Texas, biglietto di sola
andata. “Qui tanti ricercatori italiani? Sono più bravi”
Thomas Geninatti ha 27 anni e una laurea
specialistica in Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino. Ha mandato una
mail a Mauro Ferrari, esperto di nanotecnologie al Methodist Hospital Research
Institute, e dopo la sua risposta è partito per Houston
di Lorenza Castagneri
“Tornare
a casa? Sì, ma quando sarò in pensione”. Della serie: in Italia si sta bene, ma
solo in vacanza. Sì perché al Methodist Hospital Research Institute di Houston,
Texas, Thomas Geninatti (nella foto a destra) ha trovato un lavoro, uno
stipendio da sogno, un dottorato prestigiosissimo e pure una fidanzata. Insomma,
una vita nuova. “E chi me lo fa fare di tornare in un Paese nessuno investe
nella ricerca?”. Thomas ha ventisette anni e una laurea specialistica in
Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino. “Negli States sono avanti anni
luce. Non perché ci sia gente più preparata ma perché le risorse sono maggiori.
Qui è pieno di persone benestanti che mettono parte della loro fortuna a
disposizione di università e centri specializzati”.
E dire che è nato tutto per caso, due anni fa, quando Thomas stava cercando un
argomento su cui sviluppare la sua tesi. Un giorno la madre gli mostra un
articolo di giornale. Il pezzo racconta la storia di Mauro Ferrari (nella foto
al centro), visionario nel campo della Nanotecnologia applicata alla medicina, e
della sua attività negli Stati Uniti. Decide di scrivergli una mail. “Pensavo
che non l’avrebbe mai letta e invece, tempo due ore, mi ha risposto. Non ci
potevo credere”. Così Thomas è partito. Per sei mesi si è dedicato anima e corpo
a studi ed esperimenti. La laurea è arrivata a marzo 2012. Lui, però, in Italia
si è fermato giusto il tempo per la proclamazione. Arrivederci a San Francesco,
il paesino con meno di 5mila abitanti alle porte di Torino dove aveva vissuto
fino ad allora. “Al Methodist mi hanno offerto un posto di lavoro imperdibile:
faccio parte di un team che progetta drug delivery systems. In pratica, sviluppo
nuove tecniche sul rilascio controllato dei farmaci antitumorali. Così sono
ripartito. Con un biglietto di sola andata”.
Mentre racconta, a Thomas tornano in mente i suoi ex colleghi del Poli che
lavorano in Italia. Con alcuni di loro si è mantenuto in contatto. Si sentono
via Skype o Facebook. Alcuni sono disoccupati, altri hanno trovato lavoro ma con
contratti precari da mille euro al mese. Sono disillusi e senza certezze.
“Dicono che è uno schifo. Che studiare anni e anni non ha più alcun senso. A me
dispiace. E’ triste sentir parlare così del proprio Paese d’origine”, osserva
Thomas. Ma poi aggiunge: “Se non fossi partito, visti i tempi grigi dell’Italia,
magari avrei detto sì alla prima offerta di lavoro. Non avrei mai avuto
l’opportunità di lavorare con scienziati di fama mondiale e di frequentare un
dottorato in ingegneria dei materiali tra Stati Uniti e Cina”. L’avvio del
progetto è previsto per agosto. Thomas trascorrerà sei mesi a Pechino, per poi
tornare altri due anni in Texas. Al suo fianco, sempre il suo mentore, il dottor
Ferrari. Negli anni sono tanti i giovani italiani che sono entrati a far parte
del suo gruppo di ricerca al Methodist. “Ma non si tratta di campanilismo –
scrive lo scienziato via mail – Se ci sono tanti italiani da noi, è solo perché
hanno battuto un’agguerritissima concorrenza con ricercatori da tutto il mondo.
Qui si entra solo se sei bravo. Vince la meritocrazia”.
Giovani e politica, una
generazione altrove
GIOVANI e adulti: si somigliano molto, in Italia.
Almeno, in rapporto alla politica e alle istituzioni. Lo stesso distacco. Anzi,
per la precisione, è la generazione dei giovani a segnare il percorso. La
direzione. Gli adolescenti e i giovani-più-giovani (così definiamo quelli di età
compresa fra 15 e 24 anni), ma anche i giovani-adulti (fra 25 e 34 anni),
esprimono un livello di fiducia davvero basso, anzi, minimo nei confronti dei
principali attori e della più importante istituzione della "democrazia
rappresentativa". Cioè, i partiti: poco sopra al 4%. E il Parlamento: appena un
po' di più. (Utilizziamo, qui, i dati di numerose indagini condotte da Demos e
LaPolis-Università di Urbino. ) Ma la sfiducia si estende anche allo Stato. In
misura maggiore rispetto alla popolazione nell'insieme. Un disincanto acuto, che
si è accentuato negli ultimi anni. Dopo il 2006, quando, perlomeno, dimostravano
maggiore confidenza verso gli attori e le istituzioni rappresentative rispetto
agli adulti. Oggi non più.
D'altronde oltre la metà di essi (e il 55% tra i giovani-adulti) ritiene che la
democrazia non abbia bisogno dei partiti, per funzionare bene. Anzi, visto il
distacco espresso nei loro confronti, è, semmai, vero il contrario. Cioè: pensa
che i partiti siano un ostacolo alla democrazia vera. Anche in questo caso: si
tratta di opinioni diffuse nella popolazione. Ma fra i giovani, in misura del
tutto particolare. Così si spiega l'incertezza che li ha accompagnati, nella
recente stagione elettorale.
Solo una quota minoritaria di essi, poco superiore al 40%, afferma di non aver
avuto mai dubbi sul voto da esprimere. I giovani: appaiono molto più "incerti"
degli adulti. Più indecisi rispetto alle elezioni del 2006, quando, peraltro, le
differenze tra generazioni apparivano meno rilevanti. E tutti, giovani, adulti e
anziani, dimostravano convinzioni più forti e più solide, su chi votare. Oggi
non è più così. Oltre il 40% dei giovani-più giovani e il 45% dei giovani-adulti
sostengono, infatti, di non aver votato per fiducia in un partito e nel suo
leader. Ma per sfiducia verso gli altri - leader e partiti. Alle precedenti
elezioni, nel 2008, gli elettori di protesta, fra i giovani, erano molto meno
numerosi. Intorno al 30%. Negli ultimi anni, fra i giovani, è, dunque, cresciuto
un sentimento di diffidenza e insoddisfazione verso gli attori politici. I
partiti e i loro leader. Come in tutta la società, d'altronde. Ma in misura
maggiore. Più acuta. E più rapida. Lo sottolineano, in modo eloquente, gli
orientamenti di voto. Che, fra i giovani, enfatizzano le principali tendenze
complessivamente emerse alle ultime elezioni. In particolare e soprattutto: il
consenso al M5S. Che raggiunge quasi il 30% fra i più giovani, ma sfiora il 36%
fra i giovani-adulti. Appena sotto il risultato raggiunto fra gli adulti-giovani
(35-44 anni).
L'insoddisfazione verso il sistema politico e la protesta contro i partiti
principali, dunque, hanno raggiunto limiti estremi. Ormai irrilevanti e quasi
irrilevabili, dal punto di vista statistico. Da ciò la crescente incertezza
elettorale e la diffusa tentazione astensionista, da un lato. E, dall'altro, il
successo tributato al MoVimento guidato da Grillo. Mentre, i principali partiti
della Seconda Repubblica, fra i giovani, si sono ridotti quasi a comparse. Il
PD, si ferma al 18%, fra i più giovani. Ma scende ulteriormente, intorno al 15%,
fra i giovani-adulti. Il PD ha, infatti, ottenuto il massimo dei consensi (37%)
fra gli ultra65enni. È un partito di anziani e di pensionati. Come il PdL,
d'altronde. Che, fra i giovani-adulti, supera il 20%. Ma tra i più giovani
scende all'11%. E fra gli studenti, in particolare, arretra ulteriormente, al
9,5%. Superato anche da Scelta Civica. Gli orientamenti verso i partiti si
riflettono sulla fiducia verso i leader. Che raggiunge i livelli più elevati a
favore di Beppe Grillo e di Matteo Renzi. Le figure che, più delle altre,
intercettano ed esprimono la domanda di cambiamento. La frattura rispetto al
passato, ai partiti e al ceto politico tradizionali. La specificità
generazionale, però, emerge in modo più marcato nel caso di Grillo (come, in
misura più limitata, per Vendola). Mentre l'appeal di Renzi appare trasversale e
risulta, anzi, ancor più elevato fra i "genitori" e i "nonni" (presso i quali
l'indice di fiducia supera il 70%).
I giovani. Sono l'amplificatore del ri-sentimento politico della società
italiana. Per questo, non marcano grandi differenze rispetto agli adulti e agli
anziani. Ma a "differenza" di essi non appaiono rassegnati. Né semplicemente
frustrati. Il distacco non si traduce in antipolitica. Al contrario, al
malessere politico rispondono con un alto grado di partecipazione. Politica. E
in tutti gli ambiti, in tutte le direzioni. Mostrano, infatti, livelli massimi
di impegno sui problemi del quartiere e della città, del territorio e
dell'ambiente. Sono i più presenti nelle manifestazioni pubbliche di protesta.
Lo specifico generazionale, però, emerge con grande evidenza nella mobilitazione
sulla Rete. Attraverso i Social Network. Dove rivelano livelli di coinvolgimento
e "comunicAzione" più che doppi rispetto alla media della popolazione.
Nell'insieme, oltre il 40% dei giovani - più o meno giovani, più o meno adulti -
dichiara di aver partecipato, attivamente, a iniziative politiche, sociali,
solidali, ambientali nell'ultimo anno.
Un dato di circa 15 punti più rispetto alla media della popolazione. In
sensibile crescita rispetto al passato recente. Anche per questo, i giovani
appaiono la componente politica più affine al M5S. Perché, oltre alla protesta
contro i partiti tradizionali, esprimono una forte domanda di partecipazione
senza mediazione. Cioè: di democrazia diretta. Emersa, anzi: esplosa, nella fase
più recente. Anche senza aprire tensioni e fratture profonde. Nella società e
fra le generazioni. Nonostante gli adulti abbiano occupato tutti gli spazi di
potere. Riservando loro un futuro precario e senza lavoro. In parte perché sono
legati agli adulti, per ragioni di "necessità", oltre che di affetto. Visto che
le famiglie li sostengono - e li controllano - nel corso della loro giovinezza,
sempre più lunga. In parte, però, la minore intensità dello scontro sociale e
generazionale in Italia, espresso dai giovani, rispetto ad altri Paese, ha
ragioni diverse. In primo luogo, dal minore legame con il territorio.
Realisticamente, infatti, quasi tutti i giovani (8 su 10) sono convinti che, per
fare carriera, occorra partire. Andarsene. In un altro Paese. E, forse, anche
per questo vedono il futuro in modo più ottimista, molto più ottimista, rispetto
ai genitori e ai nonni. Non solo perché il futuro - per quanto incerto - ce
l'hanno davanti. Ma anche perché lo pensano e immaginano altrove. Da ciò il
rischio, ben maggiore del conflitto e della protesta - sociale, politica e
generazionale. Che i giovani inseguano il futuro "altrove". E lasciandoci tutti
qui: noi, gli adulti, gli anziani - il Paese. Fermi. A invecchiare. Prigionieri
del passato.
Questa riflessione, dedicata al rapporto fra "I
Giovani e la politica", prende spunto da una serie di indagini e ricerche,
rielaborate - e presentate dall'autore - in occasione del Convegno, INCONTRARE
LUCIANO BARCA, Organizzato dall'Associazione Etica ed Economia, che si svolge a
Roma il 18 Aprile (ore 15, Palazzo Venezia - Sala del Mappamondo).
8 aprile
Oceani, “oltre 400 zone
morte, riserve di pesce al limite, barriere coralline in pezzi”
Stime della Fao, della Banca mondiale e della
National Geographic Society fotografano uan grande malattia. Da alcune settimane
al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi di Stato ed ex ministri,
economisti, giuristi e organizzazioni non governative, riunite in un nuovo
organismo indipendente, la Global Ocean Commission
di Davide Patitucci |
L’80
per cento delle riserve di pesce sfruttate fino a raggiungere o superare il loro
livello massimo di sostenibilità, con il rischio estinzione per molte specie.
Più di 400 zone morte, che coprono una superficie pari a 250mila chilometri
quadrati, dove la maggior parte degli organismi marini non riesce più a
sopravvivere. Il 35 per cento delle foreste di mangrovie e il 20 per cento delle
barriere coralline distrutte a causa dell’urbanizzazione delle coste. Sono le
cifre che raccontano di un malato grave: l’oceano. Stime della Fao, della Banca
mondiale e della National Geographic Society (schematizzate in questo grafico),
da alcune settimane al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi di Stato
ed ex ministri, economisti, giuristi e organizzazioni non governative, riunite
in un nuovo organismo indipendente, la Global Ocean Commission. Un gruppo di
studio che nei prossimi mesi dovrà formulare delle proposte, da sottoporre nel
2014 all’attenzione dell’Assemblea generale dell’Onu, per invertire lo stato di
degrado in cui versano gli oceani e fermare la corsa allo sfruttamento
indiscriminato delle loro risorse naturali.
Insediatasi lo scorso 12 febbraio sotto la guida di José María Figueres, ex
presidente del Costa Rica, Trevor Manuel, dello staff della Presidenza del
Sudafrica e David Miliband, ex ministro degli Esteri britannico, la commissione
si è data appuntamento in questi giorni a Cape Town, in Sudafrica, per il suo
meeting inaugurale. “In questo primo incontro di lavoro abbiamo ascoltato il
parere di molti esperti e discusso dei principali problemi degli oceani –
afferma Trevor Manuel, a fare gli onori di casa -. Nessuno di noi è stupido
abbastanza da pensare che sarà semplice delineare un futuro per la salute e la
salvaguardia dei nostri oceani. Ma al punto in cui ci troviamo non è azzardato
affermare che la situazione può solo migliorare”. Gli fa eco David Miliband: “La
commissione produrrà solo proposte capaci di tradursi in azioni concrete. Ho
fatto parte di numerose commissioni e ho, pertanto, imparato a mie spese –
precisa l’ex responsabile della politica estera inglese – che quando i gruppi di
studio producono troppe raccomandazioni vuol dire che hanno fallito nel compito
per cui erano stati creati”.
Molte sono le questioni aperte, a partire dall’inquinamento degli ecosistemi
marini. Come dimostra la cosiddetta “Isola dei rifiuti”, una discarica nel bel
mezzo dell’Oceano Pacifico, formatasi negli anni grazie alle correnti, la cui
estensione non è nota con precisione – si stima che le sue dimensioni oscillino
tra quelle della penisola Iberica e l’intera superficie degli Stati Uniti -.
Eppure solo il due per cento della superficie degli oceani costituisce un area
marina protetta, contro il dodici per cento delle corrispondenti regioni
terrestri.
Non si tratta solo di rivendicazioni ambientaliste. La salvaguardia degli oceani
e della loro biodiversità ha profonde ricadute economiche e sociali. “Noi tutti
dipendiamo dagli oceani – sottolinea José María Figueres -. Che ci danno cibo,
ossigeno e catturano l’anidride carbonica responsabile del surriscaldamento del
pianeta”. Basta scorrere alcuni dati della Fao o della Banca Mondiale. Gli
oceani, che coprono il 71 per cento della superficie della Terra, hanno,
infatti, un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono
calore, catturano un quarto dell’anidride carbonica emessa dalle attività
dell’uomo – una quantità cinque volte superiore a quella delle foreste tropicali
– e liberano quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo. Per un miliardo di
persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, inoltre, la pesca rappresenta
la fonte primaria di proteine. Il ricavato del commercio di pesce per i paesi in
via di sviluppo è pari a circa 25 miliardi di dollari l’anno, due volte quello
del caffè. Solo dalla pesca e commercializzazione del tonno derivano, ad
esempio, dieci miliardi d’introiti e nove dall’ecoturismo subacqueo. Sono 85 le
nazioni coinvolte nel commercio internazionale di pesce, stimato
complessivamente in 102 miliardi di dollari l’anno e 350 milioni i posti di
lavoro legati alla salute degli oceani.
“Sfortunatamente, però, molte evidenze scientifiche dimostrano che la pressione
dell’uomo sugli oceani è in continua crescita. Basti pensare alla pesca illegale
o all’incremento delle emissioni di anidride carbonica che rende le acque più
acide – denuncia José María Figueres -. La salute degli oceani rappresenta sia
un imperativo etico che un’opportunità economica. Si tratta di una questione di
cui è assolutamente necessario interessarci, se vogliamo che i nostri figli e i
nostri nipoti ottengano da essi gli stessi benefici di cui ha goduto la nostra
generazione”.
La commissione si occuperà delle acque internazionali, il 45 per cento circa
della superficie del pianeta, che non rientrano nella giurisdizione dei Governi,
ma sono soggette alla cosiddetta “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto
del mare” nata trent’anni fa allo scopo di definire i diritti e le
responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani. Un trattato
che, secondo gli esperti, però, a causa dello sviluppo tecnologico non sempre ha
frenato lo sfruttamento delle risorse naturali. Ne è un esempio la corsa che si
è aperta negli ultimi anni tra i Paesi che si affacciano sul Circolo polare
artico, Usa e Russia su tutti, per il controllo e l’estrazione delle riserve
energetiche rese accessibili dal progressivo scioglimento dei ghiacciai a causa
dei mutamenti climatici. “Il trattato delle Nazioni Unite è stato un grande
successo – spiega Miliband -, ma adesso abbiamo bisogno di una nuova governance,
che guidi gli obiettivi indicati trent’anni fa adattandoli agli scenari
attuali”.
L’inutile trattato sulle
armi e la guerra fredda delle narrazioni
di Niccolò Locatelli
L'accordo raggiunto all'Onu non salverà vite umane. L'interessante lista
degli astenuti va molto oltre i nomi (decisivi) di Russia e Cina. Il sostegno
Usa è da verificare. Intanto però l'Occidente ha raggiunto un altro obiettivo:
salvare la faccia.
L’Assemblea
generale delle Nazioni Unite ha approvato a grandissima maggioranza (154 voti a
favore, 3 contrari, 23 astenuti) il trattato sul commercio mondiale delle armi
convenzionali, che per la prima volta cerca di regolamentarne la vendita
legandola alla situazione dei diritti umani nel paese acquirente.
“È una conquista diplomatica storica”, ha gioito il segretario generale dell’Onu
Ban Ki-moon. Qualche considerazione di Realpolitik consiglierebbe di smorzare
gli entusiasmi.
All’Onu si è combattuta una nuova battaglia della “guerra fredda delle
narrazioni” che oppone l’Occidente - guidato dai suoi 3 membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza - a un gruppo variabile di Stati non occidentali tra cui
Russia e Cina non mancano quasi mai.
Il trattato in sé è inutile: in questa occasione non è neppure necessario
sottolineare che il diritto internazionale, soprattutto sulle grandi questioni,
è in ultima analisi succube dei rapporti di forza tra (e degli interessi delle)
grandi potenze. Basta dare un’occhiata al contenuto e ai nomi dei paesi che
hanno votato contro o si sono astenuti per rendersi conto che questo pezzo di
carta non farà la storia.
Innanzitutto, la sua stessa entrata in vigore è in dubbio, visto che deve essere
ratificato e poi rispettato da 50 Stati; un processo lungo e dall'esito incerto.
Anche se il trattato entrasse in vigore, il suo effetto sul commercio di armi
sarà pressochè nullo, dato che si sono astenuti - ed è improbabile che
aderiranno in futuro - alcuni dei protagonisti del settore: la Cina (appena
entrata tra i primi 5 esportatori mondiali di armi convenzionali), la Russia
(seconda solo agli Usa nella classifica) e l’India (primo importatore).
Il sostegno degli Stati Uniti alla risoluzione è stato salutato come una gradita
novità, dato che Washington sul tema delle armi deve sempre fare i conti con la
potentissima lobby della National Rifle Association (Nra). A differenza del
luglio scorso, quando c’era ancora la rielezione da vincere e a tal fine non era
stato un problema schierarsi con Russia e Cina su questo stesso argomento, Obama
stavolta ha gettato il cuore oltre l’ostacolo. L’ostacolo però si ripresenterà
al Senato, dove il presidente dovrà trovare una maggioranza di due terzi se
vorrà che venga ratificato il trattato - e per il momento l’inquilino della Casa
Bianca non sembra avere fretta. Il senato è attualmente a maggioranza
democratica, ma sul tema delle armi il partito potrebbe non seguire il presidente.
L’Nra si oppone, oltre che per motivi ideologici, perchè teme possibili
limitazioni dei gun-rights negli Usa.
La debolezza del trattato non offusca il significato politico del voto: nella
guerra fredda della narrazione, i paesi occidentali hanno vinto la battaglia,
per lo meno nei confronti delle loro opinioni pubbliche: il sostegno alla
risoluzione è stato quasi universale e tra i pochi contrari o astenuti è stato
facile per i media transatlantici trovare rapidamente i soliti sospetti.
La Russia e la Cina, già additati come principali responsabili dello stallo in
Siria; la Siria stessa, che è andata oltre l’astensione di Mosca e Pechino,
opponendosi; l’Iran, alleato-patrono di Damasco, che ha compiuto la stessa
scelta; la Corea del Nord di Kim Jong Un, anch’essa contraria, che con le
provocazioni degli ultimi giorni si sta accreditando agli occhi occidentali (e
non solo) come la principale minaccia alla pace mondiale.
A completare lo stereotipo, l’astensione dell’Alba, l’Alleanza bolivariana dei
popoli della nostra America ideata da Fidel Castro e dal defunto Hugo Chávez:
Bolivia, Cuba, Ecuador e Nicaragua non hanno votato, mentre al Venezuela non è
stato permesso di votare perchè in ritardo con i pagamenti alle Nazioni Unite
(sic). Caracas si sarebbe comunque astenuta, come hanno fatto anche Bielorussia
e Sudan.
Non è stata riservata la stessa enfasi alle astensioni di tre preziosi alleati
degli Stati Uniti - quindi, di default, dell’Europa - la cui pagella in tema di
diritti umani è piuttosto deludente. Si tratta dell’Arabia Saudita, del Bahrein
e del Qatar, capisaldi della politica mediorientale di Washington: Riyad
fornisce petrolio e leadership anti-iraniana, Manama ospita la Quinta flotta
della Marina Usa, Doha grandi giacimenti di gas e una base dell’Aeronautica
statunitense. Sauditi e qatarini stanno armando i ribelli anti-Asad in Siria -
quali, non si sa con certezza; truppe saudite e degli Emirati sono inoltre
impegnate in Bahrein, dove sono intervenute nel marzo 2011 su invito della
famiglia regnante degli al-Khalifa (sunnita) per reprimere le manifestazioni -
pacifiche - della popolazione, di maggioranza sciita.
Evidentemente, la “primavera araba” e i diritti umani sono una giusta causa solo
se non ci sono altri, più cogenti interessi in ballo. Se non si possono salvare
vite umane, bisogna almeno cercare di salvare la faccia.
L’Occidente ha votato compatto a favore del trattato sul commercio di armi e ha
sostenuto la narrazione che più gli fa comodo - quella per cui i mali del mondo
possono essere attribuiti a Russia, Cina e un manipolo di altre dittature non
troppo distanti dall'Asse del male di bushiana memoria.
Così non riuscirà a salvare vite umane, ma almeno in questa occasione è riuscito
a salvare la faccia.
I plutocrati la fanno
«franca»
Giuseppe Acconcia
Da Washington a Baku, da Parigi a Mosca, la stampa inchioda i «furbetti
globali». 12 mila società coinvolte in 170 paesi. Per un giro d'affari da 32mila
miliardi di dollari. 200 gli italiani in elenco
Tempi
duri per i plutocrati di tutto il mondo. Wikileaks ha l'aria di un piccolo
scandalo rispetto alla portata del nuovo leak che coinvolge oligarchi e politici
che hanno i loro beni in paradisi fiscali. A portare alla luce gli evasori
miliardari è stata l'indagine del Consorzio internazionale dei giornalisti
d'inchiesta (Icji) che unisce testate di 86 paesi. Una frode dalle dimensioni
senza precedenti: due milioni e mezzo di file di 130 mila titolari di conti
correnti e investimenti tramite 12 mila società offshore, per somme sottratte al
fisco dei 170 paesi di provenienza tra i 21 mila e i 32 mila miliardi di
dollari.
Le banche impegnate a fornire ai propri clienti compagnie coperte dal segreto
nelle Isole Vergini e in altri paradisi fiscali vanno da Ubs a Credit Suisse e
Deutsche Bank, che da sola avrebbe creato oltre 300 società di comodo.
L'indagine è partita da una soffiata, trasmessa alla Icji, di due impiegati
della Commonwealth Trust Limited, delle isole Vergini britanniche, e dalla
Portcullis Trustnet, con base a Singapore e sedi nelle isole Cayman, Cook e
Samoa.
E così ieri le prime pagine di Guardian, Washington Post, Le Monde e
Sueddeutsche Zeitung hanno raccolto le rivelazioni che coinvolgono i «furbetti
globali». Da Londra si rende noto che compare tra i nomi dei plutocrati il
premier georgiano Bidzina Ivanishvili, insieme ad oligarchi pachistani,
thailandesi e indonesiani, oltre al britannico, Neil Gaitely, direttore della
Tamalaris Consolidated Ltd, società che per la Ue opera per conto della
compagnia di navigazione statale iraniana. In Francia lo scandalo investe il
tesoriere del presidente François Hollande mentre al centro dell'inchiesta in
Italia ci sono noti commercialisti.
Ma le rivelazioni toccano le élites politiche e finanziarie di tutto il mondo,
nessuno escluso, cominciando con l'ex ministro delle Finanze della Mongolia e
vice presidente del parlamento, Bayartsogt Sangajav, titolare di un conto
segreto in Svizzera e detentore di una società offshore cinese, che avrebbe
depositato milioni di dollari senza dichiararli quando era a guida della Banca
asiatica dello sviluppo.
Per arrivare poi a Imee Marcos, figlia del presidente filippino. Mentre in
Azerbaijan è coinvolto il capo di Stato Ilham Aliyev e la sua famiglia,
proprietari di holding nelle isole Vergini, gestite da Hassan Gozal, uomo
d'affari della Btp con contratti pubblici a Baku. In Russia emergono i nomi di
politici vicini al presidente Putin tra cui Olga Shuvalova, moglie del vice
primo ministro russo Igor Shuvalov, all'origine di una transazione con una
società con sedi alle Bahamas.
Ben 4 mila americani figurano nella lista dell'Icij tra cui Denise Rich, moglie
di un magnate del petrolio, graziato dall'allora presidente Clinton dopo essere
stato condannato per frode fiscale. Denise Rich ha raccolto per anni i fondi per
le campagne elettorali del Partito democratico e ha depositato 144 milioni di
dollari in un trust delle isole Cook. È recidivo anche l'avvocato ed ex politico
canadese, Tony Merchant, marito della senatrice Pana Merchant. Non è sconosciuto
al fisco, infatti nel 1998 in un conto offshore depositò 800 mila dollari. In
Spagna è coinvolta nello scandalo una collezionista d'arte, la baronessa Carmen
Thyssen-Bornemisza, vedova del miliardario Thyssen, usava le holding per
comprare opere d'arte e rivenderle a Christies e Sotheby's.
A bloccare indagini che potrebbero inchiodare i più grandi evasori di sempre ci
pensano per ora le convenzioni internazionali sul segreto bancario. Mentre
Berlino chiede almeno alla stampa trasparenza nel rivelare i dati.
4
aprile
La battaglia arriva sui
nostri mercati
Nicoletta Dentico*
La sentenza con cui la Corte Suprema dell'India
ha respinto il ricorso di Novartis segna un precedente decisivo per
l'affermazione del diritto alla salute a livello globale
La sentenza di centododici pagine con cui la Corte Suprema dell'India ha
respinto il ricorso di Novartis in reazione alla mancata assegnazione del
brevetto alla forma beta cristallina del suo farmaco anti-leucemico Gleevec
segna un precedente decisivo per l'affermazione del diritto alla salute a
livello globale. Anche per questo la notizia ha fatto il giro del mondo.
Malgrado i triti commenti dell'industria svizzera, la decisione indiana non è un
attacco contro la innovazione biomedica, né un'azione offensiva contro i
brevetti. Come scriveva ieri The Economic Times, Novartis ha perso la causa per
motivazioni tecniche. La multinazionale non è riuscita a dimostrare - dati
clinici alla mano - in che modo la versione beta cristallina del principio
attivo imanitib mesilato (la molecola del farmaco Gleevec) potesse determinare
un'efficacia terapeutica superiore rispetto alla base libera dello stesso
principio attivo, prodotta in India in versione generica equivalente da diverse
aziende. Sicché il brevetto, se fosse stato concesso, avrebbe semplicemente
rinnovato la posizione di monopolio della Novartis in India, con l'esito di
immettere sul mercato un farmaco ben più costoso di quelli già disponibili,
senza beneficio alcuno per i pazienti affetti dal tumore in grado di pagarsi una
confezione di Gleevec a 2600 dollari!Una pratica diffusa nella quale si
cimentano con dovizia di creatività le grandi industrie farmaceutiche. Un
fenomeno oggi finalmente riconosciuto nei circuiti accademici come frivolous
patenting, una deriva che ha banalizzato i tre requisiti fondamentali per
conseguire un brevetto secondo l'accordo TRIPS sulla proprietà intellettuale
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC): invenzione, innovatività, e
applicazione industriale (Art. 27.1 dell'accordo TRIPS). Con la nuova legge
sulla proprietà intellettuale del 2005, l'India ha invece preso i brevetti molto
sul serio. Ha inserito nella norma, questa volta estesa anche ai prodotti
farmaceutici - dal 1970 l'India escludeva i brevetti sui medicinali, una scelta
che le ha permesso di sviluppare l'industria farmaceutica nazionale, oggi
settore trainante dell'economia - rigide clausole di salvaguardia, come il comma
3d. In nome dell'interesse pubblico, esso stabilisce criteri severi per la
brevettabilità, e misure contro il prolungamento fittizio dei monopoli
industriali. Novartis ci si scagliò contro per prima, nel 2006 e nel 2009 arrivò
la prima sonora sconfitta per il gigante svizzero. La battaglia è politica,
filosofica ed economica, commentava Piero Bianucci su La Stampa. L'India
combatte anche per salvaguardare il suo modello imprenditoriale ed il ruolo che
si è conquistata come farmacia di qualità per i paesi del sud del mondo. Nuove
prospettive inoltre si aprono verso i mercati occidentali, visto che sono in
scadenza brevetti che hanno garantito a big pharma negli anni passati redditi
stratosferici. E' il caso del brevetto Pfizer sull'anti-colesterolico Lipitor; a
novembre 2012 l'indiana Ranbaxy è stata autorizzata da Food and Drug
Administration (FDA) a vendere l'equivalente generico negli USA. Ma è troppo
presto per cantar vittoria. Da anni l'India è sotto torchio per via di uno
spinoso negoziato commerciale bilaterale con l'Unione Europea, che si trascina
sul fil di lama. Il pericolo maggiore viene dal capitolo sulla proprietà
intellettuale e sugli investimenti, che rischia di strangolare ogni ulteriore
sviluppo dell'industria nazionale, compresa quella farmaceutica.
* presidente Osservatorio Italiano sulla Salute
Globale (OISG)
Eni, 7 milioni di euro
all’amministratore di Saipem indagato per tangenti
Il manager pubblico si è dimesso a dicembre per
l'inchiesta algerina che ha coinvolto anche il numero uno dell'Eni, Paolo
Scaroni. Portando a casa 3,81 milioni come tfr e incentivo all'esodo oltre a
2,28 milioni di bonus
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Quasi 7 milioni di euro. Tanto ha incassato, nel
2012, l’ex amministratore delegato della Saipem, Pietro Franco Tali. Il manager
del gruppo pubblico, in quanto controllato dall’Eni che a sua volta fa capo al
ministero del Tesoro, si era dimesso lo scorso 5 dicembre dopo l’avvio delle
indagini a suo carico per le presunte tangenti pagate dalla società in Algeria.
Un’inchiesta che da febbraio di quest’anno vede indagato anche il numero uno di
Eni, Paolo Scaroni.
Nel dettaglio Tali nel 2012 ha percepito compensi per 6,95 milioni di euro. La
retribuzione del manager, si legge nella relazione sulla remunerazione
depositata dalla società, include una buonuscita di 3,81 milioni, a titolo di
trattamento di fine rapporto e incentivazione all’esodo per la risoluzione del
rapporto di lavoro e 2,28 milioni come bonus. La retribuzione fissa era invece
di 837mila euro.
Sul fronte dell’inchiesta, nel bilancio del gruppo si legge di contro che dopo
l’avvio dell’inchiesta sul colosso statale Sonatrach e sulle presunte tangenti
pagate a uomini politici e d’affari locali, la magistratura algerina ha bloccato
“diversi conti correnti” di Saipem Contracting Algerie, una società di Saipem
attiva nel Paese nordafricano. A fine gennaio restavano ancora congelati due
conti su cui sono depositati 79 milioni di euroin valuta locale. Saipem
Contracting Algerie è stata rinviata a giudizio dalla Chambre d’accusation lo
scorso 30 gennaio con l’accusa di corruzione.
“Si segnala inoltre che in Algeria sono in corso indagini avviate nel 2010 nei
confronti di terzi con riferimento alle quali diversi conti correnti in valuta
locale di Saipem Contracting Algerie SpA sono stati bloccati”, si legge nel
documento. “Successivamente – viene spiegato – sono stati sbloccati alcuni di
questi conti correnti e, al 25 gennaio 2013, rimangono bloccati due conti
correnti denominati in dinari algerini per un saldo totale equivalente a 79
milioni di euro”.
A settembre dello scorso anno la Chambre d’accusation della Corte di Algeri ha
formalizzato a Saipem Contracting Algerie un’indagine nei suoi confronti
“relativa ad asserita maggiorazione dei prezzi in occasione dell’aggiudicazione
di contratti conclusi con una società pubblica a carattere industriale e
commerciale beneficiando dell’autorità o influenza di rappresentanti di tale
organismo”. Lo scorso 30 gennaio l’organismo inquirente ha rinviato a giudizio
la società, confermando il blocco dei due conti correnti. Saipem Contracting
Algerie, le cui sedi sono state oggetto di perquisizione lo scorso 24 marzo, ha
presentato ricorso di fronte alla Corte Suprema.
Benzina, “aumento illecito
dei prezzi”. Indagate 7 compagnie petrolifere
Inchiesta a Varese partita dopo un esposto del
Codacons. Ipotizzati i reati di rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi sul
mercato, manovre speculative e truffa. Gli accertamenti sono iniziati dopo i
continui rincari dello scorso anno
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Un aumento illecito dei prezzi dei carburanti. E’
l’accusa mossa alle compagnie petrolifere Shell, Tamoil, Eni, Esso, Total Erg,
Q8 e Api, coinvolte in un’inchiesta della Guardia di Finanza e della procura di
Varese. I reati ipotizzati sono rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi sul
mercato, manovre speculative su merci e truffa. Il gip del tribunale di Varese
ha disposto il trasferimento degli atti a Roma e Milano, dove sono le sedi
legali delle società.
L’indagine, iniziata un anno fa in occasione del continuo rialzo dei prezzi
della benzina, è scaturita da un esposto del Codacons e ha consentito di
accertare l’esistenza di un rialzo ingiustificato da parte delle compagnie,
attraverso una serie di manovre speculative. I militari del nucleo di polizia
tributaria di Varese hanno prima ricostruito le dinamiche che concorrono alla
formazione del prezzo dei prodotti petroliferi ed hanno esaminato la
documentazione acquisita presso le compagnie e riguardante l’origine e
l’andamento dei prezzi per ricostruire le variazioni in aumento e diminuzione
nel periodo gennaio 2011 al marzo 2012. Per accertare i reati sono stati anche
esaminati i documenti relativi alle istruttorie aperte dall’Authority per la
Concorrenza e il Mercato e dal ministero dello Sviluppo economico. Nel corso
dell’indagine si è inoltre proceduto al raffronto con i prezzi praticati negli
altri paesi dell’Ue nello stesso periodo, rilevando prezzi medi in Italia
maggiori della media.
Gli accertamenti dei finanzieri hanno consentito di accertare che la causa
principale dell’aumento dei prezzi è attribuibile al ruolo rilevante dei fondi
di investimento in commodity (materia prime come petrolio, rame, argento, oro) e
gli Etf sul petrolio (fondi indicizzati quotati in borsa, in tempo reale, come
semplici azioni) che, risultando fortemente influenzati da azioni speculative,
da un lato hanno attratto investitori in grado di determinare un aumento del
prezzo del petrolio pur restando estranei al suo mercato reale, e dall’altro
hanno determinato un intervento speculativo da parte delle compagnie petrolifere
attraverso operazioni finanziarie con strumenti di finanza derivata finalizzati
al mantenimento di prezzi elevati sui mercati del greggio di loro proprietà ai
fini di una definizione conveniente dei prezzi dei carburanti praticati alla
pompa.
2
aprile
Ci sono tre contadini Tizio,
Caio e Sempronio...
Ci sono tre contadini Tizio, Caio e Sempronio...
alle base di una torre con damigella di Capua
chiusa all'ultimo piano. La torre ha preso fuoco. Tizio, Caio e Sempronio
accorrono per spegnere l'incendio e salvare la damigella. Pero' a Tizio fa
schifo Caio, a Caio fa schifo Tizio, a Tizio e Caio fa schifo Sempronio e a
Sempronio fanno schifo sia Tizio che Caio. Devono mettersi d'accordo e formare
in qualche modo una squadra perche' la torre sta bruciando e alla damigella
nella stanza di sopra non resta molto tempo, la torre stessa rischia di crollare
a breve per l'incendio.. La damigella deve incaricare almeno due di loro per
fare la squadra per spegnere l'incendio. Tutti e tre tovviamente hanno in mente
idee e una procedura diversa, in parte valida e in parte no su come spegnere
l'incendio. Tutti e tre, oltre a destestarsi, pensano che la loro ricetta sia
l'unica valida per spegnere l'incendio e riparare la torre. Che fa la
damigella!? Semplice...direte voi...!!
(1° aggiornam.)
ormai la damigella sa di essere spacciata ma invece di rassegnarsi prova
comunque a scomporre le procedure proposte da Tizio Caio e Sempronio in elementi
piu' semplici e trovare una forma di sintesi per riuscire a mettere i tre
contadini bastevolmente d'accorso per riuscire almeno a spegnere l'incendio.
Purtroppo i tre contadini continuano a litigare e a perdere tempo. Intanto a
distanza, il popolino urla e bestemmia e diviso in famiglie e incita il
contadino della propria casa a mantenere il punto d'onore rispetto altri due,
non calcolando che la torre, piuttosto alta, rischia seriamente di cascare sulla
loro teste e fare una strage. Per rasserenare ulteriormente gli animi popolino e
contadini urlano pure contro la damigella di Capua accusandola di perdere tempol
con le procedure di spegnimento e non fare invece abbastanza per spingere almeno
due di loro ad accordarsi...nel frattempo, furbescamente, i tre pensano a quale
damigella del luogo scegliere sognando che sia della propria famiglia.