C’è un'altra Terra dei
Fuochi: la Calabria. Per il Procuratore di Reggio “Per anni sono stati sversati
rifiuti tossici anche qui".
Il pentito Schiavone: “Non si scava perché altrimenti il popolo farebbe la
rivoluzione”
Cafiero de Raho, pg di Reggio Calabria: “Ci sono vari episodi di sversamenti
in questa zona, ma un’attività di contrasto non è ancora stata fatta” -
Schiavone: “Per anni la gente in Campania faceva a gara a vendere terreni alla
camorra, che riversava rifiuti tossici dal Nord Italia ed ex Germania Est. E’
pieno di siti ancora da scavare”…
1.
TERRADEIFUOCHI. CAFIERO, PROCURATORE CAPO DI REGGIO CALABRIA A RADIO 24: "ANCHE
IN CALABRIA" - "PER ANNI FATTO NIENTE CONTRO I RIFIUTI"
"Sono convinto ci sia un equivalente della Terra dei fuochi campana anche in
Calabria". E' Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria a
lanciare l'allarme, dai microfoni di ‘A Ciascuno Il Suo' di Radio 24. Per anni a
Napoli si è occupato dei casalesi, di Carmine Schiavone e del traffico dei
rifiuti, sversati- secondo il racconto dell'ex boss Schiavone, ora pentito anche
in Calabria.
"Le mafie si sono arricchite sui rifiuti. Varie sono le notizie sui rifiuti
sversati intorno al territorio di Reggio Calabria e un'attività di contrasto su
questo ancora non è stata compiuta, è da fare. Legambiente nel suo rapporto
dipinge un quadro preoccupante. Ma mi chiedo: come mai nulla è stato fatto visto
che questo sversamento di rifiuti è avvenuto tanti anni fa? Noi solo oggi
cominciamo a muoverci".
2. TERRADEIFUOCHI - SCHIAVONE, L'EX BOSS, A CIASCUNO IL SUO SU RADIO 24:
"PIOMBO DELL'EX GERMANIA EST ANCORA INTERRATO" - "NON SI SCAVA, PERCHÉ POPOLO
FAREBBE RIVOLUZIONE"
"Devono ancora essere scoperti siti pieni di cassette foderate di piombo. Sono
questi i rifiuti più pericolosi ancora interrati nella Terra dei Fuochi". Lo
dice ad ‘A Ciascuno Il Suo' di Radio 24 Carmine Schiavone, ex boss dei casalesi
da anni collaboratore di Giustizia. "Venivano da aziende del Nord e anche
dall'ex Germania dell'est questi rifiuti tossici ancora interrati. Ci sono
ancora tantissimi siti dove nessuno ha scavato, perché il popolo altrimenti
farebbe la rivoluzione. Perché si è costruito sui rifiuti tossici. Per anni la
gente del posto faceva a gara per vendere i terreni alla camorra, invece di
denunciare".
Schiavone, uscito dal programma di protezione per i pentiti, dice a Radio 24:
"Non ho niente da perdere, io sono l' ultimo mafioso dinosauro rimasto di quei
casalesi, gli altri sono tutti o morti o in galera. E per questo parlo".
2. TERRADEIFUOCHI. CANTONE, MAGISTRATO, A RADIO 24: "OPPORTUNA REVISIONE SU
VERBALI SECRETATI"
"Sarebbe opportuno desecretare anche la mia audizione alla Commissione ecomafie.
Anzi, le polemiche sui verbali di Carmine Schiavone dovrebbero imporre alle
Camere una revisione su tutti i verbali coperti da segreto". Lo dice ad ‘A
Ciascuno Il Suo' di Radio 24 Raffaele Cantone, magistrato, ora in Cassazione, ma
fino al 2007 alla DDa di Napoli, dove si è occupato anche dei casalesi e di
Carmine Schiavone. La sua audizione davanti alla Commissione ecomafie è ancora
coperta da segreto:
"sarebbe opportuno fosse desecretata, molte delle vicende raccontate già note.
Parlammo delle infiltrazioni dei casalesi nei consorzi, che si occupano dei
rifiuti; e delle coperture istituzionali dei fratelli Orsi- imprenditori che
avevano creato società mista Eco4 (al centro dell'inchiesta che coinvolse l'ex
sottosegretario Nicola Cosentino, ndr). Allora era opportuno che fossero coperte
da segreto, perché le indagini erano ancora in corso, ora non più". In questa
puntata di A Ciascuno Il Suo, dedicata alla Terra dei Fuochi, anche con lo
stesso Carmine Schiavone, Cantone racconta ancora di quanto riferì alla
Commissione sulla "famigerata trattativa casalesi-Stato: parlammo del
posizionamento delle ecoballe, che aveva viste delle stranezze e delle prime
acquisizioni investigative sui terreni individuati per ecoballe, presupposto per
la famigerata trattativa".
Davanti alle polemiche per i racconti di Schiavone del '97 rimasti fino al 2013
secretati, Cantone dice a Radio 24 che "erano stati coperti da segreto solo
perché all'epoca c'erano ancora attività investigative in corso, per nessun
altra ragione. Spesso i verbali davanti alle Commissioni Parlamentari non
vengono desecretati per anni solo perché nessuno se ne ricorsa o interessa. Non
c'è stato niente di strano. Il Ministero dell'Interno, allora guidato
dall'attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano, non c'entrava nulla sul
segreto. Ma le polemiche sulle dichiarazioni di Schiavone dovrebbero imporre ora
alle Camere una revisione su quali verbali conservare secretati".
Parma, ai dipendenti
pubblici serve l’ok del dirigente per l’iscrizione al sindacato
Il provvedimento è stato trasmesso dalla Ragioneria territoriale dello Stato
di Parma che fa capo al ministero dell'Economia. Pizzo (Gilda degli insegnanti):
"Prima eravamo noi come sindacato a portare le nostre iscrizioni. Ora invece
dovrà esserci l'approvazione dei vertici degli enti"
di Silvia Bia
A Parma le scelte sindacali dei dipendenti pubblici saranno visionate e
“schedate” dai loro superiori. Secondo un nuovo provvedimento della Ragioneria
territoriale dello Stato di Parma che fa capo al ministero dell’Economia e delle
finanze, per iscriversi a un sindacato, cancellarsi o cambiare sigla, i
dipendenti statali che lavorano nel territorio dovranno presentare le deleghe
controfirmate dal responsabile del proprio ufficio di appartenenza. Il che
significa un dirigente per gli enti pubblici, oppure il preside nel caso degli
insegnanti e del personale scolastico. A lanciare l’allarme sono i sindacati Flc
Cgil, Cisl Scuola, Uil, Snals Confsal e Gilda degli insegnanti, che puntano il
dito contro “una nuova era di schedatura dei dipendenti pubblici per opinioni
politico-sindacali” che vede Parma come “cavia” per una prassi che potrebbe
allargarsi anche ad altri territori.
La novità è arrivata come un fulmine a ciel sereno con una circolare a firma del
direttore della Ragioneria territoriale provinciale Rosaria Chizzini inviata il
15 gennaio 2014 alle sigle sindacali e agli enti, in cui si indicano le nuove
modalità operative da adottare per le variazioni stipendiali relative a
iscrizioni e revoche sindacali. Questione di buste paga: per trattenere o meno
dai compensi dei lavoratori le quote destinate ai sindacati di iscrizione, prima
la Ragioneria territoriale si basava sui moduli di adesione certificati dai
delegati sindacali. Ora invece, sarà necessario il timbro dell’ufficio di
servizio del dipendente. “Prima eravamo noi come sindacato a portare le nostre
iscrizioni – ha spiegato Salvatore Pizzo, coordinatore provinciale della Gilda
degli insegnanti – Ora invece ci dovrà essere anche il passaggio dai vertici
degli enti”.
Nel documento infatti si legge che saranno ritenute regolari le deleghe
sindacali sottoscritte in originale dagli interessati e “trasmesse a cura degli
uffici di appartenenza con note a firma del dirigente” oppure con invio in posta
elettronica certificata a firma digitale. Per quanto riguarda invece le deleghe
trasmesse tramite le organizzazioni sindacali, esse “verranno accettate solo se
corredate da nota (elenco) sottoscritta dal dirigente dell’ufficio di servizio”.
Stessa modalità per le domande di revoca, che dovranno essere inviate al
sindacato interessato, all’ufficio di servizio e alla Ragioneria dello Stato.
In questo modo in pratica i dipendenti pubblici, a meno che non utilizzino la
posta elettronica certificata, dovranno fare controfirmare l’iscrizione o la
cancellazione a una sigla o a un’altra dai propri superiori, con il risultato di
esautorare di fatto i delegati sindacali, che da sempre hanno il compito di
occuparsi di queste procedure. “Capisco che ci debbano essere accorgimenti per
accertare l’autenticità della delega, ma questo provvedimento lede la privacy
dei lavoratori e può creare difficoltà nei rapporti di lavoro” spiega Simone
Saccani, segretario di Flc Cgil.
In più, secondo i sindacati, le nuove disposizioni andrebbero contro la legge
300/1970 (Statuto dei lavoratori), che all’articolo 8 vieta al datore di lavoro
di “effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche,
religiose o sindacali del lavoratore”. Il fatto che non si debba comunicare
all’ufficio di appartenenza l’adesione a partiti e sindacati poi, è previsto
anche dal Decreto del presidente della Repubblica del 16 aprile 2013 n.62
(codice di comportamento dei dipendenti pubblici). Diversa la versione del
direttore della Ragioneria territoriale di Parma, che non ha voluto rilasciare
spiegazioni in merito al nuovo provvedimento adottato: “Noi agiamo secondo le
disposizioni di legge” si è limitata a dire Chizzini.
Nella circolare però, fanno notare i sindacati, non compaiono riferimenti a
norme o a leggi che contemplino le nuove modalità. “Non si capisce da dove sia
arrivata questa disposizione che interessa solo Parma e per quale motivo sia
stata adottata – ha attaccato Pizzo – Solitamente in un provvedimento è
necessario citare delle norme di riferimento, che in questo documento mancano
del tutto”. Il risultato però è che i sindacati ora si ritrovano con le mani
legate: “Io ho avuto iscrizioni al sindacato a gennaio – ha continuato Pizzo –
ma mi rifiuto di compiere un illecito e di farle registrare in questo modo”.
Il coordinatore nazionale della Gilda Rino Di Meglio ha informato della vicenda
il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, il ragioniere generale dello
Stato Daniele Franco ed il garante della privacy Antonello Soro. Finora però non
ci sono state risposte, così come non ci sono state reazioni da parte delle
forze politiche. I rappresentanti dei lavoratori però sono sul piede di guerra:
“E’ un palese attacco che di fatto limita la libertà di scelta di appartenenza
sindacale, in aperto contrasto con le norme che tutelano i dati personali” ha
detto Maria Gentilini di Cisl insieme a Ernesto Devodier dello Snals. La Gilda
degli insegnanti ha parlato di un provvedimento che “mette in soggezione le
persone sul luogo di lavoro, identificandole e schedandole per opinione”.
“Chiediamo ai ministri Saccomanni, D’Alia e Carrozza di interrompere questa
indecenza – ha concluso Pizzo – ci chiediamo perché sono partiti proprio da
Parma”. Le nuove disposizioni infatti per ora sono ristrette al territorio
provinciale, ma potrebbero costituire un precedente ed essere adottate anche da
altre Ragionerie territoriali dello Stato.
Le Olimpiadi invernali, un
affare solo per Putin e i suoi sochi. Piste, treni, maxi costruzioni. In una
città dove manco nevica
Solo la ferrovia è costata 8,7 miliardi, ovvero il conto finale delle
Olimpiadi di Vancouver 2010 - Un totale-monstre di 51 miliardi, molti a carico
dello Stato, per pagare appalti di cui hanno beneficiato oligarchi e amici del
Presidente…
Fabrizio Dragosei per il "Corriere della Sera"
La valle del fiume Mzymta che collega il mare vicino all'aeroporto di Sochi con
le montagne innevate è assai stretta e attraversa gole profonde. La vecchia
strada si arrampicava su da Adler tra mille curve e tornanti, passando di qua e
di là del fiume fino ad arrivare a Krasnaya Polyana, la base da dove partono le
piste di sci. Oggi invece i vagoni grigi e arancio costruiti dalla Siemens per
le ferrovie russe uniscono i due punti con una linea quasi retta, lunga 48
chilometri.
La ferrovia corre tra tunnel e ponti in buona parte sopra il fiume, come la
parallela strada che ha richiesto la costruzione di 23 viadotti e 7 km di
tunnel. Un'opera colossale, di alta ingegneria, che si apprezza stando seduti
sui morbidi sedili rossi e blu dei convogli che la Siemens ha dovuto testare a
+40 e a -40 gradi, in base al contratto con le ferrovie. Un'ora di viaggio,
cento rubli di spesa (2,20 euro) e siamo alla base del centro olimpico dove si
svolgeranno le gare di sci alpino e nordico, di bob, di slittino. Un'opera
colossale, dunque, che è un po' il simbolo di queste Olimpiadi, visto che da
sola è costata 8,7 miliardi di dollari, più di quanto fu speso per l'intero
evento di Vancouver nel 2010.
Ma d'altra parte queste sono le Olimpiadi dei record e non solo perché si è
deciso di tenere la maggior parte degli eventi sulla costa del Mar Nero, in una
regione subtropicale. Il budget iniziale di 12 miliardi di dollari, annunciato
da Vladimir Putin in Guatemala nel 2007 quando si aggiudicò i Giochi per il suo
Paese, ha continuato a salire: 17, poi 22, quindi 27 miliardi. Fino al balzo
finale degli ultimi mesi: 51 miliardi di dollari, quanto nessuno si era mai
sognato di spendere nemmeno per le Olimpiadi estive che prevedono il doppio
degli atleti, molte più gare e molte più località coinvolte.
Ma le autorità russe ci tengono a tranquillizzare il mondo: queste spese, ha
spiegato il vicepremier Dmitrij Kozak nei giorni scorsi, sono in buona parte
relative a infrastrutture che sarebbero state costruite comunque (anche la
spettacolare ferrovia sul Mzymta?). E poi l'affermazione più importante: «Non
sono stati scoperti episodi di uso non finalizzato dei mezzi per la costruzione
dei siti olimpici»; niente corruzione, insomma. Un fatto assolutamente
stupefacente, visto che siamo in Russia. E visto che, solo per citare un
esempio, ben tre direttori della maggiore impresa statale incaricata dei lavori,
la Olimpstroj, sono stati rimossi dal 2007 con l'apertura di inchieste penali
per corruzione (ma nessun caso è mai finito in tribunale).
L'inesperienza e altro hanno fatto lievitare le spese in maniera esponenziale.
Considerando la quota alla quale si svolgeranno le gare, si è pensato bene di
immagazzinare l'inverno scorso milioni di metri cubi di neve. La pista di bob
che parte da 836 metri d'altezza è coperta per proteggere il ghiaccio (che
comunque è refrigerato) dal sole. Il cemento per le costruzioni in quota è
dovuto arrivare con gli elicotteri mentre si realizzava la strada d'accesso.
Ma quanto sono costate veramente le Olimpiadi di Sochi non lo sapremo mai,
perché una parte degli investimenti è stata fatta da privati che, comunque,
hanno ottenuto amplissimi mutui agevolati dallo Stato. I principali gruppi
impegnati sono l'Interros di Vladimir Potanin (con 2,1 miliardi di dollari) e la
Bazel di Oleg Deripaska (con 1,7 miliardi), oligarchi legati al Cremlino.
Secondo un rapporto dell'opposizione russa, hanno ricevuto mutui per più del 75%
dell'investimento, ma ora chiedono il 100% e altri contributi perché convinti di
non rivedere mai i loro quattrini.
Naturalmente sono state coinvolte anche le imprese statali controllate dagli
uomini di Putin: Gazprom, la banca Vneshekonombank e le ferrovie, presiedute da
Vladimir Yakunin, compagno di vecchia data del presidente russo (erano nella
stessa cooperativa di dacie vicino San Pietroburgo).
I contratti d'appalto, è stato spiegato, sono andati a ditte di cui si conosceva
la preparazione e l'integrità. I principali se li sono assicurati i fratelli
Rotenberg, che casualmente conoscono Putin fin dall'infanzia (Arkadij praticava
judo a San Pietroburgo assieme a Vladimir Vladimirovich). Ventuno contratti, per
un totale di 7 miliardi di dollari, secondo la rivista New Times . Arkadij
Rotenberg ha più volte affermato di non aver avuto alcun aiuto da Putin, che in
altre occasioni lo ha definito «una persona mandata al nostro Paese da Dio».
Le Ferrovie hanno assegnato gli appalti più importanti alla Mostotrest dei
Rotenberg e alla SK Most di Gennadij Timchenko. Il magnate conosce Putin da
anni, ma ha sempre smentito i giornali che lo indicavano come socio o partner
del presidente. Ha raccontato al Wall Street Journal che frequentava pure lui lo
stesso club di judo di San Pietroburgo. Una curiosa combinazione.
a ipotizzare alcunché di poco corretto. La SK Most, per fare un esempio,
controlla una banca, la Millennium. E nel consiglio della banca fino a poco
tempo fa sedeva, secondo il settimanale Business Week , Natalia Yakunina, che è
la moglie del presidente delle ferrovie Vladimir Yakunin.
Il Canada non è amico
dell’ambiente
di Lorenzo Colantoni
Le contraddizioni nella questione ambientale di uno dei paesi (in apparenza)
più verdi al mondo. Nonostante i vantaggi di uno sviluppo ecosostenibile, Ottawa
non ha ancora abbandonato le politiche industriali tradizionali.
Nell’immaginario europeo è difficile immaginare il Canada come un paese brown,
cioè che fa un uso incontrollato delle risorse naturali e dei combustibili
fossili (il Brasile è uno di questi).
Secondo
la Fao, la deforestazione annuale in Canada negli ultimi 20 anni è stata intorno
allo 0%; le statistiche dell’Oecd sostengono che i canadesi usufruiscono di una
qualità dell’aria e dell’acqua molto più elevata rispetto al resto del mondo.
Il problema è che questa attitudine ambientalista è poco più che un’apparenza.
La qualità dell’ambiente canadese è il risultato dell’impatto limitato di una
popolazione che, pur essendo metà di quella italiana, vive su di un paese 33
volte più grande.
La politica ambientale canadese è tutt’altro che coscienziosa, essendo piuttosto
una delle più pericolose e aggressive nello sfruttamento delle risorse naturali,
facilmente paragonabile a quella di Cina o Indonesia.
Basterà fare riferimento a qualche indicatore: il Canada ha un’intensità
energetica del 27% superiore a quella della Cina, più del doppio delle emissioni
pro capite e il 15% in più degli Stati Uniti. Pur avendo meno dello 0.04% della
popolazione mondiale, il Canada è responsabile per quasi il 2% delle emissioni
globali.
L’uscita dal protocollo di Kyoto nel 2011 e i livelli di emissioni sono gli
elementi meglio conosciuti e più lampanti della politica ambientale canadese, ma
certo non gli unici e forse neppure i più gravi. Nella British Columbia, ad
esempio, è ancora legale e diffuso l’abbattimento delle cosiddette old-growth
forests, costituite da alberi dai 100 ai 700 anni e spesso alti oltre i 70
metri. Questa pratica non è permessa nemmeno in Congo o in Liberia. Ottawa sta
inoltre valutando l’opzione di riaprire lo sfruttamento dei banchi di merluzzo,
gli stessi che, dopo aver reso per decenni quasi un milione di tonnellate
all’anno, furono oggetto di una pesca così intensiva da essere praticamente
azzerati nel 1992. Il Canada è tuttora nella top 10 dei paesi che forniscono più
sussidi alla pesca nel mondo.
Robert Powell, esperto per il Wwf, sostiene che Ottawa stia rischiando di più
nell’industria dei combustibili fossili. Se il cosiddetto fracking è al centro
di discussioni e proteste solo da poco tempo negli Stati Uniti e in Europa, in
Canada lo shale gas è stato ampiamente sfruttato in Alberta sin dagli anni
Settanta. Il paese affronta da oltre 20 anni il problema dell’inquinamento di
laghi e fiumi per via degli agenti chimici che, a seguito del fracking, vengono
immessi nel suolo.
Il progetto dell’oleodotto Enbridge, inoltre, dovrebbe percorrere oltre 1.100
chilometri in un territorio che conta oltre mille corsi d’acqua fino al Great
Bear Sea, uno degli ecosistemi più fragili del Canada. Il solo costo di recupero
in caso di una fuoriuscita di petrolio di medio-grande livello è stato stimato
da ricercatori della University of British Columbia intorno ai 9-10 miliardi di
dollari. Il costo per costruire l’oleodotto si aggira intorno ai 6 miliardi. Un
rischio significativo, considerando che la compagnia che dovrebbe costruire e
gestire l’oleodotto, la Enbridge, detiene il record di oltre 600 fuoriuscite
negli ultimi 20 anni.
Il tentativo dell’Unione Europea di tassare la più grande e inquinante risorsa
energetica canadese, ossia il petrolio prodotto dalle sabbie catramose (tar
sands), va avanti dal 2007. Questa proposta è stata supportata da 21 premi Nobel
e contrastata invece da una feroce attività di lobbying da parte canadese, con
la partecipazione del ministro dell'Ambiente in persona. Davon Page, direttore
esecutivo di Ecojustice, e David Coon, uno dei leader del Green party canadese,
hanno provato a spiegare all'autore di questo articolo i motivi dietro a scelte
ambientali tanto aggressive.
Da una parte, gli interessi in gioco. Il Canada è il 2° paese al mondo per
risorse di uranio, 4° per produzione di gas, 6° per produzione di petrolio e nel
2012 le sue riserve erano le terze al mondo dopo Arabia Saudita e Venezuela. Di
queste, quasi il 100% viene prodotto dalle tar sands e interamente esportato
negli Stati Uniti, così come il 98% del totale delle esportazioni energetiche
canadesi.
Anche la politica canadese ha fatto la sua parte, sostituendo nel 2012 il
pacchetto legislativo ambientale, il cosiddetto Canadian environmental
assessment act, con una serie di regolamenti il cui obiettivo era quello di
mettere lo sfruttamento delle risorse ambientali al centro della crescita
economica. C’è poco da stupirsi quindi se una delle prime conseguenze della
nuova legislazione sono state le nuove concessioni per trivellazioni esplorative
nell'Artico.
Il tocco finale l'ha dato la politica internazionale. Fu proprio il fallimento
degli accordi di Copenaghen ad aprire le porte all’uscita del Canada dal
protocollo di Kyoto, e allo stesso modo potrebbe essere stato un cambiamento di
rotta nella politica dell’Unione Europea ad aver incentivato lo sfruttamento
delle tar sands. In un mondo così affamato di energia da vedere crescere la
domanda globale del 50% nei prossimi 20 anni, sembra difficile trovare gli
incentivi in grado di indirizzare il Canada verso l'adozione di una politica
ambientale più rigorosa. D’altra parte, anche l’approccio corrente non è senza
costi.
Il cambiamento climatico potrebbe costare annualmente al Canada 5 miliardi di
dollari a partire dal 2020, fino a raggiungere il picco di 41 miliardi nel 2040.
Una fuoriuscita in regioni come il mare di Beaufort o il Great Bear Sea potrebbe
raggiungere con facilità un livello dei danni pari a quello del disastro
ambientale del Golfo del Messico nel 2010, per il cui risarcimento British
petroleum potrebbe dover pagare oltre 40 miliardi di dollari.
Ragionando su un bilancio costi-benefici della propria politica ambientale,
Ottawa si deve preparare ad affrontare delle responsabilità anche a livello
globale. Direttive europee o accordi come il post-Kyoto potrebbero smuovere la
politica ambientale canadese dall’impasse tra politica brown del governo
federale e le potenzialità green del paese.
Potrebbe essere l’occasione per dimostrare che le decisioni di politica
ambientale di un paese non sono e non devono essere tanto una prerogativa
nazionale, quanto il frutto di una discussione che coinvolga la comunità
internazionale.
21 gennaio
Fonte: L'Espresso
Sanità, metà italiani senza
assistenza
Colpa di tagli e ristrutturazioni fatti alla
cieca. Siamo andati a vedere cosa succede negli ospedali. In attesa dei due
miliardi promessi da Letta
di Daniela Minerva
Può capitare, in una tarda serata d’inverno di
finire, per una sciocchezza, al Pronto soccorso. Basta un niente, un’aritmia
cardiaca passeggera ed eccoci lì, nell’inferno dell’unico luogo dove trovano
rifugio anziani, disabili di vario genere, povera gente che non sa che dove
andare.
Lo abbiamo fatto. Abbiamo trascorso una notte al Pronto soccorso dell’ospedale
San Carlo di Milano, un grande nosocomio di periferia. Chiuso nella nebbia del
Lorenteggio, accerchiato da palazzoni grigi, strade senz’anima; poco lontano dai
campi Rom e molto vicino al territorio di bande giovanili in guerra chissà
perché. Affollato già alle sette di sera. E poi progressivamente sempre più
inverosimile man mano che avanza la notte. Inverosimile se si va a cercare sui
protocolli della buona sanità cosa deve essere un Pronto soccorso. Ci si deve
aspettare l’arrivo di incidentati, di feriti, di persone colpite all’improvviso
da attacchi di cuore o cerebrali. Insomma, gente che ha bisogno di quella che i
manuali e le molte fiction televisive ci hanno presentato come “medicina
d’urgenza”.
E invece no. Sono coloro che non sanno dove andare i grandi protagonisti della
scena, anziani soprattutto. Con l’influenza o in stato confusionale, dovuto
magari a una caduta da niente che non ha ferito il corpo ma spiazzato la mente.
Stanno lì, buttati tutti insieme. L’ottantenne che urla tutta notte improperi
contro il figlio che chissà dov’è: non ha nulla, ma l’hanno portato lì perché
non sanno occuparsene. Si alza più volte, accenna a rivestirsi e andarsene e gli
infermieri gli ringhiano di stare buono, lo rimettono a letto con poche
cerimonie. Accanto a lui, un metro al massimo, una signora caduta per uno
scippo: niente di rotto ma la paura l’ha fatta strippare. Piange e chissà se si
accorge che quell’uomo di fronte a lei ha sporcato il letto e che gli
infermieri, brontolando sonoramente, puliscono senza neanche chiudere la tenda.
E nel cambiarlo si lasciano dietro una scia di urina che si seccherà e resterà
lì tutta la notte. Di certo lo nota quel cinquantenne in fibrillazione atriale:
deve semplicemente essere monitorato finché il cuore non smetterà naturalmente
di fare capricci; ma anche per lui l’unica chance è stata la lettiga dov’è
finito a trascorrere la notte occupando spazio e sprecando risorse come quasi
tutti quelli che sono lì invece che in una struttura molto più idonea a gestire
la piccola patologia. Inevitabilmente più umana. Arriva però un giovanotto
colpito da un’arma da fuoco e poi un povero ragazzo frantumato in un incidente
di motocicletta che viene portato in sala operatoria e mobilita, finalmente
all’uopo, la grande e costosa struttura di medicina d’emergenza.
E al cronista si palesano insieme le due grandi malattie della sanità post
berlusconiana: troppa gente, anziani soprattutto buttati su un letto che costa
oltre mille euro al giorno e un degrado che va di pari passo con la progressiva
assenza di risorse e gestione economicistica dei luoghi di cura. Cominciamo
dall’affollamento nei Pronto soccorso e nei reparti. Questo, infatti, accade,
quasi ovunque: la gente non sa che fare, il medico di base è andato a cena e
comunque non potrebbe fare gran ché nel suo studiolo, e va al Pronto soccorso.
Che non può mandare i malati dove troverebbero la miglior cura: in strutture
capaci di gestire un’influenza o un anziano malconcio, o nei reparti in caso di
attacchi di cuore o di insufficienze respiratorie gravi, ad esempio, quando è
necessaria una terapia medica specialistica. Non può farlo perché le strutture
assistite sono pochissime e strapiene, come lo sono gli stessi reparti,
ingolfati spesso perché costretti a tenersi i malati ben oltre il tempo
necessario alla terapia ospedaliera: non sanno dove mandarli per le cure che
devono comunque fare. I tagli hanno spazzato via molte strutture, magari
sprecone e da riformare, che però servivano a questi pazienti che i clinici
chiamano “postacuti”. Gli stessi tagli che hanno giorno dopo giorno aumentato il
degrado. Perché se non ci si capacita del fatto che, come abbiamo visto al San
Carlo, uomini e donne convivano a frotte in stanzoni senza separazioni, resta
pur vero che nei nosocomi assediati, privati di risorse e di personale, la
dignità del malato può diventare un lusso. Se il cronista finisce per odiare con
tutte le sue forze i due infermieri di turno che apostrofano i vecchi e non
tirano le tende, resta il fatto che tutto quel carico di lavoro e sofferenza
pesa su gente che guadagna meno di 1500 euro al mese, che ha subìto
ristrutturazioni e tagli, che non viene mai e poi mai coinvolta nel governo
dell’ospedale ormai in mano a quelli che i clinici definiscono con una punta di
disprezzo “gli amministrativi”.
TRENTA MILIARDI IN TRE ANNI
Il Pronto soccorso è la fotografia del sistema
sanitario di un paese, e se basta una stagione influenzale debole, come quella
in corso, a far salire del 30 per cento gli accessi, a riempire il Niguarda di
Milano, a spingere i pazienti a sfondare la porta d’accesso del San Giovanni
Bosco di Torino o a restare fino a cinque giorni su una barella qualunque in
attesa di un ricovero a Roma vuol dire che le cose non sono più sotto controllo.
E che, di conseguenza, la maggior parte dei cittadini italiani non ha buona
assistenza. Lo racconta l’incessante ritornello delle cronache locali; lo
dimostrano le cifre del Rapporto Oasi del Cergas Bocconi che sarà presentato nei
prossimi giorni, e che “l’Espresso” anticipa qui.
Così è andata: dall’estate del 2011 a oggi Asl e ospedali hanno perso 30
miliardi di finanziamenti e centinaia di operatori andati in pensione e mai
sostituiti. Mentre è lettera morta la promessa di avere sparsi ovunque piccoli
presidi sanitari capaci di gestire gli anziani e le patologie meno gravi per
lasciare ai grandi ospedali solo quei malati che hanno bisogno di medicina
d’urgenza o altamente specializzata. Da quell’estate in poi, tre ministri hanno
allestito altrettanti piani e decine di “tavoli” per farlo, ma ben poco è stato
realizzato; e il decreto ad hoc emanato da Renato Balduzzi nel 2012 è quasi
ovunque inattuato. Serve a poco a dire che ci sono regioni - Toscana, Emilia
Romagna, Umbria, Marche e Veneto, di fatto - dove quello che burocraticamente si
chiama “il territorio” è da anni potenziato e altre, come la Lombardia dove si
prova, con scarsi successi, a farlo. Nel resto del Paese non c’è proprio niente.
Eppure non si può fare diversamente. E sulla carta sembra persino semplice:
organizzare i medici di base di modo che servano i loro malati 24 ore al giorno,
in luoghi capaci di gestire piccolissime patologie, come l’influenza; avere
assistenza domiciliare per i malati cronici e gli anziani e presidi capaci di
accogliere i dimessi dagli ospedali e bisognosi di riabilitazione o altra
assistenza.
A leggere il Rapporto Oasi della Bocconi, invece, emerge chiaramente che
mezz’Italia è sanitariamente al crack: l’austerità ha rimesso in gran parte i
conti in ordine ma ha creato una crescente inadeguatezza dei servizi. La buona
notizia, però, c’è. Ed è nella legge di stabilità: per la prima volta dal 2011
il Fondo sanitario cresce, di due miliardi. Non solo: le strutture sanitarie del
Paese indicheranno dove e come fare i tagli della spending review; e il governo
ha promesso che tutti i denari risparmiati saranno reinvestiti nel Ssn. «È una
grande occasione. Ci dà il fiato per poter fare le riforme», chiosa il
presidente dell’Agenas (l’agenzia per i servizi sanitari regionali) Giovanni
Bissoni. Un’occasione, dunque. Ma per capire il da farsi serve un passo
indietro. E bisogna tornare ai dati della Bocconi.
OCCHIO AI SOLDI, NON AI MALATI
Perché per la prima volta è proprio il dossier
degli economisti più blasonati d’Italia a indicare il disastro della gestione
economicistica della sanità. A partire dagli effetti dei cosiddetti Piani di
rientro imposti alle regioni con deficit monster (Abruzzo, Calabria, Campania,
Lazio, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia). I bocconiani hanno fatto i conti e
misurato che «il disavanzo annuale del Ssn è notevolmente ridimensionato, sceso
dall 17, 3 per cento del 2011 allo 0,9. E questo anche perché scende il deficit
sanitario delle regioni con Piano di rientro». Ma, continua Elena Cantù,
coordinatrice del Rapporto Oasi: «Questo non trova corrispondenza sul piano
della capacità di rispondere ai bisogni e di erogare servizi. I Piani di rientro
non sembrano sin ora stati capaci di attivare processi di positiva evoluzione
organizzativa».
Insomma, messe sotto tutela dal governo perché troppo indebitate le regioni
spendaccione hanno risposto innanzitutto imponendo tasse locali, e poi
sforbiciando a caso gli ospedali senza organizzare l’assitenza ai malati che
deve esserci fuori dai loro cancelli. E questo perché, sottolinea ancora
Giovanni Bissoni: «I Piani hanno avuto la finalità di di ridurre la spesa. Ma
hanno promosso pochissimo la riorganizzazione dei servizi come invece avrebbero
dovuto. Così è accaduto che, per lo più, essi sono peggiorati». E non ci si deve
stupire a leggere nel rapporto fatto dalla stessa Agenas, che in Campania e
Calabria l’assistenza negli ospedali è peggiore che altrove, o che un grande
nosocomio come quello di San Giovanni Rotondo in Puglia è costretto a sospendere
l’erogazione di una terapia salvavita per l’epatite C, come hanno denunciato i
malati raccolti nell’associazione Epac.
L’austerità ha fatto molto più male nelle regioni del centro-sud; il risultato è
che oggi il nostro è il Paese con maggiore disparità territoriale in Europa, in
materia di sanità. E, sintetizza Bissoni: «L’Italia è divisa in due ancora più
di ieri. Questi tre anni sono stati terribili per tutti. Dalle Marche in su i
sistemi hanno più o meno retto, altrove, purtroppo, no». E non è neppure che gli
italiani abbiano deciso di spendere di tasca propria per curarsi. Anzi: «La
spesa privata è calata. E le differenze tra le regioni in merito non sono legate
al funzionamento della sanità pubblica, ma ai diversi livelli di reddito. Le
regioni meridionali sono infatti quelle in cui i cittadini spendono meno anche
in sanità privata», conclude Elena Cantù. Insomma: dove il reddito è più basso,
la gente semplicemente non si cura.
MANO TESA DEL GOVERNO
Ma i soldi messi a disposizione dal Patto di
stabilità sono oggi l’occasione per invertire la rotta: «Adesso bisogna
utilizzare questa boccata di ossigeno per accelerare la riorganizzazione»,
sentenzia Bissoni: «E puntare dritti all’obiettivo che ci si è posti per avere
una sanità moderna: ridurre ancora i posti letto in ospedale, che devono
scendere a 3,7 per mille abitanti, riorganizzando i Pronto soccorso, medici di
base e le strutture capaci di accogliere degnamente anziani e lungodegenti».
È un rebus senza soluzione: senza ridurre gli
accessi agli ospedali, non si riesce a renderli altamente specializzati e capaci
di rispondere al meglio a malattie gravi - dal cancro a quelle neurologiche, a
quelle dovute a traumi - perché non ci sono soldi e i sanitari sono ingolfati da
bambini con l’influenza e anziani in stato confusionale. I dati Oasi ci mostrano
che ancor oggi i ricoveri degli over-65 vanno ben oltre le esigenze reali (vedi
tabella qui sopra). Ma contemporaneamente se non ci sono i denari per offrire
un’alternativa, fare un accordo coi dottori di base e convincerli a creare i
presidi attivi H24 ad esempio, medici ospedalieri e cittadini non sanno che
fare. Ed è sempre l’Oasi a mostrare che ancora oggi dai reparti di chirurgia
(dove dovrebbero trovarsi persone che hanno avuti interventi chirurgici seri)
vengono dimessi malati che hanno, invece, ricevuto solo cure mediche, magari
banali (vedi tabella qui sopra). Nelle more di questo rebus imperversano “gli
amministratori” che danno seguito al mandato di «ridurre i posti letto» e di
«riorganizzare la rete ospedaliera»: i due mantra che hanno portato sin qui al
disastro nel centro-sud e una serie incessante di disservizi in tutti il Paese.
Perché attuati senza tenere presente quella che in sanitese si chiama
«operatività delle reti cliniche». E che prende forma, ad esempio, nel paradosso
lombardo: la giunta di Maroni dovrebbe chiudere 170 piccoli ospedali perché la
riorganizzazione firmata Balduzzi chiede di eliminare quelli con meno di 120
letti. Ma se ciò accadesse, la regione finirebbe con l’avere solo 2,59 posti per
mille abitanti, ben al di sotto di quanto posto come obiettivo dallo stesso
decreto.
«Per mettere in ordine la sanità serve un grande sostegno progettuale. Che non
c’è», conclude Bissoni. Le fila le tira il ministero dell’Economia. Quello della
Salute può solo sgridare gli inadempienti, è un ministero debole. Beatrice
Lorenzin ha un bel da annunciare un nuovo e potente Patto per la salute entro la
primavera. Tutti sanno che poi ad attuarlo saranno i Governatori, ognuno per i
fatti sui. Che se la vedranno con Saccomanni o chi per lui. Insomma, rischia di
prevalere ancora la logica dei conti in ordine a scapito dei malati. Come ben
dimostrano gli effetti del blocco del turn over tra medici e infermieri che
raccontiamo nelle pagine che seguono.
Ha collaborato Antonino Michienzi
8 gennaio
Roma è in dissesto ma
continuano inarrestabili le perdite delle controllate del Comune e le assunzioni
clientelari
Nella capitale sono in perdita anche le farmacie comunali ma sono tutte le 26
società e la miriade di controllate a contribuire alla voragine nei conti di
Roma (1,2 miliardi di rosso) - Ma le macchine clientelari della politica sono
sempre attive e le assunzioni e le poltrone si moltiplicano...
Sergio Rizzo per il "Corriere della Sera"
È dura da credere. Ma c'è un farmacista, in Italia, che vendendo le medicine
riesce perfino a rimetterci una barca di soldi. Si tratta del Comune di Roma. Le
farmacie comunali hanno 362 dipendenti e il Campidoglio ha già tirato fuori 15
milioni per tappare i buchi pregressi. Ma per rimetterle in sesto ce ne vorranno
altri 20. Dice tutto la verifica affidata alla Ernst & Young che si è resa
necessaria per comprendere la reale situazione.
Gli esperti hanno scoperto uno scostamento di 7,3 milioni nell'attivo rispetto
ai dati scritti nel bilancio 2011. Quasi tre milioni solo la differenza fra le
«rimanenze di magazzino» contabilizzate e quelle accertate: 9,1 milioni contro
6,2. Sono cifre rivelate da un dossier che il consigliere comunale radicale
Riccardo Magi sta per pubblicare sul sito internet Opencampidoglio.it. Il primo
di una serie di fascicoli scottanti dedicati allo scenario impressionante delle
municipalizzate romane.
Ventisei società, più una marea di controllate: oltre cinquanta quelle di Acea
(energia e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti). Tre gruppi che da soli
hanno qualcosa come 31.338 dipendenti, ovvero l'85 per cento del personale di
tutte le partecipate comunali, che si aggira intorno alle 37 mila unità. Circa
diecimila in più rispetto ai 26.800 dipendenti degli stabilimenti Fiat in
Italia. Senza contare i 25 mila dipendenti diretti dell'amministrazione
comunale.
Sostengono i tecnici che Roma Capitale ha un disavanzo strutturale di circa 1,2
miliardi l'anno. Ed è proprio sulla galassia delle società comunali che gravano
le responsabilità maggiori di una situazione, in assenza di interventi, ai
limiti del dissesto. L'Atac, per esempio. Con un numero di stipendi paragonabile
a quello dell'Alitalia ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi.
Negli ultimi cinque anni si sono avvicendati al suo vertice ben quattro
amministratori delegati e un numero imprecisato di presidenti e consiglieri,
senza riuscire a rimetterla in carreggiata. Il contratto di servizio costa al
Comune una cifra che si aggira intorno ai 400 milioni l'anno, ma per il 2014 la
richiesta era di oltre 500.
La verità è che queste aziende, e non è certo una particolarità di Roma, sono
state spesso interpretate dalla politica, anche con pesanti complicità
sindacali, alla stregua di poltronifici o gigantesche macchine clientelari,
piuttosto che strumenti per fornire servizi essenziali alla città da gestire
oculatamente.
Salvo poi trovarsi di fronte a sorpresine al pari di quella spuntata nell'ultimo
bilancio dell'Ama, che dà notizia di una raffica di arbitrati innescati dalla
società titolare della discarica di Malagrotta. Alcuni dei quali già conclusi
nel 2012 in primo grado con la condanna dell'azienda pubblica a pagare alla
ditta che fa capo a Manlio Cerroni, tenetevi forte, la bellezza di 78,3 milioni
di euro.
Ma leggere l'elenco delle controversie in cui è incappata la municipalizzata dei
rifiuti, indebitata con le banche per 670 milioni, somma paragonabile ai ricavi
di un anno, e capace di assumere 1.518 persone fra il 2008 e il 2010, strappa
anche qualche amaro sorriso: quando salta fuori che fra le innumerevoli cause in
cui è protagonista l'Ama ce n'è persino una con l'Atac. Che va avanti da almeno
sette anni, fra sentenze ricorsi e controricorsi, per la gioia degli avvocati. E
chissà quanto durerà ancora.
Il tempo del presidente Piergiorgio Benvenuti, esponente di Fratelli d'Italia,
scade invece giovedì 9 gennaio, quando l'assemblea dovrà nominare il suo
successore: incrociamo le dita. Al contrario il presidente dell'Acea Giancarlo
Cremonesi, nominato dal centrodestra, seduto su una dozzina di poltrone metà
delle quali pubbliche nonché socio di un gruppo di imprese edili e immobiliari,
è in una botte di ferro. Questo perché in piena campagna elettorale la
precedente amministrazione comunale procedette elegantemente al rinnovo dei
vertici, confermando in blocco tutto il consiglio.
Con clausole tali che la sostituzione prematura comporterebbe comunque il
pagamento dei loro emolumenti fino all'aprile 2016. E che emolumenti. Al
presidente Cremonesi, 408 mila euro l'anno. All'amministratore delegato e
direttore generale Paolo Gallo, un milione 318 mila euro più un appartamento da
4.300 euro al mese ai Parioli e automobile adeguata.
Agli altri sette consiglieri, una media di 120 mila euro ciascuno. Chi sono? Due
rappresentanti del socio francese Gdf, una dirigente del Comune, l'ex
parlamentare del Pdl ed ex assessore della giunta Alemanno Maurizio Leo,
Francesco Caltagirone junior, il consorte dell'ex Guardasigilli Paola Severino
nonché ex commissario Consob (l'Acea è quotata in Borsa) Paolo Di Benedetto, e
il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Da una società del genere sarebbe naturale attendersi utili a palate. Invece nel
2012 i profitti netti sono stati di appena 77 milioni e anche se nei primi nove
mesi del 2013 hanno superato i 100, restano striminziti. Certi fatti, del resto,
parlano da soli. Negli ultimi cinque anni i debiti sono cresciuti di circa un
miliardo, toccando 2 miliardi e mezzo. Ed è di qualche mese fa la scelta di
fondere due società energetiche del gruppo, una delle quali (Acea energia spa)
ha accumulato in 18 mesi perdite per 56 milioni.
Ma tutto va avanti come nulla fosse. Almeno se è vero che l'ufficio del
personale diretto da Paolo Zangrillo, incidentalmente fratello del medico
personale di Silvio Berlusconi, ha proceduto qualche giorno fa all'assunzione di
un nuovo capo della comunicazione nella persona di Stefano Porro, ex capoufficio
stampa del ministro dello Sviluppo dell'ultimo governo del Cavaliere, Paolo
Romani, Passera e Zanonato.
Accade mentre è da un mese senza incarico il vecchio responsabile Maurizio
Sandri, licenziato due anni fa dopo essere stato parcheggiato a lungo su un
binario morto per ragioni politiche (aveva collaborato in passato con
amministrazioni di centrosinistra), e reintegrato all'inizio di dicembre dal
giudice del lavoro.
E accade in una struttura, quella delle relazioni esterne, dove sono in 25.
Compreso il capo ufficio stampa Salvo Buzzanca, incidentalmente fratello minore
dell'attore Lando Buzzanca nonché, ha ricordato Ferruccio Sansa sul Fatto
Quotidiano, zio di Massimiliano Buzzanca: figlio di Lando e compagno di Serena
Dell'Aira, collaboratrice di Cremonesi.
Spread ai minimi, ma c'è
poco da gioire. I Paesi più deboli escono dall'emergenza, ma il prezzo è
salato: salari giù e poco lavoro
In Grecia, Spagna e Portogallo, la deflazione è già una realtà, con i prezzi
a zero, o in negativo, già incorporati nelle proiezioni dei prossimi due anni.
Si tratta di un effetto annunciato, anzi, voluto: il frutto avvelenato dei
programmi di austerità è il calo di prezzi e salari, che ridia competitività
alle esportazioni….
Maurizio Ricci per ‘La Repubblica'
Un
Natale dell'euro senza crisi dell'euro non si vedeva da almeno quattro anni. Per
la prima volta dal 2009, sotto l'albero, non si parla di default, bancarotta,
salvataggi. Da quando Mario Draghi, un anno e mezzo fa, è riuscito a far
muovere, per una volta, la Bce come una vera banca centrale, dichiarandosi
pronto a interventi illimitati, per salvare l'euro, la crisi finanziaria si è
spenta. Le economie più deboli del continente mostrano per intero le vistose
cicatrici di tre anni di brutale austerità, e tuttavia si comincia a parlare di
ripresa.
Una ripresa assai pallida, verso la quale fra i più pessimisti ci sono proprio
gli organismi ufficiali, come Bce e Fmi: una crescita, nell'eurozona,
dell'1-1,1% nel 2014, dell'1,4-1,5% nel 2015, le loro previsioni. Se hanno
ragione gli analisti di Merrill Lynch, secondo i quali l'economia della zona
euro deve crescere almeno del 2% l'anno per far scendere di un punto la
disoccupazione, oggi oltre il 12%, le chiacchiere di Natale non lasciano spazio
a brindisi.
Paradossalmente, del resto, notano altri analisti, questa volta di Barclays,
buona parte di questa ripresa è dovuta all'allentamento dell'austerità: nel
2014, la stretta sui bilanci pubblici sarà meno severa di quanto è avvenuto nel
2012 e nel 2013 e questo darà un po' di fiato in più all'economia.
«Effettivamente - ha subito notato sarcasticamente il premio Nobel Paul Krugman
- quando uno smette di darsi martellate sulle dita, prova subito un certo
sollievo».
Ma più inquietante resta il rischio di deflazione. Nelle previsioni Bce, solo lo
scenario di più sfrenato ottimismo porta, nel 2015, i prezzi a salire del 2%,
che dovrebbe essere l'obiettivo istituzionale dell'istituto di emissione.
Nell'ipotesi peggiore, i prezzi europei salirebbero, nel 2015, solo dello 0,5%:
al netto dei margini di errore statistico, inflazione zero. Ma questa è,
comunque, una media.
Nei paesi deboli, in Grecia, in Spagna, in Portogallo, la deflazione è già una
realtà, con i prezzi a zero, o in negativo, già incorporati nelle proiezioni dei
prossimi due anni. In qualche modo, del resto, si tratta di un effetto
annunciato, anzi, voluto: il frutto avvelenato dei programmi di austerità è
esplicitamente il calo di prezzi e salari, che ridia competitività alle
esportazioni.
E, fra le luci di questo inizio d'anno, c'è, in effetti, lo slancio dell'export
della periferia europea. Molto si discuterà, nei prossimi anni, per stabilire se
questi benefici dell'export siano stati superiori o inferiori ai danni che la
deflazione comporta per il tessuto economico di un Paese. Intanto, però, per i
Paesi a rischio dell'eurozona, l'emergenza sembra finita. Fra luci ed ombre.
IRLANDA.
Dublino viene indicata come la prova vivente che i salvataggi funzionano. Da
questo dicembre, l'Irlanda non è più sotto l'asfissiante tutela delle autorità
europee e adesso è tornata a finanziarsi autonomamente sui mercati. Nonostante
il peso del debito pubblico e di quello delle banche, l'economia sembra
destinata a svilupparsi a tassi (intorno al 2%) fra i più vivaci dell'eurozona e
la disoccupazione è in discesa.
Il luccichìo, però, può ingannare. La disoccupazione scende, anche perché i
giovani sono emigrati in massa. L'Irlanda è l'unico Paese in cui gli uffici di
collocamento hanno cominciato a mandare lettere ai disoccupati, invitandoli a
cercar lavoro all'estero. Anche i dati sull'economia vanno accolti con cautela.
Un quinto del Pil va nelle tasche delle multinazionali, come Google o Microsoft.
Al netto delle multinazionali, l'economia è andata indietro.
SLOVENIA.
Due anni fa, sarebbe stata l'innesco di una crisi bancaria, come quella
irlandese o quella spagnola. Invece, la calma che regna sui mercati finanziari e
la fine della speculazione sull'euro hanno consentito a Lubiana di contenere i
danni ed evitare un salvataggio europeo. I buchi dei bilanci delle banche
slovene saranno chiusi facendo ricorso a risorse nazionali e anche a emissioni
sui mercati internazionali, mentre il buon ritmo dell'export dovrebbe far uscire
il paese dalla recessione entro l'estate.
GRECIA.
Nel laboratorio del-l'austerità, la Grecia è stata la cavia sottoposta alla
terapia-shock. Anni di deflazione e recessione non si sono ancora conclusi,
anche se la caduta rallenta. Il turismo estero, però, è risalito quest'anno a
ritmi del 15-17% e anche le esportazioni, a sorpresa, sono in crescita di oltre
il 3%. Soprattutto, a partire da quest'anno, il bilancio pubblico, dopo tanti
tagli, torna in attivo, al netto degli interessi sul debito.
PORTOGALLO.
Dopo l'Irlanda, il Portogallo potrebbe essere il secondo paese ad uscire dai
salvataggi europei, già entro la prossima estate. L'economia ha smesso di
contrarsi, l'occupazione mostra segni di ripresa. Soprattutto, le esportazioni
hanno cominciato
a tirare: negli ultimi tre anni sono cresciute del 25 per cento, più di chiunque
altro in Europa.
SPAGNA.
All'ultimo conto, i disoccupati in Spagna sono diminuiti di circa 2.500 unità.
Un po' poco, in un paese che, di disoccupati, ne ha quasi 5 milioni, più di un
lavoratore su quattro. Ma nessun paese europeo, nell'ultimo anno, ha attirato
più investimenti dall'estero.
L'inflazione è a zero e i salari pure, con un forte recupero di competitività:
le importazioni sono crollate, mentre le esportazioni sono cresciute del 20%
negli ultimi tre anni, contro il 15% dei tedeschi. Metà del miglioramento della
competitività (il costo del lavoro si è ridotto del 3,2% negli ultimi 2 anni) è
merito, secondo l'Ocse, delle riforme del lavoro del governo Rajoy per la
flessibilità di orari e salari in azienda. Le stesse riforme, assicura l'Ocse,
hanno anche dato impulso all'assunzione a tempo indeterminato: circa 25 mila
nuovi posti fissi al mese, al posto, soprattutto, dei lavori a tempo
determinato.
7
gennaio
na
Faida Italia! In Campania e
Calabria pronte le scissioni dopo le nomine dei nuovi coordinatori regionali
sponsorizzati dall'ex telecafona Francesca Pascale e dalla badante di Palazzo
Grazioli Maria Rosaria Rossi
Un deputato attacca Lady-calippo: “Va avanti
chi porta profumi e mozzarelle, addio logica della politica. le prossime
candidature le sceglie Dudù?” - Il record di Domenico De Siano: ha ricoperto
contemporaneamente gli incarichi di consigliere comunale, provinciale, regionale
e parlamentare - Ha iniziato andreottiano e ora tifa “Forza Gnocca”...
Dagoreport
Da "Farsa Italia" a "Faida Italia". Le nomine,
sabato scorso, di sette nuovi coordinatori regionali hanno scatenato la guerra
nel partito, soprattutto in Campania e in Calabria, dove più che altrove aleggia
lo spettro della scissione.
Iniziamo dalla regione dell'ex Telecafona, oggi potente fidanzata del Cav e
suggeritrice di uomini e strategie. Il prescelto per la guida del nuovo-vecchio
partito è Mimmo De Siano, ex andreottiano negli anni Ottanta, famoso per aver
ricoperto contemporaneamente i ruoli di consigliere comunale, provinciale,
regionale e parlamentare polverizzando ogni record di acchiappa-poltrone.
Sponsorizzato da Francesca Pascale e dalla "badante" di Palazzo Grazioli, Maria
Rosaria Rossi, De Siano è stato attaccato frontalmente in un'intervista a "Il
Mattino" dal deputato cosentiniano Enzo D'Anna, che spingeva per la nomina
dell'avvocato Carlo Sarro: "Vogliamo capire quali sono i meccanismi decisionali,
se sono politici o rispondono ad altre logiche - ha detto D'Anna - se decide
Berlusconi è una cosa, se decide la Pascale è un'altra.
Il problema è che non c'è più la logica della politica, prevalgono altre
ragioni, di chi porta i profumi o la mozzarella". Infine, la stoccata: "Non
credo che accetteremo il ruolo di vicecoordinatore, ma di carrieristi ne
troveranno tanti, la Pascale avrà qualche parente a Napoli". Bum.
Le prime grane di De Siano saranno non solo tenere a bada gli agitati sei
parlamentari cosentiniani, ma anche ricompattare il gruppo forzista in Consiglio
regionale, dove 7 consiglieri vicini a Nick 'o mericano hanno disertato
l'approvazione del bilancio, a fine anno, mettendo a rischio il governatore
Stefano Caldoro che si è salvato grazie al suo stesso voto. Nei loro piani c'è
un gruppo autonomo e il rimpasto (politico) di giunta che Caldoro vede col fumo
negli occhi. Anche se, quest'ultima richiesta, trovava d'accordo, a inizio
legislatura, proprio De Siano quand'era consigliere regionale. E ora come ne
esce?
E passiamo alla Calabria, dove è stata nominata la "alfaniana" Jole Santelli,
amica anche lei della Pascale e della Rossi. Da incorniciare una sua intervista
nell'ottobre scorso al "Corriere della Sera" in cui raccontava la vita da
"piccole donne" a Palazzo Grazioli: "Cosa? Ma no, ma quale 'cerchio magico',
siamo solo un gruppo di amiche. Ci vogliamo bene, ci conosciamo da un sacco di
tempo.
E insieme facciamo cose semplici, banali... l'altra sera, per dire, io e Barbara
Saltamartini eravamo a cena in un locale con due nostri amici. A un certo punto
però mi telefona la Maria Rosaria Rossi, e mi fa: io e Francesca siamo a
Grazioli, voi? Ah, capito, vabbé, allora veniamo a berci una cosa lì pure noi. E
dieci minuti dopo si sono presentate". Carucce.
La nomina della Santelli - che non ha mai rinnegato la sua vicinanza politica e
l'amicizia con il "traditore" Angelino Jolie - ha fatto infuriare i deputati
Pino Galati e Nino Foti che ora potrebbero lavorare, sottotraccia, per farle la
guerra forti dei consiglieri regionali e dei sindaci che controllano in
Calabria.
L'investitura della Jole, come quella di De Siano, è arrivata nel week end,
nonostante la pausa di riflessione che B. aveva annunciato nel corso dell'ultimo
incontro a Grazioli con Denis Verdini, Paolo Romani, Giovanni Toti, Daniele
Capezzone e Maria Rosaria Rossi. Sapeva, il Cav, che soprattutto in Campania la
situazione era esplosiva perché se avesse scontentato la fidanzatina sai che
sceneggiate napoletane... Invece, sabato pomeriggio è arrivato il blitz.
Alla fine, forse ha ragione quel parlamentare campano che, dietro anonimato,
dice quel che tutti (o quasi) pensano in Campania e in Calabria: "Questo
coordinatore lo hanno scelto Berlusconi e la Pascale. Il prossimo lo sceglierà
Dudù?".
Arriva la stangata per gli
automobilisti. Tutti i rincari, dalla patente ai pedaggi
L'aumento è su ogni fronte: almeno 26 euro in
più per il rinnovo della licenza di guida, 87 euro per i caselli autostradali e
assicurazione più cara per un milione e 200mila italiani. Senza dimenticare il
rialzo continuo dei prezzi dei carburanti, che non risparmia neanche il gpl
di Francesco Tamburini
Con il nuovo anno arriva una vera stangata per gli
automobilisti italiani. I rincari per chi si mette al volante sono su tutti i
fronti, dal costo per il rinnovo della patente ai pedaggi autostradali, passando
per l’assicurazione. Senza dimenticare il rialzo continuo dei prezzi dei
carburanti, che non risparmia neanche il gpl.
Almeno 26 euro in più per il rinnovo della patente
L’ultimo rincaro denunciato dal Codacons riguarda il costo del rinnovo della
patente, che “salirà a partire dal 9 gennaio di almeno 26 euro“. L’associazione
a tutela dei consumatori spiega che “nonostante i costi della procedura siano
rimasti formalmente invariati (25 euro, 16 per la vecchia marca da bollo e 9
euro per i diritti di motorizzazione), vanno aggiunti 6,80 euro per la posta
assicurata da saldare al momento del ritiro della patente presso l’ufficio
postale (mentre prima il vecchio bollino adesivo arrivava direttamente a casa),
15 euro in più per la visita medica (essendo aumentati i compiti dei medici) e
minimo 4 euro per le nuove foto tessera (se si sceglie la macchinetta e non si
va da un fotografo)”.
Il rincaro dei pedaggi costerà 87 euro a famiglia
Continuano a crescere anche i prezzi dei pedaggi autostradali, con un aumento
medio al casello scattato con l’anno nuovo del 3,9 per cento. Il rincaro
maggiore si registra sulla Strada dei Parchi (+8,28%), seguita dalle Autostrade
Centropadane (+8,01%), mentre non ci sarà nessuna variazione dei pedaggi per il
Consorzio Autostrade Siciliane, le Autostrade Meridionali e la Asti-Cuneo. “Tra
costi diretti e indiretti gli aumenti dei pedaggi autostradali scattati dal
primo gennaio comporteranno un aggravio di 87 euro annui a famiglia”, affermano
Adusbef e Federconsumatori.
Gli aumenti, quindi – sottolineano le due associazioni dei consumatori –
“risultano di gran lunga superiori al tasso di inflazione e avranno
ripercussioni pesanti su tutti i prezzi, andando a sommarsi alla ormai
insostenibile pressione fiscale”. Mentre il ministro delle Infrastrutture,
Maurizio Lupi, commenta l’aumento dei prezzi dicendosi “molto preoccupato per
l’aumento delle tariffe, che è un peso per famiglie e imprese. Ma le convenzioni
siglate nel 2007 prevedono degli aumenti in caso di calo del traffico”. E
precisa che “i gestori chiedevano aumenti del 4,9%, noi abbiamo ottenuto il
3,89%, generando un risparmio di 50 milioni”.
Benzina più cara di 1,3 centesimi, vola anche il gpl
E, se al casello il conto è sempre più salato, non c’è tregua neanche alle
stazioni di servizio. Il prezzo della benzina, secondo le rilevazioni di
Staffetta Quotidiana, è salito in media di 1,3 centesimi rispetto all’inizio del
2013 e anche quello del gpl è schizzato di 4,2 centesimi, mentre il diesel è
sceso di 1,3 centesimi e il metano è aumentato di 0,3 centesimi. Andamento
inverso, invece, sui mercati internazionali, dove si sono registrate soltanto
flessioni: -2,2 centesimi al litro per la verde e -1,7 centesimi per il diesel.
“Una differenza dovuta in larga parte – spiega Staffetta Quotidiana - al
rafforzamento dell’euro sul dollaro, visto che i prezzi in dollari sono
aumentati, rispetto a fine 2012, sia per la benzina che per il diesel”.
Il rincaro è stato particolarmente marcato a dicembre. Il prezzo della benzina,
secondo quanto emerge dalle stime preliminari Istat sull’inflazione, è aumentato
dell’1,3% rispetto al mese precedente, mentre il prezzo del gasolio per mezzi di
trasporto ha segnato un rialzo su base mensile dell’1,2% e i prezzi degli altri
carburanti, per effetto del rincaro del gpl, sono cresciuti del 5,1 per cento.
“Benzina e gasolio hanno fatto registrare in questi giorni forti rincari,
raggiungendo una media di 1,796 euro al litro la verde (e punte di 1,830
euro/litro) e 1,726 euro al litro il diesel”, ha avvertito il Codacons a fine
dicembre, sottolineando che “il vero allarme riguarda il gpl, che ha sfondato
quota 0,900 euro/litro, segnando un aumento del 15% rispetto al mese di novembre
e una maggiore spesa per un pieno di 35 litri superiore ai 4 euro”.
Rc auto, rincari in vista per 1,2 milioni di italiani
Un discorso a parte riguarda infine l’assicurazione. Se il decreto Destinazione
Italia ha messo in cantiere una serie di iniziative volte a ridurre i premi
assicurativi degli automobilisti (anche se l’introduzione della scatola nera
annunciata in pompa magna dal governo non è una novità), per molti italiani
l’anno nuovo si apre all’insegna dei rincari: secondo le rilevazioni del portale
Facile.it saranno quasi un milione e 200mila gli italiani che, responsabili di
un incidente nel corso dell’ultimo anno, dovranno pagare un premio assicurativo
più elevato.
Il sito, che ha analizzato oltre 500mila preventivi effettuati negli ultimi 30
giorni, ha rilevato rispetto all’anno scorso un nuovo calo del numero di
italiani penalizzati per aver causato un sinistro: in percentuale, questi
guidatori rappresentano solo il 3,67% del totale degli utenti alle prese con il
rinnovo. In termini assoluti, spiega Mauro Giacobbe, responsabile business unit
assicurazioni di Facile.it, “questa contrazione non è dovuta all’aumento di
italiani virtuosi, quanto piuttosto alla riduzione tanto del parco auto
circolante quanto dei chilometri percorsi in un anno dagli automobilisti”.
3
gennaio
Il grande dubbio degli
analisti USA: come conciliare l'alto indebitamento della Fiat e le sfide di
innovazione dei prodotti che richiedono capitali? Per mobilitare risorse nuove
bisogna rivolgersi al mercato e rimettere in discussione gli assetti di
controllo
Interpellati dal “Wall Street Journal”, i mejo cervelli d’America si chiedono
come sarà possibile, per gli Agnelli, minimizzare il ricorso ai propri capitali
e al tempo stesso di tutelare un controllo societario - Al gruppo serve
innovazione tecnologica e di prodotto e rafforzamento globale: cose per cui
servono soldi…
Federico Rampini per ‘La Repubblica'
Non
ancora abbastanza globale. Debole nella ricerca e nell'innovazione. In Italia
Sergio Marchionne passa per essere un vero americano; negli Stati Uniti non ha
finito di passare gli esami.
I giudizi sull'accordo con cui porta a casa il controllo definitivo sulla
Chrysler sono largamente positivi. Ma il Wall Street Journal elenca con
puntiglio tutti i punti interrogativi sul futuro del gruppo automobilistico
ormai integrato. L'accordo con il sindacato Veba, secondo il quotidiano
economico-finanziario "non fa perdere il sonno ai rivali europei, perché
Marchionne ha ancora molto lavoro da fare prima che Fiat sia in grado di trarre
tutti i vantaggi dalla nuova capacità produttiva globale". Tra le maggiori
incertezze, risalta il fatto che "Fiat dipende troppo da tre paesi, Stati Uniti,
Italia e Brasile", nonché la "scarsità degli investimenti in ricerca e
sviluppo".
Su quest'ultimo punto è significativo che la critica del più grande quotidiano
conservatore americano riecheggi quella dei sindacati italiani. L'accordo col
sindacato metalmeccanico americano, che cede la sua quota del 41% controllata
tramite il fondo pensionistico e sanitario Veba, è anzitutto il coronamento di
una felice triangolazione voluta da Barack Obama nel 2009. Criticatissimo dalla
destra americana che lo accusava di ordire nazionalizzazioni, Obama nel momento
più buio della crisi economica immaginò un intervento pubblico a tempo
determinato, con un obiettivo e una tempistica molto chiari.
Salvare dalla bancarotta General Motors e Chrysler, limitare i danni sociali,
favorire una nuova strategia industriale. Chiamò il sindacato a fare la sua
parte con una cogestione di stampo "socialdemocratico tedesco": sacrifici su
buste paga e pensioni, in cambio di una quota consistente di azionariato, e
quindi una voce in capitolo sul futuro dell'azienda.
Andò in cerca di capitali privati (trovando il socio italiano nel caso della
Chrysler), con una condizione precisa: il rinnovamento della gamma produttiva
per ridurre le emissioni di CO2e rilanciare l'auto su basi più sostenibili. Oggi
il bilancio di quella triangolazione tra governo, sindacati e capitalisti
privati, è ottimo.
Il contribuente ha recuperato quasi tutti i fondi mobilitati nel 2009.
L'industria si è risanata e rilanciata. Il danno sociale è almeno in parte
riassorbito. L'occupazione torna a crescere anche nel manifatturiero. Per una
volta il "socialdemocratico Obama" ha qualcosa da insegnare agli europei anche
sul terreno della gestione delle grandi crisi settoriali, dove l'America si è
comportata diversamente dai modelli ultraliberisti del suo stesso passato.
Su Marchionne i giudizi americani sono ambivalenti. Lui viene promosso a pieni
voti per l'ingegneria finanziaria: "Astutamente il costo dell'operazione (cioè i
4,3 miliardi di dollari versati al fondo sindacale per ricomprargli la sua
quota, ndr) è suddiviso e in parte ricade sulla stessa preda cioè la Chrysler",
osservano gli analisti interpellati dal Wall Street Journal.
E tuttavia l'indebitamento del gruppo resta elevato, "il più alto d'Europa dopo
Peugeot", come risultato di un montaggio che doveva risparmiare risorse
dell'azionista originario (famiglia Agnelli). Come spesso accade nelle
operazioni d'ingegneria finanziaria che hanno qualche impronta digitale
italiana, i capitalisti cercano di minimizzare il ricorso ai propri capitali e
al tempo stesso di tutelare un controllo societario.
Questo equilibrismo non sarà compatibile a lungo con le due sfide che tutti gli
osservatori americani indicano: quella dell'innovazione tecnologica e di
prodotto; quella del rafforzamento globale, soprattutto in Cina e altri mercati
emergenti.
Tutt'e due le sfide richiedono capitali, che la famiglia Agnelli non ha o non
vuole mettere al servizio di questo progetto industriale. Per mobilitare risorse
nuove in dimensioni adeguate bisogna rivolgersi al mercato e rimettere in
discussione gli assetti di controllo.
Nell'analizzare il posizionamento geo-economico del gruppo Fiat-Chrysler, le
analisi sono unanimi. Il punto di forza è dato dal mercato Usa. Il punto
interrogativo è il Brasile, un paese incappato in recenti turbolenze. Il punto
debole è l'Europa, mercato tuttora agonizzante. Qui è inevitabile ricordare che
la cura Obama ha funzionato, con quella triangolazione virtuosa Stato-privati-
sindacato, anche perché sullo sfondo era in azione un'altra cura,
macroeconomica, con la collaborazione decisiva della banca centrale.
Grazie a una crescita economica ormai triennale, e alla ripresa della domanda di
consumi, gli acquisti di auto sono ripartiti alla grande sul mercato americano.
Non c'è aiuto migliore che un governo possa dare ai settori industriali in
crisi.
Più ancora degli incentivi e degli ammortizzatori sociali - che Obama ha usato
con vigore ma a tempo determinato e data di scadenza ravvicinata - il
lubrificante della crescita economica generale è il vero segreto di un rilancio
industriale riuscito. Governo e banca centrale, azionisti privati, lavoratori:
negli Stati Uniti dal 2009 ad oggi ciascuno ha fatto la sua parte per
risollevare l'industria automobilistica nazionale da un disastro che allora
sembrava irrecuperabile.
2 gennaio
2013, la peggio politica
Francesco Bonazzi per Dagospia
1.
ALFANAYEV - Il Banana non gli ha lasciato fare le primarie e a febbraio si è
anche candidato al suo posto. Lui si è sentito tradito, ma dovrebbe fargli un
monumento perché senza il Cavaliere il Pdl si sarebbe fermato al 15%. Adesso che
ha lasciato "la casa del Padre" e ha salvato il governino di Mezze intese, per
il suo Nuovo centrodestra si accontenterebbe anche solo del 10%.
Passerà il 2014 a pregare che non si voti e il resto della vita a sperare di non
fare la fine di Gianmenefrego Fini. La sua indimenticabile prestazione sul caso
Ablyazov, con il Viminale ridotto a una dependance dell'ambasciata kazaka a
Roma, resterà nella storia della decadenza italica. Alla fine, bisogna ammettere
che in quell'occasione il ministro degli Interni Alfano è stato salvato dal
vicepremier Alfano e dal segretario del Pdl, Alfano. Tra tutti e tre, voto: 4,5.
link to media galleryletta
2. ASPENIO LETTA - Inflessibile con Giuseppa Idem, straordinariamente
comprensivo con gli altri ministri, specie se protetti da Re Giorgio
(Cancellieri) o Drago Draghi (Saccomanni). Ha incassato la prima fiducia
garantendo che il suo sarebbe stato un semplice governo di servizio, ma dopo un
paio di mesi si era già prenotato per l'intera legislatura.
Ha dato sicurezza e coraggio a un altro frutto del vivaio democristiano come
Angelino Jolie Alfano, impegnato nel periglioso distacco da Papi. Distribuisce
un po' a tutti e un po' a nessuno. Se può, rinvia volentieri. Dove non sa che
fare, come su Telecom e Alitalia, fa finta di niente e passa oltre. Indossa
speciali occhialoni che gli fanno vedere, unico in Italia, la ripresa economica.
Protetto e guidato da Re Giorgio in ogni suo passo, affronta Renzie con le armi
del sorriso e della pazienza e intanto coltiva con discrezione i suoi storici
rapporti con il mondo dell'economia e i circoli internazionali. Il confronto con
i vari Monti, Berlusconi e D'Alema gli vale mezzo punto in più per educazione,
gentilezza e assoluta mancanza della caratteristica che gli italiani non
sopportano più in un politico: l'arroganza. Voto: 6,5.
BOBO MARONI E ISABELLA VOTINOBOBO MARONI E ISABELLA VOTINO
3. ASTERIX MARONI - Dopo aver guidato con mano ferma le epurazioni nella Lega
Nord, alle elezioni politiche di febbraio ha conquistato un misero 4 per cento.
In compenso, si è installato al Pirellone per i prossimi cinque anni grazie ai
voti di Berlusconi e da lì dirà la sua sull'unica vera grande partita dove lo
Stato può ancora far girare dei soldi: l'Expo del 2015. E lasciando il posto di
segretario a Matteo Salvini, da lui spacciato come "il Renzi della Lega", il
presidente della Lombardia fa capire che per sé immagina un futuro senza più il
Carroccio-catorcio. Voto: 5.
4. BOLDRINMEIER - Candidata indipendente con un piccolo partito come Sel, ma a
Laura Boldrini quando ricapita di essere eletta presidente di qualcosa? Lei lo
sa e giustamente si guarda bene dal voler piacere a chicchessia. Infatti non
piace a nessuno. La sua espressività, mentre presiede le sedute di Montecitorio,
ricorda quella di certe sculture lignee della tradizione religiosa valdostana.
Non sfigurerebbe appesa tra san Grato e sant'Orso, ma lei ama muoversi. Di
preferenza con il compagno, com'è avvenuto in occasione dei funerali di Mandela.
Laura Boldrini ai funerali di MandelaLaura Boldrini ai funerali di Mandela
Però è meglio un presidente della Camera sessista, schierato contro ogni
minoranza etnica o religiosa, che odia i poveri di ogni latitudine, che predica
la violenza sulle donne e auspica la morte per fame di migliaia di bambini,
oppure la Boldrinmeier? Tutto sommato, meglio la Boldrinmeier. Dunque, siamo
fortunati ad avere una persona così come terza carica dello Stato. Ed è
fortunato anche Nichi Vendola, il quale difficilmente verrà giubilato da una
come Notre Dame de Chignon. Voto: 5.
Emma BoninoEmma Bonino
5. BONINA BONINA - Ok, ha ereditato dal predecessore Terzi di San Qualcosa il
pasticciaccio dei due marò detenuti in India e sul caso Ablyazov è stata presa
in giro dal collega Alfano, che in realtà stava con gli altri. Poi ha rimediato
un po' sotto Natale con il ritorno a Roma della madama kazaka, un breve spot che
serve solo ad accelerare l'estradizione del marito dalla Francia.
Ovunque vi siano italiani nei guai, dalla Polonia al Congo, Donna Emma non ci
fa: ci è. Comunque va bene lo stesso, tanto la politica estera se la fa da sola
l'Eni, come al solito. Lei ha compiti di rappresentanza, ma alla Farnesina
diffida di tutto e di tutti. Non sia mai che un qualche scivolone ne pregiudichi
i sogni quirinalizi. Praticamente condannata al compitino. Voto: 5.
6. CROZZA-BERSANI - Gli cade per botta di fortuna il governo Berlusconi, ma si
fa fregare da re Giorgio e anziché andare subito alle elezioni appoggia il
governo Monti. Poi finisce la legislatura, si va a votare per forza, e lui fa
una campagna così dimessa che regala la vittoria ai grillini. A urne chiuse, di
birretta in birretta, si convince di aver vinto.
crozza bersanicrozza bersani
Meno credibile della propria imitazione, guida con mano sicura il Pd alla
disfatta del voto per il Quirinale, si fa nuovamente fregare da Re Giorgio e
viene ingabbiato in un secondo governissimo. Alle ultime primarie, il vero
terrore di Renzie è stato che Pierluigi Bersani finisse per appoggiarlo. Ma
essendo fondamentalmente un brav'uomo, è rimasto fermo come uno stinco di maiale
tra le patate, pronto a farsi rottamare da gente come Fassino e De Luca. Voto: 4
(di stima).
il presidente dell eurogruppo juncker a destra in una rara foto con mario draghi
e mario monti aspxil presidente dell eurogruppo juncker a destra in una rara
foto con mario draghi e mario monti aspx
7. DRAGO DRAGHI - Media tra la Merkel e Hollande, tiene in mano i cordoni della
borsa (monetaria) e soprattutto vigila, vigila, vigila. Specialmente sull'Italia
e sul suo spread. Il nostro lord protettore a Francoforte una volta era una
riserva della Repubblica. Adesso, è semplicemente quel che resta della
Repubblica. Un punto in meno per aver appioppato a Lettanipote il (pappa)gorgeous
Saccomanni. Voto: 9.
la pagina di forza dudula pagina di forza dudu
8. DUDU' - Il barboncino bianco di Silvio e Francesca non soltanto ringhia ogni
volta che appare Capezzone (gli italiani invece si difendono con il
telecomando), ma secondo alcuni sondaggi riservati registrerebbe già un
gradimento superiore a quello di Aigor Gasparri e Renatino Brunetta. In quanto
appartenente alla razza canina, nella nuova organizzazione di Forza Italia gli
saranno affidati i rapporti con Michela Vittoria Brambilla. Recentemente, Dudù
ha giocato anche con lo "zio Vlad" Putin senza che questi lo scuoiasse con il
proprio coltello siberiano e questo ne fa, in caso di ritorno del Banana a
Palazzo Chigi, un valido strumento di politica estera ed energetica. Voto: 10.
DENIS VERDINIDENIS VERDINI
9. GRAN MACELLAIO DENIS - Appesantito è appesantito, anche se quest'anno la
magistratura fiorentina lo ha alleggerito di 12 milioni di euro, sequestrati in
via preventiva per una presunta truffa sui fondi pubblici all'editoria. E il
Gran Macellaio Verdini Denis per ora si è salvato dal rinvio a giudizio
nell'inchiesta sulla Loggia P3 solo grazie a uno stralcio, in attesa che
Montecitorio si degni di rispondere alla Procura di Roma sull'utilizzabilità di
certe sue telefonate.
Schierato tra i falchi di Hardcore, dopo la condanna definitiva del Banana ha
perso parecchio potere a corte, trascinato nel cono d'ombra dalla non agevole
compagnia della Santadechè. Del Pdl era il potentissimo uomo-macchina, ma in
Farsa Italia non è ancora chiaro se avrà un gran ruolo. Per lui il 2013 è stato
un anno orribile, ma da questo a darlo per finito ce ne passa. Anche perché al
momento di scegliere chi deve trattare con Renzie sulla nuova legge elettorale,
il Banana non ha avuto dubbi. Ancora lui, ancora il Grande Macellaio Denis.
Voto: 6.
10 - GRASSO CHE RIDE - Il magistrato che piace alla gente che piace non aveva
ancora finito di officiare la sua prima seduta da presidente del Senato che era
già candidato a presidente della Repubblica. E' andata com'è andata, ma da
allora l'ex procuratore Antimafia non ha mai smesso di costruirsi il consenso.
Per la prossima volta. Moderato con i moderati, democratico con i democratici,
ha una speciale attenzione per le ragioni e i diritti della (maxi) minoranza
grillina. Se per qualche ragione Bella Napoli ritenesse di dover concludere in
anticipo il suo secondo settennato, Grasso c'è. Nella convinzione che questa
volta le truppe di Grillomao giocherebbero la partita e sarebbero decisive.
Voto: 7
link to media galleryGRILLO A ROMA
11. GRILLOMAO - Da zero a venticinque (per cento) in pochi mesi. E già questo
basterebbe per chiudere il discorso sulla vera, unica, grande rivelazione
politica di questo 2013. L'ex comico genovese, con il suo Movimento Cinque
Stelle, ha fatto il super botto al primo colpo. Mediamente, specie se si
confrontano le sue truppe con quelle degli altri partiti, Grillomao ha spedito
alle Camere un plotone di deputati giovani, colti, dalla faccia pulita e
abbastanza secchioni.
Il problema è che fatica a gestirli e l'M5S si è fatto tagliare fuori dalla
partita per il Quirinale, finendo per beccarsi il presidente più sgradito. Un
errore drammatico e che rischia di pesare sull'intera legislatura e non solo. E
alle prossime Europee, nonostante Grillo sia schierato da anni dalla parte che
ora ha il vento il poppa (no euro e guerra alla banche), anche un solo punto in
meno dell'exploit delle Politiche sarà vissuto come l'inizio di uno s-boom che
tutto l'establishment si augura. Voto: 7,5.
12. IL CAINANO - Con degli avvocati normali sarebbe stato assolto dal caso Ruby,
non rischierebbe un nuovo processo per la gestione delle Olgettine e avrebbe
chiuso per tempo le partite fiscali che invece lo hanno portato alla condanna di
quest'estate in Cassazione e alla successiva decadenza. Ma nulla è normale
intorno al Banana, costretto dopo vent'anni a ri-fondare Forza Italia con gente
che lancerebbe volentieri dalla finestra.
Silvio berluSilvio berlu
Alle elezioni di febbraio ha sfiorato il 30 per cento con una rimonta personale
ai limiti dell'incredibile. Poi, formalmente, è stato tradito. In realtà si è
liberato in un colpo solo di Alfanayev, Lupi, Quagliariello, Lorenzin, Cicchitto
e Formigoni, non esattamente un "dream team" della politica. Adesso si presenta
alle Europee con le mani libere di chi sta all'opposizione, pronto a incassare
milioni di voti berciando contro tasse, euro e Germania cattiva. In più, le sue
aziende volano in Borsa. Una partita gagliarda, giocata sempre sul filo
dell'espulsione, macchiata però da una colossale autorete: la rielezione di
Bella Napoli al Quirinale. Voto: 5,5.