1. MIRAGGI D’ARABIA: 240
AZIENDE ITALIANE HANNO SPESO DAI 3MILA AI 30MILA EURO PER UNO STAND ALLA FIERA
“BRAND ITALY” A DOHA, CONVINTI DI INCONTRARE L’EMIRO DEL QATAR- 2. INVECE I
GRANDI ASSENTI, OLTRE ALL’EMIRO, ERANO I 30MILA VISITATORI ANNUNCIATI SUL SITO.
“SEMBRAVA UNA SAGRA DI PAESE!”, SI LAMENTA UN IMPRENDITORE SUI SOCIAL NETWORK-
3. IL QATAR È UN PAESE PICCOLO, E SOLO 300MILA SONO “LOCALI”: AVERE 30MILA
VISITATORI A UNA FIERA SIGNIFICA IL 10% DELLA POPOLAZIONE, UNA COSA MAI
SUCCESSA- 4. LA REGIONE SICILIA, STARRING IL GOVERNATORE CROCETTA, HA SPESO
700MILA € (PUBBLICI) PER PORTARSI DIETRO LE AZIENDE. E I 5 STELLE PRESENTANO
UN’INTERROGAZIONE- 5. NESSUNA AUTORITÀ ITALIANA HA DATO IL PATROCINIO.
L’AMBASCIATORE: “NON SAPEVAMO QUALE POTEVA ESSERE IL RISULTATO”. LO SPIEGA UN
AVVOCATO: “NON SI È CONCLUSO QUASI NULLA. NON SI FA BUSINESS IN TRE GIORNI, NEI
PAESI ARABI SERVONO TEMPI LUNGHI”-
Francesca Astorri per Dagospia
Alcune imprese italiane si sono sentite prese in
giro dopo aver partecipato alla fiera Brand Italy a Doha, evento presentato come
la più grande esposizione di prodotti italiani in Medio Oriente, organizzata
dall’emiro del Qatar e a cui sarebbero accorsi 30mila visitatori. Informazioni
che oggi appaiono come non confermate dai fatti.
“A me è sembrata peggio di una sagra di paese!!!! 2 Locali qatarini, non ho
visto pubblicità in giro per la città, questo mi è bastato per fare 2+2!!!! Poi
leggendo le cifre dei soldi spesi mi sorge qualche altro dubbio!!!!!!!!” scrive
su un social network un italiano che ha partecipato alla fiera Brand Italy.
Oltre 200 aziende italiane hanno speso dai 3mila ai 30mila euro per partecipare
con uno stand alla fiera durata 3 giorni a Doha, dal 10 al 12 novembre. Alcuni
giornali e istituzioni italiani avevano reclamizzato l’evento associandolo
all’emiro, traendo in inganno molte aziende che fino all’ultimo si sono
aspettate di veder comparire il regnante qatarino. Sul sito del comune di Parma,
per esempio, si legge in relazione alla fiera Brand Italy: “i membri di High
Italian Quality hanno ricevuto l’invito dall’emiro del Qatar, desideroso di
portare a Doha le migliori professionalità in grado di operare per i committenti
locali, che adorano la ricercatezza, la qualità, il lusso italiani”.
Anche vari giornali hanno associato l’emiro a questo evento, ma l’emiro Tamim
bin Hamad Al Thani non ha mai avuto nulla a che fare con Brand Italy.
L’organizzazione era infatti nelle mani di Ali Bin Thamer al Thani, imparentato
con la famiglia reale come circa il 60% dei qatarini, ma senza alcun ruolo
governativo.
I grandi assenti, a parte l’emiro, sono stati i 30mila visitatori proclamati con
slancio anche sul sito di Brand Italy. Assenti prevedibili per chi conosce i
numeri del Qatar, ma che hanno tratto in inganno molte imprese in cerca di
clienti e poco informate sul Paese in cui andavano.
“Il Qatar è un Paese piccolo, ha una popolazione complessiva di circa 2 milioni
di persone, di cui più di un milione sono operai stranieri e solo 300mila sono
qatarini. Avere 30mila visitatori significa avere a una fiera il 10% della
popolazione qatarina di tutto il Paese, cosa praticamente mai successa ” spiega
una fonte interna alle istituzioni italiane e qatarine a Doha che preferisce
mantenere l’anonimato. Oltre all’informazione ingannevole, anche
l’organizzazione dell’evento non ha convinto molti partecipanti.
“Stand ridicoli tipo mercato rionale, ad alcune aziende hanno bloccato le merci
alla dogana, proprio un evento organizzato male. Io sono arrivata sulle mie
forze, ma molti sono stati pagati in anticipo dalle regioni” spiega
un’imprenditrice che ha partecipato a Brand Italy.
Solo la regione Sicilia, che ha portato 120 imprese sulle 240 partecipanti, ha
speso 695mila euro per l’evento che non presenta il patrocinio di nessuna
istituzione italiana in Qatar. Di questa cifra, 281mila euro sarebbero stati
spesi per l’esecuzione dei servizi di marketing e di internazionalizzazione.
Sulle spese sostenute dall’assessorato Turismo per la partecipazione al Brand
Italy in Qatar, il Movimento 5 Stelle (M5s) ha presentato un’interrogazione
parlamentare, primo firmatario Matteo Mangiacavallo. “Praticamente – afferma il
deputato M5s Mangiacavallo – per soli due giorni, la Regione per avere a
disposizione un’area espositiva pre-allestita e personalizzata di 250 metri
quadrati con una pagina pubblicitaria sul catalogo ufficiale della
manifestazione, la comunicazione via web e due hostess e/o steward bilingue
arabo – italiano, spende cifre importanti ad oggi ancora non giustificate”.
Sul sito di Brand Italy si legge “Protagonisti dell’evento sono le Istituzioni,
gli Enti e le Aziende che hanno portato lo stile italiano nel mondo facendone un
marchio di successo”, ma né sul sito, né all’evento è comparso alcun simbolo
delle istituzioni italiane in loco, un gesto che alcuni hanno interpretato come
un modo per le Istituzioni italiane di prendere le distanze, ma che
l’ambasciatore italiano a Doha spiega così:
“Per fortuna i rapporti tra Italia e Qatar sono così buoni da permettere a
privati italiani di organizzarsi insieme a privati qatarini. L’ambasciata ha
dato il nulla osta richiesto dalle autorità qatarine per permettere lo
svolgimento di Brand Italy, e abbiamo dato con largo anticipo alle aziende
interessate la disponibilità dell’ambasciata e dell’ICE, ma il patrocinio non si
dà a nuovi operatori non sapendo che prodotto sarebbe uscito” spiega
l’ambasciatore italiano a Doha, Guido De Sanctis.
Sorge spontaneo il dubbio di come ingenti quantità di soldi pubblici siano stati
stanziati per un’iniziativa organizzata da un privato in cui le istituzioni
italiane in loco non compaiono minimamente. Sul sito di Brand Italy infatti si
legge che l’evento è organizzato da una società, la L.I. for Exhibition con sede
a Doha, costituita per il 51% dallo sceicco Ali Bin Thamer al Thani e per il
restante 49% da soci italiani. Ma chi sono questi “soci italiani”? Tra i
capofila troviamo Lunetto Group, una S.r.l. con sede a Palermo, in Sicilia, la
regione che più ha finanziato l’evento.
Nonostante gli aspetti più o meno chiari dell’organizzazione di questa fiera,
quello che alle imprese italiane in fondo interessa sapere è se in questi eventi
si concludano affari o meno. Ne è positivamente convinto il presidente della
regione Sicilia, Rosario Crocetta, che ha partecipato alla fiera a Doha con la
consulenza di Sami Ben Abdelaali, già esponente della dittatura tunisina di Ben
Alì, console in Sicilia in rappresentanza del regime, e oggi esperto per
l’internazionalizzazione della Regione Sicilia.
“All’evento hanno partecipato 240 aziende, di cui 120 erano siciliane. Hanno
concluso tanti contratti, basti pensare che la “Piacere italiano” ne ha firmati
24” ha dichiarato Crocetta. Per capire meglio abbiamo chiesto a un avvocato di
uno studio legale internazionale con presenza regionale nel Golfo, con un
portfolio vasto di aziende italiane ed europee che investono in Qatar e di
gruppi qatarini che investono in Italia.
“Dalle testimonianze raccolte alla fiera non si è concluso quasi nulla. Gli
unici accordi che sembrano essere stati conclusi riguardano un nuovo centro
commerciale ancora in costruzione, Al Emadi, che affitta spazi per l’apertura di
negozi. Avendo analizzato il modello di business che Al Emadi propone, mi pare
che le condizioni che offre siano vessatorie, probabilmente non sostenibili da
aziende che non abbiano la possibilità di lavorare in perdita almeno per i primi
due anni di start up.
Dissi ai miei assistiti che era meglio lasciare stare a quelle condizioni. Noto
infine che doveva essere un centro commerciale di grandissime marche che avrebbe
dovuto aprire nel 2012. Siamo al 2014 e vedo che sta ancora cercando occupanti.
Inoltre in questo momento stanno aprendo altri sette centri commerciali a Doha,
di cui uno a mezzo chilometro dall’Al Emadi” spiega l’avvocato, che ha qualche
altro dubbio.
“Una fiera simile era stata organizzata a Doha due anni fa con strascichi
giudiziari. Quando seppi che ne organizzavano un’altra mi insospettii. Vidi che
non c’era nessuna strategia, molte aziende si aspettavano che venisse l’emiro.
E’ indecente che la cosa non sia stata smentita da nessuno. C’erano aziende che
vendevano piumini in Qatar in cui per sei mesi l’anno fa un caldo torrido,
c’erano società che avevano bisogno di un socio investitore. Nessuno ha spiegato
a questa gente che non si fa business in Qatar così” aggiunge.
Un po’ scoraggiati chiediamo a un imprenditore che ha partecipato alla fiera.
“L’italiano che pensa di andare tre giorni a una fiera in Qatar e concludere
accordi e firmare contratti si sbaglia. Con gli arabi bisogna instaurare
rapporti, strutturarsi, porsi in maniera più professionale, capire il mercato e
la cultura locali. Con un evento non si conclude nulla”.
Anche chi lavora all’interno di istituzioni che operano nel settore ha qualche
dubbio sull’utilità di questi eventi. “In Qatar le fiere multi-settoriali non
funzionano e sono piene di speculatori che attraggono aziende che non conoscono
il Paese e sperano di arrivare e fare affari, ma non è in questo modo che si fa
business in Qatar. Il mercato è piccolo, elitario e difficile da penetrare. Le
aziende italiane devono stare attente e informarsi prima di venire, vedere chi
organizza gli eventi, la posizione delle istituzioni italiane, per evitare di
spendere decine di migliaia di euro a vuoto” spiega una fonte interna alle
istituzioni italiane e qatarine che preferisce mantenere l’anonimato.
Fare business nella terra dei petrodollari è difficile e il mare del Golfo
Persico è pieno di squali, si sa, ma speravamo che a mordere non sarebbero stati
gli italiani.
24 novembre
Archeologia off limits per i
portatori di handicap: restano ancora molte barriere
di Manlio Lilli
Secondo un Documento presentato dalla Corte dei Conti, i siti archeologici
sarebbero un “esempio virtuoso” grazie alle iniziative del Ministero dei Beni e
delle Attività Culturali e del Turismo. Ma la realtà è diversa: se a Roma molto
si è fatto, a Pompei del progetto di Bray non c'è più traccia. E a Paestum
l'accesso è interdetto ai disabili
La natura dei luoghi, percorsi accidentati, repentini e frequenti cambi di quota
nel terreno di aree archeologiche e complessi monumentali poco si prestano alla
visita di portatori di handicap, di vario tipo, come a quella di anziani e
bambini. Quindi archeologia offlimits per le categorie cosiddette fragili? Non
sembra essere così. Almeno stando al documento recentemente presentato dalla
Corte dei Conti, intitolato “La gestione degli interventi di ristrutturazione e
di adeguamento delle strutture pubbliche per l’eliminazione delle barriere
architettoniche”. In mezzo a tante criticità i siti archeologici, nel Documento
considerati insieme a quelli culturali, sono presentati come un “esempio
virtuoso”, grazie alle iniziative del Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo, che hanno portato ad avere “servizi per disabili in 184
istituti e luoghi di cultura statali e in 1.409 non statali, e quindi
complessivamente nel 34,72% dei casi”.
Una
situazione in linea con le politiche perseguite almeno dai più recenti Ministri
dei Beni culturali. “L’accessibilità ai luoghi della cultura, attraverso
strumenti che si inseriscano con garbo e in maniera reversibile all’interno di
contesti preziosi e delicati come il Foro Romano e il Palatino, è una delle
priorità più importanti che ci dobbiamo porre per una vera crescita culturale
della società”. Erano i primi giorni dell’ottobre 2013 quando Massimo Bray,
allora ministro del Mibact, sosteneva questa tesi. Osservando gli interventi
realizzati fin ad allora e prefigurando un progetto su ampia scala, declinato
anche localmente. A Pompei nel maggio 2010 s’inaugura Friendley Pompei, il
percorso per rendere fruibili gli scavi archeologici ad anziani e disabili.
Peccato che nel settembre 2013 non rimanga quasi traccia di quel percorso. Tutto
da rifare. Così all’inizio dello scorso settembre è stato approvato un nuovo
progetto riguardante un itinerario per i portatori di handicap, lungo via
dell’Abbondanza, dall’anfiteatro a Porta Marina. Con annesse visite a domus e ai
monumenti principali della piazza del Foro, con aree di sosta. “Sono sicura che
alla fine questo tragitto senza asperità, con vernici che captano la luce solare
e la restituiscono nelle ore notturne, sarà l’itinerario più frequentato di
Pompei”, sostiene l’architetto Maria Grazia Filetici, responsabile
dell’operazione, il cui costo previsto si aggira sui 7 milioni di euro. Per
livellare il pavimento stradale si ricorrerà a pietre locali, mentre alle domus
si accederà da ingressi alternativi per ovviare alla presenza dei gradini. Uno
scavo vicino alla Casina delle Aquile, permetterà di verificare la possibilità
di sistemarvi un ascensore. Per i non vedenti sono invece allo studio delle app
di orientamento attraverso i cellulari.
A Roma molto si è fatto. “In questi anni sono state investite risorse per
migliorare l’accessibilità al Foro”, affermava il Ministro dei Beni culturali,
Massimo Bray, nell’ottobre 2013 alla presentazione di una serie di interventi,
tra cui la nuova sistemazione dell’ingresso monumentale del Vignola al Palatino,
lungo via di San Gregorio. Una rampa di accesso con pendenze dolci, intercalata
da siepi di bosso, ha consentito di eliminare le scale. Con un costo di 300 mila
euro, co-finanziati dalla Soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di
Roma e dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale.
Dopo l’ascensore panoramico che si trova all’ingresso di Largo della Salara
Vecchia, su via dei Fori Imperiali, e che consente di superare il dislivello di
circa 6,5 metri tra l’ingresso e la quota di calpestio del Foro Romano. Un’opera
da 530mila euro, finanziata dal Commissario delegato per la realizzazione degli
interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia. Ma anche dopo la
realizzazione del percorso all’interno del Foro, fatto di pavimentazione liscia,
per far scorrere meglio le ruote dei passeggini e delle sedie a rotelle, ma
anche per rendere la passeggiata più confortevole a tutti i visitatori. Un
sentiero di 1200 metri tra l’arco di Settimio Severo, sotto il Campidoglio, e
l’ingresso all’arco di Tito, per il quale sono stati impegnati 750mila euro.
“La progettazione è stata ad altissimo livello ed ha avuto la capacità di
adattarsi ad un tessuto archeologico fragilissimo, grazie alla scelta dei
materiali ed i continui adattamenti in corso”, sosteneva la Soprintendente
Mariarosaria Barbera nell’ottobre 2013. Tutti interventi inseriti nel progetto
pilota della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma denominato
“Percorsi”. Interventi quelli al Foro e al Palatino diretti e curati, come
accadrà a Pompei, dall’architetto Maria Grazia Filetici. Una esperta nel
settore, che nel 2002 aveva curato l’apertura delle domus romane del Celio,
progettando un percorso di visita, reso accessibile ai portatori di handicap.
Apprestamenti parziali sono invece esistenti in complessi monumentali, peraltro
di riconosciuto appeal, come il Colosseo e le Terme di Caracalla. Mentre
percorsi sono stati realizzati nel 2010 all’Ipogeo dei Volumni e alla necropoli
etrusca del Palazzone, pochi chilometri a sud-est di Perugia. Finanziati ma non
completati il percorso di accessibilità alla necropoli di Tarquinia, Tomba della
Pulcella, nonostante i lavori siano stati appaltati nel 2012 con un impegno
finanziario di 290mila euro. Ancora, nel 2014, finanziata per 100mila euro la
completa fruizione dell’area archeologica della villa d’Orazio a Licenza, nella
provincia di Roma, con la realizzazione di cartelli didattici esplicativi.
Interventi anche nel Parco della Valle dei templi. Nel maggio 2004 ad aprirsi ai
disabili è stato il Giardino della Kolymbetra, grazie ad una iniziativa
realizzata dall’Ente Parco archeologico della Valle dei templi, in
collaborazione con il Fai e con la cooperativa sociale Caap. Non solo. In
occasione dell’inaugurazione il direttore dell’area archeologica Pietro Meli
spiegava come “Fra breve il Parco della Valle dei templi metterà in funzione
altri itinerari per i disabili che consentiranno la visita al Quartiere
ellenistico romano e alla Collina dei templi”. Mentre ancora in fase di
realizzazione il progetto “Orione” per la costruzione di un percorso
sperimentale di mappe tattili per ciechi e ipovedenti nel sito dei templi
dorici. Un progetto di ricerca, finanziato con 8mila euro dall’ente Parco
Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi di Agrigento.
Dal 2010, finanziati con fondi del Piano nazionale per l’archeologia 2006,
esistono percorsi per disabili motori, oltre che una pannellistica in braille,
nel sito di Veleia, nell’appennino piacentino. Accessibile anche Telesia, nel
territorio di San Salvatore Telesino, in provincia di Benevento. Esempi,
tutt’altro che isolati, di un impegno di Amministrazione centrale ed enti locali
a non escludere dalla visita di aree archeologiche e musei, il mondo della
disabilità. Invece rimane ridottissima l’offerta di materiali e supporti
informativi specifici, almeno relativamente ai Musei. Poco meno di un quinto
risultano attrezzati in tal senso, con percorsi tattili o pannelli in braille
per i non vedenti, secondo i dati presenti nel Report “I musei, le aree
archeologiche e i monumenti in Italia”, realizzato dal Mibact, in collaborazione
con l’Istat e la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.
Altrove, anche in luoghi di grande richiamo turistico, la situazione è
sconfortante. Valga come esempio negativo il caso di Paestum dove
l’accessibilità e la fruizione dell’area archeologica è sostanzialmente
interdetta per i diversamente abili. Nonostante nel 2004 l’Amministrazione
comunale di Capaccio, insieme alla Arcus Spa, la Società del Mibact per lo
sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, avesse promosso il
progetto pilota “Cultura senza barriere”. “… la realizzazione di questo progetto
ci inorgoglisce e pone i templi di Paestum all’avanguardia per la fruizione ai
disabili”, dichiarava in occasione della presentazione del progetto nel luglio
2010 il consigliere comunale Carmine Caramante. Nell’area archeologica e nel
Museo nazionale archeologico di Paestum fu pianificato l’abbattimento di tutte
le barriere architettoniche e la realizzazione di elementi che agevolassero la
fruizione. Il tutto per un costo di 335mila euro. Dopo sei anni completate solo
alcune delle opere previste, che ormai risultano in stato di abbandono. Il
percorso per non vedenti, deteriorato, mentre la rampa che doveva consentire la
visita della basilica, chiusa.
Non sembra andar meglio nelle aree archeologiche calabresi, da Grumentum a
Metaponto, da Venosa ad Herakleia, dove a parte i servizi igienici, per i
disabili non sembra esserci spazio. Uguale panorama è rilevabile in Sicilia,
dall’Isola di Mozia a Pantelleria e Lilibeo. Il panorama nazionale
diversificato, da regione a regione, talora con profonde differenze tra una
provincia e l’altra. Non sempre “per colpa” di risorse insufficienti, come
indizia il caso di Paestum. L’investimento iniziale necessario, imprescindibile
per realizzare percorsi con materiali e strutture di supporto. Proprio come la
successiva, ordinaria, manutenzione. Naturalmente.
12 novembre
I BOSS HANNO VINTO E IO ME
NE VADO - SAVIANO NON CI STA: “SENTENZA ALL’ITALIANA E SENZA CORAGGIO” - “LA
PARTE PIÙ FORTE DEL PAESE NON COMBATTE I CLAN” - “RENZI? FINORA HA FATTO POCO
PER LA LOTTA AL CRIMINE”
Dal caso Cucchi a L’Aquila fino alla sentenza che assolve i boss di Gomorra
lo scrittore torna sui verdetti delle polemiche: “Sono sentenze che aprono
ferite. Forse anche noi chiediamo troppo alla giustizia” - “Andarmene dopo una
sentenza del genere? Chi rimarrebbe dopo una simile decisione?”...
Conchita Sannino per “la Repubblica”
Roberto Saviano
Non
ce la fa a frenare la rabbia, alla fine. Quella sentenza dei giudici di Napoli?
«Una cosa tipicamente italiana, a metà, senza coraggio», posta su Facebook. E
ieri sera, a Ballarò: «Così facendo, hanno vinto loro, i boss. Non riesco ancora
a darmi pace: come è possibile che un avvocato possa essere considerato slegato
dai suoi clienti?».
Lo sfogo di Roberto Saviano arriva prima con un filmato registrato al buio e
postato sui social.
Poi a Repubblica, ospite della riunione del mattino, infine nel talk show Rai
condotto da Massimo Giannini e aperto ieri col caso Casalesi. Così monta la
reazione dello scrittore sul verdetto che un po’ lo soddisfa e molto lo delude.
È la decisione con cui il Tribunale di Napoli, lunedì scorso, ha condannato il
penalista Michele Santonastaso per minacce «aggravate dalla finalità mafiosa»
lanciate contro di lui e la giornalista (oggi senatrice Pd) Rosaria Capacchione:
ma ha assolto i padrini dei Casalesi, Antonio Iovine (pentito) e Francesco
Bidognetti (ergastolano al 41 bis), insieme all’altro legale Carmine D’Aniello.
Al centro del dibattimento, l’istanza di remissione con cui i difensori
dell’epoca dei due capimafia, Santonastaso e D’Aniello, lanciarono accuse e
calunnie sui due autori e sui due magistrati, Cafiero de Raho e Cantone, per
provare a strappare dal collegio naturale l’appello del maxi processo Spartacus
2. L’autore di Gomorra e di Zero zero zero si filma con il cellulare, parla come
se fosse in un bar nella notte, e avesse proprio davanti una birra e la folla
dei suoi amici, lettori, sostenitori che gli scrivono da ogni parte del mondo.
Si dice «stanco», mostra la sua giornata in salita.
«Mi dispiace, in questi anni di vita così difficile e complicata ho sempre avuto
la sensazione che i clan non avessero “contro” la parte più forte del paese. No:
invece avevano “contro” solo una parte che ora, sento di dire, è quella migliore
del paese. Ma tutto il resto, anche se non connivente, era silenziosa e, quindi,
connivente».
Il giorno dopo di Saviano comincia con una visita al teatro del Rione Sanità,
cuore antico di Napoli che diede i natali a Totò e che custodisce un immenso
patrimonio di ipogei, catacombe, basiliche, dipinti: lì ha aperto il Nuovo
teatro Sanità e l’autore incontra allievi attori e Mario Gelardi, direttore
artistico e regista della versione teatrale di Gomorra.
«Questo è un luogo prezioso. Sono venuto qui anche per lasciare Napoli con un
sorriso. Mi ritrovo tra amici. E tra strade e posti ricchi di storia, e assetati
di riscatto ». Poi torna con la mente a quella lunga attesa in Tribunale, aula
116.
«Il pm antimafia Sirignano ha detto che indicare un nome di uno scrittore
significa condannarlo a morte, per me c’è stato un brivido dietro la schiena ma
ha significato anche sono vivo, voglio esserlo. Continuo a scrivere contro
quella alleanza fatta di zona grigia: avvocati, imprenditori, giornalisti di
certi ambiti locali spesso conniventi. Contro questo mi batterò». Dentro e fuori
dall’Italia. Di cui vuole restare anche pungolo. E spina.
Sull’esecutivo, dice a Ballarò : «Nel contrasto alle mafie il governo Renzi si è
mosso poco. Qualcosa si è fatto rispetto al passato, ma la lotta alle mafie non
può essere un nodo tra i tanti. Si doveva approfittare del semestre europeo. La
prima cosa da fare era portare in sede europea la di leggi antiriciclaggio, che
è l’unico modo di recuperare denaro».
A margine poi aggiunge: «Il governo ha nominato figure importanti, come Grasso
al Senato e Cantone all’Anticorruzione; ma non possono bastare nomi che fanno da
“ombrelli”». Poco dopo Cantone difende le scelte del governo e aggiunge: «Saviano
dice una cosa giusta: si può fare di più e meglio. Ma abbiamo introdotto, ad
esempio sulla corruzione, strumenti e meccanismi di controllo e di
commissariamento che non c’erano mai stati. C’è discontinuità netta col
passato».
Poi lo scrittore torna sui verdetti delle polemiche. «Al di là di una sentenza
che va male — riflette — dietro la vicenda Cucchi c’è un mondo che grida
vendetta. Dietro L’Aquila c’è un problema non risolto, dietro la sentenza su
Bidognetti e Iovine c’è un potere enorme. Sono sentenze che aprono ferite. Forse
anche noi chiediamo troppo alla giustizia, e dietro certe sentenze c’è
un’assenza di coraggio. Una ferita che si riapre». Il finale è una risposta alla
domanda di Giannini. «Ma tu rimarresti in Italia, dopo una sentenza come
questa?» Saviano: «E tu, rimarresti dopo un verdetto del genere?».
UNIVERSITA’ LAGER? - HARVARD
COME IL GRANDE FRATELLO: 2MILA STUDENTI SPIATI A LORO INSAPUTA DURANTE LE
LEZIONI PER CONTROLLARE LE FREQUENZE
La vicenda ha dell’inquietante: occhi elettronici spiavano le vicissitudini
quotidiane di almeno 2mila studenti che hanno seguito le lezioni nel famoso
ateneo di Harvard. E tutto senza che nessuno di questi abbia mai firmato una
liberatoria o fosse messo al corrente dell’esperimento…
Harvard, l’università da favola dove i rampolli delle migliori famiglie del
mondo studiano per diventare ricchi professionisti quanto i loro genitori o
anche di più. Eppure anche i fuoriclasse ogni tanto fanno un buco nell’acqua.
Infatti il prestigioso ateneo avrebbe condotto un esperimento quanto meno
discutibile, che ha infranto la privacy di almeno 2mila studenti. Fotografie
delle aule senza avvertire né gli universitari né il personale. Il perché?
Controllare la frequenza e l’andamento delle lezioni, come segnala il portale
Skuola.net
GRANDE
FRATELLO AD HARVARD – La vicenda ha dell’inquietante: occhi elettronici
spiavano le vicissitudini quotidiane di almeno 2mila studenti che hanno seguito
le lezioni nel famoso ateneo di Harvard. E tutto senza che nessuno di questi
abbia mai firmato una liberatoria o fosse messo al corrente dell’esperimento,
portato avanti nella primavera del 2013. Infrangendo senza pietà il diritto alla
privacy degli universitari e del personale.
FREQUENZA FIN TROPPO OBBLIGATORIA - E’ stato lo stesso Peter Bol, vice
rettore dell’università, ad ammettere l’esistenza di questo esperimento segreto.
E’ successo durante una riunione di facoltà dove Harry Lewis, prof di
informatica appena venuto a conoscenza della vicenda, ha chiesto spiegazioni.
Lo scopo delle immagini acquisite in segreto nel corso della Harvard Initiative
for Learning and Teachingsarebbe stato quello di avere informazioni sulla
partecipazione alle lezioni e del loro andamento. Sicuramente non per
raccogliere dati personali sugli studenti o per valutare i docenti, ha affermato
il vice rettore. Dopo la raccolta dei dati, le fotografie sono state distrutte.
10 novembre
Sconfigge la mafia ma non
l’usura bancaria: imprenditore chiude azienda. Fiom è con lui
Stanno per essere licenziati 40 dipendenti dell’azienda Demasi di Gioia Tauro.
Dove non è riuscita la ‘ndrangheta ci stanno pensando le banche e al danno si
aggiunge la beffa: sì, perché gli istituti di credito sono stati condannati, in
via definitiva, per usura ai danni dell’imprenditore Antonino Demasi che è in
attesa di un risarcimento milionario. Soldi che non arrivano fino a quando non
si conclude il procedimento civile con il quale l’imprenditore, sotto scorta
dopo le minacce declan locali, ha chiesto agli istituti bancari un risarcimento
di 215 milioni di euro. Nel frattempo, oltre alle linee di credito, le banche
gli hanno chiuso anche i conti correnti e ora Demasi sarà costretto a mandare in
liquidazione la sua azienda nonostante le commesse che gli consentirebbero, al
contrario, di fare assunzioni. Una storia assurda che vede la Fiom schierata al
fianco del “padrone”. “È paradossale quello che sta succedendo a Gioia Tauro“,
racconta il segretario provinciale del sindacato Pasquale Marino che chiede
l’intervento del governo. “Io ho subito l’usura e la Cassazione ha stabilito che
la responsabilità è delle banche. – spiega Demasi – È da 11 anni che sto
cercando di farmi restituire quanto mi è stato rubato. Più di quello che ho
fatto non posso, adesso ho l’obbligo giuridico di chiudere l’azienda il primo
gennaio. Licenzierò tutti ma continuerò a battermi contro il mondo bancario. Ci
sono tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. È importante
avere ben chiaro chi sono i criminali e chi sono le vittime”. Già nell’aprile
scorso, della vicenda si era parlato durante il congresso della Fiom. Ma le
parole del segretario Maurizio Landini e di don Ciotti sono rimaste inascoltate.
di Lucio Musolino
Minori stranieri non
accompagnati, caos comunità: “Renzi intervenga”
Aumentano gli arrivi ma anche i ragazzi "irreperibili". E, a causa di un
pasticcio burocratico, molte strutture di accoglienza di Campania, Puglia e
Sicilia non ricevono dallo Stato i pagamenti dovuti. Intanto il coordinamento
italiano delle organizzazioni denuncia che il governo, per ridurre i costi,
intende ridurre gli standard di qualità
di Chiara Brusini
Oltre 3mila tra bambini e ragazzi “irreperibili”. Mentre l’Italia archivia la
missione umanitaria Mare Nostrum in favore del progetto europeo per il controllo
delle frontiere Triton, i dati del ministero del Lavoro e delle politiche
sociali danno le dimensioni di un’emergenza che resta sottotraccia: quella dei
minori stranieri non accompagnati in arrivo dal Nord Africa. Dalle tabelle
aggiornate a fine settembre emerge che dall’inizio dell’anno ne sono stati
registrati più di 12mila (contro gli 8.400 del 2013 e i 7.500 del 2012).
Ma
3.163 di questi ragazzi, un quarto del totale, sono spariti. Quasi 1.800 in
Sicilia, la regione che per evidenti ragioni geografiche registra il maggior
numero di sbarchi, 348 in Puglia, 309 nel Lazio, 148 in Emilia Romagna e 123 in
Lombardia. Le associazioni che si occupano di disagio sociale e accoglienza ai
minori avvertono che la situazione, finita anche al centro di un’interrogazione
parlamentare della senatrice Pd Silvana Amati, è “drammatica e di difficile
gestione”: le comunità sono sature e insufficienti rispetto al numero di arrivi
e di conseguenza molti bambini e ragazzi rimangono senza collocazione. Vale a
dire che nel migliore dei casi vengono inseriti in strutture per adulti, nel
peggiore finiscono per strada. Un quadro aggravato dal fatto che da tempo, a
causa di un pasticcio burocratico, molte comunità per minori stranieri non
accompagnati di Campania, Puglia e Sicilia non ricevono dallo Stato i pagamenti
dovuti. E ora sono pronte a scendere in piazza e perfino a dimettere i ragazzi
ospitati per rivendicare i propri crediti e denunciare che il governo, per
ridurre i costi, intende rivedere al ribasso gli standard di qualità
dell’accoglienza. A fronte di questo, sostengono, vale poco il fatto che con la
legge di Stabilità l’esecutivo abbia incrementato di 12,5 milioni gli
stanziamenti per il fondo destinato a questa emergenza, portandolo a 120 milioni
di euro.
Quando in prigione ci vanno
i bambini
Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno
dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri,
assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi
psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il
diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel
risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà
che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review
di GIUSEPPE DEL BELLO e ALICE GUSSONI
ROMA - Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A
pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla
madre. Tutti tranne il piccolo S., che all'epoca non aveva neanche un anno e
l'ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa
della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha
costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino
alla scarcerazione della mamma.
S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non
permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di
domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli
come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili
per l'intera popolazione carceraria del lazio che arriva a 5mila 680 presenze,
di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31
ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri
con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i
detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente
diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono
attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono
sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di
7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri.
Mancanza di strutture. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono
contemplati interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case
famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il
servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono
2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento
ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni
italiani, forniscono il quadro di un'Italia spaccata a metà ma nell'insieme
ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario.
Lo stato del diritto. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di
profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere
sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più
deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia
Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive
adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l'affidamento ai servizi
sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque
personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi
soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla
bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi
ha subito un'amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono
assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un
piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano
ad aiutare come possono i loro compagni di cella. Il Dipartimento di
amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo
una rilevazione dell'Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a
campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere
architettoniche.
Il problema dell'HIV. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da
HIV (circa il 3,8% dell'intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio
terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il
regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo
stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che
ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se
rimane loro poco da vivere, restano dentro. E' una legge spietata, ma il
carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo:
"L'incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di
natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che
viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto".
La galassia dei reclusi
senza diritti
Chi resta in cella. Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte
europea per i diritti dell'uomo che ha sanzionato l'Italia per le condizioni
inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione
carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella
sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente
salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione
carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l'ultimo censimento, datato 31
ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero
54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità
effettiva, secondo il X rapporto dell'Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente
inferiore, pari a circa 37mila unità.
La soluzione domiciliare. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal
ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative
sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi
strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a
sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla
detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o
necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa,
cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto
all'assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i
fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono
stati ulteriormente ridotti (Milano è l'unica città italiana ad avere un Centro
di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica
utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni
precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale).
Investimenti scarsi. Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le
case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista
sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la
spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al
giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse,
contro i 123 euro spesi all'interno delle carceri.
Il 32% di tossicodipendenti. La considerazione che il carcere sia anche un
deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di
malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle
determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il
fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e
circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come
indica una ricerca su base europea svolta dall'Emcdda, l'European monitoring
center for drug and drugs addicted.
Comunità terapeutiche solo per 1 su 6. L'affidamento alle comunità terapeutiche
rimane l'ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa
misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del
sistema, come denunciato dall'associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e
presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere,
spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni
siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in
libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore
di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano
precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di
punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente
rischiano di essere antitetici".
Nessuna dignità della persona. Il trattamento penitenziario in Italia è stato
però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad
umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece
l'articolo 1 dell'Ordinamento penitenziario (L.354/75). Gli stessi ospedali
psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del '78, avrebbero
dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in
funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che
si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva -
assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi.
Il miraggio delle case famiglia. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere
le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista,
coordinatore dell'Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma,
suggerisce di assegnare all'istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati
alla mafia. Un'idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di
Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334
solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo.
Custodia attenuata per le madri. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione
degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali
le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati
realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna),
anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi.
Gioia Passarelli, presidente della onlus 'A Roma Insieme', da anni impegnata a
favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L'idea di partenza era quella
di rendere l'ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le
madri, ma a parte l'abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi
colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare
l'ora d'aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere
accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli
effetti che sottostanno all'ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre
l'età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3
ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di
loro non hanno mai visto com'è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si
spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali
per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione
anche Lia Sacerdote dell'associazione Bambini senza sbarre, firmataria insieme
al Garante per l'infanzia e l'adolescenza e il Ministero della Giustizia di un
Protocollo d'Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che
entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l'iniziativa della creazione di
uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed
educatori si cerca di rendere comprensibile l'esperienza del carcere ai piccoli
visitatori.
Dietro le sbarre con lievi condanne. La mancanza di strutture ricettive è un
problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall'Osservatorio
Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale
(inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure
alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli
stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100%
dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq,
sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione
(sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013).
Senza cure né assistenza,
ecco i casi più gravi
di ALICE GUSSONI
Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006
Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai,
senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa.
Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel '76 perché dormiva
in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una
perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in
anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di
certificare l'avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto
portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30
anni, uscito con l'indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o
sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli
ospedali psichiatrici ne sono pieni.
Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti
Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l'incompatibilità con il regime
carcerario (articolo 47 comm.2 ) è l'esigenza di un trattamento che non sia
possibile ricevere nell'ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o
parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a
Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade
malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha
dell'incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a
camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il
trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non
è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi,
fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a
Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l'uso delle
gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all'altezza e così viene
rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l'assistenza
adeguata.
Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre
La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede
l'innalzamento dell'età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti
dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia
attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da
quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di
andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso
insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non
c'è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli
stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora
che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande
per affrontare una nuova vita senza il trauma.
Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo
Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita
dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi
è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che
all'epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma
allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici,
durata per l'intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili
non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo
zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il
padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il
giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell'area verde del
carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al
piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta
infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da
parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo
nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso
istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può
entrare solo una volta al mese.
Gli ergastoli bianchi degli
Opg
di GIUSEPPE DEL BELLO
NAPOLI - Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di
Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più
drammatico a causa dell'emergenza Opg, gli ospedali psichiatrici da chiudere
entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo,
nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora
deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono
circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant'Eframo
(chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un'ala quasi interamente
crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto
ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto
terapeutico riabilitativo individuale) nell'ottica della dimissione entro il 31
marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative
convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti
saluti al risparmio e a un'assistenza dignitosa.
Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems
(Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a
Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto
mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell'altro Opg, il
Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne
tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle
violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e,
quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto.
Ma le Rems, come osserva il presidente dell'Associazione "Sergio Piro"
(recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica
basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo
schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di
recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di
salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle
Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è
d'accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non
si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di
sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case
famiglie.