31 marzo

 

Ritardi, scandali e appalti sospetti, il sogno dell'Expo è diventato un incubo

Viaggio nei cantieri di Milano, 4350 metri quadrati che dovrebbero essere pronti per il primo maggio del 2015. Un miracolo il rispetto dei tempi. Scatta l’allarme a un anno dall’evento. Il rischio di una figuraccia mondiale. Il ruolo negli affari del clan Formigoni

di ALBERTO STATERA

MILANO. Una landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci viene a Rho?»

Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni. Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo.

Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.

Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire.

Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato, non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.

Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche. Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione
della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.
Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando
appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.

Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società di
cui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesiano di via Copernico.

Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita. Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo.

Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.

 

20 marzo

 

I caccia rimangono

1. RENZI PROVA A TOGLIERE SOLDI AI CACCIA MADE IN USA E RE GIORGIO L’HA SUBITO FERMATO - 2. IL CONSIGLIO SUPREMO DI DIFESA UFFICIALMENTE HA PARLATO D’ALTRO, MA INTANTO SPOSTA OGNI DECISIONE SUI TAGLI ALLA DIFESA A FINE ANNO E HA MESSO NERO SU BIANCO CHE “RESTANO FERMI I PROVVEDIMENTI E LE INIZIATIVE DA ATTUARE” IN AMBITO INTERNAZIONALE - 3. IL DIFFICILE SLALOM DELLA PODISTA PINOTTI E LA LEVATA DI SCUDI DI AMMIRAGLI E GENERALI, ABILMENTE “PROVOCATI” CON LA BUFALA DI UNA VENDITA DELLA PORTAEREI GARIBALDI- 4. DIETRO QUESTO DERBY SOTTERRANEO TRA NAPOLITANO E RENZI NON CI SONO SOLTANTO I 12 MILIARDI DI EURO D PER ACQUISTARE I 90 CACCIA SUI QUALI PERSINO IL PENTAGONO NUTRE QUALCHE DUBBIO, MA LA SOSTANZA STESSA DEI RAPPORTI CON WASHINGTON- 5. IL “FACCENDIERE” DI MATTEUCCIO, MARCO CARRAI, COSA CI FA IN VIAGGIO IN ISRAELE?

Francesco Bonazzi per Dagospia

Tagli sì, ma gli impegni internazionali si mantengono. E per decidere dove e come impugnare le forbici, si deve aspettare la più classica delle indagini conoscitive, naturalmente chiamata "Libro bianco", su tutta la riorganizzazione del comparto Difesa.

Il Consiglio supremo di Difesa, presieduto stamani da Giorgio Napolitano, ufficialmente non si è occupato del taglio al programma di acquisto degli F35 che ingolosisce Tesoro e Palazzo Chigi, a caccia di soldi "popolari" per tagliare l'Irpef in busta paga. Ma ha dato indirettamente un secco "stop" a qualsiasi fantasia del genere, spostando il momento delle decisioni concrete almeno di sei mesi e mettendo l'integrità della commessa a stelle e strisce al riparo di un "ragionamento di sistema".

Dietro questo derby sotterraneo tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi non ci sono soltanto i 12 miliardi di euro da spendere per acquistare i 90 caccia sui quali persino il Pentagono nutre

Il Rottam'attore dimezzerebbe volentieri quella spesa e ha mosso le sue pedine in Parlamento perché venga approvato un documento in cui si parla di "significativo ridimensionamento" del programma. Ed è bastato che due giorni fa, in un'intervista a Sky Tg24, il ministro della Difesa Roberta Pinotti definisse "lecito" anche solo "immaginare un ripensamento o una riduzione" dell'impegno sul progetto F35 per scatenare una serie di scosse telluriche.

Si è mosso tantissimo John Phillips, l'ambasciatore Usa di stanza a Roma che può vantare uno splendido casale in Toscana e un consolidato rapporto con Renzi, fin dai tempi in cui il sindaco di Firenze era solo il Rottamatore della Leopolda.

Il diplomatico americano, da esperto avvocato d'affari, ha incontrato tutti i deputati che contano nelle commissioni Esteri e Difesa delle Camere, perché sa che adesso anche il Parlamento ha diritto di parola su materie come questa. E avrà certo fatto valere i suoi stretti legami con Marco Carrai, l'imprenditore fiorentino di assoluta fiducia del premier che in questi giorni è in viaggio in Israele, ma aggiorna costantemente l'"amico Matteo" su ogni dossier internazionale.

E l'ipotesi di un blitz del governo sui soldi destinati ai caccia Usa è prontamente abortita. Un argomento importante è stato di natura squisitamente tecnica: non ci sono miliardi già in cassa da stornare su altri capitoli, ma solo una serie di impegni internazionali per cominciare a comprare gli F35 dal prossimo anno.

Poi ha pesato la levata di scudi di tutti i vertici militari, abilmente "provocati" con la bufala di una prossima vendita della portaerei Garibaldi, magari da affidare alle manone di Lurch Cottarelli. Infine, come sempre, è stata decisiva la "linea della fermezza" (atlantica) di Re Giorgio, che già in passato ha difeso l'impegno internazionale sugli F35.

Non è un caso se stamani, sul Corriere, il sottosegretario Graziano Delrio ha cercato di far passare il messaggio che sui super-caccia, come su tutto il bilancio della Difesa, "decide il ministro Pinotti". Una decisione da schiacciare un governo, figuriamoci un ministro. La Pinotti però non ha fatto una piega e a chi ha potuto parlarle in queste ore ha ripetuto in sostanza un solo concetto: "Io sono determinata a decidere come ministro. Ma è sbagliato parlare di un solo programma, come quello sugli F35, perché prima bisogna discutere il progetto d'insieme".

Palla lunga e pedalare, si direbbe in gergo calcistico. Ma intanto non si tocca nulla e si sigla una tregua che evita pericolosi scontri tra il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Il comunicato finale del Consiglio superiore di Difesa, guidato da Napolitano, è un capolavoro di diplomazia e messaggi vari.

Si riconoscono "le pressanti esigenze di contenimento della spesa pubblica che impongono di ripensare e riorganizzare profondamente" la Difesa, ma si rimandano tutte le decisioni strategiche a un "Libro Bianco" che dovrà essere pronto entro fine anno.

Nel frattempo, però, "restano fermi i provvedimenti e le iniziative da attuare con immediatezza in ambito nazionale ed europeo". Certo, il riferimento esplicito agli F35 non c'è, ma intanto Re Giorgio manda a dire a Pittibimbo che su certe materie le chiacchiere stanno a zero.

 

La Terra dei fuochi e la Terra delle menzogne

Il dossier ministeriale sull'inquinamento dei terreni tra Napoli e Caserta suscita perplessità. È solo il punto di partenza. Ecco come andare avanti

di ROBERTO SAVIANO

Il presente falsificato genera un futuro malato. La storia si vendica". Mi sono venute in mente le parole dello scrittore polacco Slawomir Mrozek quando ho letto il documento della commissione interministeriale sui "Risultati delle indagini tecniche per la mappatura dei terreni destinati all'agricoltura della Regione Campania". La parola d'ordine di questa operazione è una sola: minimizzare. Minimizzare l'emergenza connessa all'inquinamento dei suoli in Campania. Minimizzare l'entità dei danni subiti dall'ambiente. Minimizzare l'impatto che l'inquinamento ha sulla vita e sulla salute delle persone. Minimizzare le colpe di chi si è reso responsabile e complice di questo disastro. Minimizzare l'entità del disastro.

Ma per gettare luce sul presente falsificato, dobbiamo capire come è stato prodotto questo documento, qual è la sua funzione e per cosa invece lo stanno spacciando. Con semplice intuizione comprenderemo che è solo un primo movimento, primissimo, per districarsi nel ginepraio della Terra dei fuochi e il Paese che osserva, che ascolta, che segue, non può credere che si tratti del verbo che chiarisce le falsità costruite su questi territori.

Ho letto il dossier con interesse e attenzione e, per quanto mi sforzi, mi risulta difficile credere che questo documento sia considerato davvero affidabile e finale. Non posso credere che si sia cercato con solerzia di minimizzare ciò che negli ultimi decenni è avvenuto in Campania e non posso credere che le autorità e gli enti coinvolti davvero ritengano di avere tra le mani i risultati conclusivi di una indagine scrupolosa. È evidente, piuttosto, che quello compiuto in questi primissimi mesi di lavoro è soltanto l'esiguo passo iniziale per la comprensione di ciò che è accaduto e continua ad accadere. E i sorrisi imbarazzati, le parole studiate sin nel dettaglio, le risposte parziali date alla stampa, ne sono la dimostrazione.

Ma la cosa più paradossale, grottesca e offensiva è quel grafico a torta in cui spicca un unico dato, posto lì trionfante, come a voler chiudere definitivamente il sipario su tutto ciò che si è detto e scritto in questi anni sulla Terra dei fuochi. Un microscopico spicchio rosso con su scritto 2% e l'intera circonferenza verde a segnalare, persino nel colore, la sanità della parte maggiore dei territori.

Un grafico semplice di quelli che non vengono utilizzati più nemmeno a scuola per studiare i diagrammi, senza una legenda, senza spiegazioni coerenti, il cui messaggio è: fidatevi di questo dato, tutto è nella norma. La parte maggiore è quella distesa verde rasserenante, quel piccolo invisibile spicchio rosso è l’unica preoccupazione. Meno di un fazzoletto di terra: quel 2% ritenuto pericoloso. Niente di cui allarmarsi, dunque. Niente di apocalittico in quell'area tra Napoli e Caserta. E infatti non sono tardate tristi affermazioni del tipo: “Vedete? È tutto falso, il Nord non ha inquinato il Sud come ci hanno raccontato”.

Come se raccontare il sodalizio criminale tra quelle aziende del Nord che volevano smaltire rifiuti speciali a basso costo e la criminalità organizzata del Sud che glielo ha consentito, sia stato tifare per una squadra piuttosto che per un’altra. Come se sia ancora possibile negare che in ventidue anni sono stati smaltiti nella Terra dei fuochi oltre 10 milioni di tonnellate di rifiuti di ogni specie. Dal 1991 al 2013 sono state censite da Legambiente 82 inchieste per traffico di rifiuti, con 915 ordinanze di custodia cautelare, 1.806 persone denunciate e il coinvolgimento di 443 aziende in gran parte del Centro e del Nord Italia. Negli ultimi cinque anni nella Terra dei fuochi si sono concentrati 205 arresti per traffici e smaltimenti illegali, pari al 29,2% del totale nazionale, e oltre mille sequestri, il 10% di quelli effettuati in tutta Italia. Tutti questi dati, già dimostrati dalle inchieste, dove sono finiti? Cancellati, e al loro posto arriva quel 2% come un pugno nello stomaco, che toglie il respiro e annebbia la vista.

Eppure non sarebbe stato difficile ammettere che tutto questo era solo un punto di partenza: per quanto riguarda i roghi monitorati, ad esempio, a essere prese in considerazione sono state soltanto quelle aree per cui si è reso necessario un intervento dei Vigili del fuoco superiore alle cinque ore. Non si fa cenno ai 6.915 roghi censiti dal lavoro del Prefetto Donato Cafagna tra il gennaio 2012 e il dicembre 2013. Vengono tralasciati tutti gli incendi che hanno richiesto interventi inferiori alle cinque ore di lavoro: roghi piccoli e continui di rifiuti, pneumatici e vestiti che sono migliaia e che influiscono anche loro nella contaminazione dei terreni. Nulla importa che dai calcoli siano escluse le aree agricole vicine agli impianti di smaltimento dei rifiuti o le cosiddette “aree vaste” già contaminate come “Lo Uttaro”, per le quali c’è da attendere un'analisi più approfondita che sarebbe dovuta durare un anno. E nulla importa che le aree vengano ritenute a rischio solo sulla base di vecchi dati, perché in questo ambito riferirsi a dati di novembre 2013 vuol dire parlare di preistoria. Le associazioni sono rimaste senza alcuna voce in capitolo. Legambiente non è stata interpellata, i comitati cittadini, che pure si sono impegnati in prima linea, non sono stati ascoltati. Chi ha redatto la relazione non ha fatto una reale campionatura della terra: infatti, se si fa riferimento alla tabella della sintesi per la conferenza stampa, per ogni classe di rischio, le analisi risultano ancora un progetto (e addirittura vengono previsti i tempi in cui attuarle). Ed è proprio qui che risiede il paradosso: nell’avere con imprudenza sbattuto in faccia alla popolazione l'assenza di pericolo per tante aree agricole, sulla base di analisi ancora non svolte. Non sono stati fatti carotaggi, ma si rimanda sempre e genericamente ad analisi successive, a prelevamenti di campioni dal sottosuolo.

Il 98% del terreno destinato alle coltivazioni, quindi, non sarebbe a rischio inquinamento. Viene il dubbio, credo ragionevole, che tutta questa pantomima cui si sono prestati ministri e governatori sia in realtà un’operazione per salvare il salvabile, per evitare la completa rovina dell’economia campana basata sui prodotti agricoli. Dovremmo quindi voltare pagina quando la verità sulla Terra dei fuochi è ancora tutta da scrivere. Del resto, quel 2% costituirebbe un’area talmente piccola che potrebbe giustificare un esiguo stanziamento di fondi per le bonifiche che devono essere pianificate. Se le aree da bonificare fossero maggiori, siamo sicuri che la Regione Campania e il Paese avrebbero la forza economica per poterle gestire? Il 74% dei circa duemila siti censiti non ha avuto alcuna bonifica. Mentre chi ha inquinato quei 21,5 chilometri quadrati di territorio ha potuto farlo perché non ha rischiato e, tuttora, non rischia nulla. Ecco perché è indispensabile che il Senato approvi quanto prima l'introduzione dei delitti contro l'ambiente nel codice penale. Qui si gioca un altro dei paradossi furbi di questo documento: le aree sono state classificate sulla base di analisi datate e circoscritte attraverso un monitoraggio aereo. Il dossier non a caso parla di “georeferenziazione” della Terra dei fuochi che è sinonimo di geolocalizzazione. Questo significa che, fino ad ora, la mappatura che è stata fatta prescinde dalla necessità di approfondire le analisi chimiche dei terreni e qui giunge un’altra verità: incredibilmente i sette siti più a rischio non coincidono con le aree di stoccaggio delle ecoballe e delle discariche. Si sono accumulati oltre 5 milioni di ecoballe corrispondenti a 6 milioni di tonnellate di rifiuti che non potrebbero essere smaltiti con termovalorizzazione perché non composti a norma. Le ecoballe sono state stoccate in giro per la regione. Tutto questo rientra in quello spicchietto rosso? Pare di no.

L’unica cosa davvero certa, riguardo ai dati diffusi, è che c’è tanto lavoro da fare perché i numeri siano credibili. Bisogna censire e classificare le aree agricole delle cosiddette “aree vaste”, devono essere prese in considerazione le terre limitrofe agli impianti di smaltimento dei rifiuti, vanno fatte le analisi dei terreni interessati dai roghi, le ricadute al suolo degli inquinanti, l'eventuale utilizzo delle acque di falde contaminate, captate con pozzi agricoli abusivi.

Come deve muoversi il governo davanti a tutto questo? Confrontandosi per esempio con persone come Peppe Ruggiero ed Enrico Fontana, osservatori delle Terre dei fuochi da oltre un decennio e aprire la ricerca e il monitoraggio. Hanno visto le decine di documentari? Uno fra tutti “Biutiful Cauntri”?

Il ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina dovrebbe richiamare all'ordine quei dirigenti un po' troppo solerti che hanno scambiato l'avvio di un lavoro per la sua rassicurante conclusione, che hanno circoscritto il dramma della Terra dei fuochi a 64 ettari di terreno. Bisogna vigilare affinché lo stesso metodo non si applichi allo screening sanitario. Ho la percezione che il prossimo passo possa essere minimizzare anche in questo ambito. Minimizzare, per far serpeggiare l'idea di una farsa. Temo che al governo prema piuttosto archiviare immediatamente la pratica come risolta e nel tempo suggerire che non esistono epidemie, che i morti bambini sono nell’ordinaria strage che il cancro genera in ogni angolo di mondo, ammorbando ogni famiglia, ogni territorio. Senza responsabilità dirette. E in Campania, incredibilmente, non esiste ancora un registro per i tumori (a dire il vero lo hanno appena approvato, e quindi sono nel giusto se dico che di fatto non esiste) che a scriverla questa cosa sembra già un bestemmia. Perché a oggi non lo sappiamo a cosa siano dovute le morti di cancro; se, come dice il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, alle cattive abitudini o ad altro.

Credo sia piuttosto una cattiva abitudine svolgere il proprio lavoro in questo modo, non avendo altro come obiettivo che una costante campagna elettorale. Ci si augura, ma i dubbi sorgono, che lo screening sanitario non venga effettuato con la stessa superficialità, magari prendendo unicamente i dati ufficiali pregressi o dando per veritieri i soli dati di ospedali locali, con la certezza che a curarsi e a morire si va nelle strutture del Nord. Lo screening dovrà essere reale e non costruito ad arte. Limitandosi a leggere questa relazione, si comprende che c'è stato un drammatico fraintendimento: il lavoro di censimento è appena agli inizi e sulla base dei dati disponibili è emersa l'esistenza di 21,5 km quadrati di territori a rischio di cui 9,2 agricoli; sempre sulla base di tali dati sono stati individuati già 64 ettari di terreni in cui vietare immediatamente la produzione agricola.

Invece di essere letto come un dato allarmante, ovvero, se attraverso i dati già disponibili siamo giunti a questo risultato, immaginiamo cosa potrà emergere da analisi dettagliate. Ecco, invece di essere questo l’assunto di partenza, il dossier appena redatto è sembrato il trionfo dell’ottimismo sul pessimismo. Del pragmatismo sull’allarmismo.

Come è possibile non rendersi conto che in questo modo si dà ragione alla peggiore informazione, informazione che in questi anni ha giocato sporco, considerando esagerazione e propaganda politica le denunce, giustificando così la propria omertà e incompetenza su questi temi. Allo stesso tempo si sono date munizioni all’isteria collettiva pronta a credere al disastro nucleare, a quella fazione cialtronesca che in questi mesi ha svelato inesistenti contaminazioni e nel migliore dei casi ha parlato con la sola pressione dell’emotività. Questi ora potranno dire e sarà difficile dargli torto: “Vedete come il potere nasconde i fatti?'. E verranno ascoltati più di quanto lo siano adesso. E verranno ascoltati perché alla censura dei governi fa sempre il paio l’emotività più dirompente e nefasta. Il puzzo dalla Terra dei fuochi non è scomparso e, per quanto lo si neghi, in tutte le famiglie ci sono devastanti esperienze di cancro infantile.

A tutto questo non si può rispondere con quel diagramma. Per tutti quei ricercatori, quegli analisti, per chi negli anni ha raccontato il territorio, sarà sempre più complesso cercare di differenziarsi in questo coro di delirio. Per quegli imprenditori che continuano a credere nel Sud nonostante la politica italiana (non solo quella campana) faccia di tutto per mortificarne la passione, la dedizione e la professiona-lità, questo dossier è un’umiliazione. Se produco mele, se produco vino, se produco conserve, se produco pasta in Campania vorrei poter orgogliosamente dire che il mio Paese ha condotto analisi serie e che il terreno che produce il mio grano, le mie mele, le mie uve è un terreno sano, è un terreno monitorato, è un terreno, se occorre, bonificato. È un terreno ridato alla vita. Non vorrei che sui miei prodotti stagnassero ombre gettate dall’incompetenza di chi non sa affrontare le emergenze. Che non vede le emergenze come opportunità per risolvere e rilanciare un territorio.

A volte provo invidia per come in altri luoghi si riescano ad affrontare situazioni gravissime con pragmatismo e serietà, per come si riesca a comprendere che a tutto c’è un limite, alla propria carriera, al proprio arricchimento personale, in nome di qualcosa di più grande e di più alto. Nel 2002 la petroliera “Prestige” affondò al largo della Galizia provocando un disastro ambientale di dimensioni gigantesche. La Galizia è una regione povera che vive prevalentemente di pesca ma questa tragedia invece di mortificarla l’ha fatta rinascere. L’anno dopo il disastro e le operazioni di estrazione del combustibile le spiagge della Galizia avevano più bandiere azzurre di prima. E questo perché nonostante gli errori e i ritardi della politica, le persone avevano adottato la loro terra, l’avevano amata come mai prima di allora e con tutto l’ardore che la possibilità di cambiamento dona avevano bonificato chilometri e chilometri di costa. Ma certo tutto questo da noi non sarà possibile se la lucidità lascerà il posto alla ragion di Stato per uno Stato che non ha ragioni da vantare.

Spero che possano essere chiarite la funzione e la natura di questo documento. Spero che i politici campani, quelli che hanno percorso centinaia di volte la Nola-Villa Literno e che centinaia di volte hanno dovuto turarsi il naso,

quelli che sanno come si vive nelle provincie di Napoli e Caserta, dove basta una minima emergenza per inondare le strade di monnezza e bloccare finanche gli accessi alle scuole, pretendano serietà, rigore e trasparenza. Vorremmo non dover utilizzare anche riguardo alla Terra dei fuochi quelle parole terribili che Karl Kraus scrisse nel 1918: «Nero su bianco: ora la menzogna si presenta così».

 

18 marzo

 

Dia, così sprechi e tagli spuntano le armi all'Antimafia

Di Alberto Custodero

Da una parte meno missioni all'estero e personale insufficiente, dall'altra l'utilizzo di ditte private per predisporre le intercettazioni e una nuova sede da centinaia di migliaia di euro. Alla Direzione Investigativa Antimafia si risparmia sulle indagini e si pratica una strana spending review al contrario. E sugli appalti di Expo 2015 e del dopo terremoto i controlli sono quasi impossibili

ROMA - La trasferta costa troppo. E la Dia non va all'estero per fare indagini sulla violentissima mafia russo-georgiana che ricicla, traffica in armi e droga, e si autofinanzia con i reati predatori. All'indagine partecipano molte polizie europee, che più volte hanno invitato i nostri investigatori per un ovvio coordinamento. Per mancanza di fondi, tuttavia, gli agenti della Dia hanno dovuto declinare gli inviti. Ma davvero mancano i fondi per fare le indagini sulle mafie internazionali? E perché l'organismo antimafia voluto da Falcone sta diventando sempre più "debole"? Più in generale, com'è stato possibile che in questi ultimi cinque anni di crisi la polizia si sia indebolita, come ha detto il capo, il prefetto Alessandro Pansa? E la mafia si sia rinforzata, come confermato dal sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti?

La Dia, Direzione Investigativa Antimafia, l'ha fortemente voluta Giovanni Falcone. Lui aveva capito che per sconfiggere Cosa nostra, e i suoi tre livelli (manovalanza del crimine, banche e politica), ci sarebbe voluto un organismo interforze che (sulla falsariga del Gat antiterrorismo di Dalla Chiesa) si fosse occupato solo di criminalità organizzata. Oggi però, proprio come avvenuto per i super poteri antiterrorismo del prefetto Dalla Chiesa, sbandierati dal governo, ma mai attribuitigli, la Dia si trova a essere una grande incompiuta. Anziché potenziarla, viene lentamente smantellata. Anziché unificare e rafforzare, prevale il concetto divide et impera. E le attività antimafia, anziché essere accentrate nella Dia, sono ancora suddivise tra le forze di polizia. L'Arma che ha i Ros, la Finanza lo Scico, la Polizia lo Sco. La grande idea di Falcone di costituire un unico, potentissimo organismo antimafia, a ventidue anni dalla strage di Capaci, non s'è mai realizzata. Perché?

LA BEFFA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA

I numeri, del resto, parlano da soli. Negli ultimi anni si è assistito a una costante riduzione dei fondi per la Dia, passati dai 28 milioni di euro del 2001 ai 13,5 milioni di euro del 2014. Stanziamento, questo, che ha già subito due tagli. L'organico della Dia è attualmente di circa 1300 unità. A marzo del 2012, il generale Giuseppe Tavormina, primo Direttore della Dia, nel corso di un'audizione davanti alla Commissione Antimafia, ha affermato che, in origine, la Dia, per poter operare a pieno regime, avrebbe avuto bisogno di una pianta organica di almeno 3000 unità. Ad oggi non è stata attuata alcuna misura per coprire l'organico di personale mancante. La carenza di fondi, inoltre, non consente al personale di frequentare corsi di aggiornamento. Per risparmiare si assiste ad incredibili paradossi. Quando la Dia deve mettere le microspie per intercettare qualche indagato, sempre più sovente non lo fa con il proprio personale specializzato. Ma si rivolge alle ditte private esterne che collaborano con le procure che poi provvedono al pagamento. "Da una parte si assiste a un taglio di risorse destinate alle indagini", denuncia il sindacato Silp-Cgil, "dall'altra, però, il direttore della Dia, Arturo De Felice, ha tolto alla metà del personale la possibilità di accesso alle banche dati delle forze di polizia. Tenuto conto che la Dia ha tra le competenze anche il monitoraggio dei grandi appalti, c'è da chiedersi come mai, alla vigilia di Expo 2015, e durante la ricostruzione post terremoto sia in Emilia che in Abruzzo, all'organismo antimafia siano state spuntate le armi. E non siano state rinforzate per combattere l'infiltrazione mafiosa negli appalti".

Ma è proprio vero che mancano i fondi? Oppure la verità, come denuncia Daniele Tissone, segretario del sindacato Silp-Cgil, è un'altra e "si spendono male"? Casi di spending review al contrario, e di sperpero di risorse, nei bilanci della Dia non mancano. Il caso più clamoroso è quello della scelta della nuova sede del centro operativo di Roma. Tra le varie opzioni (palazzina piazza Cola di Rienzo, affitto 600mila euro annui; palazzina via Sicilia, affitto 800mila euro; palazzina via Cisalpina, gratis in quanto confiscata dalla Dia a un boss) è stata scelta la più costosa. Quella di via Sicilia. Perché, si chiede il Silp-Cgil, "il direttore che risparmia sugli accessi alle banche dati, sulle missioni, sullo straordinario, sapendo che avrebbe lasciato la vecchia sede, ha speso migliaia di euro per fare là il suo ufficio di rappresentanza, che peraltro ha già nella sede centrale dell'Anagnina?". "E perché", aggiungono i sindacati, "nella nuova sede di via Sicilia, quella più costosa, si è fatto fare anche là un altro ufficio di rappresentanza?". La nuova palazzina di via Sicilia, nonostante sia stata completamente ristrutturata a spese del Viminale, a soli tre mesi dall'ingresso del personale ha già grossi problemi di infiltrazione di acque piovane. A proposito di sprechi, infine, va ricordato che la sede centrale della Dia, a Roma, quartiere Anagnina, costa 17 milioni di affitto all'anno. Quando, a pochi chilometri di distanza, quartiere Cecchignola, ci sono disponibili le ex caserme dell'esercito. Gratis in quanto di proprietà del Demanio.

 

11 marzo

 

Monte dei Pacchi infiniti

Non si capisce perché una banca debba essere azionista di una società elettrica. Così Mps si fa fregare pure dalla Sorgenia: ha già dovuto svalutare l'1,17% per 40 milioni.
Mps è socia dal 2007, quando presidente era Mussari. Iscritta a bilancio per 33 milioni, la quota era lievitata fino a 47 milioni nel 2010. Si poteva fare una piccola plusvalenza. E invece no, perché nel 2012 c’è stato il crollo del valore di bilancio della partecipazione, passato da 40 a 7,7 milioni…

Fabio Pavesi per ‘ Il Sole 24 Ore

Di tutte le banche coinvolte nella trattativa sul debito di Sorgenia, ce n'è una che, al di là di come si chiuderà la partita, ha già perso dei soldi. È Mps, che non solo è tra i più grandi creditori di Sorgenia, ma è anche azionista.
Un azionista quasi simbolico con l'1,17% del capitale, ma non per questo meno danneggiato dalla debàcle di Sorgenia che ha cumulato perdite tra il 2012 e i primi nove mesi del 2013 per oltre 600 milioni. Mps ha quella quota dal 2007 quando presidente era Giuseppe Mussari. Iscritta a bilancio per 33 milioni era lievitata fino a 47 milioni nel 2010.
Si poteva fare una piccola plusvalenza. E invece no. È arrivato il crollo e già nel bilancio del 2012 Mps ha portato il valore di Sorgenia da 40 milioni a soli 7,7 milioni, l'80% in meno. Non si capisce perchè una banca debba essere azionista di una società elettrica. Cumuli il rischio di credito e quello di capitale. Mps ha fatto il passo più lungo della gamba.
Non che il resto del sistema bancario abbia dimostrato grande senno, dato che dal 2009 ha incrementato l'esposizione nei confronti del gruppo energetico per 600 milioni (quelli oggi considerati in eccesso) proprio quando la marginalità di Sorgenia cominciava a flettere paurosamente. E ora le banche (tutte) si accollerranno il rischio di fare gli azionisti della malconcia Sorgenia.

 

10 marzo

 

Gli invisibili dell'Europa

di Barbara Spinelli

“Il dolore sta producendo risultati": fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell'Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell'Ocse.

Già allora i dati sull'economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell'austerità - e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva - ma l'ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: "Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell'uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili".

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose
le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d'Europa e della sua cultura, s'aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
"Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica", constata la rivista, "ma nonostante l'evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista". Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano "efficaci", e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo "questione di comunicazione" sbagliata, come sosteneva nell'intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un'improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la "fatica delle riforme" (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi "sono alle prese con resistenze sociali molto forti". Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l'Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle "forti resistenze sociali", se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell'accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l'incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s'estende l'Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest'ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell'Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L'Unione l'ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un'ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all'eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali "di strada" son passati dal 3-4% al 30%. S'aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l'aumento è del 45%. In principio s'ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l'Italia, è vicina all'inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell'università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po' come avviene per il clima). L'unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: "L'Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali" - "l'Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale". Nessuno sa quale contributo.

Scrive l'economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi "interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale". Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l'oblio storico di quel che è stata l'Europa, del perché s'è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il '14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: "Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell'indigenza [...], se miriamo deliberatamente all'umiliazione dell'Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà".

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all'Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c'era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

 

5 marzo

 

Arte perduta per cemento e degrado: da nord a sud, tutte le Pompei d’Italia

Da Roma a Sibari (Cs), da Bologna a Vicenza, da Bacoli (Na) a Crotone: la mappa dei luoghi storici e artistici minacciati dall'abbandono e dalla cattiva gestione. Non ci sono stime definitive al riguardo, ma si parla di almeno un 20% di monumenti andati distrutti

di Manlio Lilli
La storia dell’Italia unita è scandita da indagini archeologiche, ma anche da troppi abbandoni. Da distruzioni di ogni tipo. Dagli sterri dei primi decenni del Novecento alle indagini preliminari più recenti, una parte del patrimonio, dissipato. Per risorse indiscutibilmente insufficienti, ma anche per evidenti incapacità gestionali. Per politiche, anche culturali, inadeguate. Già nel 1878, in una sintesi della storia urbana di Roma rivolta al pubblico dell’Esposizione Internazionale di Parigi, Rodolfo Lanciani, uno dei più grandi archeologi romani di tutti i tempi, chiedeva una maggiore attenzione al patrimonio archeologico del sottosuolo urbano. Condannando la sistematica distruzione subita dalle ville storiche ed esprimendosi in maniera quanto mai critica in merito ai risvolti affaristici e speculativi della crescita edilizia della città.

La capitale del degrado artistico
I diversi Prg che si sono succeduti nella Capitale, senza dare un ordine alla città in espansione, hanno per certi versi agevolato la distruzione di un numero impressionante di monumenti di ogni tipo e mole. Nonostante sia innegabile che le nuove norme ed un’accresciuta sensibilità, almeno a partire dagli anni Ottanta, abbiano costituito un strumento di salvaguardia. Spesso incerto: interi quartieri costruiti cancellando quasi per intero il popolamento antico. Singoli edifici ed opere di urbanizzazione a far scomparire tessere preziose di un grande puzzle. Alla Bufalotta e agli ex Mercati Generali all’Ostiense. A Casal Bertone e a Tor Marancia, su via di Grotta Perfetta. Al Gianicolo e a Dragona. Villae, ma anche tracciati stradali, necropoli, stazioni di posta, templi, acquedotti, ponti, terme, teatri e anfiteatri e moltissimo altro. Per non parlare della campagna romana in cui la dilatazione di alcuni paesi e il fenomeno delle seconde case hanno comportato l’obliterazione perpetua di tantissimi resti antichi.

Roma, specchio dell’Italia
Centinaia e centinaia di metri cubi di costruzioni antiche polverizzate. Oppure ri-sepolte dopo la scoperta, in attesa di risorse che probabilmente non arriveranno mai. A Napoli come a Bologna, a Cagliari come sulle colline marchigiane. Nel reggiano come a Torino. Ovunque lavori edilizi, sia pubblici che privati, troppo frequentemente abusivi, abbiano comportato scavi. Quasi non c’è città, paese e territorio che non abbia sacrificato, più o meno consciamente, parti cospicue del suo passato. La “foga cieca e distruttrice”, come sostiene Settis nel libro Paesaggio, Costituzione, Cemento del 2010, uno dei grandi mali. Una delle cause del disastro. Perché non esistono solo l’abbandono e il degrado, che uniscono Pompei a Sibari, Crotone ad Ancona, Paestum a Cales. Accanto a questi ci sono le troppe distruzioni, tante volte regolarmente autorizzate. Il caso del quartiere produttivo di Pompei, individuato nel comune di Torre Annunziata, sacrificato per lasciare spazio ad un nuovo megastore è solo l’ultimo di una lista quasi infinita.
Non ci sono stime al riguardo. Ma in molti dei casi per i quali siano noti significativi elementi, i numeri sulla distruzione parlano di almeno un 20% di monumenti andati distrutti. Così pezzo dopo pezzo l’Italia assottiglia il suo patrimonio archeologico. Peraltro ancora solo parzialmente noto. Secondo la recente indagine effettuata dall’Istat, in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, nel 2011 le aree o parchi archeologici erano 240, mentre 501 i monumenti e i complessi monumentali. In realtà il loro numero deve ritenersi di gran lunga maggiore, anche se non quantificabile, considerando i resti di varia consistenza disseminati per il Paese. Il quadro che se ne ricava è desolante. Valorizziamo in maniera inadeguata una parte più che esigua dell’esistente. Tuteliamo pochissimo di quel che si scopre. Mentre la gran parte degli addetti ai lavori, a partire dagli archeologi, cerca di sopravvivere come può alla continua emergenza. Viene da credere che nonostante i proclami, il patrimonio archeologico continui ad essere un fastidioso “peso”. Del quale disfarsi.

La mappa – necessariamente incompleta – dei luoghi minacciati
Verona, Piazza Corrubbio. Tra il 2009 e il 2011, nelle indagini preliminari alla realizzazione di un parcheggio interrato, scoperta un’estesa necropoli con sepolture datate tra il III e l’VIII secolo. Distrutta.

Vicenza. Corso Fogazzaro. Nel corso dei lavori di rifacimento della pavimentazione al di sotto dei portici, alla fine del 2012, si sono rinvenuti dodici pilastri relativi all’acquedotto della città romana. In attesa di una loro valorizzazione i resti sono stati reinterrati.

Bologna. Via Orfeo. Nel 2013, nel corso delle indagini preliminari per la realizzazione di un grande complesso residenziale nel centro storico, nell’area del Convento del Sacro Cuore, si è rinvenuta una necropoli. Le oltre 150 tombe, databili tra il 1200 e il 1300, non hanno fermato il progetto.

Roma. Gianicolo, Rampa Torlonia. Resti della villa di Agrippina scoperti durante i lavori per la realizzazione della rampa che conduce al megaparcheggio di propaganda Fide, in occasione del Giubileo del 2000. Le strutture, rimosse dal luogo della scoperta, a lungo in una sorta di deposito Atac nelle vicinanze. Anni dopo, le pitture con le teste di Medusa e gli uccellini asportate dalle strutture per essere esposte. Altri resti sono visibili all’interno dell’Hotel “Gran Melia Villa Agrippina”.

Roma. Via di Casal Bertone. Nel corso delle indagini archeologiche preventive per la realizzazione della Tav Roma-Napoli, tra il 2007 e il 2008, sono stati scoperti i resti di una grande fullonica, estesa su circa 1000 mq. L’impianto, datato II secolo, era allineato ad un vicino tratto della via Collatina antica, accanto ad alcuni edifici funerari. Il più grande impianto industriale antico noto. Non potendo conservare in situ l’impianto, è stato mappato e “smontato” in attesa di poterlo ricomporre in un luogo adatto alla sua conservazione ed alla visita del pubblico.

Roma. Via Ostiense. Ex Mercati Generali. Nelle indagini archeologiche preliminari alla realizzazione della “Città dei Giovani” progettata da Rem Koolhaas, negli 82mila mq. degli ex Mercati Generali, scoperti tra il 2007 e il 2008 estesissimi resti di un impianto di bonifica idraulica realizzata con migliaia di anfore betiche, oltre a due tracciati stradali e un’area di necropoli. Ricoperti immediatamente al termine delle indagini nel 2009. In quelle aree ancora debbono essere realizzate le opere edilizie previste dalla trasformazione urbana presentata dal sindaco Veltroni nel dicembre 2003.

Roma, Bufalotta. Resti di tracciati stradali scavati nel banco naturale (con pareti alte fino a 10 metri) e basolati, un’ampia area di necropoli, che dall’età protostorica raggiunge il III-IV secolo d. C., una villa. Distrutti dalla costruzione di palazzi e centro commerciale Porta di Roma. Si è salvata l’area della necropoli, lungo viale Carmelo Bene, che inizialmente avrebbe dovuto essere musealizzata. Ricoperta e adibita a giardino.

Roma, zona Laurentina, via di Grottaperfetta. Resti di una villa romana, una necropoli e due tracciati stradali, scavati tra il 2009 e il 2011 e ricoperti. Su di essi è prevista la costruzione del Piano I-60. Oltre 400mila metri cubi di cemento, di cui 280mila destinati ad usi residenziali e 120mila da utilizzare in servizi turistico-ricettivi. In attesa del pronunciamento della Soprintendenza archeologica di Roma sulla richiesta di vincolo sottoposta dal Coordinamento Stop I-60, sono iniziate le opere di urbanizzazione.

Roma, via della Lega Lombarda. Nel corso degli scavi preliminari per la realizzazione della “Città del Sole”, un intervento edilizio che prevede la copertura di una superficie di 11.800 mq, nell’agosto 2010 sono state scoperte strutture antiche, forse riconducibili ad un complesso cultuale. In particolare un mitreo e un colombario del III secolo, una vasca monumentale di età repubblicana e una grande necropoli datata tra la prima e la tarda età imperiale. Scoperto anche un deposito di fossili animali, tra i quali una zanna ed un femore, di un “Elephas”, databile 650mila anni fa, che rappresenta una rarità rispetto ai già noti giacimenti del Pleistocene presenti sul territorio romano. Ormai completati gli edifici progettati al di sopra.

Artena (Rm). Resti del basolato della via Latina in pieno centro cittadino coperti dal cemento di nuovi edifici. Nonostante il tracciato stradale fosse noto ed esistesse anche una denuncia al procuratore della Repubblica di Velletri del 18 aprile 2011.

Velletri (Rm). Madonna degli Angeli. Abusi edilizi reiterati, anche recenti, nell’area della cd. villa di Augusto, nonostante l’esistenza di un vincolo archeologico. Gran parte delle strutture note, obliterate da nuove costruzioni che ne hanno comportato anche la distruzione.

Velletri (Rm). Colle Lenza. Sull’altura lungo il km 4 della SS. 600 Ariana, una lottizzazione (abusiva) alla fine degli anni Ottanta ha comportato la distruzione delle strutture superstiti di un grande impianto rustico-residenziale di età romana, dal quale negli anni Quaranta si recuperò una testa marmorea di Ottavia (?), conservata al Museo Nazionale Romano.

Genzano di Roma (Rm). Monte Cagnoletto. Sull’altura affacciata sulla via Appia antica, a partire dagli anni Ottanta, è stata realizzata un’urbanizzazione massiccia nonostante l’esistenza, anche documentaria, di rilevantissime strutture antiche relative ad impianti residenziali antichi. Rimangono soltanto pochi resti.

Ariccia (Rm). Via Appia antica. Lavori di trasformazione realizzati agli inizi degli anni Novanta all’edificio in Valle Ariccia, presso il XVI miglio della strada antica, nel quale era da tempo identificata una stazione di posta antica, hanno provocato la distruzione dei resti antichi superstiti.

Frosinone. Via Giacomo De Mattheis. Nel 2007 negli scavi per la realizzazione di un parcheggio si rinvengono cospicue strutture delle terme di età imperiale. Distrutte.

Bolsena (Vt), via della Pescara. Tratto di mura con blocchi incisi da lettere e segni ed un’area pavimentata, rinvenuti tra il 2003 e il 2009, coperti nel 2011 dalla costruzione di una palazzina. Con permesso di costruire del Comune di Bolsena del 22 febbraio 2011, dopo il nulla osta della Soprintendenza archeologica dell’Etruria dell’aprile 2010.

Bacoli (Na). Lido turistico “El Piranha”. Sequestrato nel dicembre 2004 dai Carabinieri perche le strutture del lido avrebbero distrutto parte dei resti sommersi della villa imperiale romana. Per gli inquirenti, molti dei 600 pali di ferro utilizzati per allestire i pontili illegali del “Piranha”, sarebbero stati conficcati direttamente sui resti archeologici.

Giugliano (Na). Via Ripuaria. Nel 2009, nei lavori per la realizzazione del parco Obelisco si rinvenne per un lungo tratto il tracciato basolato della via Domiziana. In parte distrutto per la costruzione di un edificio.

Soleto (Le). I terreni immediatamente all’esterno del parco archeologico, venduti dal Comune come regolarmente edificabili, in mancanza di un vincolo archeologico.

Oria (Br). Nel 2002 una necropoli messapica datata al III secolo a. C., scoperta nell’area del cortile del palazzo dei missionari di San Vincenzo, è stata distrutta per la realizzazione di un campo di calcio a cinque. Nonostante l’esistenza sull’area di vincoli dettati da un decreto del 16 marzo 1998, che poneva limiti di edificabilità, tuttora in vigore.

Crotone. Stadio Ezio Scida. Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi degli anni Novanta, gli scavi per la realizzazione della struttura, in coincidenza dell’area interna, hanno consentito il rinvenimento di una stoà da riferirsi all’area centrale dell’abitato antico. Ricoperta dalle strutture metalliche della curva nord. Contemporaneamente all’esterno della struttura si sono scoperti i resti di un quartiere artigianale di epoca greca e romana con pozzi e fornaci. Sono stati reinterrati e tutta l’area asfaltata.

Casi di strutture in procinto di essere distrutte per la sovrapposizione di edifici moderni

Chiavenna (So). Area nel centro storico, quella dell’ex tennis di via Picchi, destinata ad un utilizzo pubblico fino al 2006. Quando il proprietario fu autorizzato da Comune e Soprintendenza archeologica a costruire residenze e uffici con parcheggi. Nel 2008, nel corso dell’avvio dei lavori, la scoperta dei resti di un abitato di età romana, preceduto da una fase di X secolo a. C. Secondo gli addetti ai lavori, “il più importante ritrovamento archeologico della provincia”. Così nel 2010 la Soprintendenza appose un vincolo sull’area, i resti antichi ricoperti per essere preservati, consentendo di proseguire i lavori nell’area circostante. Ma ora che il cantiere è in procinto di ripartire, con il benestare ancora di Comune e Soprintendenza, il vincolo di non edificabilità non è reiterabile se non con un grosso indennizzo al proprietario. Che il Comune non è in grado di pagare.

Casi di abusi edilizi in aree con vincoli archeologici, per i quali non si ha notizia di distruzione di resti antichi

Capocolonna (Kr). Nell’area del parco archeologico di Capo Colonna è presente un insediamento di 35 ville che impedisce l’estensione del parco a tutto il sito archeologico. La vicenda giudiziaria inizia nel 1995, quando gli edifici furono posti sotto sequestro. Nel febbraio del 2004 la prima sentenza nei confronti di 35 proprietari, con l’assoluzione per prescrizione del reato, ma confisca degli immobili. Gli edifici sopravvivono indisturbati alle ruspe.

Pianura (Na). Un’area di 25 mila mq. nella periferia occidentale di Napoli, sottoposta a sequestro preventivo nel giugno 2013 dalla polizia locale e dai Carabinieri nell’ambito di un’inchiesta su una lottizzazione abusiva. L’area sequestrata è classificata a destinazione agricola nel PRG e rientra nel piano territoriale paesistico di Agnano-Camaldoli, in una zona di interesse archeologico a protezione integrale sottoposta, in parte, a vincoli paesaggistici.

Palmi (RC). Immobili con piscina realizzati in area con vincolo archeologico e paesaggistico. Sequestrati dai Carabinieri locali nel luglio 2013. Dopo il provvedimento emesso dal tribunale del riesame di Reggio Calabria e confermato dalla Cassazione. Due le denunce.

 

4 marzo

 

Ilva, la foto-denuncia: ora i fumi restano dentro il capannone con gli operai

L'immagine pervenuta a ilfattoquotidiano.it mostra alla colata continua una colonna così densa da offuscare la luce. E un lavoratore a pochi metri. Interpellata, l'azienda non fornisce spiegazioni. Mentre il commissario Bondi annuncia un aumento delle vendite, non è chiaro a che punto sia il risanamento

di Francesco Casula

Una colonna di fumo e polveri così imponente da offuscare l’illuminazione del capannone. Ecco il reparto acciaieria dell’Ilva di Taranto pochi giorni fa: la foto pervenuta alla redazione de ilfattoquotidiano.it mostra lo “spillaggio”, l’operazione di scarico dell’acciaio liquido a 1600 gradi centigradi, dalla siviera alla linea di colata continua. Ma soprattutto, la foto evidenzia chiaramente la presenza di un operaio a pochissimi metri da quella nube che invade il capannone e che i sistemi di captazione non riescono ad aspirare. I fumi e le polveri, così, raggiungono il tetto e poi si diffondono nel resto della struttura raggiungendo i lavoratori.

Immagini emblematiche dello stato in cui ancora sono costretti a lavorare i dipendenti dell’Ilva. Abbiamo chiesto all’azienda spiegazioni, ma non abbiamo ricevuto risposta. Avremmo voluto conoscere quali sono le azioni messe in campo per ridurre questo fenomeno, con quale frequenza si manifesta nelle acciaierie e quali sono i rischi per i lavoratori esposti a questi fumi. Domande, al momento, a cui l’azienda ha preferito non rispondere.

A poche ore dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio della procura di Taranto, quindi, è lecito chiedersi a che punto è il risanamento dello stabilimento di Taranto. Il commissario straordinario Enrico Bondi, pochi giorni fa, ha pubblicato la relazione trimestrale sull’andamento dell’azienda che descrive la crescita di quasi il 2 percento delle vendite tra ottobre 2013 e gennaio 2014 e anche un quadro di miglioramento delle emissioni nell’aria di Taranto. La relazione, inoltre, evidenzia i passi avanti fatti nell’opera di ambientalizzazione degli impianti senza tuttavia fare cenno ai tempi previsti dall’autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’azienda dal ministro Corrado Clini nell’ottobre 2012. Forse perché l’Ilva è nettamente in ritardo rispetto al cronoprogramma stabilito dal ministero attraverso i vari decreti “salva Ilva”. Basti pensare al fatto che lo stesso commissario non ha ancora varato il piano industriale. Mancanze che, ovviamente, si traducono in costanti rischi per la salute di operai e cittadini. Pericoli che, seppure ridotti rispetto agli anni precedenti, non sono ancora azzerati.

Il fenomeno mostrato dalla fotografia, inoltre, è stato denunciato più volte in passato anche dai custodi giudiziari e dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce. I documenti firmati dall’ingegner Barbara Valenzano e dal maggior Nicola Candido, sono puntualmente giunti sulla scrivania della procura della Repubblica a cui spetta il compito di valutare se l’azienda può continuare a operare in queste condizioni o se gli impianti devono tornare sotto sequestro. Il rischio, infatti, non è affatto scongiurato. È stato lo stesso gip Patrizia Todisco, con un’ordinanza firmata a novembre dello scorso anno, a spiegare che se l’Ilva non rispetta in tempi stretti le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale, la facoltà d’uso può essere revocata e quindi gli impianti dell’area a caldo possono tornare sotto sequestro. Un monito lanciato dal magistrato che ha sottolineato che “allo stato, non risulta ancora intervenuta l’approvazione del piano industriale” e, invece, sono ancora “rilevanti” le “accertate violazioni delle prescrizioni in materia di tutela ambientale e sanitaria”.

Non solo. “Le attività condotte dalla Societa Ilva spa – si legge nel provvedimento – risultano in notevole ritardo rispetto ai tempi prescritti dal provvedimento di riesame Aia 2012” e che quindi “sussistono le pratiche operative di gestione del processi che hanno fin’oggi determinato le violazioni delle norme”. Quelle stesse pratiche, in sostanza, che hanno causato anche le colonne di fumi e polveri mostrate dalla fotografia pubblicata oggi dal Fatto e hanno portato al fermo degli impianti il 26 luglio 2012. Ancora il magistrato ha chiarito che alla base della riduzione dei livelli di inquinamento dev’essere collegato “lo spegnimento di alcuni impianti quali, l’altoforno 1, le batterie 3-4, 5-6, 7-8, e la fermata dell’altoforno 2 e dell’acciaieria 1”.

Ma soprattutto il gip, nel suo documento, ha evidenziato come la stessa Corte Costituzionale abbia definito legittima la legge “salva Ilva” e quindi equiparato diritto alla vita e diritto al lavoro per “la temporaneità delle misure adottate”. Cioè se l’azienda non riesce a rispettare i tempi, la facoltà d’uso può essere revocata, con una richiesta dei pm, sulla base di dati oggettivi. Le segnalazioni, come questa pubblicata dal sito del Fatto, del resto, continuano a pervenire quasi quotidianamente agli inquirenti e il tempo per il rispetto delle prescrizioni Aia trascorre inesorabilmente.

 

Mafia Spa batte tutti. La criminalità organizzata fattura 180 miliardi l'anno. Gli imprenditori vittime di racket sono 1 milione

Questi alcuni dei numeri chiave contenuti nella seconda edizione del libro 'I costi dell'illegalita' e la lotta alla criminalita' organizzata' appena pubblicato da Unimpresa che sara' presentato giovedi' 6 marzo a Roma in occasione del convegno 'Legalita' dove sei?'…

(Adnkronos) - Sono oltre un milione, un quinto degli attivi, gli imprenditori vittime di un qualche reato (racket, truffe, furti, rapine, contraffazioni, abusivismo, appalti, scommesse, pirateria) che fa muovere un fatturato che si aggira intorno ai 170-180 miliardi di euro, con un utile che supera i 100 miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti.

Questi alcuni dei numeri chiave contenuti nella seconda edizione del libro 'I costi dell'illegalita' e la lotta alla criminalita' organizzata' appena pubblicato da Unimpresa che sara' presentato giovedi' 6 marzo a Roma in occasione del convegno 'Legalita' dove sei?' a cui parteciperanno, tra gli altri, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano e il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.

La 'Mafia spa', una vera e propria holding company, e' la piu' grande azienda italiana, la prima banca d'Italia. Condiziona il mercato, fa i suoi prezzi e butta fuori i concorrenti. Ha una liquidita' di 65 miliardi di euro, che in gran parte viene investita in economia legale. Solo il ramo commerciale della criminalita' organizzata, rileva Unimresa, rappresenta quasi il 10% del Pil nazionale, superiore a quello di Estonia, Slovenia, Croazia, Romania. Del resto, i ricavi di cui dispone la criminalita' organizzata vanno ad alimentare un mercato parallelo a quello legale, addirittura maggiore di quello che tiene in piedi il nostro paese.

Le vittime dirette della criminalita' organizzata, secondo quanto emerge dal volume pubblicato da Unimpresa, sono in primis le imprese che si ispirano alla legalita' e alla correttezza verso i consumatori, i dipendenti, i risparmiatori: le imprese che, in silenzio, si confanno ai canoni fondamentali dell'etica sociale di impresa.

mafia
''In certi contesti -spiega Luigi Scipione, autore del libro, professore universitario e membro del comitato di presidenza di Unimpresa- quelli caratterizzati da una sedimentata arretratezza economica e sociale, la criminalita' organizzata ha assunto un ruolo di mediazione sociale, di mediazione economica, un ruolo di interfaccia con la politica e le istituzioni. In alcune aree del Meridione la criminalita' si e' addirittura sostituita ai meccanismi del welfare statale per creare un vero e proprio welfare mafioso''.

Secondo Scipione ''l'illegalita' e la mancanza di regole feriscono a morte l'economia sana, impediscono lo sviluppo nelle regioni povere, scoraggiano gli investimenti. Appare chiara la presa di posizione nonche' la consapevolezza che i condizionamenti della criminalita' organizzata nell'economia rappresentano un grande freno allo sviluppo del Paese e un grande pericolo per le imprese sane: non si possono fare analisi serie sul futuro della nostra economia prescindendo dai dati sull'economia illegale e criminale''.

 

L’azzardo del catetere. In Italia il 70,7% degli over 65 ha giocato nell'ultimo anno

E' quanto risulta da una ricerca del Gruppo Abele e di Libera - Il gioco d'azzardo è la quarta industria italiana. E l'Italia è il terzo Paese al mondo in cui si gioca di più - Allo Stato entra il 10% dei circa 80 miliardi di ricavo totale, ovvero otto miliardi contro gli oltre sei della spesa sanitaria per le ludopatie…

(ANSA) - Il 70,7% degli over 65 italiani ha giocato d'azzardo almeno una volta nell'ultimo anno, e il 45,3% del totale l'ha fatto per vincere denaro. Inoltre il 14,4% è risultato 'a rischio' ludopatia e il 16,4% in situazione già grave, tale cioè da avere bisogno di cure. E' quanto risulta da una ricerca del Gruppo Abele e di Libera, svolta in collaborazione con Auser su un campione di mille anziani.

"Lo chiamano gioco, ma in palio ci sono le vite delle persone", ha esordito presentando i dati don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Il gioco d'azzardo, ha sottolineato, è la quarta industria italiana. E l'Italia è il terzo Paese al mondo in cui si gioca di più. La ricerca, ha spiegato, è stata fatta perché "conoscere i problemi serve per diventare più responsabili".

Enzo Costa, presidente nazionale di Auser, ha rimarcato che "lo Stato italiano spende per curare i casi più gravi di dipendenza da gioco all'incirca la somma che incassa dal gioco stesso". Allo Stato entra infatti il 10% dei circa 80 miliardi di ricavo totale, ovvero otto miliardi contro gli oltre sei della spesa sanitaria per le ludopatie.

"Uno Stato che gestisce utili derivanti da un'attività non molto nobile - hanno detto, pur con accenti diversi, Auser e don Ciotti - dovrebbe almeno usarli per finalità nobili, come il contrasto alla povertà. Meglio farebbe però agendo a monte con l'istituzione di controlli seri, senza limitarsi a intervenire quando i giocatori hanno sviluppato una dipendenza tale da avere bisogno di cure sanitarie. Anche perché intorno al gioco d'azzardo - hanno ricordato - cresce la malavita organizzata, e gli anziani finiscono anche vittime degli usurai".

 

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