29 aprile

 

Per poter festeggiare il Primo Maggio, molti lavoratori sono costretti a scioperare

I vari Conad, Carrefour, Esselunga, i centri commerciali delle grandi città o i centri dell’Ikea ma anche i piccoli esercizi dei centri storici, annunciano la propria apertura in giorni come Pasqua, il 25 aprile e 1 maggio - In Germania per domeniche e festivi esiste un sistema di deroghe con 10 giornate a disposizione delle imprese. In Italia non ci sono limiti…

Salvatore Cannavò per il "Fatto quotidiano"

"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire". Il primo maggio è nato attorno a questa parola d'ordine, il 20 luglio 1889, a Parigi, quando il congresso della Seconda Internazionale lancia l'idea di "una grande manifestazione simultaneamente in tutti i paesi".

Nel 2014, però, succede che per poter festeggiare la ricorrenza il sindacato debba indire lo sciopero. Come hanno deciso di fare unitariamente Filcams-Cgil, Fisascat e UilTucs, proclamando una fermata di otto ore a livello regionale. Lo sciopero, infatti, è l'unico modo per garantire, a chi sarà chiamato al lavoro, di potersi rifiutare specialmente dove esistono contratti che rendono obbligatoria la prestazione. Nelle singole città si svolgeranno manifestazioni, iniziative di dibattito, presìdi, contro le grandi catene della distribuzione commerciale che, in ossequio alla libertà di impresa e ai diritti dei consumatori, terranno i loro negozi aperti.

La tendenza a far lavorare il settore del commercio nei giorni festivi non è recente. Si ricorderà, anzi, che il primo scontro su questo punto ad avere risonanza mediatica è stato quello che ha visto opposti l'attuale premier Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze, e la Cgil. A complicare tutto, però, è stato il decreto Salva Italia voluto da Mario Monti nel 2011. In quel decreto si liberalizza l'attività degli esercizi commerciali eliminando qualsiasi limite alla possibilità di lavoro nei giorni festivi.

E così i vari Conad, Carrefour, Esselunga, i centri commerciali delle grandi città o i centri dell'Ikea - tanto per citare i marchi più noti e più frequentati - ma anche i piccoli esercizi dei centri storici, annunciano con molta evidenza la propria apertura in giorni come Pasqua, il 25 aprile e lo stesso 1 maggio. In controtendenza le Coop, che quest'anno
hanno voluto fregiarsi della decisione opposta.

Il settore, spiega al Fatto la segretaria nazionale della Filcasm, Maria Grazia Gabrielli, "conta circa 2,5 milioni di lavoratori dipendenti. Certamente, non tutti sono interessati da questa condizione, ma la platea è comunque piuttosto ampia".

Il tema suscita dibattito. In Francia, ad esempio, il nuovo primo ministro, Manuel Valls, sta conducendo una battaglia per ampliare la possibilità del lavoro domenicale. La tesi a sostegno è che si possono creare più posti di lavoro e che, in ogni caso, si garantiscono le possibilità di scelta dei cittadini-consumatori.

"Tra i nostri rappresentati - aggiunge Gabrielli - noi riscontriamo una forte resistenza perché il giorno festivo costituisce l'unica occasione per conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro". Nel caso del primo maggio, inoltre, si sconta anche una resistenza "valoriale": "Stiamo parlando di una giornata ad alto valore simbolico che va rispettato".

Alla protesta dei sindacati si unisce, come è avvenuto ieri a Padova, anche la Chiesa mentre a Firenze, giovedì, si terrà l'iniziativa dedicata ai "Cavalli del lavoro", "quelli che stanno nell'ombra ma sono fondamentali". L'istituzione del premio ai Cavalli del lavoro nasce da un'idea di Sergio Staino e la manifestazione si terrà di fronte all'Obihall di Firenze. Sul fronte delle imprese, Confcommercio, con il suo vicepresidente Lino Stoppani, considera "commercialmente fuori luogo" lo sciopero perché "il commercio genera sviluppo e contribuisce a creare posti di lavoro".

Confesercenti, però, in un rapporto sui primi 18 mesi del decreto Salva Italia, ha definito l'apertura continuativa, giorni festivi compresi, "un regime insostenibile" che in 18 mesi ha fatto registrare "un saldo negativo di quasi 32 mila aziende, con la perdita stimata di oltre 90 mila posti di lavoro".

Il sindacato replica illustrando la situazione in Europa. In Germania, ad esempio, per quanto riguarda le domeniche e i festivi esiste un sistema di deroghe con 10 giornate a disposizione delle imprese. Lo stesso accade in Belgio, Austria e Francia. In Italia, al momento, di limiti non ce ne sono più.

 

La nuova Gomorra

Scampia ormai non è più il centro dello spaccio. Gli interventi e la presenza costante delle forze dell’ordine hanno costretto i clan a modificare il loro raggio di azione tra Caivano e Afragola, a nord di Napoli. La crisi ha dimezzato il numero delle estorsioni e quello degli appalti pubblici: ce ne sono di meno e i commercianti non sono in grado di pagare. Così le 120 famiglie che dominano il territorio sono tornate a puntare tutto sulla droga. Il volume degli affari è più che raddoppiato con un guadagno che supera i 10 milioni di euro al mese. Una miniera d’oro a cui nessuno vuole rinunciare. A colpi di omicidi spietati: cadaveri carbonizzati dentro le auto. Per lasciare una firma e stabilire chi comanda

di LUCA FERRARI

Nella “farmacia” dei tossici

AFRAGOLA (Napoli) - “La Camorra è uno Stato. Uno Stato dittatoriale senza burocrazia. Noi siamo i sovversivi che si ribellano a questa dittatura, ma siamo ostacolati dalla burocrazia e dalla mancanza di personale”. Sospira il vicequestore Sergio Di Mauro, dirigente del Commissariato di Afragola, Comune a nord di Napoli. Sospira perché sembra ripetere concetti che esprime a se stesso da anni e che condivide con i colleghi e le colleghe che lo accompagnano in questa guerra infinita. Siamo tornati in Campania per capire cosa sta accadendo nel mondo della criminalità organizzata. La camorra, quella tradizionale, quella che abbiamo conosciuto sui giornali e sui libri, è cambiata. Nella sua struttura tradizionale, nei suoi interessi specifici, nella distribuzione sul territorio. Colpa della crisi che ha finito per condizionare le stesse scelte strategiche dei clan. E colpa degli arresti che hanno comunque modificato gli equilibri interni all’organizzazione.

Non ci sono più soldi per strappare il pizzo ai commercianti, sono finiti i piccoli e i grandi appalti su cui lucrare e imporre le proprie ditte. La nuova camorra si tuffa di nuovo nel mare della droga. Perché resta il settore più vitale e produttivo del momento. La domanda non è mai cessata. Anzi, è aumentata negli ultimi mesi. E’ l’offerta ad essersi adeguata. Soprattutto sul tipo di stupefacente. Domina sempre la coca. Ma il crack e l’eroina sono tornati prepotentemente sul mercato. Perché, al dettaglio, costano meno. E perché rendono più dipendenti gli assuntori. Anche la droga si adegua al momento che viviamo. Finito il ciclo dell’edonismo sfrenato, delle “Mille luci di New york”, dello sballo come modo di vivere in un’esistenza apparentemente normale, la crisi rilancia il tossico tradizionale. L’eroina o il crack per attenuare la depressione, l’assenza di un lavoro, la fine di ideali e prospettive. In una desolazione su cui, in modo freddo e cinico, la Camorra attiva il suo business. I morti delle ultime settimane, cadaveri bruciati nelle auto abbandonate, sono il sintomo di questa lenta trasformazione. Ma è sul territorio che sono cambiate le modalità di azione. Lo abbiamo verificato sul campo.

A pochi passi da qui c’è Caivano, il teatro della nuova Gomorra. “La parola ‘Gomorra’ oramai è inflazionata e si usa spesso a sproposito”, ci corregge il commissario Di Mauro, “ma il concetto è quello. La Camorra a Scampia ha preso parecchi schiaffi, i controlli delle forze dell’ordine sono sempre maggiori. La nostra azione ha costretto i clan a modificare il loro raggio di azione. Ha rimescolato le carte, imposto nuovi equilibri, creato nuove figure. Anche per questo il grosso dello spaccio di droga adesso si è spostato a nord di Napoli”.

La nuova Scampia. Un giro d’affari da 100 milioni di euro l’anno.“A Caivano”, ci spiega il vicequestore, “il volume di stupefacenti negli ultimi tre anni è più che raddoppiato”. E questo, facendo due conti, significa che per 10mila euro investiti se ne incassano 100mila. Un guadagno che può anche superare i 10 milioni al mese. Lo spaccio si concentra nel Parco Verde della cittadina. Ha una posizione strategica: è collegato alla superstrada e all’Autosole. È facile entrare, acquistare e vendere, nascondersi e poi sparire. “I clienti ormai arrivano da tutto il sud”, continua Di Mauro. “Dalla Campania, dal basso Lazio, dal Molise, dalla Basilicata e persino dalla Calabria”.

Pusher, vedette e sentinelle. Così funziona il sistema. Il sistema dello spaccio a Caivano è la replica di quello di Scampia. In ogni piazza - se ne contano almeno quindici - agisce una ventina di persone divise in due turni: mattina e pomeriggio. “Proprio come le forze dell’ordine”, ironizza un ispettore di Polizia di Afragola. Nel weekend c’è un turno extra e si lavora fino alle 3 di notte. C’è più richiesta e quindi l’offerta deve crescere. L’organizzazione prevede uno spacciatore, due “pali” o sentinelle che fungono da diversivi nel caso arrivi la polizia, 3-4 vedette nei piani alti dei palazzi, una casa d’appoggio dove arriva la droga già divisa in dosi e una “base” per tagliare e imbustare. Il sistema ha la potenza di una macchina e la capacità di adattamento di un organismo biologico: “Arrestiamo uno spacciatore ma viene immediatamente sostituito. Facciamo un blitz e aumentano le vedette. I costi crescono perché servono più persone e i boss tagliano di più la sostanza”, spiega il vicequestore.

Le sentinelle: 1 euro con avvocato, 2 euro senza. È come una farmacia notturna: il tossico bussa, si apre la feritoia per la posta, consegna i soldi e prende la sua bustina. Bianca se è eroina, blu se è crack. Il prezzo è di 10-13 euro. Tutto nel rispetto della privacy. Lo spacciatore e le due vedette che fungono da pali, spesso minorenni, sono pagati a dose venduta: 1 euro a testa, compreso l’avvocato. Il salario è raddoppiato se decidono di non usufruire dell’assistenza legale del clan. Le sentinelle nei piani alti dei palazzi percepiscono invece 200 euro a giornata.

“La base”, “il chimico” e “la casa d’appoggio”. Con 150 grammi di cocaina o eroina pura si fa 1 kg di sostanza. Infatti “la roba è una monnezza”, si lamentano i tossici. La droga prima di essere spacciata deve passare attraverso 5-6 livelli. A ogni passaggio corrisponde un taglio. I primi due livelli si trovano al di fuori della piazza di spaccio. È qui che la cocaina o eroina subisce il taglio più importante. La figura professionale che svolge questo compito è “il chimico”. Il professionista del taglio, secondo la Polizia, può arrivare a guadagnare anche 10mila euro al mese. Una volta tagliata, la droga arriva in un appartamento sicuro, “la base”, dove viene divisa in bustine. Bustine blu per il crack e bianche per l’eroina. Lo stupefacente poi viaggia attraverso i tetti degli edifici fino ad arrivare alla “casa d’appoggio” agli ultimi piani dei palazzi, spesso di proprietà di famiglie di carcerati, per poi essere venduta. I proprietari della casa d’appoggio sono pagati anche loro a giornata. Il “salario” varia dai 200 ai 250 euro al giorno.

“Piazza dei carcerati”, il cuore dello spaccio e della guerra. A “Piazza dei Carcerati”, nel Parco Verde di Caivano, è nato e cresciuto Domenico Ciccarelli, alias Caciotto, il boss della Camorra Caivanese che in alleanza con gli scissionisti del clan Amato-Pagano controlla la vendita dell’“oro bianco”. Nonostante l’arresto di Ciccarelli, avvenuto a Orta di Atella il 27 gennaio 2014, il sodalizio criminale tra Caivanesi e Scissionisti sembra tenere. Ma si tratta di un accordo precario. Rischia di incrinarsi da un momento all’altro. Molto dipende dagli arresti: regolano gli equilibri, le presenze sul territorio. Secondo le nostre fonti investigative la carttura del boss di Caivano ha messo in crisi l’allenza. I boss emergenti hanno alzato la testa, provano a farsi largo tra le fila che reggono il grande business della droga. La raffica di omicidi delle ultime settimane sono il risultato della nuova guerra per il controllo dei territori rimasti senza guida. Cadaveri carbonizzati all’interno di auto incendiate. Per non lasciare tracce, depistare. Un fuoco quasi biblico. Per rimettere ordine e ricominciare. Tra nuovi carichi in arrivo e nuovi tossici disposti a tutto, anche di “quella merda”, pur di spararsi qualcosa in vena.

L'INTERVISTA

“L’assalto al potere delle nuove leve”

Il capo della Squadra mobile di Caserta racconta come sono cambiati gli equilibri dell’organizzazione. Non più una struttura piramidale ma orizzontale. Gli arresti, la crisi economica, la mancanza dei soldi, hanno dimezzato le estorsioni che continuano ma con forti sconti. Crack ed eroina finiti in mano ai giovanissimi boss. Con una struttura ramificata che garantisce lavoro a tutti

di LUCA FERRARI

CASERTA - “L’Evraiuolo e un altro affiliato del clan Schiavone hanno aspettato il dottore all'esterno della farmacia. Volevano fargli capire chi comanda nella zona, che il pizzo va pagato. Lo hanno agganciato e hanno iniziato a pedinarlo. Ma avevano fatto male i conti. Avevano il serbatoio vuoto. Così, alla fine, sono rimasti senza benzina. Hanno dovuto rinunciare”. Succede anche questo: noti boss a corto di soldi, che restano a secco mentre fanno il giro per riscuotere il pizzo. E’ la nuova immagine della Camorra. Di un clan in particolare. Quello dei Casalesi: in crisi, alla ricerca di denaro, identità, leadership. Il segno di tempi. Di una rivoluzione economica e sociale che ha colpito anche la grande criminalità organizzata. Una realtà raccontata nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Carmine Schiavone, figlio di Sandokan, accusato di estorsione nei confronti di un farmacista.

E’ la fine di una stagione?
“Più che di fine parlerei di trasformazione”, osserva Alessandro Tocco, vicequestore, capo della squadra mobile di Caserta. “La guardia non va comunque abbassata. I vecchi boss continuano a comandare dal carcere anche se in regime di 41 bis. I veri rischi, le reazioni improvvise e impreviste arrivano dalle nuove generazioni. Sono impulsive e violente e per certi aspetti più pericolose”.

I Casalesi sembrano frammentati. Chi ha preso il loro posto a Caserta? Chi comanda sul territorio?
“E’ cambiata la mappa del potere. Dopo l’arresto dell’ultimo super latitante, Massimo Di Caterino, il sistema di potere della criminalità organizzata di Casal di Principe è passato da una struttura verticale di tipo mafioso, con dei soldati e un “capo dei capi”, a una struttura orizzontale di tipo camorristico. Manca un leader riconosciuto. Non c’è più una cassa comune e ogni fazione dell’ex cartello criminale, formato dai Bidognetti, dagli Zagaria, dagli Schiavone, fa capo a se stessa. Questo vuoto di potere ha aperto la strada anche al ritorno sul territorio di altre famiglie, come i Venosa, che negli anni 90 avevano perso la guerra contro il cartello dei Casalesi per il controllo del territorio in provincia di Caserta”.

L’irruzione della droga sul mercato di Casale sembra un fenomeno del tutto inedito. Cosa sta accadendo?
“Non ci sono mai stati spacciatori a Casale. È una realtà che non ha precedenti e questo è un ulteriore sintomo di un mutamento degli equilibri perché il traffico di stupefacenti non era il vero business dei Casalesi”.

In che modo sono cambiati gli equilibri?
“In quello che noi chiamiamo la napoletanizzazione dello spaccio. Gli incassi si fanno con la vendita “autogestita” e il territorio si controlla con le estorsioni. Ci sono poi dei subappalti, che vengono pagati con la cosiddetta tassa di tranquillità: si può spacciare anche in territori controllati da altri clan in cambio di una percentuale che viene erogata per compensare la trasferta. Il business va a gonfie vele. Basti pensare che negli ultimi due anni nel Napoletano i sequestri di droga sono aumentati di 100 volte”.

I dati del ministero degli Interni lo confermano. Ma le spese sono tante e i soldi sono pochi. Basta lo spaccio?
“Ogni famiglia ha bisogno di almeno 150mila euro al mese per pagare solamente gli avvocati e i parenti dei detenuti. Le fazioni in campo quindi devono fare cassa. Ma con l’edilizia ferma e con la fine del traffico illegale dei rifiuti, lo spaccio di stupefacenti diventa il modo più il veloce e remunerativo per sopravvivere come organizzazione criminale. La droga si compra nel Napoletano e si spaccia nell’area di Casale e Castel Volturno. Le estorsioni, sebbene diminuite per effetto della crisi che aggredisce i commercianti, restano comunque un modo sicuro per fare cassa. resistono perché rappresentano un sistema di “controllo sociale” per affermare la presenza di una famiglia sul territorio”.

Lo stesso vale per la tassa di tranquillità?
“Le bande autonome che decidono di spacciare sul territorio della provincia di Caserta devono sempre pagare una quota alla famiglia di riferimento. La stessa tassa cosiddetta di tranquillità, tocca però anche alle vittime di estorsioni: commercianti, farmacisti e piccoli imprenditori. Ma la crisi spesso li obbliga a trattare l’estorsione, e così la tassa può scendere anche del 50%. Basti pensare che nell’estorsione per cui è stato arrestato Carmine Schiavone il farmacista da 5000 euro aveva trattato fino ad arrivare a un prezzo di favore: 2500 euro”.

L’ANALISI

I ritardi dello Stato

di CONCHITA SANNINO

Le catture non bastano. Dopo i blitz, il vuoto. "Gomorra è militarmente indebolita. Siamo riusciti a decapitarne tutti i vertici e le batterie di fuoco. Ma economicamente, e politicamente, resta molto attiva. Ora sarebbe il caso di rafforzare lo Stato".

La battuta di un magistrato della trincea napoletana fotografa lo stato delle gravi lacune dell'antimafia, vista da Napoli ma anche da tante regioni del sud: i tagli alla sicurezza, i pesanti vuoti in organico di Procure e tribunali, soprattutto il disastro (generale, incondizionato) dei tempi della giustizia, con processi che durano troppo e un silenzioso esercito di killer luogotenenti “capipiazza” gregari e spacciatori troppo spesso restituiti ai loro spazi di dominio. Quegli spazi dove resta totale l'assenza di politiche sui territori, nei quartieri e sulle agenzie formative, mirate a sottrarre vastissime platee giovanili al reclutamento della manovalanza. E in grado di disinnescare le “eterne” bombe sociali, dalla Scampia napoletana al Parco Verde di Caivano, da Timpone Rosso nella provincia cosentina al quartiere Archi, a Reggio Calabria: nell'altra grande area d'emergenza europea del crimine organizzato, l'impero dei due mondi, la 'ndrangheta.

Dopo il blitz, e i risultati raccolti dalle eccellenze investigative, il resto dello Stato non corre, non sta al passo. E non consolida lo spazio guadagnato. E loro, gli uomini e le donne (in ascesa) dei clan lo sanno. Uccidono di meno ma con più ferocia, come racconta la lunga teoria dei nemici carbonizzati, nella faida tuttora in corso nell'area a nord di Napoli. Fanno meno rumore, ma sono più pericolosi, tanto la giustizia ha gambe corte e tempi lunghissimi, in media, per calare la sua falce. Costruiscono imperi e s'infiltrano nel tessuto dei “sani”, tanto i sigilli alle loro ricchezze scivolano nell'enorme imbuto dell'Agenzia dei beni confiscati: un altro grande nodo da rivedere, con i suoi tempi morti e migliaia di immobili e società che vanno in malora – fatte salve importanti e durature eccezioni - perché le istituzioni non sanno rinnovarne la vita. E dimostrare che, anche produttivamente, passare allo Stato conviene.

No, i blitz non bastano, comprese le catture eccellenti. Centoventi clan di camorra solo tra Napoli e Caserta, secondo l'ultimo resoconto consegnato due settimane fa al ministro dell'Interno Angelino Alfano. Oltre 5 mila affiliati stabili, senza contare l'indotto. E un ulteriore livello con cui fare i conti, segnalato dai capi degli uffici giudiziari. "Si è formato una fascia sociale e produttiva in vista che abbiamo chiamato 'borghesia illegale', spiega il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo. Sono le nuove sembianze assunte dalla società guasta di chi si è riciclato dopo l'abbuffata miliardaria dello spaccio, insieme con figli, parenti e nipoti, magari laureati.

Ma si può combattere l'industria del crimine, una Spa che non conosce crisi, un investitore senza uguali sempre pronto a immettere liquidità e a interfacciarsi con gli Enti locali, senza disarticolarne il sistema con capacità di penetrazione e bonifica dei territori, senza investire su una scuola non aperta ma spalancata sui quartieri per l'intero giorno e senza la risposta definitiva della giustizia, tramite sentenze che arrivino al terzo grado prima che la custodia preventiva sia scaduta da un pezzo? Un esempio su tutti. Nuovo di zecca: il Tribunale di Aversa istituito cento giorni fa, il cosiddetto presidio di Napoli Nord . Una sola frase, quella del neo procuratore capo, Francesco Greco, consegnata direttamente al ministro di Giustizia Andrea Orlando: "Siamo appena nati e questo ufficio è già al collasso. Siamo entrati in una situazione allucinante". Il motivo? Una Procura e un Tribunale competenti su un bacino di un milione di abitanti, su un territorio particolarmente denso di clan: è un'enorme somma di periferie. Spiega il procuratore Greco, visibilmente a disagio nel dovere raccontare un fallimento ancor prima di avere avuto il tempo di imprimere un abbrivio: "Il nostro organico è fissato sulla carta in 30 magistrati, ma ce ne sono solo 5 in organico, 4 gli applicati. E dobbiamo occuparci di 39 comuni, di cui ben 31 sono nell'area più nota come "Terra dei fuochi". Senza contare che ormai i più pericolosi e noti gruppi criminali si sono spostati proprio in questa area".

Ma c'è di più: con l'istituzione di quel nuovo Tribunale molti dei processi istruiti sulle cosche collegati al gotha dei casalesi saranno trasferiti da Santa Maria Capua Vetere ad Aversa. Con una perdita di “memoria storica” e di esperienza che non potrà non incidere sulla lotta a Gomorra.

 

11 aprile

 

Berlusconi è socialmente utile

Procura dice sì all'affidamento in prova

 

7 aprile

 

L’Aquila, i miliardi invisibili

Dal primo rapporto ufficiale del Governo si scopre che tremila e cinquecento cantieri sono stati aperti e 43 mila persone sono tornate nelle loro case. Ma cinque anni dopo il devastante terremoto la città stenta a rinascere. In un clima di rassegnazione, di speranza e di rabbia. Il Comune presenta il conto ai 19 mila inquilini del “miracoloso progetto abitativo” che si rifiutano di pagare. Denunciano errori di calcolo, ritardi, mancata trasparenza. Ma l’assessore al Bilancio insiste: “Rischiamo il fallimento. Ne pagheremo tutti le conseguenze”.

L'AQUILA - C’è un buco di undici milioni di euro nei conti del progetto C.a.s.e. Le 185 palazzine antisismiche costruite dall’allora Governo Berlusconi per consentire un alloggio immediato agli sfollati pochi mesi dopo il sisma del 6 aprile 2009 hanno i conti in rosso.
Il buco riguarda le spese di gestione (manutenzione, riscaldamento, luce, pulizia) e pesa come un macigno sulle casse del Comune dell’Aquila. L’esposizione aumenta giorno dopo giorno, tanto che anche la Corte dei Conti ha aperto un’inchiesta per danno erariale e il sindaco Massimo Cialente rischia di essere chiamato a risponderne. Da più di un anno e mezzo l’amministrazione comunale ha iniziato a chiedere il conto agli inquilini terremotati (sia per quanto riguarda il canone di locazione che per i consumi) ma si è trovata di fronte al caos, sia per il sistema di calcolo adottato, sia per le polemiche che ne sono seguite. E se le bollette ai 19 mila inquilini delle case del “miracolo aquilano” sono arrivate ai destinatari, il numero di morosi è molto alto e in centinaia annunciano ricorso.

Gli inquilini denunciano errori di calcolo, ritardi e mancata trasparenza. “Ogni quartiere della new town e dei Map è stato costruito da imprese diverse, con differenti capitolati, avendo ognuna realizzato gli impianti con criteri propri. Difficile quantificare i consumi e rendere omogenei i costi delle utenze. Impossibile stabilire la classe energetica degli alloggi. Nel calcolo viene addebitata ai cittadini aquilani anche una presunta e ipotetica “acqua condominiale” per il periodo in cui invece l’acqua è passata a carico dei singoli nuclei, con un aggravio immotivato di 1.400.000 euro” spiegano i rappresentanti del comitato cittadino Inter-C.a.s.e. “e questo è solo una delle tante incongruenze di queste bollette pazze”.

E la vicenda si complica sempre di più al punto che da alcune settimane hanno bussato alle porte del Comune due società di recupero crediti (la Sace e la Hera Comm.) per conto di una delle aziende che fornisce l’energia.

“Alla Sace - ha spiegato l'assessore comunale al Bilancio, Lelio De Santis - dobbiamo versare 3 milioni in rate da 130 mila euro al mese. All'Enel, invece il piano prevede rate da 350 mila euro mensili. Purtroppo però non siamo in grado di onorare il debito e dunque osservare il piano perché purtroppo gli assegnatari non si mettono ancora in regola con i fitti pregressi”.

Il debito del Comune cresce sempre di più fra interessi passivi e quelli per ritardato pagamento: “Ora saremo costretti a rinegoziare il piano di rientro chiedendo di poter spalmare le rate che sono a 12 mesi fino a 18. Ciò con un ulteriore aggravio di spesa”.

Secondo De Santis , gli assegnatari del Case stanno lentamente acquisendo la consapevolezza della necessità di pagare il canone. “Proprio in questi giorni attraverso il nostro messo comunale stiamo notificando le diffide ai morosi. Si tratta di circa mille assegnatari che non hanno mai pagato il canone di locazione. Decorsi 30 giorni, attueremo gli sfratti”. Il Comune - tra canoni di locazioni e bollette per consumi e manutenzione - ha un debito che può pagare soltanto “se i cittadini pagano”.

L’assessore al Bilancio ha anche lanciato un appello ai cittadini: “Pagate le bollette, in attesa di controlli sulle disfunzioni che il Comune sta portando a termine. Altrimenti qui ci andiamo di mezzo tutti”.

IL PRIMO RAPPORTO
Così sono stati spesi i fondi del Governo
di GIUSEPPE CAPORALE

L'AQUILA - Tremila e cinquecento cantieri aperti, otto miliardi e mezzo di euro spesi, 43 mila persone tornate nelle loro case. Cinque anni dopo il devastante terremoto, sono questi – per il Governo – i numeri della ricostruzione dell’Aquila.

Sono contenuti in un rapporto che si intitola “Risorse stanziate, trasferite e disponibili per la ricostruzione in Abruzzo” redatto gli uffici del ministero della Coesione Territoriale (prima della soppressione del dicastero da parte del nuovo Governo). Si tratta di un dossier che documenta i fondi stanziati dallo Stato per la ricostruzione dell’Aquila.

“L’ammontare delle risorse pubbliche per l’emergenza e la ricostruzione post-sisma in Abruzzo finora stanziate è pari a quasi 12 miliardi di euro; tale importo comprende anche gli ultimi stanziamenti previsti nella recente legge di stabilità, pari a 600 milioni di euro”. si legge nel documento realizzato in base ai dati forniti dall’Ufficio Speciale della Ricostruzione (la struttura governativa che si sta occupando del post sisma all’Aquila). “I predetti stanziamenti, le risorse risultano tutte finalizzate (cioè con definizione del destinatario), mentre i trasferimenti totali di risorse ammontano ad oggi a quasi 8,5 miliardi di euro, per la massima parte già erogati alle ditte e ai beneficiari finali”.

“Nel corso dell’ultimo anno (da dicembre 2012), sono state trasferite ai soggetti attuatori degli interventi di ricostruzione risorse per un importo pari a circa 2,4 miliardi di euro”, continua il rapporto. “Nel corso del medesimo periodo di riferimento (dicembre 2012 – dicembre 2013) le risorse assegnate/stanziate, da destinare alla ricostruzione post sisma in Abruzzo per il periodo 2014 – 2019 ammontano per il momento a complessivi 2,6 miliardi di euro, di cui 947,2 milioni per il 2014, 892,2 milioni per il 2015, e 197,2 milioni per ciascuno degli anni dal 2016 al 2019”.

Il rapporto entra poi nel dettaglio: “I sopra citati 2,6 miliardi comprendono: le risorse di cui alla Delibera CIPE 135/2012 (periodo 2014 – 2015), pari nel complesso a 845 milioni, che risultano interamente finalizzate o impegnate (è il caso dei fondi per la ricostruzione privata nel comune di L’Aquila) per interventi di ricostruzione pubblica e privata, per interventi di sviluppo, etc; le risorse stanziate con il D.L. 43/2013, pari nel complesso a quasi 1,2 miliardi, per il periodo 2014 – 2019, risultano finalizzate in via programmatica e assegnate in via definitiva al Comune di L’Aquila per il solo 2014; le risorse stanziate con la recente legge di stabilità per il periodo 2014-2015 (600 milioni)”.

“Nelle prossime settimane”, osserva il documento, “è prevista l’assegnazione dei 600 milioni previsti dalla legge di stabilità per la ricostruzione privata, la ricostruzione pubblica, le spese obbligatorie, e la quota di accantonamento del 5 % per lo sviluppo. Nell’ipotesi che per la ricostruzione privata restino quindi 500 milioni e seguendo il criterio di ripartizione fin qui applicato del 63% per il capoluogo, all’Aquila toccheranno circa 300 milioni. Entro giugno saranno attivati nuovi stanziamenti perché il flusso dei finanziamenti non sia né interrotto né ridotto”.

E poi passa all’analisi dello stato di attuazione delle opere pubbliche (L’Aquila e zone del cratere): “707 interventi finanziati di cui 375 conclusi (percentuale completamento delle opere 68,1%). Circa 2 miliardi di euro il costo degli interventi programmati e attuati a fronte di risorse disponibili pari a 2,6 miliardi”.Il dossier documenta anche lo stato di attuazione della ricostruzione degli immobili privati (L’Aquila): “39.101contributi di cui 24.267 con interventi di ricostruzione conclusi, per un totale di 3,7 miliardi di contributi concessi”. Poi il dato sui cantieri aperti: Comune dell’Aquila circa 3.000 mentre nei 56 Comuni del Cratere: circa 500”

“Al momento – conclude la relazione ministeriale - i cittadini rientrati nelle proprie abitazioni sono 43mila (pari al 66% della popolazione)”.

Il PROCESSO D’APPELLO
A ottobre gli scienziati di nuovo alla sbarra
di GIUSEPPE CAPORALE

L'AQUILA - Comincerà nei primi giorni di ottobre, a L'Aquila il processo di Appello ai 7 scienziati componenti, all’epoca, della commissione Grandi Rischi, organo scientifico consultivo della presidenza del Consiglio. In primo grado furono condannati a 6 anni di reclusione per omicidio colposo e lesioni, con l’accusa di aver dato false rassicurazioni agli aquilani su uno sciame sismico in atto, dopo la riunione svoltasi all’Aquila il 31 marzo 2009, cinque giorni prima del sisma che causo’ 309 vittime.

L’obiettivo delle difese sarà quello di smantellare il “nesso causale” tra il comportamento della commissione e le azioni degli aquilani.

Condannati in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo e lesioni personali colpose: Franco Barberi, all’epoca presidente vicario della commissione Grandi rischi, Bernardo De Bernardinis, già vice capo del settore tecnico del dipartimento di Protezione civile, Enzo Boschi, all’epoca presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del progetto C.a.s.e., Claudio Eva, ordinario di fisica all’Universita’ di Genova e Mauro Dolce, direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile.

Nelle indagini e nello stesso processo hanno avuto un ruolo decisivo anche le intercettazioni tra alcuni protagonisti dei soccorsi e dei piani successivi per la ricostruzione della città. Sono state allegate agli atti. Ve le riproponiamo; raccontano il retroscena della riunione.

Per la stessa vicenda è indagato in una inchiesta parallela anche Guido Bertolaso, l’allora capo della Protezione Civile.

IL REPORTAGE
Il mio viaggio nella memoria
“Così ho trascorso l’ultimo weekend prima della catastrofe”

dal nostro inviato AMALIA MATTEUCCI

L'AQUILA - Qualche sera fa ho visto uno spettacolo al teatro in cui il protagonista si addormentava e al suo risveglio riviveva la sua vita andando indietro nel tempo. Una sorta di buco temporale che gli permetteva di correggere gli errori che aveva commesso e di indirizzare in modo diverso il destino. La sensazione che ho avuto, tornando a L'Aquila una settimana prima dell'anniversario del terremoto che il 6 aprile 2009 l'ha distrutta, é stata proprio quella. L'audio Le testimonianze in diretta dai luoghi del disastro

Ricordare cosa accadde quella notte è un esercizio che faccio spesso, anche più volte l'anno. Succede ogni volta che qualcuno mi chiede se c'ero, cos'è successo, cosa ho visto. Ripeto da allora le stesse cose, i dettagli mi passano davanti agli occhi come un film e ripeto la trama come un copione. Ma stavolta no. Stavolta il ricordo é andato un po' più indietro. Solo di una settimana, all'ultimo weekend ‘normale’ trascorso a casa. Ad aiutare la memoria una lunga passeggiata tra le macerie, nel cuore ferito de L'Aquila, per cercare di capire cosa è cambiato da allora, da quel giorno che ci ha cambiato tutti, noi aquilani.

Mi è sembrato facile partire da casa mia. Ho spostato il ricordo a quel sabato 28 marzo, il compleanno di mia madre, e ho ripercorso la giornata. La piazzetta sotto casa, dove parcheggiavo, ora è parzialmente occupata da un cantiere di lavoro. Lì, nel marzo 2009 era un miracolo trovare un posto libero. Data la vicinanza a Piazza Duomo e, quindi, al mercato, la mattina era un via vai di persone che tornavano con le buste della spesa. Il pomeriggio, invece era il territorio preferito dai ragazzini in cerca di un po' di spazio dove lasciare il motorino e correre sotto i portici per trascorrere il sabato con gli amici. Mi sembra di sentire ancora i motori scoppiettanti, le grida e le risate. Ora c'è solo il rumore della betoniera che, nel mio giardino, impasta la calce per il cantiere del palazzo di fronte al mio. Quello stesso giardino dove quel 28 marzo era fiorito il glicine, la mia pianta preferita, che ora non c'é più, travolta dalle pareti crollate della casa dei vicini. Ma, nonostante tutto, anche ora il mio giardino ha una sorpresa di primavera per me: tra le travi, il fango e le macerie, gialli e bellissimi, sono nati due orgogliosi narcisi. C'erano anche allora, ma prima mi sembravano scontati.

Ricaccio indietro il groppo alla gola e proseguo la passeggiata. Vado sotto i portici, come quell'ultimo sabato. Rivedo, fasciate nelle bende, le colonne che erano presidiate da gruppi di studenti in libera uscita nel weekend. Ogni zona una scuola, ogni pilastro un piccolo clan: sapevo sempre dove trovare chi cercavo, senza appuntamenti, senza sms. Ora quelle colonne, che hanno fatto da testimoni a incontri, confidenze, amicizie, sono sole e silenziose. Vado avanti nel mio tour del ricordo. L'ultimo aperitivo in centro era stato al bar dietro il palazzo del Comune. Provo ad arrivare per vedere com’é la situazione. Cinque anni fa avevamo dovuto aspettare un po' prima di entrare: il locale di moda e la calca del sabato sera avevano messo alla prova la pazienza dei miei amici, ma alla fine quella mezz'ora in piazza, sotto la luce aranciata dei lampioni, con lo scorcio di Piazza Palazzo e la statua di Sallustio, era stata così piacevole che ne era valsa la pena. Le transenne impediscono di arrivare al bar. Già, non c'è più il bar...é crollato quella notte e ora lo hanno riaperto in periferia, ma non ci sono mai andata. Per me resta lì dove lo ricordo.

Torno indietro. Inutile sfidare i militari che mi ricordano che sono in zona rossa e che non posso andare in giro senza autorizzazioni. Punto verso i giardini pubblici della Villa Comunale, ma faccio una deviazione per passare davanti al Palazzo del governo, vicino a casa di nonna. Anche lì non é cambiato molto negli ultimi 5 anni, ma è cambiato tutto da 5 anni più una settimana.Vado a dare uno sguardo al parchetto vicino alla Villa. Lì ci si può andare, proprio come prima, ma non é come prima. Quasi nessuno sulle panchine, poche persone alle bancarelle che hanno occupato il piazzale.

Qui i palazzi sistemati sono molti, ma non sono abitati. Sono scatole vuote nel silenzio. Infondo al viale si affaccia la basilica di Colle Maggio. Chiusa almeno fino al 2016. Hanno di nuovo interdetto l’ingresso per pericolo crolli. Eppure nel 2010 era possibile celebrare matrimoni, anche se sotto un tetto di plastica e gli archi della navata messi in sicurezza.. Ma la facciata è integra. È l’unica che si è salvata. Mi fermo un attimo per riportare indietro l’orologio. Che strano, quel 28 marzo era l’unica chiesa con l’impalcatura. Il restauro della facciata, l’ha salvata dalle crepe. Si è fatto tardi. Come quel sabato sera devo tornare a casa. Ma in un’altra città.

LA CITTA’ E I SOCIALNETWORK
Nel baule dei ricordi
"Sei aquilano se…", su Facebook si incontrano in 15mila

dal nostro inviato PIERA MATTEUCCI

L'AQUILA - Sarà perché nessuno dice più “Ci vediamo sotto i portici”, o forse perché per prendere un caffè nel bar della Villa Comunale c’è bisogno di fissare un appuntamento in anticipo. O più semplicemente sarà perché il cuore della città, quello che da sempre è stato il centro per gli aquilani, è fermo e silenzioso da cinque anni. Qualsiasi sia il motivo, il risultato è sorprendente: il gruppo Facebook ‘Sei aquilano se…’, nato alla fine di gennaio 2014, in meno di due mesi ha raccolto più di 15mila iscrizioni. Un successo che ha colto di sorpresa soprattutto le ideatrici della pagina, nata come ‘iniziativa spiritosa’ e diventata, a tempo record, il luogo (non solo virtuale) dove condividere i ricordi di una città che era e non è più, di una tradizione che non vuole scomparire e di una società che non ci sta a rimanere divisa e disgregata nelle periferie e nelle new town.

La piazza virtuale si popola. "All'inizio l'idea era quella di attivare un gruppo che fosse una sorta di baule di ricordi: costretta a casa da un periodo di malattia, ho pensato di ingannare il tempo raccogliendo sul web esperienze, pensieri e memorie, invitando le persone della mia generazione, quelle tra i 50 e 60 anni, che come me avevano perso nel terremoto la loro città. Ma la risposta della Rete è stata eccezionale: le richieste di adesione ci hanno sommerso, tanto che quasi non riuscivamo a smaltirle". Angela Schiavone, che insieme a Francesca Romana Cerqua gestisce il gruppo 'Sei aquilano se...', ancora stenta a credere a tanto successo. Facebook, che dopo il sisma del 2009, è diventato il luogo dove gli aquilani possono incontrarsi, ritrovarsi, tenersi in contatto, non potendolo fare più di persona, è diventato il 'corso virtuale'. “Abbiamo iniziato a postare antiche foto dei luoghi dell’infanzia, a ricordare i personaggi che caratterizzavano la città, a rivangare le vecchie abitudini che ci accomunavano – la spesa al mercato, il tramezzino a ricreazione al bar Eden, la pizza calda con la mortadella a Trippitelli quando nevicava -, a scrivere aneddoti e modi di dire, soprattutto in dialetto. Presto – racconta Schiamone – si sono creati sottogruppi: c’è quello che si scambia poesie, quello più impegnato sui temi che affliggono la popolazione e quello che, invece, usa il gruppo per scherzare e per allontanarsi un po’ dal dolore che lo ha segnato”. Sorprendentemente, sottolinea Angela, le persone che partecipano alle discussioni più leggere sono proprio quelle che nel terremoto hanno subito le perdite più gravi. “Come se – spiega – il gruppo di Facebook fosse un mezzo per alleviare la loro tristezza”.

Visite guidate e merende. Da scrigno di parole e immagini, ‘Sei aquilano se…’ si è trasformato presto in fucina di progetti ma, soprattutto, ha allargato il bacino di ‘amici’. “Ai ricordi più lontani nel tempo – dice l’ideatrice – si sono aggiunti quelli più recenti di ragazzi e adolescenti, che, purtroppo, il centro dell’Aquila lo hanno vissuto meno di tutti”. Per dare ai giovani la possibilità di conoscere quello che era la loro città e per rinfrescare la memoria degli altri, le curatrici del gruppo hanno dato appuntamento a tutti in piazza Duomo, organizzando una serie di ‘visite guidate’ tra i vicoli feriti. “L’Aquila è divisa in quattro quarti – spiega Schiamone -: abbiamo pensato di mantenere la divisione e, con tre guide, siamo andati alla ‘ri-scoperta’ del nostro passato”. Il tam-tam, naturalmente, è scattato in Rete e, per tre domeniche, centinaia di persone si sono trovate nella piazza principale e da lì sono partite per una passeggiata in compagnia. “Nonostante il tempo, che finora non ci ha aiutato, hanno partecipato in tanti. Persone che si conoscono da tempo, ma che in questi cinque anni si sono perse di vista, vicini di casa di una volta, che prima si incontravano tutti i giorni e che ora si ritrovano solo al centro commerciale, ma anche persone che ora vivono in altre città e che hanno colto l’occasione per respirare di nuovo aria di casa”. E, per rendere ancora più gioiosi gli appuntamenti, alcuni membri del gruppo hanno pensato di chiudere ogni visita guidata con aperitivi (che data la quantità di cibo offerto da ognuno, sarebbe meglio definire pranzi) e merende in piazza Duomo.

Amicizie, amori e… “Chi non si conosceva prima, fa nuove amicizie ora. Per esempio, ho scoperto che la signora dell’edicola che si trova dove abito adesso, in periferia, ha aderito al gruppo. Ci siamo conosciute su Facebook, poi ci siamo riconosciute per strada. È nato anche un grande amore, così come ci sono discussioni e qualche litigio, proprio come succede tra amici”, dice ancora Angela, che già sta pensando ai prossimi progetti. Il primo è una ‘mappatura’ delle attività delle persone del gruppo: “I negozi non sono più dove erano, ma alcuni sono stati riaperti: questa mappa ci aiuterà a ritrovarci”. Ma non finisce qui: “Dato che abbiamo notato che i post che piacciono di più sono quelli in cui ci diamo da fare per radunarci, stiamo pensando di dare una mano anche ai più anziani che, magari, non riescono a raggiungerci in centro. Presto organizzeremo feste
all’aperto nelle aree delle new town”. Un’iniziativa che non guarda avanti e che non vuole restare solo in Rete: “Presto – promette Angela – pubblicheremo una raccolta con i contributi migliori della nostra pagina Facebook”.

 

3 aprile

 

I nuovi schiavi dell'agricoltura. Tre euro l'ora piegati sui campi

La storia di Kumar, indiano del Punjab, è simile a quella di migliaia di altri immigrati giunti in Italia per rifarsi una vita. Per mesi, a volte anni, lavorano gratis per risarcire il debito contratto con il viaggio. Solo nella provincia di Latina ce ne sono 35mila ma in Italia, secondo la Cgil, sarebbero 100mila. Vivono in condizioni disumane: ricattati, picchiati, succubi dei caporali. Un fenomeno più volte denunciato. Ma dopo lo sdegno, tutto resta immutato. Anzi: si diffonde nel sommerso. Perché il cibo arriva sulle nostre tavole grazie a loro.

LATINA - Il sole è appena tramontato e Kumar può tornare a casa. Da 12 ore è chinato sui campi per seminare. Ha le mani sporche di terra e la pelle già cotta dal sole. Per ogni ora passata piegato in due ha guadagnato meno di tre euro. Abita cinque chilometri più in là, vicino al Circeo, in 30 metri quadrati fatiscenti. Che divide con altri ragazzi indiani di etnia sikh come lui. Quanti, non lo dice. È partito dieci anni fa, Kumar. Appena diciottenne ha lasciato il Punjab, regione nel nord-ovest dell'India. Ha salutato i genitori e la giovanissima moglie. Ed è sbarcato dall'altra parte del mondo. Per arrivare in Italia ha dato seimila euro ai trafficanti di uomini. Seimila euro per diventare schiavo. Sfruttato dalle aziende che lo pagano una manciata di euro al giorno, sfruttato da chi gli affitta una casa squallida a un prezzo esagerato.

E la storia di Kumar non è la peggiore che possiamo raccontare. Ci sono altri braccianti indiani nel Lazio che non guadagnano neanche quei pochi euro a giornata. Lavorano gratis per mesi, a volte anni: devono risarcire un debito inventato da chi li usa. Quando il permesso stagionale scade, i loro "padroni" (così li chiamano) pretendono altri soldi. La scusa è che servono per pagare il permesso di soggiorno, che in realtà è gratuito. Se i braccianti non hanno questi soldi - e quasi nessuno li ha - vengono costretti a lavorare senza stipendio. Schiavi in piena regola.

Lo sfruttamento riguarda Latina e altre decine di località italiane. Sono 22 le province in cui si registrano condizioni di paraschiavismo. In tutto 12 regioni, da nord a sud. A dirlo è il rapporto della Flai Cgil sulle agromafie che verrà pubblicato nei prossimi giorni, curato dall'osservatorio Placido Rizzotto. "Nel nostro paese si può azzardare una stima di 100mila braccianti gravamente sfruttati, in cinquemila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio - spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma - Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati: abbiamo documentato che i caporali hanno una fortissima capacità di intimidazione. E che prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati".

Gli addetti all'agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Un quarto sono stranieri, dicono i dati di Coldiretti. L'Istat parla del 43 per cento di lavoro sommerso. Dunque i lavoratori a rischio sfruttamento nel nostro paese sono almeno 400mila. Di certo a migliaia restano sui campi anche 12, 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l'ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60. "È una partita molto ricca - aggiunge Carchedi - un raccolto delle angurie fatto con gli indiani sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di lavoratori italiani, il raccolto costerebbe almeno 70 euro per ogni lavoratore e durerebbe un mese e mezzo". Il giro d'affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all'anno. L'evasione contributiva legata solo al caporalato è stimata intorno ai 600 milioni di euro.

I braccianti indiani non arrivano come clandestini. E per raggiungere l'Italia non usano barconi, ma aerei. Alle organizzazioni che trafficano esseri umani danno fino a 8 mila euro. In cambio hanno un biglietto e un permesso di tre mesi per lavorare come stagionali. Per pagare questi viaggi le loro famiglie si indebitano, a volte si indebitano interi villaggi. Arrivati nelle nostre campagne si spezzano la schiena dall'alba al tramonto: in provincia di Latina per raccogliere i prodotti d'eccellenza della zona, come zucchine e angurie.

Vengono ingaggiati da caporali i braccianti immigrati, a Latina come nelle altre zone: all'alba li caricano sui furgoni e li portano a seminare o raccogliere nei campi delle aziende italiane. Dai lavoratori pretendono anche delle personali tasse giornaliere: di solito 5 euro per il trasporto, 3,50 per il panino, 1,5 euro per ogni bottiglia d'acqua consumata.

Ma il caporale è solo l'ultimo anello di questa catena dello sfruttamento. Sopra di lui - nel 90 per cento dei casi un italiano - c'è spesso un faccendiere, un avvocato o un commercialista. Che gestisce il giro delle case, degli affitti e dei permessi di soggiorno. Al di sopra del faccendiere c'è il capo vero e proprio dell'organizzazione, quasi sempre un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini.

Nel mezzogiorno 9 lavoratori stranieri su 10 impiegati nella raccolta intensiva non hanno contratti regolari, al centro sono il 50 per cento, il 30 per cento al nord. Oltre il 60 per cento degli stagionali, poi, non ha accesso all'acqua corrente e ai servizi igienici, più di 7 su 10 hanno malattie legate allo sfruttamento. Campania, Puglia e Sicilia le regioni più colpite dal fenomeno. "Al sud abbiamo studiato in particolare le zone di Foggia, Lecce e Brindisi - racconta Carchedi - A Rignano Garganico, in provincia di Foggia, esiste un vero e proprio ghetto, un villaggio di baracche. D'estate ci abitano anche 1500 persone, d'inverno tra le 400 e le 600". Lavorano per l'industria del pomodoro e la maggior parte sono africani, come sono africani quasi tutti i caporali. Chi vuole lavorare deve rivolgersi a loro.

Le campagne del Piemonte, invece, sono popolate soprattutto da braccianti dell'est Europa. A Saluzzo, in provincia di Cuneo, e a Canelli, provincia di Asti, raccolgono le uve pregiate per produrre spumanti e vini d'eccellenza. Ma anche i tartufi. "I braccianti vengono reclutati in Romania, Bulgaria e Macedonia - spiega ancora Carchedi - e pagati con i salari di quei paesi. Alla fine lo stipendio non supera i 300-400 euro al mese. Non solo. Sia a Saluzzo che a Canelli molti vengono retribuiti con i buoni lavoro da 10 euro. Di cui 7,50 vanno al bracciante, 2,50 all'Inps. Ma invece che farli lavorare per sei ore e mezza, come prevede la legge, l'azienda li fa stare sui campi per 10, 12 ore. Magari li paga per 3 ore, dandogli 30 euro, ma li fa lavorare per 12. Una truffa ai danni dei lavoratori, ma anche dello Stato". In tutto i braccianti stranieri che lavorano in Piemonte sono tra i 600 e gli 800. "Di questi - sottolinea Carchedi - almeno in 150 sono in condizioni di sfruttamento estremo". D'estate una parte di loro vive in piccole baraccopoli, fatte con casette di fortuna e tende aperte tra una macchina e l'altra. Il resto abita in container messi a disposizione da Caritas, Comune e Coldiretti.

Anche nella provincia di Latina i braccianti dormono in baracche, qualcuno nelle stesse serre nelle quali lavorano di giorno. Oppure nei templi dove pregano. Altri affittano le case degli italiani a prezzi esagerati. In quegli appartamenti minuscoli dormono anche in 10. Kumar paga 500 euro per 30 metri quadrati. Entriamo anche noi. In casa soffitti neri per l'umidità, fili elettrici scoperti, vecchie reti per dormire, mosche e odore di spezie. Sopra al letto Kumar ha appeso la foto del suo matrimonio. Con l'abito tipico e il turbante rosso in testa.

"I prezzi delle case aumentano in continuazione - spiega Giovanni Gioia, segretario generale della Flai Cgil Latina - E in questa zona chi affitta ai braccianti gonfia anche le bollette". "Il mio padrone di casa - racconta Kumar - mi ha portato una bolletta della luce da 575 euro. E ha detto: se non la paghi ti sparo". Eppure, nonostante tutto questo, Kumar non ha mai protestato. E resta convinto che il suo datore di lavoro sia una brava persona. "Perché mi paga", spiega. E abbassa lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi. "Ma sai che dovrebbe pagarti il triplo?", gli chiediamo. "Non ho alternativa", risponde con la voce che trema.

Ma non è meglio tornare a casa? Kumar e i suoi amici rispondono che non possono, non hanno i soldi. E che comunque non vogliono rientrare a mani vuote dopo che la famiglia si è indebitata per loro. E poi c'è chi resta perché convinto di dover saldare il debito con il "padrone".

In ogni caso, nessuno di questi ragazzi ha idea di dove stia andando, quando parte in cerca di fortuna. "Vedono l'Italia come l'America - racconta Giovanni Gioia - ma quando arrivano trovano tutt'altro. Nessuno, però, si ribella. Perché sono un popolo mite, sono persone piene di dignità che amano lavorare. Non bevono perché la loro religione lo vieta e non infastidiscono minimamente la popolazione locale".

Fermare questo sfruttamento non è semplice. La Flai, insieme agli altri sindacati di categoria di Cisl e Uil, ha presentato una proposta di legge per rendere trasparente il mercato del lavoro in agricoltura e provare così a cambiare le cose. Intanto ci sono i processi: in provincia di Lecce il processo Sabr, che ha portato a 16 arresti: si tratta di 7 imprenditori e di 9 presunti caporali accusati, tra l'altro, di associazione a delinquere finalizzata alla traffico di esseri umani. E poi c'è il processo Dacia, che riguarda la zona di Taranto, dove sono imputate 17 persone. Tra i reati contestati, anche qui, tratta di esseri umani e caporalato, per cui si rischiano fino a otto anni di carcere. In tutto, le persone arrestate o denunciate negli ultimi due anni per caporalato (introdotto nel codice penale solo nel settembre del 2011) sono 360. Ma resta un reato difficile da provare, e non è scontato che si arrivi a una condanna.

Il sole è tramontato. Kumar sta tornando a casa. In sella alla bicicletta, forse, pensa a sua moglie. Ma in Italia non può, non vuole farla venire. Perché? Gli chiediamo. Ci risponde a labbra strette: "Cosa le farei mangiare?".

 

1 aprile

Disoccupazione al 13% a febbraio 2014

Per l’Istat è il dato più alto dal 1977

Tra i 15-24enni senza lavoro un aumento di 3,6 punti su base annua; in aumento l’inattività degli uomini mentre cala quella delle donne su base mensile
Per l’Italia la disoccupazione resta una piaga. E a febbraio segna un nuovo record, collocandosi al 13%, ovvero il tasso più alto dal 1977. Vuol dire che oltre 3,3 milioni di persone sono in cerca di lavoro: +8 mila su mese e +272 mila su base annua.
Sempre alta anche la componente giovani, che tocca il 42,3% in lievissima diminuzione su gennaio, ma con un +3,6% su base annua: 678mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro. L’Italia è al top per l’incremento: al 13% a febbraio (inferiore solo a Cipro e Grecia). Il tasso di occupazione, di converso, a febbraio è al 55,2%: si torna indietro di 14 anni e in media si perdono mille occupati al giorno.

1,1 L’AUMENTO NEI 12 MESI
I dati dell’Istat sottolineano come l’andamento risulti sostanzialmente stabile in termini congiunturali ma in aumento di 1,1 punti percentuali nei dodici mesi.

UOMINI E DONNE
Guardando alle differenze tra uomini e donne, il tasso di disoccupazione maschile, pari al 12,5%, aumenta sia su gennaio (+0,2 punti) sia in termini tendenziali (+1,4 punti); quello femminile, al 13,6%, cala di 0,2 punti rispetto al mese precedente ma cresce di 0,6 punti nel confronto annuo.

I GIOVANI
Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni a febbraio è pari al 42,3%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali su gennaio, quando aveva toccato il picco ma in aumento di 3,6 punti su base annua. I ragazzi in cerca di lavoro sono 678mila. A febbraio, sono occupati 923mila giovani tra i 15 e i 24 anni, in calo dell’1,4% rispetto al mese precedente (-13mila) e del 10,4% su base annua (-107mila). Il tasso di occupazione giovanile scende al 15,4%, -0,2 punti percentuali su mese e -1,7 punti nei dodici mesi. Il numero di giovani disoccupati è in calo dell’1,6% nell’ultimo mese (-11mila), ma in aumento del 4,2% su anno (+27mila).

QUANTI IN TUTTO GLI “INATTIVI”
Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni risulta sostanzialmente stabile a febbraio sia rispetto al mese precedente sia rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività pari al 36,4%, rimane stabile in termini congiunturali e aumenta di 0,1 punti su base annua. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio perché impegnati negli studi. Il numero di giovani inattivi è pari a 4,393 milioni, in aumento dello 0,5% su mese (+20mila) e dell’1,1% su anno (+46mila). Il tasso di inattività dei giovani tra i 15 e 24 anni, pari al 73,3%, sale di 0,4 punti percentuali nell’ultimo mese e di 1,2 punti nei dodici mesi.

COME VA NEL RESTO D’EUROPA
È rimasto stabile, a un tasso dell’11,9%, il livello della disoccupazione in Europa: è il dato diffuso oggi da Eurostat per il mese di febbraio nell’Eurozona. Un anno prima, nel febbraio 2013, la disoccupazione era al 12%. Nell’Ue a 28 paesi si è invece registrato un lieve calo al 10,6% contro il 10,7% di gennaio (10,9% in febbraio 2013). Secondo Eurostat, nel secondo mese di quest’anno i disoccupati europei erano 25,920 milioni di cui 18,9 milioni nell’Eurozona, in calo di 65 mila nell’Ue e di 35 mila nell’Eurozona. La situazione si conferma più grave in Grecia (27,5%) e Spagna (25,6%) . Negli Stati Uniti la disoccupazione a febbraio era pari al 6,7%. Leggero miglioramento per il dato sui giovani : nell’Ue i disoccupati di meno di 25 anni sono scesi al 22,9%, in calo rispetto al 23,6% del febbraio 2013, mentre nell’Eurozona il dato è pari al 23,5% (24% un anno prima).

 

Il voto di scambio e i demagoghi dell’anti-mafia

Giuseppe Di Lello

Giustizia. Aggiungere «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa» nel nuovo reato sul voto di scambio è sbagliato. Una norma così generica aggraverà il contenzioso con la politica e non aiuterà la magistratura a sconfiggere Cosa nostra individuando reati specifici

Il dibattito parlamentare sulla la riforma dell’articolo 416 ter del codice penale, reato di voto di scambio politico-mafioso, rischierebbe di apparire una pura e semplice disputa dottrinale tra giuristi se non avesse implicazioni abbastanza gravi per lo stato di diritto in relazione all’azione di contrasto alle mafie e, più in generale, ai rapporti tra magistratura e potere politico.
Il merito in sé è abbastanza semplice da spiegare.

La norma attualmente in vigore prevede che «la pena stabilita dal primo comma dell’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416 bis in cambio della erogazione di denaro», mentre la proposta modifica, dopo aver eliminato l’avverbio «consapevolmente», aggiunge al denaro anche «altra utilità» e, ancora, «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Da anni si è ritenuta inefficace la norma circoscritta alla sola erogazione di denaro, dato che raramente i mafiosi ricevono denaro, mentre si è chiesto sempre che si aggiungesse «o altra utilità» per centrare l’essenza del voto di scambio che, oltre all’improbabile denaro, ha ben altre e sostanziose contropartite.

Improvvidamente, sull’onda di una mai sopita ansia repressiva, è stata aggiunta questa fantomatica «disponibilità» che, a detta di quasi tutti i magistrati e del buon senso giuridico, è di difficile interpretazione e potrebbe portare ad allargare la sfera della punibilità a comportamenti imprevedibili da parte di eventuali imputati che invece dovrebbero sapere quali sono i fatti materiali punibili. La necessità dunque, per il diritto di un moderno stato democratico, di una tipizzazione che adoperi termini non vaghi e di mutevole accezione a seconda del pm o giudice interprete di turno: la memoria va, come esempio insuperabile, alla famigerata offesa del comune senso del pudore nel reato di atti osceni.
Non a caso per le stesse ragioni da anni si invoca anche la tipizzazione del «concorso esterno» che, benché abbastanza circoscritto dalla giurisprudenza della cassazione, non indica quali sono i comportamenti che integrano detto reato.

Magistratura democratica, ma anche tutta la magistratura associata, abbandonata la corazza degli scontri ideologici con la politica, proprio a difesa della autonomia della giurisdizione, guardando al suo interno, e preoccupandosene, invoca sul punto la soppressione di una locuzione così vaga e ambigua che potrebbe portare ad interpretazioni abnormi, riaprendo a dismisura il campo degli scontri con la politica.

Che cos’è e in cosa si estrinseca, infatti, una «disponibilità» in assenza di un improbabile prova documentale o testimoniale: una stretta di mano, un abbraccio, un mezzo sorriso? E in quale soddisfazione di interesse o esigenza si concretizzerà poi l’intesa? Non rischia di confondersi e sovrapporsi al concorso esterno? L’«altra utilità», già di per sé abbastanza ampia, è più che sufficiente a chiudere il cerchio e aggiungere la «disponibilità» serve solo ad accrescere dubbi interpretativi con processi basati più su una predisposizione all’aiuto elettorale, difficile da provare, che su fatti materiali.

L’ansia repressiva dal volto feroce, espressa dagli stessi settori che oggi vogliono inserire la «disponibilità», qualche anno fa portò ad accrescere le pene per alcuni reati di mafia tanto da far scattare la competenza della corte d’assise, facendo venir meno la competenza del tribunale e mettendo in pericolo molti processi in corso di svolgimento, sì che fu necessario un decreto legge per rimediare al disastro: l’esperienza insegna che certi furori antimafia fanno danno senza far avanzare di un passo la lotta alla mafia.

L’esigenza di procedere con efficacia probatoria servendosi di reati specifici era stata ben delineata da Giovanni Falcone nel suo libro scritto con Marcelle Padovani (Cose di cosa nostra, pag. 152; Rizzoli). Secondo Falcone, pur dovendosi riconoscere la grandissima utilità della legge Rognoni-La Torre e del 416 bis per porre rimedio alla mancanza di prove dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà di ottenere testimonianze, detta legge «non sembra che abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta»: da questa premessa concludeva che bisognasse orientarsi «verso la ricerca della prova dei reati specifici».
Speriamo che prevalga questo buon senso e che non si perpetui la stagione del deleterio contrasto tra politica e giurisdizione che tanto danno ha fatto e sta facendo allo stato di diritto.

Del resto, il «protagonismo giudiziario» ha lasciato un segno profondo, portando a una crescente delegittimazione della magistratura e, peggio ancora, a un disastro elettorale della sinistra radicale affidatasi incautamente a un giustizialismo rivelatosi palesemente perdente. Cerchiamo di non insistere a farci del male.

 

Comuni al voto, Pedesina il più piccolo d’Italia: 36 abitanti, 12 saranno “politici”

Il caso del paese in provincia di Sondrio è emblematico: un terzo della popolazione sarà impegnata nell'amministrazione. Guerra (Anci): "Fusioni e unioni? La gestione associata dei servizi è già un inizio. Questo è l'anno buono per sbloccare la situazione"

di Alessandro Madron

Un sindaco, una giunta di 4 assessori, 12 consiglieri, un segretario comunale e un dipendente part-time. È questa la macchina amministrativa impiegata per far funzionare il comune di Pedesina (Sondrio), che con i suoi 36 abitanti detiene la palma di amministrazione più piccola d’Italia, un primato che da qualche anno ha strappato a Morterone, paesino del Lecchese che oggi conta un paio di cittadini in più. Pedesina si trova a metà della Val Gerola. Un posto incantevole, tutto sentieri e cime imbiancate, con un passato a vocazione turistica e un presente fatto di seconde case e un’economia sempre meno rigogliosa. Nella stessa valle ci sono altri tre Comuni (Bema, Rasura e Gerola Alta), ciascuno con il suo sindaco e il suo consiglio comunale. Tutti insieme, frazioni comprese, arrivano a contare meno di 700 abitanti.

Sono 55 in Italia i Comuni che contano meno di cento abitanti, quasi tutti Comuni alpini in Piemonte (37) e in Lombardia (9), i restanti sono divisi tra Abruzzo (4), Liguria (2), Emilia Romagna, Lazio e Sardegna. Di questi, 36 vanno al voto a maggio, rinnovando la carica di sindaco ed eleggendo i nuovi consigli comunali che, dopo le modifiche normative, verranno ridotti nelle loro dimensioni.

Si tratta solo della punta di un gigantesco iceberg. I piccoli Comuni sono il tessuto del Paese: sono 1960 quelli che contano meno di mille abitanti (di questi 1051 vanno al voto a maggio), un quarto delle amministrazioni locali italiane, poi ci sono altri 3692 Comuni con meno di 5mila abitanti, si arriva così ai due terzi del totale delle amministrazioni locali. Un esercito di sindaci, assessori e consiglieri. Un magma di segretari comunali, dipendenti e uffici spesso poco attrezzati per far fronte alla complessità del mondo contemporaneo.

Da qualche anno la politica sta provando a mettere ordine in questo sistema. Sul piatto, per tutte le realtà con meno di 5mila abitanti, ci sono fusioni, gestioni associate delle funzioni fondamentali e riduzione delle cariche. Un processo che soffre dei ritardi e delle confusioni tipiche di un Paese che fa fatica a rinnovarsi. Quando mancano due mesi alle elezioni ancora non è chiaro se il ddl Delrio verrà approvato in tempo, tanto che il Pd (primo firmatario Enrico Borghi) ha presentato una mozione per stralciare dal disegno di legge la parte relativa ai Comuni che “hanno bisogno di regole certe per comporre le liste e garantire la rappresentanza”.

Il coordinatore nazionale dei piccoli Comuni di Anci, Mauro Guerra (deputato del Pd), assicura che il ddl Delrio, nella sua parte relativa alla composizione di consigli e giunte, verrà approvato in tempo utile per le elezioni: “La situazione sembra essersi sbloccata – spiega -, c’è la ferma intenzione di approvare prima delle elezioni, diciamo entro fine marzo per arrivare in tempo alle elezioni”. Rispetto alle modifiche introdotte durante il governo Monti, che riduceva sensibilmente il numero di consiglieri comunali e assessori, il ddl Delrio va nella direzione dell’aumento dei numeri (10 consiglieri e 2 assessori per i Comuni con meno di 3mila abitanti, 12 consiglieri e 4 assessori per i Comuni fino a 10mila abitanti) con una revisione delle indennità per mantenere i saldi invariati rispetto alla riforma precedente.

Quindi il comune di Pedesina, se le cose andranno come sembra, continuerà ad esistere e, oltre al sindaco, avrà due assessori e 10 consiglieri, riportando in municipio un terzo del paese. Casi estremi a parte, secondo Guerra “i piccoli Comuni sono un patrimonio, un presidio importante in grado di garantire la manutenzione di territori che rischierebbero di essere dimenticati”, poi puntualizza: “I piccoli Comuni in diversi casi hanno anche qualche problema di adeguatezza nel garantire i servizi, hanno problemi di mezzi. Oggi c’è bisogno di enti che garantiscano servizi efficienti, quindi come Anci abbiamo scelto di accettare la sfida delle gestioni associate e, laddove i territori lo consentono, anche quella delle fusioni”.

Del resto che i Comuni di piccole dimensioni costino di più lo ha dimostrato già l’ex ministro Piero Giarda, con una raccolta di dati che metteva in evidenza come il costo pro capite più basso viene registrato nei Comuni tra i 5 e i 10mila abitanti, crescendo esponenzialmente ai due estremi. Insomma, piccolo è bello, ma costa parecchio. Ma non è dalla cancellazione del livello amministrativo che si ottengono i veri risparmi: “Sindaci e consiglieri sono fondamentali nelle piccole realtà – spiega Guerra -, sono un presidio democratico e spesso fanno un lavoro volontario impagabile”. I costi delle piccole amministrazioni si nascondono nelle inefficienze che la politica sta tentando di affrontare.

La normativa attuale prevede che i Comuni con meno di 5mila abitanti si associno per la gestione di 9 delle 10 funzioni fondamentali. Praticamente tutte tranne l’anagrafe. La tempistica è stabilita da tempo e il processo dovrebbe essere completato nel dicembre del 2014: “Questo è l’anno buono – spiega Guerra – o si fa adesso o non si fa più. I Comuni devono fare questo sforzo per essere più forti e strutturati in futuro”. Quindi la vera differenza, più che le fusioni, possono farla le gestioni associate, a patto che vengano fatte in maniera convinta e spinta (condividendo anche il personale): “La differenza tra una buona gestione associata e una fusione di Comuni non sta nel risparmio – spiega Guerra – ma nella struttura politica più snella e unitaria”.

I processi di fusione, per quanto auspicabili, vanno costruiti con le popolazioni: “Ci sono zone nelle quali per mettere assieme 10mila abitanti bisogna unire 3 vallate e diventa difficile creare un unico Comune. La gestione associata dei servizi è un inizio della risposta al problema dei costi e dell’efficienza delle piccole e piccolissime amministrazioni”. Le fusioni di Comuni, secondo Guerra, non possono essere calate dall’alto, ma devono arrivare dal territorio: “Bisogna incentivare le aggregazioni accompagnando i Comuni in questo processo. Non credo ad un’Italia disegnata a tavolino, siamo in grado di dare indicazioni e aiutare i piccoli Comuni a crescere”.

 

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