Sbankitalia. Befana
Saccomanni regala 4 miliardi alle banche italiane. Intesa e Unicredit ci
guadagnano di più, per Mps non cambia nulla e Carige dovrà scontare la
sopravvalutazione euforica dell'era Berneschi
Se si fanno i calcoli sulla banca senese, viene
il sospetto che la rivalutazione di Banca d’Italia arriverà a 7,5 miliardi.
Monte Paschi ha il 2,5% di Palazzo Koch in carico a 188 milioni, che porta
(guarda caso) a una valutazione di 7,5 miliardi. Se la rivalutazione si fermasse
a 5 miliardi, per la banca toscana sarebbe una beffa perché dovrebbe svalutare
in un momento già complesso…
Luca Fornovo per "La Stampa"
Sotto l'albero a dicembre le due super banche
italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit, si ritroveranno un "regalo" che potrebbe
valere in tutto circa 4 miliardi di euro. Il Babbo Natale in questione è il
ministro dell'Economia, Maurizio Saccomanni e la renna che porterà il dono è la
Banca d'Italia.
Dopo aver schierato la Cassa depositi e prestiti in aiuto delle piccole e medie
imprese ripulendo però i crediti deteriorati rimasti nella pancia delle banche,
il governo Letta apre il secondo capitolo di quello che a questo punto si può
definire un vero programma salva-banche.
L'obiettivo è sempre quello di aiutare i colossi del credito a superare gli
stress test della Banca centrale europea, ma soprattutto ad avere la liquidità
necessaria per tornare a prestare denaro a imprese e famiglie così da rimettere
in moto l'economia e centrare per il 2014 una crescita del pil all'1%.
Ieri il Consiglio dei ministri ha approva il decreto per la rivalutazione delle
quote delle banche nel capitale di Bankitalia. Un provvedimento che, al termine
di un aumento di capitale, porterà l'istituto, presieduto da Ignazio Visco, a
valere tra i 5 e 7,5 miliardi di euro. Mentre finora il valore era ancorato a
quello del 1936, cioè appena 156 mila euro. Il decreto stabilisce anche che le
banche potranno avere al massimo una partecipazione del 5% nella Banca d'Italia.
Calcolatrice alla mano, facendo i conti, appare subito chiaro che questa
rivalutazione delle quote sarà un grande affare per i big del credito. In tutto
si calcola che i benefici per i soci di Banca d'Italia (la maggior parte sono
banche) sarà dai 5 ai 7,5 miliardi. Ma l'operazione si può definire, come
direbbero gli inglesi, "win-win" perché a vincere è anche il governo: con la
valutazione a 7,5 miliardi, la tassazione dei capital gain porterebbe allo Stato
circa un miliardo.
Partiamo da Intesa Sanpaolo che col 42,4% è il maggiore azionista dell'istituto
di via Nazionale e si ritrova con un asset che ora vale dai 2,1 a 3,15 miliardi
di euro. La banca guidata da Carlo Messina dovrà scendere al 5% entro due anni e
quindi dovrà vendere il suo 37,4%, che con la nuova rivalutazione vale 1,87-2,8
miliardi. Ma che la banca ha iscritto a bilancio a un valore più basso 624
milioni.
logo intesa san paolo
Di conseguenza una volta venduta la quota, la plusvalenza, cioè il guadagno, che
Intesa incasserà sarà di 1,2-2,2 miliardi. Già ma chi compra, chi paga? La Banca
d'Italia. Il decreto al riguardo è esplicito: per favorire il rispetto dei
limiti di partecipazione al proprio capitale fissati, l'istituto di Palazzo Koch
«può acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare
contratti aventi ad oggetto le medesime».
UNICREDIT
Se Intesa è il vincitore assoluto di quest'operazione, anche per Unicredit è un
ottimo affare. La banca guidata da Federico Ghizzoni ha il 22,1% di Banca
d'Italia per un valore che oscilla da 1,1 a 1,6 miliardi. Cedendo il 17,11%,
Unicredit potrebbe ricavare dagli 855 milioni a 1,2 miliardi, con un guadagno
che potrebbe variare da poco più di 600 al miliardo, visto che l'intera a
partecipazione è a bilancio a "soli" 284 milioni.
Se si fanno i calcoli su Mps, viene il sospetto che probabilmente la
rivalutazione di Banca d'Italia arriverà a 7,5 miliardi. Il motivo è presto
detto: Monte Paschi ha il 2,5% di Bankitalia in carico a 188 milioni, che porta
(guarda caso) a una valutazione di via Nazionale di 7,5 miliardi. Se invece la
rivalutazione dell'istituto presieduto da Visco si fermasse a 5 miliardi, per
banca senese sarebbe una beffa perché dovrebbero svalutare la quota di Banca
d'Italia di oltre 60 milioni.
Chi invece dovrà svalutare per 200-300 milioni le quote di Bankitalia sarà la
genovese Carige. L'ex presidente-padrone, Giovanni Berneschi, in un eccesso di
generosità che faceva comodo alla sua banca per rafforzare il patrimonio, aveva
attribuito alla quota del 4% un valore di oltre 880 milioni, dando così a
Bankitalia una valutazione da capogiro: 22,1 miliardi.
25 novembre
Ma è una visita di Stato o
un'invasione? Putin ritorna dopo sette anni in Italia con cinque aerei,
cinquanta macchine, undici ministri (e quante spie?)... Silvio ambasciatore?
Ne rottama più Bergoglio di
Renzi. Lacia l'Apsa Paolo Mennini, capo di Monsignor Scarano e delegato alla
gestione della liquidità della Santa Sede
Mennini, figlio del numero due dello Ior ai tempi di Marcinkus, ha concluso
il suo secondo mandato di cinque anni e lascia la poltrona - Suo figlio, Luigi,
è ad della Finnat Fiduciaria, banca i cui titoli sarebbero stati, a detta di
Scarano, oggetti di aggiotaggio da parte dei dirigenti dell’Apsa nel 2010…
M. Antonietta Calabrò per il "Corriere della Sera"
All'Amministrazione della Sede apostolica (Apsa) si chiude un'epoca. È andato in
pensione Paolo Mennini, delegato della Sezione straordinaria (cioè quella che
gestisce gli investimenti in titoli e obbligazioni, cioè la liquidità della
Santa Sede).
Ormai prossimo ai settant'anni, aveva concluso il suo secondo mandato di cinque
anni. Mennini, figlio di Luigi (numero due dello Ior ai tempi di Paul C.
Marcinkus), era il diretto superiore di monsignor Nunzio Scarano, il capo
contabile arrestato a fine giugno per aver tentato di far rientrare in Italia 20
milioni di euro attraverso lo Ior.
Il Vaticano proprio nei giorni scorsi ha annunciato di aver risposto a tutte le
rogatorie inviate dalla Procure di Salerno (due) e di Roma (una) per Scarano,
consegnando tutta la documentazione richiesta (due faldoni di carte).
L'assistenza giudiziaria italiana al Vaticano è stata richiesta sia per il reato
di truffa e corruzione sia per verificare le accuse di aggiotaggio riguardanti
l'alterazione dei titoli di una banca italiana (Finnat) che sarebbe stata
compiuta, a dire di Scarano, dai dirigenti dell'Apsa nel 2010.
Nel verbale dell'8 luglio 2013 (secretato fino allo scorso mese di ottobre)
Scarano ha parlato diffusamente di Mennini e di quanto, sempre a dire di Scarano,
avveniva con i titoli della Finnat.
Tanto che i magistrati che lo interrogavano gli hanno chiesto se si rendesse
conto che stava profilando l'ipotesi di aggiotaggio dei titoli di una banca del
nostro Paese. Il figlio di Paolo Mennini, Luigi (anche lui, come il nonno) è
amministratore delegato della Finnat Fiduciaria. Le dichiarazioni di Scarano
hanno riguardato anche il cardinale Attilio Nicora (per nove anni presidente
dell'Apsa dal 2002 al 2011 e attualmente a capo dell'Aif, autorità controllante
sull'Apsa, in base alla nuova legge vaticana antiriciclaggio), il suo successore
Domenico Calcagno, e il capoufficio dell'Apsa, Stefano Lori (indagato a
Salerno).
21 novembre
Legge Stadi, “da partiti sì
a speculazione e scempio ambientale con la scusa del calcio”
Un emendamento al decreto Stabilità per
"regolamentare" la costruzione di nuovi impianti sportivi. Legambiente: "Una
vergogna. Basta che un imprenditore compri un terreno agricolo non edificabile,
e quindi a prezzo stracciato, ci costruisca sopra un impianto sportivo e grazie
all’emergenzialità della norma gli sarà consentito costruire case e palazzi"
di Luca Pisapia Legge Stadi, “da partiti sì a speculazione e scempio ambientale
con la scusa del calcio”
Nascosta nelle pieghe di un emendamento alla Legge di Stabilità, è stata
infilata una proposta di Legge sugli stadi che vanifica tutte
le resistenze opposte alla vecchia legge, già
respinta lo scorso anno. Il rischio è di dare il via libera a una vera e propria
speculazione selvaggia con conseguente devastazione del territorio. Oltretutto
questa bozza non riguarda solo gli stadi di calcio (indipendentemente dalla
divisione in cui milita la squadra della città), ma tutti gli impianti a
destinazione sportiva a a partire da 500 posti (indoor) o da 2000 (all’aperto),
per cui gli enti locali dovranno fare richiesta di autorizzazione entro un anno
e mezzo. La bozza dell’emendamento, pubblicizzato da Letta qualche settimana fa
al Coni, prevede lo stanziamento di 45 milioni nel triennio 2014-2016 (10 il
prossimo anno, 15 nel 2015 e 20 nel 2016)
per “uno o più impianti sportivi nonché insediamenti edilizi o interventi
urbanistici di qualunque ambito o destinazione, anche non contigui agli impianti
sportivi, che risultano funzionali al raggiungimento del complessivo equilibrio
economico-finanziario dell’intervento e concorrenti alla valorizzazione in
termini sociali, occupazionali ed economici del territorio di riferimento”.
Un doppio tuffo carpiato all’indietro rispetto alla nuova bozza presentata
qualche mese fa dal renziano Nardella, che fa infuriare il vicepresidente di
Legambiente Edoardo Zanchini, che al fattoquotidiano.it dice: “E’ una vergogna,
un problema di credibilità per l’intero Partito democratico, che dopo lunghe
battaglie era riuscito a opporsi alla vecchia legge”. A sentire l’ambientalista,
il punto dolente è una frase “ad esclusione di residenziali”, che avrebbe dovuto
apparire nel nuovo testo e che invece è stata cancellata, prestando il fianco a
ogni tipo di speculazione edilizia e devastazione ambientale. La stessa contro
cui lo stesso Pd si era opposto con forza nella scorsa legislatura, bloccando
l’attuazione della vecchia legge. Ma evidentemente il vento è cambiato, e con
questa legge arriva il via libera a ogni tipo di progetto e di business.
“Adesso basta che un imprenditore compri un terreno agricolo non edificabile, e
quindi a prezzo stracciato, ci costruisca sopra uno stadio o un palazzetto e
grazie all’emergenzialità di questa legge gli sarà consentito costruire case e
palazzi - spiega Zanchini -. Gli stessi progetti improponibili degli stadi di
Lazio e Roma adesso diventerebbero una cosa fattibile, con il costruttore
Parnasi che costruendo uno stadio a Tor Di Valle potrebbe edificare un nuovo
quartiere con uno scempio indicibile”. Tradotto: l’ennesimo regalo ai soliti
noti, che rischia di avere anche un disastroso impatto ambientale. “In questi
giorni si stanno piangendo i morti in Sardegna - ontinua Zanchini – e le zone in
cui la Roma e la Lazio vogliono fare gli stadi sono zone provate di esondazione
del Tevere, zone a rischio dove, grazie a questa nuova legge, per come è
scritta, sarà possibile costruire in maniera selvaggia senza curarsi dei vincoli
ambientali e della sicurezza del territorio”.
Il calembour della “non contiguità” poi,
già presente nella vecchia proposta di legge e cassato nella scorsa legislatura,
permetterebbe una volta fatto lo stadio agli stessi imprenditori di realizzare
interi quartieri da altre parti della città, magari in zone in cui il piano
regolatore non lo permetterebbe e, soprattutto, in comuni già invasi dal cemento
e in cui migliaia di appartamenti sono inutilizzati. Oltretutto, essendo la
Legge di Stabilità una procedura speciale, permetterebbe di bypassare ogni tipo
di vincolo ambientale: così è nei confronti degli esistenti piani regolatori e
di tutte le procedure ordinarie di costruzione che prevedono il coinvolgimento
dei Comuni, dei quartieri e delle associazioni. Per questo motivo anche
l’onorevole Roberto Morassut (Pd) ne chiede il ritiro, perché “genererà
speculazione edilizia. La realizzazione dei nuovi impianti sarà di fatto
sostenuta attraverso l’attribuzione di nuove previsioni edificatorie anche
residenziali e senza limiti di collocazione sul territorio, quindi non si
tratterà solo di attività commerciali nei pressi degli impianti”.
“Questa norma è una spinta al consumo di
nuovo suolo senza nessuna visione organica di sviluppo equilibrato del
territorio. Un’iniziativa negativa, inserita in modo assai improprio nella Legge
di Stabilità – conclude Morassut – Non è in discussione l’opportunità di
favorire un’ampia modernizzazione delle strutture impiantistiche per il calcio
ai fini di una maggiore sicurezza e anche redditività degli impianti per
compensarne gli alti costi di manutenzione. Quel che non convince, e
personalmente mi riservo di non votare la norma dopo una più attenta lettura, è
la commistione che rischia di determinarsi tra un giusto fine sportivo e
un’ennesima intossicazione del mercato immobiliare e del consumo del territorio.
Se l’ispirazione della norma, come è facile credere, coincidesse con quella
della legge poc’anzi ricordata, il favore non si farebbe alle società di calcio
ma ad un pugno di operatori immobiliari e finanziari”. Il cemento delle larghe
intese, con il pretesto del calcio.
A nord della terra dei
fuochi
Parla un imprenditore che preferisce restare
anonimo per timore di vendette: «I primi carichi partono per il sud nell'85 da
Toscana e Lombardia. Gli stessi camion poi riportavano al nord frutta e verdura»
Andrea Palladino
Se
vuoi capire i veleni della terra dei fuochi, devi guardare a nord. Nel cuore
della Lombardia e della Toscana si è sviluppato il sistema criminale di gestione
dei rifiuti, grazie ad amministrazioni comunali e industrie compiacenti, pronte
a spedire i veleni verso la Campania. E il Lazio. Anzi, è alle porte di Roma che
ha inizio la dolorosa storia di Gomorra. Un parto che ha una data precisa di
nascita, il 1985.
Il racconto che un imprenditore molto importante del settore ambientale ha fatto
in esclusiva al manifesto lascia poco spazio alla fantasia. Chiede l'anonimato,
perché sa che la Camorra non perdona chi decide di raccontare e spiegare come
funzionano gli affari milionari dei clan. Con voce decisa punta il dito verso il
sistema industriale italiano: «La scorciatoia nasce sempre dall'industria -
spiega -, sono sempre le aziende manifatturiere che la cercano. Se le imprese
fossero etiche a monte, questo meccanismo non si innescherebbe. Secondo lei le
aziende non capiscono che se il rifiuto viene smaltito con sconti del 30 o del
40% c'è qualcosa che non va? Chiudono gli occhi e fingono di essere a posto». A
costo di avvelenare l'intero paese. Magari usando gli stessi camion delle scorie
per riportare al nord la frutta della Campania felix. Veleni che viaggiano
contaminando l'intero paese.
Gianni - è il nome di fantasia che useremo - ha un ricordo ben preciso su quello
che è accaduto: «Tra il 1984 e il 1985 le analisi realizzate dalle varie agenzie
ambientali sulle emissioni degli inceneritori dei rifiuti nel nord rilevarono
alte concentrazioni di diossina. Tutti gli impianti dell'epoca furono chiusi uno
dopo l'altro, cominciando dall'inceneritore di San Donnino a Firenze: da lì
nacque tutto. Scatta l'emergenza, le regioni del nord spediscono i rifiuti verso
le regioni del sud. Il Lazio fu la prima regione invasa da rifiuti partiti prima
dalla Toscana e poi dalla Lombardia. Fu la discarica di Latina, Borgo Montello,
in particolare a fare la parte del leone».
Dal girobolla alla camorra
È solo l'inizio della storia. Le regioni Lazio e Campania cercano di bloccare il
flusso vietando l'arrivo della monnezza dal nord. Un provvedimento che subito
viene eluso introducendo il sistema del girobolla: «Gli impianti ricevevano
ugualmente i rifiuti, destinati a una zona autorizzata solo formalmente. Ad
esempio in Puglia, c'era una discarica che non aveva avuto divieti di ricevere i
rifiuti dal nord - racconta Gianni - e sulla carta era una destinazione finale:
timbrava i moduli, ma in realtà questi carichi andavano da un'altra parte.
Conveniva di più: i camion si fermavano a Latina, per intenderci, i rifiuti
venivano effettivamente messi in discarica a Borgo Montello, anche se i moduli
venivano poi timbrati e firmati da un impianto pugliese. Lì, ad esempio, si
possono trovare i sacchi blu dell'indifferenziato partito dalla Lombardia. Gli
intermediari avevano tutti i timbri della destinazione fittizia in Puglia,
preparavano le carte e tutto era a posto». Se in Campania e nel Lazio oggi
abbiamo i veleni che contaminano le terre, lo dobbiamo anche alle discariche
"virtuali" pugliesi: «Pensi, c'erano invasi in Puglia intonsi, che sulla carta
hanno smaltito centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti, senza mai
ricevere un solo chilo». E così i rifiuti di Lombardia e Toscana arrivano come
un fiume in piena verso il Lazio e, soprattutto, la Campania. Saturando ogni
spazio.
Tra Napoli e Caserta i clan subito intuiscono la portata dell'affare: «Tutte le
discariche della Campania - continua Gianni - erano nelle mani della Camorra. Se
non direttamente, erano in qualche modo permeabili alla pressione dei clan:
Sessa Aurunca, Mondragone, quella di Vassallo, un'altra vicino a Caserta di cui
non ricordo ora il nome, DiFraBi (Pianura), Terzigno, Giugliano...». Il sistema
si evolve, i clan creano una rete di broker e di società commerciali che
riescono ad assicurarsi gli appalti delle municipalizzate del nord Italia. Non
solo: «Una volta che avevo l'autorizzazione formale dalla Puglia ad esempio, i
rifiuti li potevo portare ovunque. In una cava d'argilla, li interro lì, do
quattro soldi o minaccio il proprietario, non li vede nessuno e formalmente i
rifiuti sono andati da un'altra parte».
Non bastano più i rifiuti solidi urbani, gli affari diventano giganteschi con la
gestione delle scorie più pericolose, i veleni delle industrie. Qui entrano in
gioco personaggi di spessore, come l'avvocato Cipriano Chianese, ritenuto dalla
Dia il prestanome del clan dei Casalesi nel settore dei rifiuti. «Lui ha messo
di tutto nella sua discarica - prosegue Gianni -, ma utilizzava lo stesso
sistema del girobolla: se oggi si facesse il calcolo sui suoi sistemi di
smaltimento si potrebbe vedere che formalmente ha ricevuto milioni di
tonnellate, ma in discarica ne ha messe centinaia di migliaia. Il resto è finito
disperso nelle cave, nelle campagne». C'è una discarica solo di carta, e uno
sversamento a basso costo dove più conviene come sistema occulto. Pezzi dello
stesso sistema.
Dai rifiuti tossici alla verdura
Il primo avvelenamento - quasi come un contrappasso - è finito al nord, in
quelle stesse città che spedivano le scorie: «La maggior parte dei camion che
arrivavano nel sud con i rifiuti pericolosi, poi risalivano al nord con i
prodotti alimentari, per ottimizzare la logistica. Quegli stessi camion
arrivavano in Campania carichi di rifiuti da sversare e tornavano al nord
carichi di frutta e verdura... Prima di inquinare i terreni, hanno inquinato i
prodotti!». Così i trafficanti hanno avvelenato e ucciso.
15 novembre
Il Ministro Mauro smentisce (che deve fa’?) il
tour marketing di missili, bombe ed elicotteri della portaerei “Cavour”
Pizza e bombe in
crociera
Giulio Marcon
30mila chili di pasta e 3 elicotteri da combattimento; mozzarelle, panettoni,
18mila chili di pomodori e 5 caccia intercettori; uno stuolo di crocerossine,
12mila litri di vino e i cannoncini delle fregate Freem. Con questo carico (in
piu' ci sono anche missili, siluri e l'equipaggiamento dell'Eurofighter) salpano
oggi da Civitavecchia la portaerei Cavour e la fregata Bergamini per una lunga
crociera di 5 mesi.
In questo lungo viaggio le nostre navi militari toccheranno una ventina di paesi
africani e della penisola arabica (alcuni democratici, altri tristemente noti
per le violazioni dei diritti umani e altri ancora attraversati da violenze e
conflitti) per una missione che la marina militare ha ha definito come "concreta
rappresentazione" del "sistema paese in movimento": in sostanza le navi militari
saranno un mega spazio espositivo delle "eccellenze del made in Italy", tra cui
cannoni, aerei da guerra, missili e sistemi radar. È uno "spazio espositivo"
molto esoso, visto che la portaerei Cavour e' costata almeno 2miliardi di euro
(in ogni caso meglio che sia usata per scopi commerciali che per fare la guerra)
e questo viaggetto di cinque mesi costerà 20 milioni di euro (di cui 13 coperti
da sponsor privati).
Il tutto per un'operazione di marketing che - a parte qualche infiorettatura
umanitaria garantita dalle crocerossine e dal progetto dell'Operazione Smile -
darà supporto alla nostra industria militare ed in particolare a Finmeccanica
per vendere sistemi d'arma a paesi che dovrebbero stare sulla black list della
comunità internazionale. È una balla colossale quella secondo cui la portaerei
Cavour in questa crociera sarà utilizzata per il 70% (stima dell'Ammiraglio De
Giorgi) per attività umanitarie.
In una interrogazione presentata lunedì scorso, alcuni deputati di Sel hanno
chiesto se rientri nelle finalità delle forze armate italiane offrirsi
(spendendo soldi pubblici) come base logistica del business di aziende private e
se sia lecito farlo anche in dispregio della legge 185/90 che vieta la vendita
di armi italiane a paesi che violano i diritti umani o che sono interessati da
guerre. Sembra un vizio.
Pochi giorni fa il ministro Mauro è apparso come un piazzista in uno spot della
Lockheed per reclamizzare i cacciabombardieri F35 e ora sempre il ministro della
difesa autorizza la marina militare a fare lo stesso con altri sistemi d'arma.
Marina militare che con il suo ammiraglio De Giorgi rivendica l'importanza di
questa missione ed il diritto ad «esportare armi» perché questo è un «modo
innovativo di svolgere politica estera». Lo stesso ammiraglio - in una
intervista dai toni insolitamente aggressivi, perché forse punto sul vivo -
afferma come la militarità (sic) sia la base della nostra sicurezza nazionale.
Che vendere armi sia un «modo innovativo per svolgere politica estera» e che la
militarità sia la base della nostra sicurezza la dice lunga sulla sensibilità
culturale e istituzionale dei nostri vertici militari. E d'altronde con un
ministro della difesa che dice «per amare la pace bisogna armare la pace» cosa
ci si potrebbe aspettare? Eppure l'Italia si meriterebbe veramente qualcosa di
meglio: di non buttare con la Legge di Stabilità più di 2 miliardi di euro per
le navi da guerra Freem e di utilizzarli invece per il lavoro; di non spendere
23,6 miliardi nel 2014 per la difesa, ma di destinare il 20% delle spese
militari alla scuola e al welfare; di non fare più nel 2014 gli F35 e magari
comprare con gli stessi soldi una ventina di Canadair per spegnere gli incendi
estivi.
È questa la "strada giusta" che il paese dovrebbe seguire, non quella della
crociera della Cavour che farà felice solo alcune aziende belliche, un po' di
affaristi e tutti coloro che le armi le useranno per fare le prossime guerre.
L'inciviltà del Servizio
civile nazionale
Nonostante due sentenze contrarie della magistratura, il Servizio civile
nazionale continua ad essere vietato agli stranieri privi di cittadinanza
italiana
Non sono neppure 600, al momento, i ragazzi impegnati nel Servizio civile
nazionale. Per tutto il 2012 i soldi per emanare il bando non ci sono stati, e
solo i 65 milioni raggranellati nel 2013 ne hanno permesso il decollo lo scorso
ottobre. Pochissimi i posti - 15.461 di cui 502 per attività all’estero - e in
più il timore di una sospensione per gli eventuali effetti del ricorso
presentato giorni fa al Tribunale di Milano da due associazioni che contestano
l’esclusione dei ragazzi senza cittadinanza italiana. Asgi (Associazione di
studi giuridici per l’immigrazione) e Apn (Avvocati per niente), in verità,
quella causa l’hanno già vinta già due volte, con una prima sentenza favorevole,
e con il successivo rigetto del ricorso della Presidenza del Consiglio che l’ha
resa definitiva.
L’imposizione del requisito della cittadinanza italiana, per i giudici milanesi,
è senza alcun dubbio “discriminatoria”, e proprio perché il Servizio civile
nazionale, così come è regolamentato, non è ascrivibile a un’attività di “difesa
della Patria” ma piuttosto ad attività di “solidarietà sociale”. E però da noi
non è scontato, checché se ne dica, che le sentenze della magistratura si
debbano sempre e comunque onorare. Dipende. Questo è appunto uno di quei casi
che danno ragione alla lucidità di Ennio Flaiano a proposito di un’Italia che
essendo “la patria del diritto è anche la patria del rovescio”. Perché dopo un
bel po’ di discussioni si è scelto di non farne niente. Non è stata seguita la
via delle modifiche amministrative, ritenuta troppo impervia anche dal ministro
dell’integrazione Cécile Kyenge, e neppure quella legislativa ritenuta dal
governo ancora più impervia. Niente di niente, insomma, la solita inconcludenza
incapace di grandi riforme, e anche di piccoli passi. Ad andare avanti, intanto,
è il tradizionale doppio binario, con un Servizio civile nazionale sbarrato
anche a chi è nato in Italia o ci studia da anni, e il Servizio civile promosso
da molti Comuni grandi e piccoli che invece le seconde generazioni le fa
partecipare.
Che dire? Innanzitutto che c’è una enorme confusione, e non da ora, su un
Servizio civile nazionale che si è voluto fin dall’inizio volontario invece che
obbligatorio, e che viene stiracchiato come un elastico a seconda dei contesti.
Come si vede, fra l’altro, dal fatto che ci sia anche il Servizio civile
nell’elenco delle opportunità di inserimento sociale e lavorativo che lo Stato,
nella versione italiana del programma europeo 2014-2015 “Youth Guarantee” (1,2
miliardi tra fondi europei e nazionali), si impegna ad offrire ad almeno
204.000 giovani a quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione. Di che si
tratta, allora? È un lavoro, un’occasione formativa, un’attività patriottica,
che altro?
Ma il bando di ottobre è soprattutto l’ennesima dimostrazione di una cecità
politica insostenibile nei confronti dell’immigrazione e della necessità di una
sua migliore integrazione. Di qui a un paio di decenni i figli di genitori
stranieri saranno una parte numericamente decisiva, per lo sviluppo economico e
civile del paese, della popolazione più giovane. Già oggi degli 800 mila
studenti di origine straniera che frequentano le scuole italiane il 44% è nato
in Italia e una grande quota è arrivata prima dell’inizio dell’età scolare.
Moltissimi di loro non hanno nei fatti altro paese che il nostro, ed è qui che
vogliono restare, studiare e lavorare. In questi giorni si è aperta
ufficialmente, con una lettera aperta alle famiglie di un gruppo di giovani di
Associna, un’interessante discussione sull’importanza di un atteggiamento più
aperto delle loro comunità nei confronti della società e della cultura italiana.
Sono sempre di più i ragazzi di origine straniera attivi nel volontariato e
nell’associazionismo civile. E noi, lo Stato e la politica italiana, di queste
trasformazioni che cosa ne facciamo? Niente, al momento, su un riconoscimento
più facile della cittadinanza. Niente sul costoso calvario dei rinnovi dei
permessi di soggiorno e del conseguimento di quello di lunga durata. Poco sulla
validazione dei titoli di studio conseguiti all’estero. Poco, e con difficoltà,
sull’apprendimento della lingua italiana. E ora, nonostante sentenze avverse,
c’è perfino la replica del divieto d’accesso alla partecipazione insieme ai
coetanei italiani ad attività di aiuto ai più deboli, a lavori utili alla
comunità, a una presa di contatto diretta con la realtà sociale ed associativa
del paese. Dove si può imparare concretamente ad essere cittadini attivi e
responsabili, a praticare la solidarietà, a costruire la coesione sociale.
Obiettivo importante per tutti, giovani e adulti, in un paese sempre più povero
di intelligenza e di generosità sociale e sempre più frantumato, che dovrebbe
consigliare un allargamento del Servizio civile e un sostegno maggiore agli Enti
che ne promuovono le attività. Ma tanto più importante per chi di integrazione,
intesa come capacità di identificarsi meglio con la comunità, ha più bisogno di
altri. O vogliamo che anche qui, attraverso la percezione di una irragionevole
disuguaglianza rispetto agli italiani Doc, si accumulino solo rancori,
risentimenti, ostilità? Ce ne sono già fin troppi, tra gli stranieri che in
Italia imparano subito che il più importante modo per sopravvivere è riuscire ad
aggirare le leggi. Gli immigrati sono una “risorsa” dello sviluppo, si proclama
a sinistra, ma questo non succede spontaneamente o automaticamente. Non diventa
vero se non a determinate condizioni, e per effetto di politiche adeguate. Il
resto è retorica, e delle più dannose.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte: www.sbilanciamoci.info
12 novembre
Crisi: le donne rispondono
con l'impresa, +4mila in 12 mesi
Turismo e servizi finanziari "a trazione" rosa.
Boom di società di capitale (+9.800), in calo le micro-imprese (-6.600). Il 63%
della crescita nel Centro-Italia, passo indietro del Nord-Est.
Donne protagoniste nel rispondere alla crisi con
le armi del business. Delle 6.140 imprese in più che, tra settembre del 2012 e
settembre di quest'anno, si sono aggiunte alla base imprenditoriale del paese,
ben 3.893 (il 63%) hanno infatti a capo una o più donne, spesso scese in campo
per darsi da sole quel lavoro che non trovano. E lo hanno fatto scegliendo in
modo massiccio una forma giuridica ‘matura’ come la società di capitale (+9.789
unità nei dodici mesi, con un ritmo di crescita pari al 4,5%) a scapito della
più semplice, ma più fragile, impresa individuale (-6.627 unità). I settori in
cui le imprenditrici ‘rosa’ hanno cercato preferibilmente spazio sono stati
quelli del turismo (cresciuto di 4.850 attività, ben oltre l’intero saldo del
periodo) e dei servizi finanziari (+1.393 attività, pari ad una crescita-record
del 5,3%). Oltre la metà della crescita delle imprese femminili si concentra
nelle regioni del Centro-Italia (+2.380 unità, il 63% del saldo totale), mentre
il Nord-Est è l’unica area a veder diminuire il numero di imprese guidate da
donne (-291).
Alla fine di settembre di quest’anno, le imprese femminili registrate presso le
Camere di commercio erano 1.431.167, il 23,6% sul totale. In termini relativi,
l’incremento rilevato nei dodici mesi presi in esame corrisponde a un tasso di
crescita dello 0,27%, quasi triplo rispetto alla crescita media del totale delle
imprese italiane nel periodo (0,10%).
Questi, in sintesi, i dati dell’Osservatorio dell’Imprenditoria femminile di
Unioncamere-InfoCamere, diffusi in occasione della sesta edizione “Giro d’Italia
delle donne che fanno impresa”, l'appuntamento annuale in favore
dell'imprenditoria femminile, promossa da Unioncamere in collaborazione con le
Camere di commercio e i Comitati per la promozione dell'imprenditoria femminile.
“Il Paese, in questo momento, ha un estremo bisogno di tutte le sue migliori
energie – ha detto il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello - e la
risposta che le donne stanno dando alla crisi con il loro impegno nel fare
impresa è un fatto che ci rassicura sul futuro dell’Italia. Abbiamo bisogno di
persone che credano in se stesse, che abbiano una visione del loro domani e che
si impegnino a realizzarlo mettendo insieme le forze, come accade spesso nelle
imprese femminili. Nonostante tutto, le opportunità ci sono, soprattutto in
settori come il turismo, l’accoglienza, la cultura, i servizi alla persona: per
in nostro Paese questi sono veri e propri giacimenti di ricchezza ancora da
scavare e da mettere a frutto. I dati ci dicono che le donne, probabilmente, lo
hanno capito e si stanno dando da fare. E’ nostro dovere creare le condizioni
per sostenerle, in particolare con politiche del credito attente alle loro
esigenze.”
8 novembre
Cancellieri e
l’indissolubile triangolo di potere con La Russa e i Ligresti
L'amicizia della famiglia di Paternò accomuna l'ex prefetto e l'ex
coordinatore del Pdl. E i loro destini si sono uniti negli anni sempre di più,
dalla società della moglie di la Russa ai rapporti con Fonsai, fino alla
bendizione per il Viminale
di Marco Lillo
Ieri
il Fattoquotidiano.it ha ricordato le dichiarazioni di Ignazio La Russa quando
Anna Maria Cancellieri fu nominata ministro dell’Interno del Governo Monti:
“Voglio spendere una parola per il prefetto Cancellieri, molto vicina al nostro
ambiente”. Quale ambiente? Quello degli ex An? Oppure l’ambiente del sistema
Ligresti? “Le ragioni della mia stima per la Cancellieri – precisa La Russa –
risiedono unicamente nella sua carriera di leale servitore dello Stato”. Sarà.
Certo anche l’amicizia dei Ligresti, originari di Paternò come i La Russa,
accomuna l’ex prefetto e l’ex coordinatore del Pdl. Dai tempi del patriarca
Antonino La Russa, parlamentare del Msi per decenni e consigliere della holding
di don Salvatore, i destini dei due ceppi siciliani si sono uniti in un tronco
solido con rami molto freschi. Per esempio la moglie e un amico di Ignazio La
Russa sono stati soci dei Ligresti in una società che fatturava nel 2011 ben 8
milioni e mezzo di euro: la Quintogest. Ne parla il 12 ottobre del 2012 Fausto
Marchionni, 70 anni, ex amministratore della Fonsai dei Ligresti mentre è
intercettato dalla Guardia di Finanza di Torino, con Luciano Gallo Modena, 65
anni, già responsabile sicurezza della società.
Marchionni è preoccupato per l’indagine dei pm e teme proprio per la Quintogest
Srl. Creata nel 2007 dalla Fonsai dei Ligresti insieme a due società controllate
dalla moglie di Ignazio La Russa, Laura Di Cicco, e da Antonio Giordano, suo
amico, per operare nel settore della cessione del quinto, la Quintogest viaggia
per qualche anno sul velluto: i soldi per fare credito li offre la Bpm di
Massimo Ponzellini (al quale La Russa telefona per chiedere ‘finanza’ nel 2011
mentre è intercettato dalla Procura di Milano) mentre la copertura del rischio
arriva dalla Fonsai dei Ligresti, che mette anche un milione e 850 mila euro del
capitale di 2,8 milioni per iniziare. A comandare in società però, pur avendo
messo meno soldi, sono la moglie e l’amico di La Russa che detengono il 51 per
cento delle azioni con diritto di voto tramite la Idi Consulting (34 per cento)
controllata dalla moglie di La Russa fino al febbraio 2012 e con la Giordi Srl
di Antonio Giordano, che detiene il restante 17 per cento.
Anche il presidente della società è del giro: fino al gennaio 2012 è stato
Filippo Milone, consigliere del gruppo, collaboratore di La Russa al ministero e
sottosegretario alla difesa nel Governo Monti. Giordano è uomo di
amministrazione ed è molto fidato. Non a caso è anche il segretario generale
della Fondazione di Alleanza Nazionale che gestisce l’enorme patrimonio lasciato
dal vecchio partito. La storia puzza di politica e Marchionni al telefono ci
tiene a prendere le distanze: “C’è stato anche quella questione della cessione
del quinto, quella lì l’aveva fatta Novarese (Andrea, Direttore Generale della
Premafin dei Ligresti, ndr) direttamente con La Russa, purtroppo – prosegue
Marchionni al telefono mentre è intercettato – io allora ero amministratore
delegato accidenti!”.
Marchionni sostiene di essere stato scavalcato da Novarese (ma fonti di Fonsai
sostengono che Novarese non aveva poteri di firma) che avrebbe ceduto alla
pressione di Ignazio La Russa: “quella roba lì io ero contrario, poi La Russa, è
andato avanti a parlare con Novarese, e praticamente han fatto tutto loro, ne so
anche poco di quella roba, perché ero contrario, ho detto a La Russa, ma è
macchinoso, si può fare, però … certo che se lui poi ha fatto tutta quella roba
con Ponzellini, c’eravamo dentro anche noi, lui dice i problemi han tanti padri,
tante famiglie”. Fonsai ha ceduto le sue quote di Quintogest alla Dya di
Giuseppe Calabresi che le ha rigirate al Mediocredito Europeo controllato da
Massimo Minnucci, che oggi è il socio unico. Il segretario generale della
fondazione di An, Antonio Giordano, però è rimasto consigliere e socio (mediante
Giordi e My People) con il 15 per cento della società più grande: Mediocredito
Europeo.
In un’altra intercettazione Massimo Dalfelli e Piergiorgio Bedogni, due
dirigenti che si occupano dei bilanci del gruppo Fonsai, parlano delle parcelle
del figlio di La Russa: Geronimo. Avvocato e consigliere fino a giugno 2012
della holding dei Ligresti, Geronimo ha incassato parcelle per 350 mila euro nel
2011 dalla Fonsai mentre lo zio Vincenzo La Russa, anche lui ex consigliere del
gruppo, ne ha incassati 320 mila euro nel 2011 e altrettanti nel 2012. Anche
Geronimo avrebbe voluto incassarne altre ma, finita l’era Ligresti, il 13
febbraio 2013 i manager del gruppo, se la ridono pensando che non saranno
pagate. Dalfelli spiega a Bedogni che faranno la stessa fine di quelle
dell’attuario Gismondi: “le porterò all’ammasso dei provvedimenti che Unipol
dovrà dare alla struttura insieme alle fatture non pagate di Geronimo”. E
Bedogni ride.
Mezzo milione di regali,
l'ultimo scandalo Rai
Orologi, penne, gemelli, bracciali, ciotole e ovetti da orologeria. E spesso
non si sa a chi siano stati donati. Gubitosi prende provvedimenti.
Ridimensionato l'ufficio "omaggi". Paga solo un manager
di ALDO FONTANAROSA
Luigi
Gubitosi Un dirigente della Rai che cade. E un ufficio "omaggi" che viene ora
drasticamente ridimensionato. Viale Mazzini mette i sigilli alla struttura
interna che distribuiva regali ai vip del Paese, capace di spendere oltre 500
mila euro in quattro anni e mezzo tra orologi e penne, gemelli d'oro e
d'argento, bracciali, ciotole e ovetti da gioielleria, oltre alle scatole di
pregio per i preziosi doni.
È una nuova Regalopoli? Dopo un'interrogazione del senatore Salvatore Margiotta
del Pd, la tv di Stato descrive una situazione cupa. Nella sua risposta arrivata
ieri in Parlamento, Viale Mazzini riconosce "criticità relative alla gestione
degli omaggi e dei beni promozionali in ordine alla loro movimentazione e
tracciabilità". La Rai "ha adottato opportune azioni correttive". E "dopo
rituale procedimento disciplinare", ha preso "adeguati provvedimenti verso il
responsabile di processo". Pronta una lettera di licenziamento che - raccontano
- sarà contestata, impugnata.
Il caso nasce da una missiva anonima che finisce nella posta del direttore
generale della Rai Luigi Gubitosi, del presidente Tarantola, di alcuni dirigenti
e consiglieri di amministrazione di Viale Mazzini. La lettera anonima è livorosa
ma dettagliata, e il direttore Gubitosi la gira agli "ispettori interni"
dell'azienda. Che avviano un'indagine a tappeto e stimano le uscite, tra il 2008
e il 2012, in oltre mezzo milione. "Cifra che impressiona - nota il senatore
Margiotta - in anni di così grave difficoltà per le famiglie".
5 novembre
L'Ue ci affossa: peggiorano
le stime su deficit, crescita e debito pubblico
A maggio Bruxelles prevedeva un deficit del
2,9% nel 2013, e oggi sale invece al 3% - Il debito pubblico toccherà, nel 2014,
il nuovo record del 134% - Peggiorano le stime sulla crescita: da -1,3% a -1,8%
- La disoccupazione salirà ancora al 12,4% - Il governo del “fare” che fa?
Tumulerà il Paese?
1 - UE: DEFICIT ITALIA 3% NEL 2013, NEL 2014 AL
2,7%. DOPO SFORZI 2012 RALLENTA CORREZIONE DI BILANCIO
(ANSA) - Peggiorano le stime Ue sul deficit italiano: a maggio Bruxelles
prevedeva un 2,9% nel 2013, e oggi sale invece al 3%, mentre il 2,5% che aveva
previsto nel 2014 sale al 2,7%. "Dopo i grandi sforzi del 2012 rallenta la
correzione di bilancio", scrive la Commissione che "a politiche invariate"
prevede nel 2015 un disavanzo al 2,5%.
2 - UE: DEBITO ITALIA ANCORA SU, RECORD 134% NEL 2014
(ANSA) - Nuovo record del debito pubblico italiano, che dal 133% di quest'anno è
destinato a toccare quota 134% nel 2014 "anche a causa del pagamento dei debiti
della p.a.": è la prospettiva indicata nelle previsioni della Commissione Ue,
che vedono una "leggera discesa" al 133,1% solo nel 2015.
3 - UE: PEGGIORA PIL ITALIA 2013, -1,8%. RIPRESA NEL 2014
(ANSA) - Peggiorano le stime Ue sulla crescita Italiana del 2013: dal -1,3%
previsto in primavera passa oggi a -1,8%, mentre resta invariata a 0,7% la stima
del pil del 2014. "La recessione potrebbe essere al punto di svolta. Dopo una
nuova forte contrazione nel 2012-13 l'attività si riprenderà gradualmente nel
2014-15", scrive Bruxelles.
4 - UE: NUOVO RECORD DISOCCUPAZIONE ITALIA, 12,4% NEL 2014
(ANSA) - Nuovo picco della disoccupazione in Italia che dal 12,2% di quest'anno
salirà al 12,4% nel 2014: è la previsione della Commissione Ue che spiega come
sull'occupazione "che continua a scendere pesa la profonda e protratta
recessione". Leggero calo nel 2015: 12,1% è la stima per ora.
5 - UE: GRADUALE RIPRESA IN EUROZONA, MA RISCHI ESTERNI
(ANSA) - Continua la ripresa graduale cominciata nel secondo trimestre 2013, ma
pesano i "rischi esterni" per le "prospettive indebolite" dei mercati emergenti.
Su base annuale il Pil dell'Eurozona nel 2013 sarà ancora in negativo (-0,4%) ma
la Commissione europea stima che nel 2014 sarà positivo (+1,1%) e accelererà nel
2015 (+1,7%).
DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
6 - UE: REHN,ECONOMIA SVOLTA MA DISOCCUPAZIONE TROPPO ALTA
(ANSA) - Ci sono "segnali crescenti che l'economia europea ha raggiunto un punto
di svolta" ma "è troppo presto per cantare vittoria" perché "la disoccupazione
resta a livelli inaccettabilmente alti". E' l'analisi del vicepresidente della
Commissione europea, Olli Rehn, presentando le previsioni economiche d'autunno.
Il rogo tossico del
biologico
Angelo Mastrandrea
Il caso di un'azienda aperta con fondi Ue a
Orta di Atella e certificata. Oggi è considerata «area contaminata». La
Eurocompost produceva concime bio. Sequestrata, razziata e bruciata,
nell'incendio si è formata una nuvola tossica. L'oncologo Marfella: «In un
ventennio qui l'aspettativa di vita si è ridotta di due anni»
Uno
pensa di averle viste tutte, dopo aver visitato una decina di discariche abusive
tutte più o meno simili. Invece non è così. Nella Terra dei fuochi il bubbone
dei rifiuti di un sistema «malato e marcio» emerge come un'escrescenza maligna,
e può rispuntare anche dove meno te l'aspetti. Così è accaduto che l'incendio
che ha appestato la cittadina di Orta di Atella, il 30 agosto scorso, ha svelato
il vero volto di un'azienda che si nascondeva dietro l'abito del «biologico».
L'edificio bruciato della Eurocompost - questo il nome della fabbrica di concimi
bio - oggi appare come bombardato, letteralmente fatto a pezzi. Sulla facciata e
su un altro muro delle scritte con lo spray rosso: «Area contaminata, vietato
entrare». «L'hanno fatta i vigili urbani», come graffitisti qualsiasi, mi dice
Enzo Tosti, l'operatore sociale entomologo della monnezza che mi accompagna nel
viaggio in quell'area tra il napoletano e il casertano che il pentito Carmine
Schiavone ha definito «pattumiera d'Europa». «Quando l'hanno sigillata, qui
c'era un cancello d'ingresso e non si poteva entrare». Ora non c'è più nulla: è
stato tutto smontato, demolito, divelto, spaccato. Non una porta, una finestra,
una lampadina, un accessorio per il water, le ringhiere dei balconi. Solo le
quattro mura. Chi sia stato ad appiccare il fuoco probabilmente non si saprà
mai, ma quel che è certo è che nel periodo precedente, nonostante l'area fosse
sotto sequestro, qualcuno aveva provveduto a smontare la fabbrica: in barba al
curatore fallimentare, si sono volatilizzati macchinari che pesavano tonnellate.
Il giorno dell'incendio, raccontano i testimoni, le fiamme si vedevano a
chilometri di distanza e un nuvolone nero stazionava sull'area. Bruciarono
cumuli di plastica e i materiali della lavorazione stoccati all'interno, ad
appestare l'aria finirono solventi e additivi chimici. Tra le migliaia di roghi
della Terra dei fuochi, questo rimane sicuramente il più memorabile. L'Eurocompost
era stata aperta con fondi comunitari e doveva produrre concime organico
biologico di origine animale, con tanto di certificazione europea di qualità Iso
9002. Sulle buste da cinque chilogrammi scampate chissà come al rogo si legge:
«Non contiene conservanti, non contiene additivi chimici, biologicamente
attivo». Nemmeno gli ignoti razziatori che l'hanno devastata indisturbati hanno
però osato smuovere quel che si trova in un capannone: una montagna di rifiuti
di vario genere, accumulati uno sull'altro e abbandonati lì dal 2009, quando lo
stabilimento fu chiuso. La domanda che si sono posti i comitati di cittadini che
si battono contro il «biocidio» - come definiscono questo scempio contro la
natura e la salute - è legittima: se il compost si fa con rifiuti organici, cosa
ci facevano lì dentro le sostanze tossiche che sono andate in fumo? Quali
misteri si nascondevano in questa fabbrica? Ci sarebbe da aggiungere: chi
pagherà la bonifica, se mai ci sarà?
L'area è incustodita ed entrarvi è un gioco da ragazzi. Non si sfugge solo
all'immancabile contadino di passaggio che inchioda il camioncino e intona la
già ascoltata invettiva contro i giornalisti: «Ci state distruggendo, parlate
solo male di questi posti e nessuno compra più i nostri prodotti». La questione
è la solita: intorno alla «fabbrica della puzza», com'era soprannominata l'Eurocompost,
ci sono campi coltivati, e gli agricoltori si sentono penalizzati dalle campagne
mediatiche.
«I contadini non possono avere la botte piena e la moglie avvelenata», risponde
alle lamentazioni con un'efficace allegoria il dottor Antonio Marfella. Oncologo
all'ospedale Pascale di Napoli, Marfella è convinto che non ci sia altra strada
che la «riconversione dei terreni contaminati». Per il medico napoletano è
impossibile continuare a coltivare su campi che risultassero inquinati. Pena
l'ulteriore abbassamento della vita media. Il quadro che il dottor Marfella
traccia è inquietante: «Negli ultimi vent'anni in Campania l'aspettativa di vita
si è ridotta di due anni». Se si considera che la media è calcolata su tutta la
popolazione campana - sei milioni di abitanti - ma l'aumento della mortalità
riguarda essenzialmente le province di Napoli e Caserta si capisce come da
queste parti si viva ancor meno. È una conferma alla profezia di Schiavone,
datata 1997: «In vent'anni moriranno tutti di cancro».
«Eravamo la regione della dieta mediterranea e oggi viviamo meno degli altri»,
dice Marfella, convinto che l'emergenza rifiuti di qualche anno fa sia servita
solo a stendere una cortina fumogena sugli sversamenti di scorie industriali. E
ora che è finita, con le navi che portano la monnezza in Olanda - a un costo
minore che nel vicino inceneritore di Acerra - emerge finalmente la verità,
visibile a occhio nudo se solo ci si premura di analizzare una discarica
abusiva: sotto quei sacchetti della spazzatura cittadina esiste un sistema ben
oliato di smaltimento dell'industria del falso, almeno nella Terra dei fuochi.
Sono gli scarti dell'evasione fiscale, di quelle aziende che sfuggono a
qualsiasi censimento, ma anche delle griffe che parcellizzano il lavoro mandando
ad assemblare qui i loro prodotti. Poco più a nord, invece, nella vicina Terra
dei veleni, mentre si accusavano i partenopei di fare poca raccolta
differenziata e i residui organici si accumulavano nelle strade, i tir della
camorra scaricavano bidoni con ben altro genere di sostanze, li interravano e
poi ripartivano in direzione nord Italia.
C'è una punta di amarezza nelle parole di Marfella. Possibile che in vent'anni
nessuno abbia mosso un dito mentre accadeva questo scempio? I politici
innanzitutto, ma anche gli agricoltori che si vedevano sversare di tutto nei
terreni, gli imprenditori. «Sono tutti colpevoli, compresi gli epidemiologi che
hanno messo il silenziatore a quanto stava accadendo», conclude Marfella.
Smontare una fabbrica, per giunta sotto sequestro come l'Eurocompost, non è
un'operazione che si compie senza dare troppo nell'occhio. Ora è troppo tardi
per rimediare, forse. O forse no. Ci vorrebbe una sorta di Piano Marshall per la
bonifica di questi territori, sostengono i comitati contro il «biocidio».
Mentre cerco di rimettere in ordine il materiale raccolto per questo articolo
ricevo una telefonata. È l'ex sindaco di Aversa Lello Ferrara, storico esponente
della sinistra nel casertano. Mi chiama per dirmi che non tutti sono stati
zitti, nel buio della politica campana a cavallo tra un millennio e l'altro: nel
'98, ricorda, 28 sindaci incontrarono l'allora ministro dell'Interno Giorgio
Napolitano e quello dell'Ambiente Edo Ronchi. La Commissione d'inchiesta sul
ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia aveva individuato 46 discariche.
«Il 22 luglio di quell'anno, alle 2 di notte, abbiamo firmato un protocollo
d'intesa per la bonifica immediata», e ad agosto un decreto della presidenza del
Consiglio stanziò 800 milioni di lire. Ma a ottobre il governo Prodi cadde,
arrivò D'Alema e la bonifica cadde nel dimenticatoio. Nel maggio 2000 Antonio
Bassolino fu eletto presidente della Regione Campania e nominato commissario
straordinario all'emergenza rifiuti. Il resto della storia la conoscono tutti.