25 novembre

1. MIRAGGI D’ARABIA: 240 AZIENDE ITALIANE HANNO SPESO DAI 3MILA AI 30MILA EURO PER UNO STAND ALLA FIERA “BRAND ITALY” A DOHA, CONVINTI DI INCONTRARE L’EMIRO DEL QATAR- 2. INVECE I GRANDI ASSENTI, OLTRE ALL’EMIRO, ERANO I 30MILA VISITATORI ANNUNCIATI SUL SITO. “SEMBRAVA UNA SAGRA DI PAESE!”, SI LAMENTA UN IMPRENDITORE SUI SOCIAL NETWORK- 3. IL QATAR È UN PAESE PICCOLO, E SOLO 300MILA SONO “LOCALI”: AVERE 30MILA VISITATORI A UNA FIERA SIGNIFICA IL 10% DELLA POPOLAZIONE, UNA COSA MAI SUCCESSA- 4. LA REGIONE SICILIA, STARRING IL GOVERNATORE CROCETTA, HA SPESO 700MILA € (PUBBLICI) PER PORTARSI DIETRO LE AZIENDE. E I 5 STELLE PRESENTANO UN’INTERROGAZIONE- 5. NESSUNA AUTORITÀ ITALIANA HA DATO IL PATROCINIO. L’AMBASCIATORE: “NON SAPEVAMO QUALE POTEVA ESSERE IL RISULTATO”. LO SPIEGA UN AVVOCATO: “NON SI È CONCLUSO QUASI NULLA. NON SI FA BUSINESS IN TRE GIORNI, NEI PAESI ARABI SERVONO TEMPI LUNGHI”-

Francesca Astorri per Dagospia

Alcune imprese italiane si sono sentite prese in giro dopo aver partecipato alla fiera Brand Italy a Doha, evento presentato come la più grande esposizione di prodotti italiani in Medio Oriente, organizzata dall’emiro del Qatar e a cui sarebbero accorsi 30mila visitatori. Informazioni che oggi appaiono come non confermate dai fatti.

“A me è sembrata peggio di una sagra di paese!!!! 2 Locali qatarini, non ho visto pubblicità in giro per la città, questo mi è bastato per fare 2+2!!!! Poi leggendo le cifre dei soldi spesi mi sorge qualche altro dubbio!!!!!!!!” scrive su un social network un italiano che ha partecipato alla fiera Brand Italy.

Oltre 200 aziende italiane hanno speso dai 3mila ai 30mila euro per partecipare con uno stand alla fiera durata 3 giorni a Doha, dal 10 al 12 novembre. Alcuni giornali e istituzioni italiani avevano reclamizzato l’evento associandolo all’emiro, traendo in inganno molte aziende che fino all’ultimo si sono aspettate di veder comparire il regnante qatarino. Sul sito del comune di Parma, per esempio, si legge in relazione alla fiera Brand Italy: “i membri di High Italian Quality hanno ricevuto l’invito dall’emiro del Qatar, desideroso di portare a Doha le migliori professionalità in grado di operare per i committenti locali, che adorano la ricercatezza, la qualità, il lusso italiani”.

Anche vari giornali hanno associato l’emiro a questo evento, ma l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani non ha mai avuto nulla a che fare con Brand Italy. L’organizzazione era infatti nelle mani di Ali Bin Thamer al Thani, imparentato con la famiglia reale come circa il 60% dei qatarini, ma senza alcun ruolo governativo.

I grandi assenti, a parte l’emiro, sono stati i 30mila visitatori proclamati con slancio anche sul sito di Brand Italy. Assenti prevedibili per chi conosce i numeri del Qatar, ma che hanno tratto in inganno molte imprese in cerca di clienti e poco informate sul Paese in cui andavano.

“Il Qatar è un Paese piccolo, ha una popolazione complessiva di circa 2 milioni di persone, di cui più di un milione sono operai stranieri e solo 300mila sono qatarini. Avere 30mila visitatori significa avere a una fiera il 10% della popolazione qatarina di tutto il Paese, cosa praticamente mai successa ” spiega una fonte interna alle istituzioni italiane e qatarine a Doha che preferisce mantenere l’anonimato. Oltre all’informazione ingannevole, anche l’organizzazione dell’evento non ha convinto molti partecipanti.

“Stand ridicoli tipo mercato rionale, ad alcune aziende hanno bloccato le merci alla dogana, proprio un evento organizzato male. Io sono arrivata sulle mie forze, ma molti sono stati pagati in anticipo dalle regioni” spiega un’imprenditrice che ha partecipato a Brand Italy.

Solo la regione Sicilia, che ha portato 120 imprese sulle 240 partecipanti, ha speso 695mila euro per l’evento che non presenta il patrocinio di nessuna istituzione italiana in Qatar. Di questa cifra, 281mila euro sarebbero stati spesi per l’esecuzione dei servizi di marketing e di internazionalizzazione.

Sulle spese sostenute dall’assessorato Turismo per la partecipazione al Brand Italy in Qatar, il Movimento 5 Stelle (M5s) ha presentato un’interrogazione parlamentare, primo firmatario Matteo Mangiacavallo. “Praticamente – afferma il deputato M5s Mangiacavallo – per soli due giorni, la Regione per avere a disposizione un’area espositiva pre-allestita e personalizzata di 250 metri quadrati con una pagina pubblicitaria sul catalogo ufficiale della manifestazione, la comunicazione via web e due hostess e/o steward bilingue arabo – italiano, spende cifre importanti ad oggi ancora non giustificate”.

Sul sito di Brand Italy si legge “Protagonisti dell’evento sono le Istituzioni, gli Enti e le Aziende che hanno portato lo stile italiano nel mondo facendone un marchio di successo”, ma né sul sito, né all’evento è comparso alcun simbolo delle istituzioni italiane in loco, un gesto che alcuni hanno interpretato come un modo per le Istituzioni italiane di prendere le distanze, ma che l’ambasciatore italiano a Doha spiega così:

“Per fortuna i rapporti tra Italia e Qatar sono così buoni da permettere a privati italiani di organizzarsi insieme a privati qatarini. L’ambasciata ha dato il nulla osta richiesto dalle autorità qatarine per permettere lo svolgimento di Brand Italy, e abbiamo dato con largo anticipo alle aziende interessate la disponibilità dell’ambasciata e dell’ICE, ma il patrocinio non si dà a nuovi operatori non sapendo che prodotto sarebbe uscito” spiega l’ambasciatore italiano a Doha, Guido De Sanctis.

Sorge spontaneo il dubbio di come ingenti quantità di soldi pubblici siano stati stanziati per un’iniziativa organizzata da un privato in cui le istituzioni italiane in loco non compaiono minimamente. Sul sito di Brand Italy infatti si legge che l’evento è organizzato da una società, la L.I. for Exhibition con sede a Doha, costituita per il 51% dallo sceicco Ali Bin Thamer al Thani e per il restante 49% da soci italiani. Ma chi sono questi “soci italiani”? Tra i capofila troviamo Lunetto Group, una S.r.l. con sede a Palermo, in Sicilia, la regione che più ha finanziato l’evento.

Nonostante gli aspetti più o meno chiari dell’organizzazione di questa fiera, quello che alle imprese italiane in fondo interessa sapere è se in questi eventi si concludano affari o meno. Ne è positivamente convinto il presidente della regione Sicilia, Rosario Crocetta, che ha partecipato alla fiera a Doha con la consulenza di Sami Ben Abdelaali, già esponente della dittatura tunisina di Ben Alì, console in Sicilia in rappresentanza del regime, e oggi esperto per l’internazionalizzazione della Regione Sicilia.

“All’evento hanno partecipato 240 aziende, di cui 120 erano siciliane. Hanno concluso tanti contratti, basti pensare che la “Piacere italiano” ne ha firmati 24” ha dichiarato Crocetta. Per capire meglio abbiamo chiesto a un avvocato di uno studio legale internazionale con presenza regionale nel Golfo, con un portfolio vasto di aziende italiane ed europee che investono in Qatar e di gruppi qatarini che investono in Italia.

“Dalle testimonianze raccolte alla fiera non si è concluso quasi nulla. Gli unici accordi che sembrano essere stati conclusi riguardano un nuovo centro commerciale ancora in costruzione, Al Emadi, che affitta spazi per l’apertura di negozi. Avendo analizzato il modello di business che Al Emadi propone, mi pare che le condizioni che offre siano vessatorie, probabilmente non sostenibili da aziende che non abbiano la possibilità di lavorare in perdita almeno per i primi due anni di start up.

Dissi ai miei assistiti che era meglio lasciare stare a quelle condizioni. Noto infine che doveva essere un centro commerciale di grandissime marche che avrebbe dovuto aprire nel 2012. Siamo al 2014 e vedo che sta ancora cercando occupanti. Inoltre in questo momento stanno aprendo altri sette centri commerciali a Doha, di cui uno a mezzo chilometro dall’Al Emadi” spiega l’avvocato, che ha qualche altro dubbio.

“Una fiera simile era stata organizzata a Doha due anni fa con strascichi giudiziari. Quando seppi che ne organizzavano un’altra mi insospettii. Vidi che non c’era nessuna strategia, molte aziende si aspettavano che venisse l’emiro. E’ indecente che la cosa non sia stata smentita da nessuno. C’erano aziende che vendevano piumini in Qatar in cui per sei mesi l’anno fa un caldo torrido, c’erano società che avevano bisogno di un socio investitore. Nessuno ha spiegato a questa gente che non si fa business in Qatar così” aggiunge.

Un po’ scoraggiati chiediamo a un imprenditore che ha partecipato alla fiera. “L’italiano che pensa di andare tre giorni a una fiera in Qatar e concludere accordi e firmare contratti si sbaglia. Con gli arabi bisogna instaurare rapporti, strutturarsi, porsi in maniera più professionale, capire il mercato e la cultura locali. Con un evento non si conclude nulla”.

Anche chi lavora all’interno di istituzioni che operano nel settore ha qualche dubbio sull’utilità di questi eventi. “In Qatar le fiere multi-settoriali non funzionano e sono piene di speculatori che attraggono aziende che non conoscono il Paese e sperano di arrivare e fare affari, ma non è in questo modo che si fa business in Qatar. Il mercato è piccolo, elitario e difficile da penetrare. Le aziende italiane devono stare attente e informarsi prima di venire, vedere chi organizza gli eventi, la posizione delle istituzioni italiane, per evitare di spendere decine di migliaia di euro a vuoto” spiega una fonte interna alle istituzioni italiane e qatarine che preferisce mantenere l’anonimato.

Fare business nella terra dei petrodollari è difficile e il mare del Golfo Persico è pieno di squali, si sa, ma speravamo che a mordere non sarebbero stati gli italiani.

 

24 novembre

 

Archeologia off limits per i portatori di handicap: restano ancora molte barriere

di Manlio Lilli

Secondo un Documento presentato dalla Corte dei Conti, i siti archeologici sarebbero un “esempio virtuoso” grazie alle iniziative del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Ma la realtà è diversa: se a Roma molto si è fatto, a Pompei del progetto di Bray non c'è più traccia. E a Paestum l'accesso è interdetto ai disabili

La natura dei luoghi, percorsi accidentati, repentini e frequenti cambi di quota nel terreno di aree archeologiche e complessi monumentali poco si prestano alla visita di portatori di handicap, di vario tipo, come a quella di anziani e bambini. Quindi archeologia offlimits per le categorie cosiddette fragili? Non sembra essere così. Almeno stando al documento recentemente presentato dalla Corte dei Conti, intitolato “La gestione degli interventi di ristrutturazione e di adeguamento delle strutture pubbliche per l’eliminazione delle barriere architettoniche”. In mezzo a tante criticità i siti archeologici, nel Documento considerati insieme a quelli culturali, sono presentati come un “esempio virtuoso”, grazie alle iniziative del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che hanno portato ad avere “servizi per disabili in 184 istituti e luoghi di cultura statali e in 1.409 non statali, e quindi complessivamente nel 34,72% dei casi”.

Una situazione in linea con le politiche perseguite almeno dai più recenti Ministri dei Beni culturali. “L’accessibilità ai luoghi della cultura, attraverso strumenti che si inseriscano con garbo e in maniera reversibile all’interno di contesti preziosi e delicati come il Foro Romano e il Palatino, è una delle priorità più importanti che ci dobbiamo porre per una vera crescita culturale della società”. Erano i primi giorni dell’ottobre 2013 quando Massimo Bray, allora ministro del Mibact, sosteneva questa tesi. Osservando gli interventi realizzati fin ad allora e prefigurando un progetto su ampia scala, declinato anche localmente. A Pompei nel maggio 2010 s’inaugura Friendley Pompei, il percorso per rendere fruibili gli scavi archeologici ad anziani e disabili. Peccato che nel settembre 2013 non rimanga quasi traccia di quel percorso. Tutto da rifare. Così all’inizio dello scorso settembre è stato approvato un nuovo progetto riguardante un itinerario per i portatori di handicap, lungo via dell’Abbondanza, dall’anfiteatro a Porta Marina. Con annesse visite a domus e ai monumenti principali della piazza del Foro, con aree di sosta. “Sono sicura che alla fine questo tragitto senza asperità, con vernici che captano la luce solare e la restituiscono nelle ore notturne, sarà l’itinerario più frequentato di Pompei”, sostiene l’architetto Maria Grazia Filetici, responsabile dell’operazione, il cui costo previsto si aggira sui 7 milioni di euro. Per livellare il pavimento stradale si ricorrerà a pietre locali, mentre alle domus si accederà da ingressi alternativi per ovviare alla presenza dei gradini. Uno scavo vicino alla Casina delle Aquile, permetterà di verificare la possibilità di sistemarvi un ascensore. Per i non vedenti sono invece allo studio delle app di orientamento attraverso i cellulari.

A Roma molto si è fatto. “In questi anni sono state investite risorse per migliorare l’accessibilità al Foro”, affermava il Ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, nell’ottobre 2013 alla presentazione di una serie di interventi, tra cui la nuova sistemazione dell’ingresso monumentale del Vignola al Palatino, lungo via di San Gregorio. Una rampa di accesso con pendenze dolci, intercalata da siepi di bosso, ha consentito di eliminare le scale. Con un costo di 300 mila euro, co-finanziati dalla Soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma e dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Dopo l’ascensore panoramico che si trova all’ingresso di Largo della Salara Vecchia, su via dei Fori Imperiali, e che consente di superare il dislivello di circa 6,5 metri tra l’ingresso e la quota di calpestio del Foro Romano. Un’opera da 530mila euro, finanziata dal Commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia. Ma anche dopo la realizzazione del percorso all’interno del Foro, fatto di pavimentazione liscia, per far scorrere meglio le ruote dei passeggini e delle sedie a rotelle, ma anche per rendere la passeggiata più confortevole a tutti i visitatori. Un sentiero di 1200 metri tra l’arco di Settimio Severo, sotto il Campidoglio, e l’ingresso all’arco di Tito, per il quale sono stati impegnati 750mila euro.

“La progettazione è stata ad altissimo livello ed ha avuto la capacità di adattarsi ad un tessuto archeologico fragilissimo, grazie alla scelta dei materiali ed i continui adattamenti in corso”, sosteneva la Soprintendente Mariarosaria Barbera nell’ottobre 2013. Tutti interventi inseriti nel progetto pilota della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma denominato “Percorsi”. Interventi quelli al Foro e al Palatino diretti e curati, come accadrà a Pompei, dall’architetto Maria Grazia Filetici. Una esperta nel settore, che nel 2002 aveva curato l’apertura delle domus romane del Celio, progettando un percorso di visita, reso accessibile ai portatori di handicap.
Apprestamenti parziali sono invece esistenti in complessi monumentali, peraltro di riconosciuto appeal, come il Colosseo e le Terme di Caracalla. Mentre percorsi sono stati realizzati nel 2010 all’Ipogeo dei Volumni e alla necropoli etrusca del Palazzone, pochi chilometri a sud-est di Perugia. Finanziati ma non completati il percorso di accessibilità alla necropoli di Tarquinia, Tomba della Pulcella, nonostante i lavori siano stati appaltati nel 2012 con un impegno finanziario di 290mila euro. Ancora, nel 2014, finanziata per 100mila euro la completa fruizione dell’area archeologica della villa d’Orazio a Licenza, nella provincia di Roma, con la realizzazione di cartelli didattici esplicativi.

Interventi anche nel Parco della Valle dei templi. Nel maggio 2004 ad aprirsi ai disabili è stato il Giardino della Kolymbetra, grazie ad una iniziativa realizzata dall’Ente Parco archeologico della Valle dei templi, in collaborazione con il Fai e con la cooperativa sociale Caap. Non solo. In occasione dell’inaugurazione il direttore dell’area archeologica Pietro Meli spiegava come “Fra breve il Parco della Valle dei templi metterà in funzione altri itinerari per i disabili che consentiranno la visita al Quartiere ellenistico romano e alla Collina dei templi”. Mentre ancora in fase di realizzazione il progetto “Orione” per la costruzione di un percorso sperimentale di mappe tattili per ciechi e ipovedenti nel sito dei templi dorici. Un progetto di ricerca, finanziato con 8mila euro dall’ente Parco Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi di Agrigento.

Dal 2010, finanziati con fondi del Piano nazionale per l’archeologia 2006, esistono percorsi per disabili motori, oltre che una pannellistica in braille, nel sito di Veleia, nell’appennino piacentino. Accessibile anche Telesia, nel territorio di San Salvatore Telesino, in provincia di Benevento. Esempi, tutt’altro che isolati, di un impegno di Amministrazione centrale ed enti locali a non escludere dalla visita di aree archeologiche e musei, il mondo della disabilità. Invece rimane ridottissima l’offerta di materiali e supporti informativi specifici, almeno relativamente ai Musei. Poco meno di un quinto risultano attrezzati in tal senso, con percorsi tattili o pannelli in braille per i non vedenti, secondo i dati presenti nel Report “I musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia”, realizzato dal Mibact, in collaborazione con l’Istat e la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.

Altrove, anche in luoghi di grande richiamo turistico, la situazione è sconfortante. Valga come esempio negativo il caso di Paestum dove l’accessibilità e la fruizione dell’area archeologica è sostanzialmente interdetta per i diversamente abili. Nonostante nel 2004 l’Amministrazione comunale di Capaccio, insieme alla Arcus Spa, la Società del Mibact per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, avesse promosso il progetto pilota “Cultura senza barriere”. “… la realizzazione di questo progetto ci inorgoglisce e pone i templi di Paestum all’avanguardia per la fruizione ai disabili”, dichiarava in occasione della presentazione del progetto nel luglio 2010 il consigliere comunale Carmine Caramante. Nell’area archeologica e nel Museo nazionale archeologico di Paestum fu pianificato l’abbattimento di tutte le barriere architettoniche e la realizzazione di elementi che agevolassero la fruizione. Il tutto per un costo di 335mila euro. Dopo sei anni completate solo alcune delle opere previste, che ormai risultano in stato di abbandono. Il percorso per non vedenti, deteriorato, mentre la rampa che doveva consentire la visita della basilica, chiusa.

Non sembra andar meglio nelle aree archeologiche calabresi, da Grumentum a Metaponto, da Venosa ad Herakleia, dove a parte i servizi igienici, per i disabili non sembra esserci spazio. Uguale panorama è rilevabile in Sicilia, dall’Isola di Mozia a Pantelleria e Lilibeo. Il panorama nazionale diversificato, da regione a regione, talora con profonde differenze tra una provincia e l’altra. Non sempre “per colpa” di risorse insufficienti, come indizia il caso di Paestum. L’investimento iniziale necessario, imprescindibile per realizzare percorsi con materiali e strutture di supporto. Proprio come la successiva, ordinaria, manutenzione. Naturalmente.

 

12 novembre

 

I BOSS HANNO VINTO E IO ME NE VADO - SAVIANO NON CI STA: “SENTENZA ALL’ITALIANA E SENZA CORAGGIO” - “LA PARTE PIÙ FORTE DEL PAESE NON COMBATTE I CLAN” - “RENZI? FINORA HA FATTO POCO PER LA LOTTA AL CRIMINE”

Dal caso Cucchi a L’Aquila fino alla sentenza che assolve i boss di Gomorra lo scrittore torna sui verdetti delle polemiche: “Sono sentenze che aprono ferite. Forse anche noi chiediamo troppo alla giustizia” - “Andarmene dopo una sentenza del genere? Chi rimarrebbe dopo una simile decisione?”...

Conchita Sannino per “la Repubblica”

Roberto Saviano
Non ce la fa a frenare la rabbia, alla fine. Quella sentenza dei giudici di Napoli? «Una cosa tipicamente italiana, a metà, senza coraggio», posta su Facebook. E ieri sera, a Ballarò: «Così facendo, hanno vinto loro, i boss. Non riesco ancora a darmi pace: come è possibile che un avvocato possa essere considerato slegato dai suoi clienti?».

Lo sfogo di Roberto Saviano arriva prima con un filmato registrato al buio e postato sui social.

Poi a Repubblica, ospite della riunione del mattino, infine nel talk show Rai condotto da Massimo Giannini e aperto ieri col caso Casalesi. Così monta la reazione dello scrittore sul verdetto che un po’ lo soddisfa e molto lo delude. È la decisione con cui il Tribunale di Napoli, lunedì scorso, ha condannato il penalista Michele Santonastaso per minacce «aggravate dalla finalità mafiosa» lanciate contro di lui e la giornalista (oggi senatrice Pd) Rosaria Capacchione: ma ha assolto i padrini dei Casalesi, Antonio Iovine (pentito) e Francesco Bidognetti (ergastolano al 41 bis), insieme all’altro legale Carmine D’Aniello.

Al centro del dibattimento, l’istanza di remissione con cui i difensori dell’epoca dei due capimafia, Santonastaso e D’Aniello, lanciarono accuse e calunnie sui due autori e sui due magistrati, Cafiero de Raho e Cantone, per provare a strappare dal collegio naturale l’appello del maxi processo Spartacus 2. L’autore di Gomorra e di Zero zero zero si filma con il cellulare, parla come se fosse in un bar nella notte, e avesse proprio davanti una birra e la folla dei suoi amici, lettori, sostenitori che gli scrivono da ogni parte del mondo. Si dice «stanco», mostra la sua giornata in salita.

«Mi dispiace, in questi anni di vita così difficile e complicata ho sempre avuto la sensazione che i clan non avessero “contro” la parte più forte del paese. No: invece avevano “contro” solo una parte che ora, sento di dire, è quella migliore del paese. Ma tutto il resto, anche se non connivente, era silenziosa e, quindi, connivente».

Il giorno dopo di Saviano comincia con una visita al teatro del Rione Sanità, cuore antico di Napoli che diede i natali a Totò e che custodisce un immenso patrimonio di ipogei, catacombe, basiliche, dipinti: lì ha aperto il Nuovo teatro Sanità e l’autore incontra allievi attori e Mario Gelardi, direttore artistico e regista della versione teatrale di Gomorra.

«Questo è un luogo prezioso. Sono venuto qui anche per lasciare Napoli con un sorriso. Mi ritrovo tra amici. E tra strade e posti ricchi di storia, e assetati di riscatto ». Poi torna con la mente a quella lunga attesa in Tribunale, aula 116.

«Il pm antimafia Sirignano ha detto che indicare un nome di uno scrittore significa condannarlo a morte, per me c’è stato un brivido dietro la schiena ma ha significato anche sono vivo, voglio esserlo. Continuo a scrivere contro quella alleanza fatta di zona grigia: avvocati, imprenditori, giornalisti di certi ambiti locali spesso conniventi. Contro questo mi batterò». Dentro e fuori dall’Italia. Di cui vuole restare anche pungolo. E spina.

Sull’esecutivo, dice a Ballarò : «Nel contrasto alle mafie il governo Renzi si è mosso poco. Qualcosa si è fatto rispetto al passato, ma la lotta alle mafie non può essere un nodo tra i tanti. Si doveva approfittare del semestre europeo. La prima cosa da fare era portare in sede europea la di leggi antiriciclaggio, che è l’unico modo di recuperare denaro».

A margine poi aggiunge: «Il governo ha nominato figure importanti, come Grasso al Senato e Cantone all’Anticorruzione; ma non possono bastare nomi che fanno da “ombrelli”». Poco dopo Cantone difende le scelte del governo e aggiunge: «Saviano dice una cosa giusta: si può fare di più e meglio. Ma abbiamo introdotto, ad esempio sulla corruzione, strumenti e meccanismi di controllo e di commissariamento che non c’erano mai stati. C’è discontinuità netta col passato».

Poi lo scrittore torna sui verdetti delle polemiche. «Al di là di una sentenza che va male — riflette — dietro la vicenda Cucchi c’è un mondo che grida vendetta. Dietro L’Aquila c’è un problema non risolto, dietro la sentenza su Bidognetti e Iovine c’è un potere enorme. Sono sentenze che aprono ferite. Forse anche noi chiediamo troppo alla giustizia, e dietro certe sentenze c’è un’assenza di coraggio. Una ferita che si riapre». Il finale è una risposta alla domanda di Giannini. «Ma tu rimarresti in Italia, dopo una sentenza come questa?» Saviano: «E tu, rimarresti dopo un verdetto del genere?».

 

UNIVERSITA’ LAGER? - HARVARD COME IL GRANDE FRATELLO: 2MILA STUDENTI SPIATI A LORO INSAPUTA DURANTE LE LEZIONI PER CONTROLLARE LE FREQUENZE

La vicenda ha dell’inquietante: occhi elettronici spiavano le vicissitudini quotidiane di almeno 2mila studenti che hanno seguito le lezioni nel famoso ateneo di Harvard. E tutto senza che nessuno di questi abbia mai firmato una liberatoria o fosse messo al corrente dell’esperimento…

Harvard, l’università da favola dove i rampolli delle migliori famiglie del mondo studiano per diventare ricchi professionisti quanto i loro genitori o anche di più. Eppure anche i fuoriclasse ogni tanto fanno un buco nell’acqua. Infatti il prestigioso ateneo avrebbe condotto un esperimento quanto meno discutibile, che ha infranto la privacy di almeno 2mila studenti. Fotografie delle aule senza avvertire né gli universitari né il personale. Il perché? Controllare la frequenza e l’andamento delle lezioni, come segnala il portale Skuola.net

GRANDE FRATELLO AD HARVARD – La vicenda ha dell’inquietante: occhi elettronici spiavano le vicissitudini quotidiane di almeno 2mila studenti che hanno seguito le lezioni nel famoso ateneo di Harvard. E tutto senza che nessuno di questi abbia mai firmato una liberatoria o fosse messo al corrente dell’esperimento, portato avanti nella primavera del 2013. Infrangendo senza pietà il diritto alla privacy degli universitari e del personale.

FREQUENZA FIN TROPPO OBBLIGATORIA - E’ stato lo stesso Peter Bol, vice rettore dell’università, ad ammettere l’esistenza di questo esperimento segreto. E’ successo durante una riunione di facoltà dove Harry Lewis, prof di informatica appena venuto a conoscenza della vicenda, ha chiesto spiegazioni.

Lo scopo delle immagini acquisite in segreto nel corso della Harvard Initiative for Learning and Teachingsarebbe stato quello di avere informazioni sulla partecipazione alle lezioni e del loro andamento. Sicuramente non per raccogliere dati personali sugli studenti o per valutare i docenti, ha affermato il vice rettore. Dopo la raccolta dei dati, le fotografie sono state distrutte.

 

10 novembre

 

Sconfigge la mafia ma non l’usura bancaria: imprenditore chiude azienda. Fiom è con lui

Stanno per essere licenziati 40 dipendenti dell’azienda Demasi di Gioia Tauro. Dove non è riuscita la ‘ndrangheta ci stanno pensando le banche e al danno si aggiunge la beffa: sì, perché gli istituti di credito sono stati condannati, in via definitiva, per usura ai danni dell’imprenditore Antonino Demasi che è in attesa di un risarcimento milionario. Soldi che non arrivano fino a quando non si conclude il procedimento civile con il quale l’imprenditore, sotto scorta dopo le minacce declan locali, ha chiesto agli istituti bancari un risarcimento di 215 milioni di euro. Nel frattempo, oltre alle linee di credito, le banche gli hanno chiuso anche i conti correnti e ora Demasi sarà costretto a mandare in liquidazione la sua azienda nonostante le commesse che gli consentirebbero, al contrario, di fare assunzioni. Una storia assurda che vede la Fiom schierata al fianco del “padrone”. “È paradossale quello che sta succedendo a Gioia Tauro“, racconta il segretario provinciale del sindacato Pasquale Marino che chiede l’intervento del governo. “Io ho subito l’usura e la Cassazione ha stabilito che la responsabilità è delle banche. – spiega Demasi – È da 11 anni che sto cercando di farmi restituire quanto mi è stato rubato. Più di quello che ho fatto non posso, adesso ho l’obbligo giuridico di chiudere l’azienda il primo gennaio. Licenzierò tutti ma continuerò a battermi contro il mondo bancario. Ci sono tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. È importante avere ben chiaro chi sono i criminali e chi sono le vittime”. Già nell’aprile scorso, della vicenda si era parlato durante il congresso della Fiom. Ma le parole del segretario Maurizio Landini e di don Ciotti sono rimaste inascoltate.

di Lucio Musolino

 

Minori stranieri non accompagnati, caos comunità: “Renzi intervenga”

Aumentano gli arrivi ma anche i ragazzi "irreperibili". E, a causa di un pasticcio burocratico, molte strutture di accoglienza di Campania, Puglia e Sicilia non ricevono dallo Stato i pagamenti dovuti. Intanto il coordinamento italiano delle organizzazioni denuncia che il governo, per ridurre i costi, intende ridurre gli standard di qualità

di Chiara Brusini

Oltre 3mila tra bambini e ragazzi “irreperibili”. Mentre l’Italia archivia la missione umanitaria Mare Nostrum in favore del progetto europeo per il controllo delle frontiere Triton, i dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali danno le dimensioni di un’emergenza che resta sottotraccia: quella dei minori stranieri non accompagnati in arrivo dal Nord Africa. Dalle tabelle aggiornate a fine settembre emerge che dall’inizio dell’anno ne sono stati registrati più di 12mila (contro gli 8.400 del 2013 e i 7.500 del 2012). Ma 3.163 di questi ragazzi, un quarto del totale, sono spariti. Quasi 1.800 in Sicilia, la regione che per evidenti ragioni geografiche registra il maggior numero di sbarchi, 348 in Puglia, 309 nel Lazio, 148 in Emilia Romagna e 123 in Lombardia. Le associazioni che si occupano di disagio sociale e accoglienza ai minori avvertono che la situazione, finita anche al centro di un’interrogazione parlamentare della senatrice Pd Silvana Amati, è “drammatica e di difficile gestione”: le comunità sono sature e insufficienti rispetto al numero di arrivi e di conseguenza molti bambini e ragazzi rimangono senza collocazione. Vale a dire che nel migliore dei casi vengono inseriti in strutture per adulti, nel peggiore finiscono per strada. Un quadro aggravato dal fatto che da tempo, a causa di un pasticcio burocratico, molte comunità per minori stranieri non accompagnati di Campania, Puglia e Sicilia non ricevono dallo Stato i pagamenti dovuti. E ora sono pronte a scendere in piazza e perfino a dimettere i ragazzi ospitati per rivendicare i propri crediti e denunciare che il governo, per ridurre i costi, intende rivedere al ribasso gli standard di qualità dell’accoglienza. A fronte di questo, sostengono, vale poco il fatto che con la legge di Stabilità l’esecutivo abbia incrementato di 12,5 milioni gli stanziamenti per il fondo destinato a questa emergenza, portandolo a 120 milioni di euro.

 

Quando in prigione ci vanno i bambini

Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri, assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review

di GIUSEPPE DEL BELLO e ALICE GUSSONI

ROMA - Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla madre. Tutti tranne il piccolo S., che all'epoca non aveva neanche un anno e l'ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino alla scarcerazione della mamma.

S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili per l'intera popolazione carceraria del lazio che arriva a 5mila 680 presenze, di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di 7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri.

Mancanza di strutture. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono contemplati interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono 2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni italiani, forniscono il quadro di un'Italia spaccata a metà ma nell'insieme ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario.

Lo stato del diritto. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l'affidamento ai servizi sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi ha subito un'amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano ad aiutare come possono i loro compagni di cella. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo una rilevazione dell'Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere architettoniche.

Il problema dell'HIV. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da HIV (circa il 3,8% dell'intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se rimane loro poco da vivere, restano dentro. E' una legge spietata, ma il carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo: "L'incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto".

La galassia dei reclusi senza diritti

Chi resta in cella. Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte europea per i diritti dell'uomo che ha sanzionato l'Italia per le condizioni inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l'ultimo censimento, datato 31 ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero 54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità effettiva, secondo il X rapporto dell'Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente inferiore, pari a circa 37mila unità.

La soluzione domiciliare. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa, cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto all'assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono stati ulteriormente ridotti (Milano è l'unica città italiana ad avere un Centro di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale).

Investimenti scarsi. Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse, contro i 123 euro spesi all'interno delle carceri.

Il 32% di tossicodipendenti. La considerazione che il carcere sia anche un deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come indica una ricerca su base europea svolta dall'Emcdda, l'European monitoring center for drug and drugs addicted.

Comunità terapeutiche solo per 1 su 6. L'affidamento alle comunità terapeutiche rimane l'ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del sistema, come denunciato dall'associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere, spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente rischiano di essere antitetici".

Nessuna dignità della persona. Il trattamento penitenziario in Italia è stato però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece l'articolo 1 dell'Ordinamento penitenziario (L.354/75). Gli stessi ospedali psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del '78, avrebbero dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva - assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi.

Il miraggio delle case famiglia. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista, coordinatore dell'Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma, suggerisce di assegnare all'istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati alla mafia. Un'idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334 solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo.

Custodia attenuata per le madri. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna), anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi. Gioia Passarelli, presidente della onlus 'A Roma Insieme', da anni impegnata a favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L'idea di partenza era quella di rendere l'ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le madri, ma a parte l'abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare l'ora d'aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli effetti che sottostanno all'ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre l'età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3 ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di loro non hanno mai visto com'è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione anche Lia Sacerdote dell'associazione Bambini senza sbarre, firmataria insieme al Garante per l'infanzia e l'adolescenza e il Ministero della Giustizia di un Protocollo d'Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l'iniziativa della creazione di uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed educatori si cerca di rendere comprensibile l'esperienza del carcere ai piccoli visitatori.

Dietro le sbarre con lievi condanne. La mancanza di strutture ricettive è un problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall'Osservatorio Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale (inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100% dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq, sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione (sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013).

Senza cure né assistenza, ecco i casi più gravi

di ALICE GUSSONI

Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006
Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai, senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa. Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel '76 perché dormiva in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di certificare l'avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30 anni, uscito con l'indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli ospedali psichiatrici ne sono pieni.

Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti
Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l'incompatibilità con il regime carcerario (articolo 47 comm.2 ) è l'esigenza di un trattamento che non sia possibile ricevere nell'ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha dell'incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi, fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l'uso delle gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all'altezza e così viene rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l'assistenza adeguata.

Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre
La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede l'innalzamento dell'età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non c'è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande per affrontare una nuova vita senza il trauma.

Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo
Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che all'epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici, durata per l'intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell'area verde del carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può entrare solo una volta al mese.

Gli ergastoli bianchi degli Opg

di GIUSEPPE DEL BELLO

NAPOLI - Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più drammatico a causa dell'emergenza Opg, gli ospedali psichiatrici da chiudere entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo, nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant'Eframo (chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un'ala quasi interamente crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto terapeutico riabilitativo individuale) nell'ottica della dimissione entro il 31 marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti saluti al risparmio e a un'assistenza dignitosa.

Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell'altro Opg, il Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e, quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto.

Ma le Rems, come osserva il presidente dell'Associazione "Sergio Piro" (recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è d'accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case famiglie.

 

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