Regioni, giungla di sprechi:
centinaia di uffici di rappresentanza nel mondo
Il commissario Carlo Cottarelli vuole tagliare,
ma nessuno controlla le spese e soprattutto va controtendenza: la riforma del
Senato renderà i governatori ancora più potenti. L'elenco ufficiale parla di
oltre cento sedi, ma la Farnesina non sa dire se il numero sia valido o ancora
troppo parziale.
di Stefano Feltri e Carlo Tecce
In Basilicata, due mesi fa, un consigliere
regionale ha spedito una interrogazione al governatore: “Va aperta una sede di
rappresentanza a Potenza”. Potenza è il capoluogo, a Potenza c’è il governo
locale, ma forse per il consigliere Potenza deve rappresentare meglio se stessa
in se stessa: “Non è più procrastinabile non considerare il ruolo della città di
Potenza, anche in relazione alla comunità provinciale e regionale, e fare fronte
comune fra istituzioni e società civile per la difesa dei valori della coesione
sociale”. Non vuol dire nulla. Come nulla vogliono dire gli uffici, gli
sportelli, le ambasciate che le Regioni, convertite in staterelli autonomi e
disinvolti, spalancano e serrano nel mondo. E ficcano decine di bandierine da
Buenos Aires a Seul. Ovunque.
Il commissario Carlo Cottarelli, il signor spending review, ha ordinato ai suoi
collaboratori di mettere insieme quelle bandierine – che a volte durano anni, a
volte pochi mesi – e di fare un calcolo di spesa e di proporre un risparmio.
Cottarelli aspetta da un anno lo studio (le regioni ritardano), entro un mese
potrebbe ricevere una tabellina. Il compito è probante. Ci aveva provato già
Enrico Bondi: analisi, sommatorie, sottrazioni, e nulla di efficace. Ci aveva
puntato persino Giulio Tremonti, all’epoca di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi,
e aveva scovato 178 sedi, di cui 21 a Bruxelles nonostante le regioni siano 20:
il numero si fa dispari perché Trento e Bolzano non volevano e non vogliono
condividere le medesime stanze. Il ministero per gli Esteri, anche, riporta il
monitoraggio che fa la Conferenza delle Regioni: la Farnesina, però, non riesce
a spiegare se la quantità enorme – elenco di 18 pagine, oltre cento uffici – sia
(124, ndr) ancora valido o troppo parziale. In questa giungla s’è avventurato
Cottarelli, che promette risparmi di spesa, ma va controtendenza: il governo sta
per ottenere una riforma di palazzo Madama che renderà i governatori regionali
ancora più potenti: senatori a Roma, tutti.
Capitale e Bruxelles. A Roma, però, le regioni già presidiano il territorio e
scelgono gli appartamenti più prestigiosi e più vicini a palazzo Chigi. Il
Veneto abita in via del Tritone, ti affacci e puoi scrutare Matteo Renzi curvo
sulle sudate carte nel suo studio. Che fanno i veneti così in centro a Roma:
“Svolgono attività di promozione del ‘Sistema Veneto’”. Da vent’anni, i
calabresi sono presenti con una “delegazione” per offrire supporto. E ci sono i
campani, i toscani, i piemontesi. Nessuno escluso. Il Molise ha 314.000
abitanti, Campobasso dista un paio di ore da Roma: aveva una coppia di sedi
nella capitale, una è fallita per debiti. La posizione migliore è per la Valle
d’Aosta – 121.000 residenti – perché è in faccia a palazzo Chigi. E forse può
aiutare la comunicazione. A Bruxelles non manca una regione, ci sono strutture
lussuose in zone molto costose, responsabili riveriti e ben pagati. Se ai
funzionari europei poni una semplice domanda – “che fanno le Regioni a
Bruxelles?” – ti rispondono senza pensarci un attimo: poco o nulla, spesso
ospitano il governatore che va in visita. Il dramma burocratico per eccellenza
l’ha vissuto la Liguria, che aveva comprato una palazzina di cinque piani,
l’avevano chiamata Casa Liguria: eccessiva, una spugna per le casse genovesi. E
allora sono andati in affitto, in un trilocale da 75 metri quadrati.
Motivazione? Così spendiamo di meno, soltanto 15.000 euro tra locazione e
manutenzione.
Mondo. Questa è la parola magica: missione. Spesso, durante l’anno, leggerete o
sentirete che il governatore parte in missione: Sud America, Stati Uniti,
Vietnam o India, non importa. La missione non è segreta: è un po’ impossibile e
un po’ inspiegabile. Quando a Cottarelli hanno riferito che la Puglia ha un
ufficio a Tirana (lo volle Raffaele Fitto) e il Piemonte a Buenos Aires (per
questioni di emigrazioni) e in Nicaragua, non ci voleva credere. E il gruppo del
Tesoro gli ha replicato sommessamente: questi sono soltanto due minuscoli
esempi. Restiamo a Torino. Che rapporto storico ha la metropoli sotto le Alpi e
la gelida Minsk in Bielorussia? Neppure quello climatico. Ma la Regione
Piemonte, da anni, attraversa il continente per esportare la “piemontesità” a
Minsk: prima il carnevale di Ivrea, poi per partecipare alla fiera del turismo.
Ekaterinburg, vi suona familiare? È una metropoli russa, provincia di Oblast’ di
Sverdlovsk, Urali centrali. Il polo industriale di Ekaterinburg ha attratto tre
regioni: Piemonte, Liguria e Marche. Viaggi, referenti, corrispondenze. La
Regione Lombardia di Roberto Formigoni aveva inaugurato 30 punti di contatto,
l’intero pianeta conosciuto e apprezzato da Formigoni, inclusa Cuba. Oggi per
rifare una mappa precisa va consultato il Lombardia Point, una rete per
l’internazionalizzazione delle imprese gestita da governo di Milano, da dodici
Camere di Commercio, dal ministero per lo Sviluppo Economico, da Sace e Simest.
Un breve assaggio: Santiago del Cile; Shanghai in Cina, Bucarest in Romania,
Almaty in Kazakistan, Casablanca in Marocco. Totale: 18. L’Emilia Romagna copre
i Balcani, da Belgrado a Tirana e va verso oriente, a Sofia. Il Lazio va solo in
Romania, la Valle d’Aosta a Parigi. Il Veneto di Zaia s’è spinto in India, Cina
e Vietnam e, per essere moderni, a Dubai (Emirati Arabi). Tutti difendono le
aziende: a che servono l’Ice (che volevano abolire), la Simest e la Farnesina?
Un mese fa, in pieno campionato di calcio, un assessore calabrese è andato in
Brasile, a San Paolo, a lanciare il “desk calabrese”. Come dar torto al
consigliere che voleva un ufficio di rappresentanza del governo di Potenza a
Potenza.
15 luglio
Lavorare a dieci anni? La
Bolivia dice sì
di Gabriella Meroni
Il Parlamento del paese sudamericano approva
una legge che consente di iniziare a lavorare legalmente a soli 10 anni. Se il
presidente Morales firmerà il decreto, la Bolivia sarà l'unico paese al mondo a
legalizzare questa pratica, che però non aiuta a combattere la povertà ma semmai
la aggrava. La protesta delle ong.
Se
passasse definitivamente questa legge, la Bolivia sarebbe il primo (e unico)
paese al mondo ad aver reso legale il lavoro non solo minorile, ma infantile: la
scorsa settimana infatti la Camera del paese sudamericano ha dato il via libera
a un decreto che fissa l'età minima per lavorare a soli 10 anni. Per rendere la
norma vincolante a tutti gli effetti manca ora soltanto la firma del presidente
Morales.
I sostenitori di questa legge affermano che i bambini boliviani “hanno bisogno
di lavorare” per far uscire il paese dalla crisi economica e per alleviare i
carichi di lavoro oppressivi a cui sono costretti i loro genitori e fratelli più
grandi, Ma il lavoro minorile – ribattono i tanti detrattori – non rappresenta
una soluzione alla povertà, anzi al contrario la aggrava, perché non permette a
tanti giovani di studiare e raggiungere quindi posizioni lavorative più
specializzate e remunerative, condannandoli a una vita di fatiche e salari da
fame.
La normativa contiene alcune “salvaguardie” come per esempio l'obbligo
dell'autorizzazione dei genitori per poter assumere il bambino, che deve altresì
esprimere il proprio “consenso”. Ma non è chiaro se il consenso di un bambino di
10 anni possa essere considerato veramente libero. Inoltre si specifica che il
lavoro non deve impedire al piccolo di andare a scuola, anche se è noto che
studiare e lavorare a quell'età – come sottolineato da molte ong - è una sfida
ai limiti dell'impossibile.
“Le famiglie povere sono già tentate di far lavorare i loro componenti più
giovani per poter mettere qualcosa in tavola”, ha osservato Human Rights Watch,
“e ora che la legge glielo consente non ci saranno più freni. Ma la Bolivia deve
ricordare che in questo modo si colloca fuori dal resto dei paesi del mondo,
compresi quelli più poveri, che hanno invece ottenuto notevoli successi nella
lotta contro la povertà proprio combattendo il lavoro minorile, potenziando
l'istruzione e offrendo alle famiglie finanziamenti di emergenza diretti a
mantenere i loro figli a scuola”.
La Gomorra delle razze
A Castel Volturno ritorna la violenza tra
bianchi contro neri. Due italiani feriscono due ivoriani forse sorpresi a
rubare, la comunità africana mette a ferro e fuoco il paese
L’odio ha avuto ancora la meglio. Accade a
Pescopagano, terra di nessuno tra i comuni di Castel Volturno e Mondragone, nel
casertano. Una polveriera dell’immigrazione scritta anche con il sangue dei
neri: di Jerry Masslo, dei sei ghanesi innocenti massacrati dal superkiller
Giuseppe Setola...
1. BARRICATE E MINACCE CASTEL VOLTURNO
SULL’ORLO DELLA GUERRA RAZZIALE
Conchita Sannino per “la Repubblica”
La guerra è riesplosa. L’odio ha avuto ancora la
meglio. Prima lo scontro di domenica sera: bianchi che sparano sui neri alla
cieca, con il pretesto che li hanno visti rubare; e i neri che, in risposta,
arrivano in massa come diavoli nella notte, a incendiare, distruggere, seminare
terrore. Poi, il disordine e la paura che dilagano in piazza anche ieri: con
blocchi stradali dei residenti da un lato, e degli immigrati dall’altro.
E il caos, la tensione, il rischio di linciaggi temuti, o promessi, su entrambe
le barricate. Avviene a Pescopagano, terra di nessuno tra i comuni di Castel
Volturno e Mondragone, nel casertano. Le proteste isolano per ore la statale
Domitiana, mandano allo sbaraglio migliaia di pendolari diretti verso sud o
nord, per lavoro o vacanza. Il bilancio è di due uomini fermati da polizia e
carabinieri: sono Giovanni e Cesare Cipriani, padre e figlio, 60 e 21 anni,
accusati di duplice tentato omicidio dei due giovani della Costa d’Avorio.
Indaga la Procura di Santa Maria Capua Vetere. Gli indagati raccontano che «i
neri stavano rubando una bombola di gas»: avrebbero reagito male al richiamo
dell’anziano, un ras del paese dai modi spicci e dalle opache relazioni, al
punto da gestire da anni una società di vigilanza mai nemmeno autorizzata.
Si attende la convalida del gip entro stasera. Le nuove tensioni, intanto,
riaccendono la polemica sull’immigrazione. Forza Italia e Lega attaccano il
governo. E il ministro dell’Interno Alfano avverte: «L’Italia è un Paese
accogliente ma certo non può accogliere tutti».
2. BIANCHI CONTRO NERI NELLA TERRA DI NESSUNO:
“FATE QUALCOSA O CI UCCIDEREMO A VICENDA”
Il sangue è ancora a terra, in via Lista. È il
punto in cui la polveriera dei dimenticati, la Pescopagano dei nigeriani ghanesi
senegalesi mischiati e nascosti tra i cittadini italiani, ha visto precipitare
la pigra serata da finalissima Mondiale nella cupa fiammeggiante sommossa alla
“Rodney King” casertana. E ora la striscia di Gaza di questa frazione di Castel
Volturno toccata dal mare, a metà tra due comuni e nessuno Stato a curarsene, è
divisa anche in due blocchi di protesta, che per la prima volta alzano le mani
solo per ufficializzare l’odio, e in fondo la fatica e l’incapacità di andare
avanti così. Da soli, con le loro leggi che non danno certezze e il loro dio che
non risponde.
Il blocco Uno è dei bianchi, sulla Domitiana, sono loro a cominciare a
mezzogiorno. Prima pochi uomini e ragazzi, poi le famiglie, poi perfino le
signore dagli stabilimenti balneari più lontani ma accarezzati e sporcati dallo
stesso mare. «Ma voi dite sempre che siete impotenti, che non potete fare nulla
— grida un commerciante ambulante sulla ventina a un carabiniere — ma allora
cosa aspettate? Che noi, a questi neri li uccidiamo e li gettiamo nelle terre? O
volete che ci ammazziamo tra noi? Tanti povericristi africani ci sono, e io li
conosco, ma gli altri rubano e fanno del male, fate pulizia».
Il blocco Due si forma subito dopo, a centocinquanta metri, sulla Consortile.
Sono tutti africani. Difendono quel sangue ancora a terra, di due ragazzi
ivoriani, feriti domenica e per caso scampati alla morte. «Non è vero che quei
nostri fratelli stavano rubando una bombola di gas — dice il più calmo — noi
siamo guardati con disprezzo, con odio, ci insultano e poi vogliono i nostri
soldi per fittare delle fogne e cercano la nostra manodopera e il nostro
silenzio per i lavori più umili».
È una ferita che ne apre altre e scava nuove trincee e si mischia a
frustrazioni, inganni, degrado e sogni di perduta bellezza della Domitiana
ridotta a enorme lager: per i poveri di ogni etnìa; e per i ricchi residui,
alcuni neri e criminali, come i boss bianchi.
Così, lentamente, il paesaggio si è ripiegato sulla nuova geografia. E Castel
Volturno, e il lembo di Pescopagano sono diventati dormitorio a cielo aperto di
case o svaligiate e lasciate alla mercè degli immigrati che arrivano; oppure di
ville super accessoriate e coperte di cancelli e vigilantes privati, ufficiali o
clandestini. È qui dentro che c’erano i semi della loro “Rodney King”, come la
rivolta che infiammò Los Angeles, dopo l’assoluzione dei poliziotti che
pestarono “re Rodney”.
Enrico Masiti, un impiegato, protesta: «Basterebbe che un paese civile si
interrogasse sulle sue bombe sociali, sarebbe bastato fare una sola azione
amministrativa esemplare all’anno». Patrizia Del Vacchio, artista che viene solo
d’estate a rimettere i piedi nell’acqua che l’ha vista ragazzina: «Diciamo la
verità: se non ci fossero stati i Cipriani, famiglia temuta, che “vende” la sua
vigilanza a noi qui intorno, quanti sarebbero scesi in piazza?». Già:
imbarazzante la storia dei Cipriani, l’anziano finito in carcere è cognato del
vicesindaco Pd di un comune vicino.
«Non ci sono innocenti, siamo tutti vittime, però la colpa è delle istituzioni»,
abbassa gli occhi Flora Giordano. «Pensare che venivo dall’età di nove anni, mio
padre si innamorò di questo posto, fece comprare casa alle sorelle, agli amici.
Ma ogni volta che torno, confronto quei ricordi con l’immondizia, l’abbandono e
la terra dei dannati che vedo. E quanti furti, quante devastazioni: purtroppo
sono loro, a compierle». Anna Musella confessa: «Io e mia madre ci trasferimmo
qui anni fa. Sa che noi non lasciamo mai la villa incustodita? O esce lei, o
esco io».
Perfino Angela, la ragazza sotto choc della famiglia Cipriani, l’adolescente che
ha vissuto momenti di panico durante l’assalto dei neri, domenica, barricandosi
in casa e implorando un vigile del fuoco di tenerle compagnia al telefono mentre
quelli distruggevano e entravano al piano di sotto, perfino lei nonostante il
suo punto di vista deve riconoscere e ringraziare l’aiuto che le ha dato un
altro nero: «Scrivetelo per favore. Voglio ringraziare quel pompiere, e anche
quell’africano ».
Ora che il ministro Alfano promette interventi e il presidente dei deputati di
Sel, Arturo Scotto, replica: «Più diritti per tutti a Castel Volturno», è chiaro
che la storia di questa polveriera dell’immigrazione è stata scritta anche con
il sangue dei neri: di Jerry Masslo, dei sei ghanesi innocenti massacrati nel
2008 dalla stragista di Giuseppe Setola, superkiller dei casalesi.
E di quel Jospeh Ayimbora, unico sopravvissuto, che nell’unica intervista non
insultò i bianchi ma disse «Dio lavorava su di me mentre quelli sparavano ». È
la stessa teoria di abbandono e odii costruiti nel laboratorio delle scelte
mancate, dell’accidia di governo, locale e centrale. È come quella striscia che
è rimasta in via Lista, lo stesso muto filo di sangue.
Cibo, 10 grandi aziende lo
controllano tutto
di Gabriella Meroni
Sono solo dieci le grandi aziende globali a cui
fanno capo la stragrande maggioranza dei marchi che troviamo nei supermercati.
Un impero che secondo Oxfam schiaccia i produttori locali e continua a inquinare
il pianeta
Altro che km zero. Ci sono anche marchi molto noti
e amati dagli italiani (come Buitoni, Bertolli, S. Pellegrino e Algida) tra le
centinaia di sigle che campeggiano sulla maggior parte dei prodotti alimentari
che troviamo ogni giorno nei supermercati, e che fanno capo a sole 10 aziende
multinazionali. Sono queste, le Big 10 del Food, che Oxfam International ha
messo in fila in un bell'infografico che ce le mostra tutte: sono Coca Cola,
PepsiCo, Unilever, Danone, Mars, Mondelez International ( la ex Kraft),
Kellogg's, General Mills, Nestlé e Associated British Foods.
Un'iniziativa che mira a far conoscere ai consumatori come funziona il mercato
del cibo globale, ormai saldamente in mano a queste poche compagnie, che tutte
insieme hanno tra l'altro un impatto ambientale fortissimo: secondo Oxfam
infatti le Big 10 hanno immesso nell'atmosfera 263,7 milioni di tonnellate di
gas serra nel 2013, e se fossero una nazione del mondo sarebbero al
venticinquesimo posto nella classifica dei paesi più inquinanti. Per saperne di
più è possibile consultare il sito della campagna "Behind the Brands".
7 luglio
Giappone, 40mila bambini
definiti “orfani”. Ma l’80% in realtà è abbandonato
Sono bambini allontanati forzatamente da genitori che non possono o vogliono
occuparsi. Sbarazzarsi di un figlio è molto facile, e non costituisce reato, a
meno che non si tratti di un infanticidio.
di Pio d'Emilia
In
Giappone ci sono circa 40mila orfani. E anziché diminuire, come avviene in tutti
i paesi “ricchi”, tendono ad aumentare. Orfani per modo di dire, perché oltre
l’80% hanno ancora entrambi o almeno un genitore. Più che orfani, insomma, sono
bambini abbandonati, o allontanati forzatamente da genitori che non possono o
vogliono occuparsi. In Giappone, uno dei paesi con il più basso indice
demografico, è un fenomeno molto triste, molto nascosto ma anche abbastanza
diffuso. Sbarazzarsi di un bambino è molto facile, e non costituisce reato, a
meno che non si tratti di un vero e proprio, e premeditato, infanticidio.
Per evitare il ricorso a soluzioni disperate – per un periodo andava “di moda”
abbandonare i neonati nei coin locker, gli armadietti per i bagagli che si
trovano in tutte le stazioni e che venivano lasciati socchiusi affinché qualcuno
potesse prima o poi accorgersene – in molti ospedali c’è oggi il kochan posuto,
una stanza liberamente accessibile, 24 ore su 24, con culle e minilettini. Senza
alcuna formalità, si entra e si lascia il bambino. La maggior parte vengono
abbandonati e basta, ma qualche volta il genitore lascia anche un foglietto con
il nome e cognome, perfino il numero di telefono. Nessuno abbandona un bambino
se non è disperato, e molti sperano, un giorno, di poterlo riprendere, o
comunque ritrovare.
Il “sistema” giapponese, in altri casi crudele e, diremmo noi, “spietato”, in
queto caso è molto tollerante. I genitori che abbandonano i figli non vengono
perseguiti penalmente, né privati della patria potestà. C’è molta “comprensione”
insomma, sia a livello sociale che giuridico ed istituzionale. E nonostante i
recenti tagli al welfare e all’assistenza sanitaria, le strutture per la
protezione dell’infanzia (jido hyogo shisetsu) come si chiamano oggi i vecchi
orfanotrofi (kojiin) sono numerose, bene organizzate, pulite e affidate a
persone competenti e “dedicate”. Forse anche troppo. Perché con la scusa di
“proteggere” i bambini, non fanno nulla per favorirne il reinserimento in
famiglia, ove possible, né l’affido, e tanto meno l’adozione.
C’è chi sospetta che questo atteggiamento sia motivato da calcoli economici (gli
orfanotrofi, per la maggior parte privati, ricevono i rimborsi in base al numero
degli ospiti) e dal rischio che il ritorno in famiglia può comportare: qualche
anno fa una bambina appena riconsegnata alla madre è stata massacrata dalla
stessa, con una mazza da baseball. Ma c’è una motivazione più profonda e
drammatica: lo scarso interesse, diciamo pure la diffusa diffidenza dei
giapponesi, per i quali il legame di sangue è importantissimo, per l’adozione di
bambini altrui. Istituto riconosciuto dall’ordinamento giuridico solo di
recente, nel 1988. Quasi quarant’anni dopo l’aborto, riconosciuto invece dal
1940.
Altra cosa è l’adozione di adulti, molto praticata anche oggi. Per scongiurare
l’estinzione di una famiglia, ad esempio, è molto diffusa la pratica di adottare
un parente maschio, o il genero. “Curioso. Siamo il secondo paese al mondo, dopo
gli Usa, per quanto riguarda le adozioni di adulti – spiega l’avvocato Kanae Doi,
direttrice di Human Rights Japan – ma l’ultimo tra i paesi industrializzati per
quanto riguarda le adozioni di bambini”. Le cifre parlano chiaro: in Giappone
solo il 12% degli “orfani” viene affidato o adottato, contro il 93%
dell’Australia (che guida la classifica) il 77% degli Usa e una media del 50%
dei paesi Europei. Se da “orfani” i bambini conducono una vita tutto sommato
tranquilla, accuditi e istruiti, spesso anche avviati ad una professione (anche
se a volte affiorano casi di abusi e violenze) la situazione diventa drammatica
quando escono. La legge parla chiaro, e al raggiungimento della maggiore età
debbono lasciare l’istituzione dove hanno passato buona parte, se non tutta,
della loro vita. E qui la società giapponese mostra l’aspetto più crudele: non
avere un’origine, una famiglia, un mondo di relazioni significa non avere alcuna
possibilità di trovare un lavoro decente. Ne sanno qualcosa i mukosekiji, i
ragazzi (che poi diventano adulti) senza identità. Persone che vivono, ma non
esistono. Un po’ come l’Imperatore, che sia pur per altri e tutt’ora
imperscrutabili motivi non ha un cognome, un documento d’identità, una qualsiasi
prova giuridica della sua esistenza.
I mukosekiji invece un cognome ce l’hanno, magari inventato, cosa abbastanza
diffusa, visto che in Giappone – pochi lo sanno – non esiste l’obbligo di avere
un documento di identità. A meno che non si debba fare un concorso pubblico,
iscriversi all’università o tentare di farsi assumere da una grande azienda, ai
giapponesi non viene mai chiesto di esibire un documento, men che mai quando ci
ferma in un albergo, come ahimè avviene da noi, grazie ad una legge fascista
ancora in vigore. I mukosekiji (letteralmente, “senza iscrizione nello stato di
famiglia”) hanno una casa, una famiglia, relazioni sociali, spesso un lavoro, ma
non hanno assistenza sanitaria, non pagano le tasse, non possono prendere la
patente e teoricamente non possono neanche morire: chi si assumerebbe la
responsabilità di dichiarare deceduta una persona che giuridicamente non esiste?
Ma questo è l’ultimo dei problemi, ovviamente.
Ci sono sempre i templi che – come un tempo facevano le nostre parrocchie – in
cambio di congrue “offerte” risolvono le cose. Il problema è capire perché
esista questo fenomeno, abbastanza diffuso (pare siano più di diecimila, nella
sola Tokyo, e che aumentino al rtmo di 500 l’anno) al punto che perfino
l’austera e conservatrice NHK, la radiotelevisione di stato, abbia deciso di
dedicarci uno speciale. “È una delle conseguenze più drammatiche della
discriminazione di genere e del terrore in cui vivono, ancora oggi, molte donne
giapponesi – spiega l’avvocato Doi – quando arriva il momento di divorziare da
un marito magari violento le mogli spariscono, fanno perdere le loro tracce,
piuttosto che insistere per una separazione non gradita dal partner.
È una situazione molto diffusa: si resta sposati, ma di fatto non si convive.
Poi però magari la moglie si innamora di un’altra persona, e ci fa un figlio.
Che se viene regolaremente denunciato, finisce automaticamente nel koseki del
marito. Per evitare questo rischio, la madre decide di non registrare la
nascita. Di fatto, è possibile: in ospedale non c’è alcuna denuncia da
compilare, il ceritificato di nascita viene rilasciato in comune, dopo la
denuncia del padre o della madre”.
Il fenomeno è talmente diffuso che ci sono asili, scuole elementari e persino
medie e superiori dove presidi “comprensivi” evitano di insistere sulla
documentazione ufficiale e accettano l’iscrizione anche dei mukosekiji senza
tante storie.
La fede criminale
di Roberto Saviano
La processione della Madonna delle Grazie a
Oppido Mamertina
GLI AFFILIATI alle 'ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non
partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero
religioso. Dopo la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è
inutile — hanno detto al cappellano don Marco — andare a messa — È inutile
quando si è stati esclusi dai sacramenti. L’anatema di Bergoglio è giunto
potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di 'ndrangheta.
Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica,
un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle
organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una
nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei
comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale
danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette,
non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude
spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di
posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma
innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo
dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è
affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice
conseguenza della scomunica. Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni
azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più
semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica
che è la comunicazione dei clan.
Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del
carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: "Il Papa ci ha
tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e
della comunione ". Perché questo è falso. Papa Francesco nel suo viaggio in
Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i
detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro "anche io sbaglio, anche
io ho bisogno di perdono": è in questa frase la vera forza della sua
dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene
all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino,
all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al
boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La
scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione
quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che
ha abbandonato in contraddizione con il vangelo ("ero carcerato e siete venuti a
trovarmi") il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di
obbedienza alla 'ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa.
Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La
scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli
affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di
pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché 'ndranghetisti, e nessuna occasione
simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto
dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in
questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto
di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la
“santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e
aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: "In nome di nostro
Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei
compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche
il mio stesso sangue".
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare
come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal
resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di
chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che
è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha
reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non
alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al
vecchio rito e che — come in molti hanno lasciato trapelare — da decenni
finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono
un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica
civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle
dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale,
definitiva.
3 luglio
La storia del centralinista
cieco pagato per non fare niente
Fonte: SuperAbile.it
Assunto alla Motorizzazione di Treviso nel
2007, dopo tre anni viene sostituito da un risponditore automatico: da allora
non svolge alcuna mansione. Lui stesso protesta. Il presidente dell'Unione
ciechi: "Spreco di risorse, violata la dignità"
ROMA - Quando gli hanno tolto il centralino,
sostituito da un risponditore automatico, nessuno ha pensato di dargli una
mansione alternativa: da allora sono passati quattro anni e lui continua ancora
ad occupare il suo posto di lavoro per otto ore giornaliere, costretto a non
fare niente. Lo stipendio arriva regolarmente, ma Massimo Vettoretti ha deciso
che così proprio non riesce ad andare avanti. E ha reso pubblica la sua vicenda,
che trova spazio sui giornali e diventa il simbolo stesso di un modo di sprecare
risorse e di colpire la dignità delle persone.
Massimo Vettoretti è il presidente della sezione
di Treviso dell'Unione italiana ciechi. Lavora alla Motorizzazione Civile di
Treviso dal 2007, quando venne assunto in qualità di categoria protetta come
centralinista. Allora il centralino c'era ancora, e per un ampio arco di tempo,
oltre tre anni, lui lavora regolarmente. Poi - la tecnologia avanza - anche la
Motorizzazione decide di cambiare strada, attivando un risponditore automatico
che porge a chi telefona le varie opzioni di collegamento. Vettoretti non fa più
il centralinista ma il guaio è che da quel momento, ed è il 2010, non fa più
niente. Gli hanno tolto la mansione, ma non gliene danno alcun altra, o quanto
meno non lo mettono nelle condizioni di svolgerla (come quando gli chiedono di
fare una rassegna stampa, ma in ufficio non ha a disposizione neppure un pc).
L'uscita pubblica di Vettoretti sembra non sia piaciuta alla Motorizzazione, che
ha precisato che il dipendente non avrebbe mai chiesto di parlare con il
direttore per esporre il problema: fatto sta che la questione potrebbe assumere
una brutta piega (sui quotidiani locali si parla di una possibile causa per
mobbing intentata dall'uomo).
Sulla vicenda interviene anche Mario Barbuto, che
è il presidente nazionale dell'Unione ciechi e ipovedenti, e che scrive una
lettera al direttore generale della motorizzazione civile (e anche, fra gli
altri, ai ministri Poletti e Lupi) descrivendo la situazione come uno "scempio
intollerabile" e un "insulto alla dignità del lavoratore". "Conosco
personalmente Massimo Vettoretti da molti anni ed è - dice Barbuto - una risorsa
professionale di altissimo valore e una persona che merita innanzitutto dignità
e rispetto, quella dignità che si conquista con il proprio lavoro e quel
rispetto che si ottiene con il proprio impegno professionale". Per Barbuto le
scuse circa la lentezza della Pubblica amministrazione sono, appunto, "scuse che
contribuiscono solo ad affondare il Paese e fanno vergogna a chi ancora le
adduce a pretesto e giustificazione della propria ignavia". La richiesta rivolta
al direttore generale è quella di "intervenire con efficacia e tempestività per
ripristinare normali condizioni di lavoro per l'ex centralinista della sede di
Treviso, a tutela della dignità delle persone e del diritto al lavoro,
soprattutto in presenza di categorie protette". Ma Barbuto ricorda che questa
situazione riguarda "purtroppo molte altre persone che sono costrette a vivere
la propria giornata lavorativa e il proprio ruolo professionale nelle sue stesse
condizioni, subendo tutta l'umiliazione derivante da uno stato di inoperosità
permanente". "I ciechi e gli ipovedenti italiani - dice Barbuto - sono in grado
di lavorare quanto gli altri e come gli altri. A buon diritto, dunque, chiediamo
per tutti loro un trattamento rispettoso della dignità personale e della
professionalità acquisita in anni di sacrificio e di impegno". Il presidente
dell'Uic parla di vicinanza all'interessato
"che si manifesterà anche in una eventuale sede giudiziaria, sia sul piano
morale, sia su quello finanziario, qualora dovessero concretizzarsi le
sciagurate minacce" arrivate in questi giorni circa i provvedimenti disciplinari
che si starebbero preparando proprio contro Vettoretti.
Falsi invalidi: 240 milioni
per controllarli, solo 111 incassati
Fonte: Vita.it - di Gabriella Meroni
Clamorosa denuncia della Fish: revocate le
indennità a meno dell'8% delle 850mila persone controllate. E lo Stato spende
più del doppio di quello che incassa togliendo la pensione a chi non ne ha
diritto. La soluzione? "Ripensare in modo efficace e inclusivo a nuovi criteri
di accertamento della disabilità".
La bufala dei fali invalidi, più volte denunciata
dalle associazioni che si occupano di disabilità, si arricchisce di nuovi,
sconcertanti scenari che parlano di sprechi di soldi pubblici e colpevoli
approssimazioni nella diffusione di dati "ufficiali". Tema affrontato anche sul
numero di Vita in edicola con un articolo di Gianfranco de Robertis, consulente
legale di Anffas Onlus. I conti li ha fatti la Fish, dai cui calcoli si scopre
oggi che lo Stato (cioè l'Inps) ha perso oltre 241 milioni per effettuare i
controlli (tra costi per il personale e spese seguite ai contenziosi) e ne ha
recuperati meno della metà, cioè 111. Non solo: anche i dati diffusi dall'Inps
relativi ai cosiddetti falsi invalidi sono quanto meno imprecisi, visto che
secondo l'Istituto di previdenza.
Quanti sono i falsi invalidi?
Ma andiamo con ordine. Dal 2009 al 2013 si è
svolta una imponente campagna di controlli che ha interessato oltre 850.000
persone titolari di pensione o indennità di accompagnamento, sono stati quindi
controllati circa un terzo degli interessati. Era il momento di sapere
effettivamente, al di là delle dichiarazioni ufficiose ed artefatte, come sono
andati effettivamente questi controlli – invocati come ineludibili – e quale
beneficio ne abbiano in effetti tratto l’Erario e i Cittadini. L’ha chiesto con
un’interrogazione a risposta scritta Donata Lenzi, capogruppo PD alla
Commissione Affari Sociali della Camera. Ha risposto (seduta di Commissione del
29 maggio) il sottosegretario del Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali, Franca Biondelli, (con delega alla famiglia, inclusione e politiche
sociali, immigrazione e politiche di integrazione), riportando, pedissequamente,
i dati forniti dall’INPS su taluni aspetti, volutamente, lacunosi.
Precisa la risposta che sono state effettuate
dall’INPS 854.192 verifiche straordinarie. Sono state revocate, per mancata
conferma dei requisiti sanitari o assenza a visita medico legale, 67.225
provvidenze. Il che corrisponde al 7,9 per cento delle verifiche. Non il 23,
quindi! Né un invalido ogni quattro. Ma quello stesso dato relativo alle revoche
è gonfiato ad arte. Ecco perché. Vedendo diminuire l’efficacia dei suoi
controlli, nel 2011 (Messaggio 16 marzo 2011, n. 6763) l’INPS stabilisce di
includere nel Piano straordinario di verifica tutte le persone per le quali è
già stata prevista una revisione della loro invalidità. Ad esempio, a molti
malati oncologici viene riconosciuta l’indennità di accompagnamento per il
periodo in cui seguono cicli di chemioterapia o nella fase di maggiore acuzie,
riservando la possibilità di rivedere successivamente l’invalidità e di
revocare, per via ordinaria, l’indennità di accompagnamento. Insomma, non sono
“falsi invalidi” e ricevono normalmente un sussidio nella fase di maggiore
necessità. La scelta dell’INPS del 2011 offre all’Istituto un bacino di
potenziali persone da controllare i cui contorni sono bene definiti e su cui
sono più probabili le revoche delle provvidenze economiche che comunque
avverrebbero, ma che in questo modo sarebbero attribuibili all’azione dell’INPS
e non alla normale routinaria attività delle ASL. Il disegno è smascherato dalla
risposta all’interrogazione: le revoche di provvidenze ai malati oncologici
passano dal 3% del 2009 al 33% del 2012! Quel 7,9 per cento di revoche è
pertanto al lordo di quanto sarebbe comunque avvenuto per via ordinaria.
Quanto ci è costato tutto questo?
Quanto stima di aver ricavato l’INPS da questa
gigantesca operazione di controllo? Lo dice la risposta all’interrogazione:
352,7 milioni di euro. Lordi, molto lordi. Infatti, per affrontare questa 12
straordinaria mole di lavoro l’INPS è dovuto ricorrere anche a medici esterni:
la spesa dichiarata dal 2009 al 2012 è di 101,2 milioni di euro. Il risparmio è
quindi di 251,4 milioni. Ancora lordi, ma che rappresentano un risparmio
dell’1,51 per cento della spesa annua per le provvidenze agli invalidi civili
(16,6 miliardi secondo il bilancio sociale INPS, un miliardo e mezzo in meno
secondo la Corte dei Conti).
Da questo “bottino”, vanno poi detratte le spese
per il personale interno (che INPS non dichiara): altri medici, dirigenti,
softwaristi, impiegati amministrativi, spese di struttura, spese di spedizione
di 850.000 comunicazione. Stima prudenziale: altri 70 milioni. Il risparmio
scende a 181,4 milioni. Non è finita. Come correttamente ricorda la risposta in
Commissione, il risparmio va inteso al lordo del contenzioso. Tradotto: chi si
vede revocare la pensione o l’indennità fa ricorso. Nel 45% dei casi l’INPS
soccombe in giudizio ed è obbligato a restituire, con gli interessi, il
“maltolto” pagandoci pure le spese legali. Molto prudenzialmente è da ritenere
che l’INPS (che oltretutto si serve in larga misura di legali esterni, come
“lagnato” dalla Corte dei Conti) perda in questa operazione almeno altri 70
milioni.
Il risparmio scende a 111,4 milioni. Questa cifra
ridicola rappresenta lo 0,67% della spesa annuale per pensioni e indennità. Per
completezza, l’intera spesa 2012 per pensioni e indennità è pari all’1,1 per
cento del Pil, una delle percentuali più basse d’Europa (sono dietro di noi solo
Malta, Cipro e la Grecia).
Una via d'uscita
A fronte di questi numeri fallimentari, ci sono i
disagi patiti dalle persone invalide, spesso convocate a visita nonostante
condizioni di salute gravissime, nonché la conseguente dilatazione dei tempi
medi necessari per il riconoscimento delle prestazioni. La Corte dei Conti
segnala nel suo più recente controllo ispettivo che gli invalidi attendono
mediamente 299 giorni dalla data della domanda, i ciechi 338. Peggio ancora va
ai sordi: 399 giorni.
“Ci auguriamo che gli organi di informazione ci
aiutino a smantellare quello che appare in tutta evidenza un odioso pregiudizio,
alimentato per anni. È quasi superfluo invocare il diritto di rettifica. –
commenta Vincenzo Falabella, Presidente della Federazione Italiana per il
Superamento dell’Handicap – Al Parlamento invece caldeggiamo una riflessione
profonda: la Legge di stabilità per il 2013 (Legge 228/2012) ha previsto
ulteriori 450.000 controlli da effettuarsi entro il 2015. Si fermi questo
sperpero e si approfitti per ripensare in modo efficace ed inclusivo a nuovi
criteri di accertamento della disabilità”.