coincidenza
dell’area interna, hanno consentito il rinvenimento di una stoà da riferirsi
all’area centrale dell’abitato antico. Ricoperta dalle strutture metalliche
della curva nord. Contemporaneamente all’esterno della struttura si sono
scoperti i resti di un quartiere artigianale di epoca greca e romana con pozzi e
fornaci. Sono stati reinterrati e tutta l’area asfaltata.
Casi di strutture in procinto di essere distrutte per la sovrapposizione di
edifici moderni
Chiavenna (So). Area nel centro storico, quella dell’ex tennis di via Picchi,
destinata ad un utilizzo pubblico fino al 2006. Quando il proprietario fu
autorizzato da Comune e Soprintendenza archeologica a costruire residenze e
uffici con parcheggi. Nel 2008, nel corso dell’avvio dei lavori, la scoperta dei
resti di un abitato di età romana, preceduto da una fase di X secolo a. C.
Secondo gli addetti ai lavori, “il più importante ritrovamento archeologico
della provincia”. Così nel 2010 la Soprintendenza appose un vincolo sull’area, i
resti antichi ricoperti per essere preservati, consentendo di proseguire i
lavori nell’area circostante. Ma ora che il cantiere è in procinto di ripartire,
con il benestare ancora di Comune e Soprintendenza, il vincolo di non
edificabilità non è reiterabile se non con un grosso indennizzo al proprietario.
Che il Comune non è in grado di pagare.
Casi di abusi edilizi in aree con vincoli archeologici, per i quali non si ha
notizia di distruzione di resti antichi
Capocolonna (Kr). Nell’area del parco archeologico di Capo Colonna è presente un
insediamento di 35 ville che impedisce l’estensione del parco a tutto il sito
archeologico. La vicenda giudiziaria inizia nel 1995, quando gli edifici furono
posti sotto sequestro. Nel febbraio del 2004 la prima sentenza nei confronti di
35 proprietari, con l’assoluzione per prescrizione del reato, ma confisca degli
immobili. Gli edifici sopravvivono indisturbati alle ruspe.
Pianura (Na). Un’area di 25 mila mq. nella periferia occidentale di Napoli,
sottoposta a sequestro preventivo nel giugno 2013 dalla polizia locale e dai
Carabinieri nell’ambito di un’inchiesta su una lottizzazione abusiva. L’area
sequestrata è classificata a destinazione agricola nel PRG e rientra nel piano
territoriale paesistico di Agnano-Camaldoli, in una zona di interesse
archeologico a protezione integrale sottoposta, in parte, a vincoli
paesaggistici.
Palmi (RC). Immobili con piscina realizzati in area con vincolo archeologico e
paesaggistico. Sequestrati dai Carabinieri locali nel luglio 2013. Dopo il
provvedimento emesso dal tribunale del riesame di Reggio Calabria e confermato
dalla Cassazione. Due le denunce.
4 marzo
Ilva, la foto-denuncia: ora
i fumi restano dentro il capannone con gli operai
L'immagine pervenuta a ilfattoquotidiano.it
mostra alla colata continua una colonna così densa da offuscare la luce. E un
lavoratore a pochi metri. Interpellata, l'azienda non fornisce spiegazioni.
Mentre il commissario Bondi annuncia un aumento delle vendite, non è chiaro a
che punto sia il risanamento
di Francesco Casula
Una colonna di fumo e polveri così imponente da
offuscare l’illuminazione del capannone. Ecco il reparto acciaieria dell’Ilva di
Taranto pochi giorni fa: la foto pervenuta alla redazione de
ilfattoquotidiano.it mostra lo “spillaggio”, l’operazione di scarico
dell’acciaio liquido a 1600 gradi centigradi, dalla siviera alla linea di colata
continua. Ma soprattutto, la foto evidenzia chiaramente la presenza di un
operaio a pochissimi metri da quella nube che invade il capannone e che i
sistemi di captazione non riescono ad aspirare. I fumi e le polveri, così,
raggiungono il tetto e poi si diffondono nel resto della struttura raggiungendo
i lavoratori.
Immagini emblematiche dello stato in cui ancora sono costretti a lavorare i
dipendenti dell’Ilva. Abbiamo chiesto all’azienda spiegazioni, ma non abbiamo
ricevuto risposta. Avremmo voluto conoscere quali sono le azioni messe in campo
per ridurre questo fenomeno, con quale frequenza si manifesta nelle acciaierie e
quali sono i rischi per i lavoratori esposti a questi fumi. Domande, al momento,
a cui l’azienda ha preferito non rispondere.
A poche ore dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio della procura di
Taranto, quindi, è lecito chiedersi a che punto è il risanamento dello
stabilimento di Taranto. Il commissario straordinario Enrico Bondi, pochi giorni
fa, ha pubblicato la relazione trimestrale sull’andamento dell’azienda che
descrive la crescita di quasi il 2 percento delle vendite tra ottobre 2013 e
gennaio 2014 e anche un quadro di miglioramento delle emissioni nell’aria di
Taranto. La relazione, inoltre, evidenzia i passi avanti fatti nell’opera di
ambientalizzazione degli impianti senza tuttavia fare cenno ai tempi previsti
dall’autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’azienda dal ministro
Corrado Clini nell’ottobre 2012. Forse perché l’Ilva è nettamente in ritardo
rispetto al cronoprogramma stabilito dal ministero attraverso i vari decreti
“salva Ilva”. Basti pensare al fatto che lo stesso commissario non ha ancora
varato il piano industriale. Mancanze che, ovviamente, si traducono in costanti
rischi per la salute di operai e cittadini. Pericoli che, seppure ridotti
rispetto agli anni precedenti, non sono ancora azzerati.
Il fenomeno mostrato dalla fotografia, inoltre, è stato denunciato più volte in
passato anche dai custodi giudiziari e dai carabinieri del Nucleo operativo
ecologico di Lecce. I documenti firmati dall’ingegner Barbara Valenzano e dal
maggior Nicola Candido, sono puntualmente giunti sulla scrivania della procura
della Repubblica a cui spetta il compito di valutare se l’azienda può continuare
a operare in queste condizioni o se gli impianti devono tornare sotto sequestro.
Il rischio, infatti, non è affatto scongiurato. È stato lo stesso gip Patrizia
Todisco, con un’ordinanza firmata a novembre dello scorso anno, a spiegare che
se l’Ilva non rispetta in tempi stretti le prescrizioni dell’Autorizzazione
integrata ambientale, la facoltà d’uso può essere revocata e quindi gli impianti
dell’area a caldo possono tornare sotto sequestro. Un monito lanciato dal
magistrato che ha sottolineato che “allo stato, non risulta ancora intervenuta
l’approvazione del piano industriale” e, invece, sono ancora “rilevanti” le
“accertate violazioni delle prescrizioni in materia di tutela ambientale e
sanitaria”.
Non solo. “Le attività condotte dalla Societa Ilva spa – si legge nel
provvedimento – risultano in notevole ritardo rispetto ai tempi prescritti dal
provvedimento di riesame Aia 2012” e che quindi “sussistono le pratiche
operative di gestione del processi che hanno fin’oggi determinato le violazioni
delle norme”. Quelle stesse pratiche, in sostanza, che hanno causato anche le
colonne di fumi e polveri mostrate dalla fotografia pubblicata oggi dal Fatto e
hanno portato al fermo degli impianti il 26 luglio 2012. Ancora il magistrato ha
chiarito che alla base della riduzione dei livelli di inquinamento dev’essere
collegato “lo spegnimento di alcuni impianti quali, l’altoforno 1, le batterie
3-4, 5-6, 7-8, e la fermata dell’altoforno 2 e dell’acciaieria 1”.
Ma soprattutto il gip, nel suo documento, ha evidenziato come la stessa Corte
Costituzionale abbia definito legittima la legge “salva Ilva” e quindi
equiparato diritto alla vita e diritto al lavoro per “la temporaneità delle
misure adottate”. Cioè se l’azienda non riesce a rispettare i tempi, la facoltà
d’uso può essere revocata, con una richiesta dei pm, sulla base di dati
oggettivi. Le segnalazioni, come questa pubblicata dal sito del Fatto, del
resto, continuano a pervenire quasi quotidianamente agli inquirenti e il tempo
per il rispetto delle prescrizioni Aia trascorre inesorabilmente.
Mafia Spa batte tutti. La
criminalità organizzata fattura 180 miliardi l'anno. Gli imprenditori vittime di
racket sono 1 milione
Questi alcuni dei numeri chiave contenuti nella
seconda edizione del libro 'I costi dell'illegalita' e la lotta alla
criminalita' organizzata' appena pubblicato da Unimpresa che sara' presentato
giovedi' 6 marzo a Roma in occasione del convegno 'Legalita' dove sei?'…
(Adnkronos) - Sono oltre un milione, un quinto degli attivi, gli imprenditori
vittime di un qualche reato (racket, truffe, furti, rapine, contraffazioni,
abusivismo, appalti, scommesse, pirateria) che fa muovere un fatturato che si
aggira intorno ai 170-180 miliardi di euro, con un utile che supera i 100
miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti.
Questi alcuni dei numeri chiave contenuti nella seconda edizione del libro 'I
costi dell'illegalita' e la lotta alla criminalita' organizzata' appena
pubblicato da Unimpresa che sara' presentato giovedi' 6 marzo a Roma in
occasione del convegno 'Legalita' dove sei?' a cui parteciperanno, tra gli
altri, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano e il Procuratore nazionale
antimafia, Franco Roberti.
La 'Mafia spa', una vera e propria holding company, e' la piu' grande azienda
italiana, la prima banca d'Italia. Condiziona il mercato, fa i suoi prezzi e
butta fuori i concorrenti. Ha una liquidita' di 65 miliardi di euro, che in gran
parte viene investita in economia legale. Solo il ramo commerciale della
criminalita' organizzata, rileva Unimresa, rappresenta quasi il 10% del Pil
nazionale, superiore a quello di Estonia, Slovenia, Croazia, Romania. Del resto,
i ricavi di cui dispone la criminalita' organizzata vanno ad alimentare un
mercato parallelo a quello legale, addirittura maggiore di quello che tiene in
piedi il nostro paese.
Le vittime dirette della criminalita' organizzata, secondo quanto emerge dal
volume pubblicato da Unimpresa, sono in primis le imprese che si ispirano alla
legalita' e alla correttezza verso i consumatori, i dipendenti, i risparmiatori:
le imprese che, in silenzio, si confanno ai canoni fondamentali dell'etica
sociale di impresa.
mafia
''In certi contesti -spiega Luigi Scipione, autore del libro, professore
universitario e membro del comitato di presidenza di Unimpresa- quelli
caratterizzati da una sedimentata arretratezza economica e sociale, la
criminalita' organizzata ha assunto un ruolo di mediazione sociale, di
mediazione economica, un ruolo di interfaccia con la politica e le istituzioni.
In alcune aree del Meridione la criminalita' si e' addirittura sostituita ai
meccanismi del welfare statale per creare un vero e proprio welfare mafioso''.
Secondo Scipione ''l'illegalita' e la mancanza di regole feriscono a morte
l'economia sana, impediscono lo sviluppo nelle regioni povere, scoraggiano gli
investimenti. Appare chiara la presa di posizione nonche' la consapevolezza che
i condizionamenti della criminalita' organizzata nell'economia rappresentano un
grande freno allo sviluppo del Paese e un grande pericolo per le imprese sane:
non si possono fare analisi serie sul futuro della nostra economia prescindendo
dai dati sull'economia illegale e criminale''.
L’azzardo del catetere. In
Italia il 70,7% degli over 65 ha giocato nell'ultimo anno
E'
quanto risulta da una ricerca del Gruppo Abele e di Libera - Il gioco d'azzardo
è la quarta industria italiana. E l'Italia è il terzo Paese al mondo in cui si
gioca di più - Allo Stato entra il 10% dei circa 80 miliardi di ricavo totale,
ovvero otto miliardi contro gli oltre sei della spesa sanitaria per le ludopatie…
(ANSA) - Il 70,7% degli over 65 italiani ha
giocato d'azzardo almeno una volta nell'ultimo anno, e il 45,3% del totale l'ha
fatto per vincere denaro. Inoltre il 14,4% è risultato 'a rischio' ludopatia e
il 16,4% in situazione già grave, tale cioè da avere bisogno di cure. E' quanto
risulta da una ricerca del Gruppo Abele e di Libera, svolta in collaborazione
con Auser su un campione di mille anziani.
"Lo chiamano gioco, ma in palio ci sono le vite delle persone", ha esordito
presentando i dati don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Il
gioco d'azzardo, ha sottolineato, è la quarta industria italiana. E l'Italia è
il terzo Paese al mondo in cui si gioca di più. La ricerca, ha spiegato, è stata
fatta perché "conoscere i problemi serve per diventare più responsabili".
Enzo Costa, presidente nazionale di Auser, ha rimarcato che "lo Stato italiano
spende per curare i casi più gravi di dipendenza da gioco all'incirca la somma
che incassa dal gioco stesso". Allo Stato entra infatti il 10% dei circa 80
miliardi di ricavo totale, ovvero otto miliardi contro gli oltre sei della spesa
sanitaria per le ludopatie.
"Uno Stato che gestisce utili derivanti da un'attività non molto nobile - hanno
detto, pur con accenti diversi, Auser e don Ciotti - dovrebbe almeno usarli per
finalità nobili, come il contrasto alla povertà. Meglio farebbe però agendo a
monte con l'istituzione di controlli seri, senza limitarsi a intervenire quando
i giocatori hanno sviluppato una dipendenza tale da avere bisogno di cure
sanitarie. Anche perché intorno al gioco d'azzardo - hanno ricordato - cresce la
malavita organizzata, e gli anziani finiscono anche vittime degli usurai".