Bollette luce e gas, da 1
ottobre nuovi rincari. Pesano tensioni con Russia
L’incremento sarà rispettivamente dell’1,7% per
la luce e del 5,4 per cento per il gas. Anche se, sostiene l’Autorità per
l’Energia, per effetto dei nuovi "prezzi europei" il 2014 si chiuderà per una
famiglia tipo con un risparmio complessivo di 84 euro rispetto ai 1.257 euro
complessivi della bolletta del gas di tutto il 2013
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Come volevasi dimostrare, le tariffe di luce e gas
si apprestano a salire. Dal primo ottobre, l’incremento sarà rispettivamente
pari all’1,7% e al 5,4 per cento. Anche se, sostiene l’Autorità per l’Energia,
per effetto dei nuovi “prezzi europei” il 2014 si chiuderà per una famiglia tipo
con un risparmio complessivo di 84 euro rispetto ai 1.257 euro complessivi della
bolletta del gas di tutto il 2013. Per il gas, le tensioni sui mercati legate
agli attesi rialzi stagionali della materia prima e alla crisi russo-ucraina
hanno determinato un incremento del 5,4% delle condizioni di riferimento
trimestrali.
“Con il vecchio meccanismo di indicizzazione al petrolio e ai contratti a lungo
termine, la spesa per il gas sarebbe stata ben più alta. Invece, per effetto dei
nuovi prezzi europei nel 2014 la famiglia tipo risparmierà il 6,7%, ovvero 84
euro in meno rispetto al 2013 e circa 66 euro (-5,3%) rispetto al 2012
nonostante l’aumento della domanda in Europa per i maggiori consumi invernali e
la crisi geopolitica”, ha dichiarato il Presidente dell’Autorità Guido Bortoni.
”Il dato positivo – ha aggiunto – è che adesso i consumatori italiani pagano la
materia prima gas come gli altri consumatori europei, a un prezzo agganciato
agli andamenti – verso l’alto o verso il basso – delle maggiori borse
continentali”.
Per l’energia elettrica, si registra un incremento trimestrale del +1,7%,
principalmente a causa del recupero degli scostamenti rispetto alle stime del
costo di approvvigionamento della materia prima (+0,9%) e della necessità di
finanziare alcuni oneri di sistema come la differenza tra costi stimati e costi
effettivi dell’approvvigionamento delle famiglie da parte dell’Acquirente Unico,
in presenza di una struttura del portafoglio acquisti con molte coperture di
lungo periodo. A ciò si sono aggiunte le necessità di gettito per la componente
A3 (incentivi alle fonti rinnovabili +0,4% specificamente per i certificati
verdi) e per la componente A2 (+0,6%) per il pagamento di 200 milioni al
bilancio dello Stato a valere su questa componente e per la mancata riduzione di
questa componente. La somma di questi elementi, sostiene ancora l’Authority,
avrebbe portato ad un aumento del +1,9%: tuttavia, in considerazione della
riduzione dello 0,2% dei costi di dispacciamento è stato possibile contenere
l’incremento trimestrale all’1,7 per cento. La maggiore spesa per la famiglia
tipo nel prossimo trimestre sarà di circa 2 euro.
L’aumento trimestrale del gas si spiega invece soprattutto per il rialzo della
materia prima all’ingrosso (+6,4%). Su tale rialzo ha inciso l’effetto della
stagionalità dei consumi nonchè l’escalation delle tensioni tra Russia e Ucraina
che hanno determinato un aumento generalizzato dei prezzi spot sugli hub
europei, con ripercussioni sulle quotazioni a termine utilizzate per
l’aggiornamento delle condizioni economiche di tutela. A ciò si sono aggiunti
gli aumenti degli oneri di stoccaggio (+1,2%), per un incremento totale del 7,6
per cento. Questo aumento complessivo è stato in parte controbilanciato dalla
riduzione dell’2,2% delle componenti CPR e CCR per la rinegoziazione dei
contratti pluriennali e alle modalità di approvvigionamento decisa
dall’Autorità. Per la famiglia tipo, nel prossimo trimestre la maggiore spesa
sarà di circa 19 euro.
Una “pessima notizia per le famiglie italiane e potrebbe avere conseguenze
negative nei prossimi mesi, deprimendo ulteriormente i consumi”, secondo il
Codacons. “In un contesto delicatissimo come quello che sta vivendo l’Italia,
con le spese delle famiglie in caduta libera e il potere d’acquisto in costante
riduzione, un incremento delle bollette di servizi essenziali come l’energia
rappresenta una maledizione, soprattutto per quei nuclei numerosi e a basso
reddito – spiega il presidente dell’associazione, Carlo Rienzi – ma a mantenere
elevate le bollette del gas degli italiani sono soprattutto le imposte, che
incidono mediamente per il 35% sul prezzo finale pagato dai consumatori, contro
una media europea del 20%. In tal senso chiediamo al governo di ridurre al più
presto il peso fiscale sulle forniture energetiche degli italiani, allineando le
imposte alla media Ue”, conclude Rienzi.
18 settembre
Spending
review, così le mense di Stato si mangiano ogni anno 490 milioni
Privilegio, diritto o
afflizione del lavoratore pubblico, sono centri di spesa in cui nessuno mette le
mani. Dal 1995 le amministrazioni optano a discrezione per il buono pasto e il
servizio di ristorazione collettiva. Così la spesa vola e nella giungla dei
bandi si trova di tutto, pure il ricettario by Farnesina. La Rai, alle prese coi
tagli, sta per rinnovare il servizio. Base d'asta: 50 milioni di euro.
di Thomas Mackinson
Incassato il blocco degli stipendi
non resta che consolarsi con la frittura di calamari e la torta rustica alla
mensa di Stato, ultimo e persistente privilegio (o diritto, a seconda dei punti
di vista) del pubblico impiego sotto tiro. Secondo i dati del Tesoro ce ne sono
un migliaio sparse per l’Italia e ogni anno all’Erario, scuole e ospedali
esclusi, costano la bellezza di 490 milioni di euro, in aggiunta ai 722 erogati
in buoni pasto. Da quelle porte i commissari alla spesa non sono mai entrati e
pare non lo faranno neppure stavolta, in occasione della dieta del 3% che il
governo ha prescritto ai ministeri. Si imbatterebbero però in situazioni
sorprendenti, dove il grasso – è il caso di dire – cola davvero.
Alla Farnesina ad esempio, dove i funzionari sono a lungo distratti dalle
vicende internazionali per occuparsi di questioni di cucina e del grammo del
prezzemolo. In un mondo squassato da venti di guerra, il nostro Ministero degli
Esteri non poteva sottrarsi all’emergenza domestica di rinnovare il contratto
per la mensa interna: entro il prossimo 18 settembre deve selezionare un
operatore della ristorazione che in cambio di sette milioni e mezzo di euro
provveda a sfamare i 2.300 dipendenti della sede centrale per i prossimi tre
anni. E poco importa se a sentir loro preferirebbero di gran lunga un buono
pasto. Certo, costa molto meno dell’analogo bando Rai che ai contribuenti
italiani sta per mangiare, è il caso di dire, la bellezza di 50 milioni di euro,
dieci per ogni anno della convezione quinquennale oggetto della gara. Tanto
costa far sedere a tavola dirigenti, dipendenti e ospiti della tv di Stato che
da mesi s’arrovella per trovare 150 milioni da portare in dote al governo e che,
alla fine, verranno grattati dalla solita padella: vendita dei gioielli di
famiglia (RaiWay), tagli al personale e “riorganizzazione” delle strutture
giornalistiche, vale a dire svuotando quel poco che resta a giustificare il
canone.
Mense di Stato affare serissimo, dunque. Anche perché in tempi di deflazione
basta un piccolo beneficio per allargare la forchetta dell’equità sociale e
tagliare col coltello l’Italia in due: quella che s’accomoda a tavola, magari
con tutti gli onori e su marmi smaltati, e quella che deve accontentarsi del
buono pasto, quando c’è. Poco più in là, del resto, ci sono gli esclusi del
tutto, gli ex impiegati e i collaboratori che non hanno né l’uno ne l’altro
perché tutto si taglia, ma non la mensa interna. La sua dura legge è: meglio
qualche lavoratore in meno che gli altri a bocca asciutta, ontologicamente
indisponibili al ticket che per gli “altri italiani”, 1,9 milioni di statali e
due milioni di privati, è il pranzo.
Buoni pasto, mense autogestite
e servizi esterni. Il business della pausa pranzo
Affare anche costosissimo, poi.
Secondo i dati Consip per la “ristorazione collettiva” – tra personale, materie
prime, pulizia dei locali, lavanderia, assicurazione etc – lo Stato mette sul
piatto ogni anno 1,6 miliardi di euro. La metà circa (51%) è in carico agli enti
locali (mense scolastiche, soprattutto), un altro 25% alla Sanità (ospedali), un
19,5% alle forze armate e di polizia. Nel 4,5% residuo, che varrebbe minimo 75
milioni di euro l’anno, c’è poi la zona grigia delle amministrazioni che senza
un obbligo o una ragione specifica (la sede è periferica, il personale non può
allontanarsi etc) hanno deciso di optare comunque per la mensa in affidamento
diretto. Una facoltà definita per legge nel 1995, in occasione della
finanziaria. E questa libertà, come spesso accade, ha messo le ali alla spesa e
complicato la vita a chi volesse monitorarla, controllarla e ridurla. Ne sanno
qualcosa i tecnici del Tesoro: “La rilevazione del conto annuale – spiegano –
viene fatta al livello di ente e non al livello di unità locale. Un terzo delle
amministrazioni che hanno sostenuto una spesa per le mense ha erogato anche
buoni pasto, evidentemente a causa di situazioni e valutazioni differenziate
nelle diverse unità locali appartenenti al medesimo ente”.
Una certezza, però, c’è. Buona o cattiva che sia, e per quanto possa costare,
chi la mensa ce l’ha se la tiene a denti stretti. E non ci pensa proprio a
sostituirla, magari aderendo alla convenzione Consip che da 15 anni il Mef ha
attivato per dotare tutte le amministrazioni di buoni pasto sostitutivi (quella
in corso vale 910 milioni, quasi un miliardo). Per non scontentare nessuno,
esiste anche una terza via di organizzare il servizio che consente alle
amministrazioni di usare il proprio personale per la gestione e di acquistare
direttamente le derrate alimentari necessarie (la convenzione Consip che vale
800 milioni di euro l’anno). Spreco e potenziale risparmio, dunque, si annidano
laddove le amministrazioni procedono direttamente all’affidamento del servizio
con una propria gara, fuori da ogni convenzione centralizza d’acquisto.
Alla Farnesina, tra marmi e
ricette scelte dai dirigenti
Soltanto lì, tra le pieghe dei
bandi che si cucinano in casa, si coglie a pieno la premura con cui le
amministrazioni pubbliche adempiono all’ufficio. La Farnesina, ad esempio, ma
altri se ne potrebbero fare. A predisporre la nuova gara per “ristorazione,
mensa e bar” è stato un dirigente di II fascia. Formazione da contabile,
incarichi funzionali importanti in diverse direzioni generali. Nel 2009, per
dire, ha preso parte come ufficiale di collegamento alla Riunione G8 dei Capi di
Stato e di Governo a L’Aquila. Approdato alla direzione Risorse – come altri
colleghi prima di lui – si occupa d’altro, nello specifico è il “responsabile
del procedimento” di gara del servizio mensa. Che è tutto da leggere.
Prescrive a chi effettuerà la fornitura del servizio di scodellare, ogni santo
giorno, tre primi e tre secondi diversi a scelta del dipendente. Il capitolato
tecnico specifica: “giovedì, gnocchi”. Nessuno sa il perché, ma è tassativo ed
“eventuali variazioni dovranno essere motivate”. Nell’allegato n 3, di ben
dodici, c’è anche – non è uno scherzo – il ricettario by Farnesina. In piccole
schede distilla con precisione grammature e ingredienti per singolo piatto.
Risolve pure l’eterno conflitto dell’amatriciana: pancetta o guanciale? Quella
doc, sdoganata per via diplomatica, deve contenere 100 grammi di pasta di semola
di grano duro, pancetta “tesa” (30 grammi), cipolla, pomodori. Guai dimenticare
peperoncino rosso e sale: ne va un grammo.
Altre ricette consigliate sono il
minestrone di lenticchie secche (40 grammi), il pesce alla mugnaia (con
acciughe), pollo alla cacciatora (attenzione, ci va il prezzemolo: un grammo),
torta rustica e così via. Impossibile, a questo punto, non prendere in
contropiede il funzionario che ai fornelli ne sa una più di Gordon Ramsey.
“Guardi che noi non abbiamo inventato nulla”, risponde con gentilezza e modestia
lui, ex commissario contabile del Consolato Generale d’Italia a Hong Kong. “Il
capitolato lo ha redatto una mia collaboratrice, ma so che altre amministrazioni
forniscono indicazioni simili cui ci siamo ispirati. In ogni caso mi spiace, non
sono autorizzato a rilasciare notizie sul funzionamento dell’ufficio e sulla
redazione di documenti di gara. La prego, sia gentile”.
Il paradosso: si risparmia se
non ci si mangia
La Farnesina ritiene però che la
mensa sia economica e consenta un notevole risparmio per l’Erario. Fornisce
anche dei numeri precisi. “Ogni giorno mediamente gli utenti del servizio sono
circa 900 a fronte di circa 2.300 dipendenti in servizio che avrebbero tutti
diritto al buono pasto qualora non fosse attivo il servizio mensa. La spesa per
il MAECI è dunque meno della metà di quella che sosterrebbe con l’erogazione di
buoni pasto a tutto il personale che ne avrebbe diritto”. In sostanza il
risparmio della mensa è determinato dal fatto che due terzi del personale che ne
ha diritto ha finito per rinunciarvi. E forse bisognerebbe anche chiedersi
perché, visto che i lavoratori lamentano da anni la scarsa qualità di cibo e
servizio e tramite i loro sindacati hanno espressamente chiesto di rinunciarvi
per il buono. “Del resto funziona così – spiega un decano del ministero – le
amministrazioni aggiudicano le gare con un ribasso tale sulla base d’asta che i
margini del fornitore per dare un buon sevizio si riducono all’osso. L’operatore
che capisce poi che non sarà rinnovato finisce per trascurarlo del tutto, sia
sul fronte delle portate proposte che del servizio”. E perché tenere la mensa
allora? “Semplice, perché il contratto dei diplomatici che qui dettano legge non
prevede buoni pasto. Così gente che guadagna anche 10mila euro al mese mangia
qui. Magari male, ma gratis”. Ma è poi funzionale la mensa interna? “In realtà
un’altra ragione per cui la maggior parte dei dipendenti non mangia qui è dovuta
ai tornelli contatempo: perderebbero 20 minuti di tempo di lavoro. Mangiare in
mensa, di fatto, è come uscire dal ministero. Così la gente si compra il panino
al bar interno, dove non c’è il tornello, e spende dai 5 ai 10 euro di tasca
propria. Si tratta soprattutto di donne lavoratrici per le quale anche 20 minuti
al giorno sono tempo preziosissimo. Mangiano male in piedi al bar, oppure
consumano alla scrivania dell’ufficio il panino che si portano da casa”.
Ai dipendenti ora tremano già i polsi pensando che il nuovo contratto, per
ragioni di risparmio, avrà un prezzo a base d’asta inferiore al precedente.
Quello in scadenza, gestito dalla ditta barese Ladisa Spa, costa 8,30 euro più
Iva per ogni pasto erogato ma il ministero fa sapere il nuovo affidamento farà
leva su tariffe inferiori, avendo fissato il prezzo a base d’asta a 7,50 euro
(iva esclusa). Ci sono però 18 piccoli indiani (su una platea 2.300 dipendenti)
che la fortuna e la distanza hanno dispensato dalla mensa. Si tratta, non è uno
scherzo, del “personale in servizio presso la sede centrale che presta
stabilmente la propria lavorativa in sedi decentrate distanti più di 800/1000
metri dalla Farnesina”. Un chilometro, dunque, e sei salvo. Nello specifico,
spiega ancora la nota del Ministero, “rientrano oggi in tale categoria
unicamente i dipendenti in servizio presso gli Uffici siti a Villa Madama”.
Per chiudere il ragionamento sull’economia delle mense, giacché la Farnesina si
è mostrata eccezionalmente collaborativa, si devono mettere in conto anche i
costi che non si leggono nel bando. Che non sono di poco conto, soprattutto
quando prendi la mensa al sesto piano e la trasferisci al meno uno. Qui è andata
così, con conseguenti oneri di adeguamento dei locali che non sono ancora
finiti. Un anno fa è stata ristrutturata l’area di consumazione spendendo 80mila
euro tra pavimento e controsoffitti (sopra il video dell’inaugurazione). Oggi è
in corso l’intervento sull’area cucina, lavaggio e bagni che dovrebbe
concludersi entro i primi di ottobre al costo di 89.792 euro. Ma sono soldi ben
spesi, perché la mensa è eterna..