18 aprile

 

Texas, biglietto di sola andata. “Qui tanti ricercatori italiani? Sono più bravi”

Thomas Geninatti ha 27 anni e una laurea specialistica in Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino. Ha mandato una mail a Mauro Ferrari, esperto di nanotecnologie al Methodist Hospital Research Institute, e dopo la sua risposta è partito per Houston

di Lorenza Castagneri

“Tornare a casa? Sì, ma quando sarò in pensione”. Della serie: in Italia si sta bene, ma solo in vacanza. Sì perché al Methodist Hospital Research Institute di Houston, Texas, Thomas Geninatti (nella foto a destra) ha trovato un lavoro, uno stipendio da sogno, un dottorato prestigiosissimo e pure una fidanzata. Insomma, una vita nuova. “E chi me lo fa fare di tornare in un Paese nessuno investe nella ricerca?”. Thomas ha ventisette anni e una laurea specialistica in Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino. “Negli States sono avanti anni luce. Non perché ci sia gente più preparata ma perché le risorse sono maggiori. Qui è pieno di persone benestanti che mettono parte della loro fortuna a disposizione di università e centri specializzati”.

E dire che è nato tutto per caso, due anni fa, quando Thomas stava cercando un argomento su cui sviluppare la sua tesi. Un giorno la madre gli mostra un articolo di giornale. Il pezzo racconta la storia di Mauro Ferrari (nella foto al centro), visionario nel campo della Nanotecnologia applicata alla medicina, e della sua attività negli Stati Uniti. Decide di scrivergli una mail. “Pensavo che non l’avrebbe mai letta e invece, tempo due ore, mi ha risposto. Non ci potevo credere”. Così Thomas è partito. Per sei mesi si è dedicato anima e corpo a studi ed esperimenti. La laurea è arrivata a marzo 2012. Lui, però, in Italia si è fermato giusto il tempo per la proclamazione. Arrivederci a San Francesco, il paesino con meno di 5mila abitanti alle porte di Torino dove aveva vissuto fino ad allora. “Al Methodist mi hanno offerto un posto di lavoro imperdibile: faccio parte di un team che progetta drug delivery systems. In pratica, sviluppo nuove tecniche sul rilascio controllato dei farmaci antitumorali. Così sono ripartito. Con un biglietto di sola andata”.

Mentre racconta, a Thomas tornano in mente i suoi ex colleghi del Poli che lavorano in Italia. Con alcuni di loro si è mantenuto in contatto. Si sentono via Skype o Facebook. Alcuni sono disoccupati, altri hanno trovato lavoro ma con contratti precari da mille euro al mese. Sono disillusi e senza certezze. “Dicono che è uno schifo. Che studiare anni e anni non ha più alcun senso. A me dispiace. E’ triste sentir parlare così del proprio Paese d’origine”, osserva Thomas. Ma poi aggiunge: “Se non fossi partito, visti i tempi grigi dell’Italia, magari avrei detto sì alla prima offerta di lavoro. Non avrei mai avuto l’opportunità di lavorare con scienziati di fama mondiale e di frequentare un dottorato in ingegneria dei materiali tra Stati Uniti e Cina”. L’avvio del progetto è previsto per agosto. Thomas trascorrerà sei mesi a Pechino, per poi tornare altri due anni in Texas. Al suo fianco, sempre il suo mentore, il dottor Ferrari. Negli anni sono tanti i giovani italiani che sono entrati a far parte del suo gruppo di ricerca al Methodist. “Ma non si tratta di campanilismo – scrive lo scienziato via mail – Se ci sono tanti italiani da noi, è solo perché hanno battuto un’agguerritissima concorrenza con ricercatori da tutto il mondo. Qui si entra solo se sei bravo. Vince la meritocrazia”.

 

Giovani e politica, una generazione altrove

GIOVANI e adulti: si somigliano molto, in Italia. Almeno, in rapporto alla politica e alle istituzioni. Lo stesso distacco. Anzi, per la precisione, è la generazione dei giovani a segnare il percorso. La direzione. Gli adolescenti e i giovani-più-giovani (così definiamo quelli di età compresa fra 15 e 24 anni), ma anche i giovani-adulti (fra 25 e 34 anni), esprimono un livello di fiducia davvero basso, anzi, minimo nei confronti dei principali attori e della più importante istituzione della "democrazia rappresentativa". Cioè, i partiti: poco sopra al 4%. E il Parlamento: appena un po' di più. (Utilizziamo, qui, i dati di numerose indagini condotte da Demos e LaPolis-Università di Urbino. ) Ma la sfiducia si estende anche allo Stato. In misura maggiore rispetto alla popolazione nell'insieme. Un disincanto acuto, che si è accentuato negli ultimi anni. Dopo il 2006, quando, perlomeno, dimostravano maggiore confidenza verso gli attori e le istituzioni rappresentative rispetto agli adulti. Oggi non più.

D'altronde oltre la metà di essi (e il 55% tra i giovani-adulti) ritiene che la democrazia non abbia bisogno dei partiti, per funzionare bene. Anzi, visto il distacco espresso nei loro confronti, è, semmai, vero il contrario. Cioè: pensa che i partiti siano un ostacolo alla democrazia vera. Anche in questo caso: si tratta di opinioni diffuse nella popolazione. Ma fra i giovani, in misura del tutto particolare. Così si spiega l'incertezza che li ha accompagnati, nella recente stagione elettorale.

Solo una quota minoritaria di essi, poco superiore al 40%, afferma di non aver avuto mai dubbi sul voto da esprimere. I giovani: appaiono molto più "incerti" degli adulti. Più indecisi rispetto alle elezioni del 2006, quando, peraltro, le differenze tra generazioni apparivano meno rilevanti. E tutti, giovani, adulti e anziani, dimostravano convinzioni più forti e più solide, su chi votare. Oggi non è più così. Oltre il 40% dei giovani-più giovani e il 45% dei giovani-adulti sostengono, infatti, di non aver votato per fiducia in un partito e nel suo leader. Ma per sfiducia verso gli altri - leader e partiti. Alle precedenti elezioni, nel 2008, gli elettori di protesta, fra i giovani, erano molto meno numerosi. Intorno al 30%. Negli ultimi anni, fra i giovani, è, dunque, cresciuto un sentimento di diffidenza e insoddisfazione verso gli attori politici. I partiti e i loro leader. Come in tutta la società, d'altronde. Ma in misura maggiore. Più acuta. E più rapida. Lo sottolineano, in modo eloquente, gli orientamenti di voto. Che, fra i giovani, enfatizzano le principali tendenze complessivamente emerse alle ultime elezioni. In particolare e soprattutto: il consenso al M5S. Che raggiunge quasi il 30% fra i più giovani, ma sfiora il 36% fra i giovani-adulti. Appena sotto il risultato raggiunto fra gli adulti-giovani (35-44 anni).

L'insoddisfazione verso il sistema politico e la protesta contro i partiti principali, dunque, hanno raggiunto limiti estremi. Ormai irrilevanti e quasi irrilevabili, dal punto di vista statistico. Da ciò la crescente incertezza elettorale e la diffusa tentazione astensionista, da un lato. E, dall'altro, il successo tributato al MoVimento guidato da Grillo. Mentre, i principali partiti della Seconda Repubblica, fra i giovani, si sono ridotti quasi a comparse. Il PD, si ferma al 18%, fra i più giovani. Ma scende ulteriormente, intorno al 15%, fra i giovani-adulti. Il PD ha, infatti, ottenuto il massimo dei consensi (37%) fra gli ultra65enni. È un partito di anziani e di pensionati. Come il PdL, d'altronde. Che, fra i giovani-adulti, supera il 20%. Ma tra i più giovani scende all'11%. E fra gli studenti, in particolare, arretra ulteriormente, al 9,5%. Superato anche da Scelta Civica. Gli orientamenti verso i partiti si riflettono sulla fiducia verso i leader. Che raggiunge i livelli più elevati a favore di Beppe Grillo e di Matteo Renzi. Le figure che, più delle altre, intercettano ed esprimono la domanda di cambiamento. La frattura rispetto al passato, ai partiti e al ceto politico tradizionali. La specificità generazionale, però, emerge in modo più marcato nel caso di Grillo (come, in misura più limitata, per Vendola). Mentre l'appeal di Renzi appare trasversale e risulta, anzi, ancor più elevato fra i "genitori" e i "nonni" (presso i quali l'indice di fiducia supera il 70%).

I giovani. Sono l'amplificatore del ri-sentimento politico della società italiana. Per questo, non marcano grandi differenze rispetto agli adulti e agli anziani. Ma a "differenza" di essi non appaiono rassegnati. Né semplicemente frustrati. Il distacco non si traduce in antipolitica. Al contrario, al malessere politico rispondono con un alto grado di partecipazione. Politica. E in tutti gli ambiti, in tutte le direzioni. Mostrano, infatti, livelli massimi di impegno sui problemi del quartiere e della città, del territorio e dell'ambiente. Sono i più presenti nelle manifestazioni pubbliche di protesta. Lo specifico generazionale, però, emerge con grande evidenza nella mobilitazione sulla Rete. Attraverso i Social Network. Dove rivelano livelli di coinvolgimento e "comunicAzione" più che doppi rispetto alla media della popolazione. Nell'insieme, oltre il 40% dei giovani - più o meno giovani, più o meno adulti - dichiara di aver partecipato, attivamente, a iniziative politiche, sociali, solidali, ambientali nell'ultimo anno.

Un dato di circa 15 punti più rispetto alla media della popolazione. In sensibile crescita rispetto al passato recente. Anche per questo, i giovani appaiono la componente politica più affine al M5S. Perché, oltre alla protesta contro i partiti tradizionali, esprimono una forte domanda di partecipazione senza mediazione. Cioè: di democrazia diretta. Emersa, anzi: esplosa, nella fase più recente. Anche senza aprire tensioni e fratture profonde. Nella società e fra le generazioni. Nonostante gli adulti abbiano occupato tutti gli spazi di potere. Riservando loro un futuro precario e senza lavoro. In parte perché sono legati agli adulti, per ragioni di "necessità", oltre che di affetto. Visto che le famiglie li sostengono - e li controllano - nel corso della loro giovinezza, sempre più lunga. In parte, però, la minore intensità dello scontro sociale e generazionale in Italia, espresso dai giovani, rispetto ad altri Paese, ha ragioni diverse. In primo luogo, dal minore legame con il territorio. Realisticamente, infatti, quasi tutti i giovani (8 su 10) sono convinti che, per fare carriera, occorra partire. Andarsene. In un altro Paese. E, forse, anche per questo vedono il futuro in modo più ottimista, molto più ottimista, rispetto ai genitori e ai nonni. Non solo perché il futuro - per quanto incerto - ce l'hanno davanti. Ma anche perché lo pensano e immaginano altrove. Da ciò il rischio, ben maggiore del conflitto e della protesta - sociale, politica e generazionale. Che i giovani inseguano il futuro "altrove". E lasciandoci tutti qui: noi, gli adulti, gli anziani - il Paese. Fermi. A invecchiare. Prigionieri del passato.

Questa riflessione, dedicata al rapporto fra "I Giovani e la politica", prende spunto da una serie di indagini e ricerche, rielaborate - e presentate dall'autore - in occasione del Convegno, INCONTRARE LUCIANO BARCA, Organizzato dall'Associazione Etica ed Economia, che si svolge a Roma il 18 Aprile (ore 15, Palazzo Venezia - Sala del Mappamondo).

 

8 aprile

 

 

Oceani, “oltre 400 zone morte, riserve di pesce al limite, barriere coralline in pezzi”

Stime della Fao, della Banca mondiale e della National Geographic Society fotografano uan grande malattia. Da alcune settimane al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi di Stato ed ex ministri, economisti, giuristi e organizzazioni non governative, riunite in un nuovo organismo indipendente, la Global Ocean Commission

di Davide Patitucci |

L’80 per cento delle riserve di pesce sfruttate fino a raggiungere o superare il loro livello massimo di sostenibilità, con il rischio estinzione per molte specie. Più di 400 zone morte, che coprono una superficie pari a 250mila chilometri quadrati, dove la maggior parte degli organismi marini non riesce più a sopravvivere. Il 35 per cento delle foreste di mangrovie e il 20 per cento delle barriere coralline distrutte a causa dell’urbanizzazione delle coste. Sono le cifre che raccontano di un malato grave: l’oceano. Stime della Fao, della Banca mondiale e della National Geographic Society (schematizzate in questo grafico), da alcune settimane al centro delle discussioni di scienziati, ex Capi di Stato ed ex ministri, economisti, giuristi e organizzazioni non governative, riunite in un nuovo organismo indipendente, la Global Ocean Commission. Un gruppo di studio che nei prossimi mesi dovrà formulare delle proposte, da sottoporre nel 2014 all’attenzione dell’Assemblea generale dell’Onu, per invertire lo stato di degrado in cui versano gli oceani e fermare la corsa allo sfruttamento indiscriminato delle loro risorse naturali.

Insediatasi lo scorso 12 febbraio sotto la guida di José María Figueres, ex presidente del Costa Rica, Trevor Manuel, dello staff della Presidenza del Sudafrica e David Miliband, ex ministro degli Esteri britannico, la commissione si è data appuntamento in questi giorni a Cape Town, in Sudafrica, per il suo meeting inaugurale. “In questo primo incontro di lavoro abbiamo ascoltato il parere di molti esperti e discusso dei principali problemi degli oceani – afferma Trevor Manuel, a fare gli onori di casa -. Nessuno di noi è stupido abbastanza da pensare che sarà semplice delineare un futuro per la salute e la salvaguardia dei nostri oceani. Ma al punto in cui ci troviamo non è azzardato affermare che la situazione può solo migliorare”. Gli fa eco David Miliband: “La commissione produrrà solo proposte capaci di tradursi in azioni concrete. Ho fatto parte di numerose commissioni e ho, pertanto, imparato a mie spese – precisa l’ex responsabile della politica estera inglese – che quando i gruppi di studio producono troppe raccomandazioni vuol dire che hanno fallito nel compito per cui erano stati creati”.

Molte sono le questioni aperte, a partire dall’inquinamento degli ecosistemi marini. Come dimostra la cosiddetta “Isola dei rifiuti”, una discarica nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, formatasi negli anni grazie alle correnti, la cui estensione non è nota con precisione – si stima che le sue dimensioni oscillino tra quelle della penisola Iberica e l’intera superficie degli Stati Uniti -. Eppure solo il due per cento della superficie degli oceani costituisce un area marina protetta, contro il dodici per cento delle corrispondenti regioni terrestri.

Non si tratta solo di rivendicazioni ambientaliste. La salvaguardia degli oceani e della loro biodiversità ha profonde ricadute economiche e sociali. “Noi tutti dipendiamo dagli oceani – sottolinea José María Figueres -. Che ci danno cibo, ossigeno e catturano l’anidride carbonica responsabile del surriscaldamento del pianeta”. Basta scorrere alcuni dati della Fao o della Banca Mondiale. Gli oceani, che coprono il 71 per cento della superficie della Terra, hanno, infatti, un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono calore, catturano un quarto dell’anidride carbonica emessa dalle attività dell’uomo – una quantità cinque volte superiore a quella delle foreste tropicali – e liberano quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo. Per un miliardo di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, inoltre, la pesca rappresenta la fonte primaria di proteine. Il ricavato del commercio di pesce per i paesi in via di sviluppo è pari a circa 25 miliardi di dollari l’anno, due volte quello del caffè. Solo dalla pesca e commercializzazione del tonno derivano, ad esempio, dieci miliardi d’introiti e nove dall’ecoturismo subacqueo. Sono 85 le nazioni coinvolte nel commercio internazionale di pesce, stimato complessivamente in 102 miliardi di dollari l’anno e 350 milioni i posti di lavoro legati alla salute degli oceani.

“Sfortunatamente, però, molte evidenze scientifiche dimostrano che la pressione dell’uomo sugli oceani è in continua crescita. Basti pensare alla pesca illegale o all’incremento delle emissioni di anidride carbonica che rende le acque più acide – denuncia José María Figueres -. La salute degli oceani rappresenta sia un imperativo etico che un’opportunità economica. Si tratta di una questione di cui è assolutamente necessario interessarci, se vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti ottengano da essi gli stessi benefici di cui ha goduto la nostra generazione”.

La commissione si occuperà delle acque internazionali, il 45 per cento circa della superficie del pianeta, che non rientrano nella giurisdizione dei Governi, ma sono soggette alla cosiddetta “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” nata trent’anni fa allo scopo di definire i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani. Un trattato che, secondo gli esperti, però, a causa dello sviluppo tecnologico non sempre ha frenato lo sfruttamento delle risorse naturali. Ne è un esempio la corsa che si è aperta negli ultimi anni tra i Paesi che si affacciano sul Circolo polare artico, Usa e Russia su tutti, per il controllo e l’estrazione delle riserve energetiche rese accessibili dal progressivo scioglimento dei ghiacciai a causa dei mutamenti climatici. “Il trattato delle Nazioni Unite è stato un grande successo – spiega Miliband -, ma adesso abbiamo bisogno di una nuova governance, che guidi gli obiettivi indicati trent’anni fa adattandoli agli scenari attuali”.

 

L’inutile trattato sulle armi e la guerra fredda delle narrazioni

di Niccolò Locatelli

L'accordo raggiunto all'Onu non salverà vite umane. L'interessante lista degli astenuti va molto oltre i nomi (decisivi) di Russia e Cina. Il sostegno Usa è da verificare. Intanto però l'Occidente ha raggiunto un altro obiettivo: salvare la faccia.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato a grandissima maggioranza (154 voti a favore, 3 contrari, 23 astenuti) il trattato sul commercio mondiale delle armi convenzionali, che per la prima volta cerca di regolamentarne la vendita legandola alla situazione dei diritti umani nel paese acquirente.

“È una conquista diplomatica storica”, ha gioito il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Qualche considerazione di Realpolitik consiglierebbe di smorzare gli entusiasmi.

All’Onu si è combattuta una nuova battaglia della “guerra fredda delle narrazioni” che oppone l’Occidente - guidato dai suoi 3 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza - a un gruppo variabile di Stati non occidentali tra cui Russia e Cina non mancano quasi mai.

Il trattato in sé è inutile: in questa occasione non è neppure necessario sottolineare che il diritto internazionale, soprattutto sulle grandi questioni, è in ultima analisi succube dei rapporti di forza tra (e degli interessi delle) grandi potenze. Basta dare un’occhiata al contenuto e ai nomi dei paesi che hanno votato contro o si sono astenuti per rendersi conto che questo pezzo di carta non farà la storia.

Innanzitutto, la sua stessa entrata in vigore è in dubbio, visto che deve essere ratificato e poi rispettato da 50 Stati; un processo lungo e dall'esito incerto. Anche se il trattato entrasse in vigore, il suo effetto sul commercio di armi sarà pressochè nullo, dato che si sono astenuti - ed è improbabile che aderiranno in futuro - alcuni dei protagonisti del settore: la Cina (appena entrata tra i primi 5 esportatori mondiali di armi convenzionali), la Russia (seconda solo agli Usa nella classifica) e l’India (primo importatore).

Il sostegno degli Stati Uniti alla risoluzione è stato salutato come una gradita novità, dato che Washington sul tema delle armi deve sempre fare i conti con la potentissima lobby della National Rifle Association (Nra). A differenza del luglio scorso, quando c’era ancora la rielezione da vincere e a tal fine non era stato un problema schierarsi con Russia e Cina su questo stesso argomento, Obama stavolta ha gettato il cuore oltre l’ostacolo. L’ostacolo però si ripresenterà al Senato, dove il presidente dovrà trovare una maggioranza di due terzi se vorrà che venga ratificato il trattato - e per il momento l’inquilino della Casa Bianca non sembra avere fretta. Il senato è attualmente a maggioranza democratica, ma sul tema delle armi il partito potrebbe non seguire il presidente. L’Nra si oppone, oltre che per motivi ideologici, perchè teme possibili limitazioni dei gun-rights negli Usa.

La debolezza del trattato non offusca il significato politico del voto: nella guerra fredda della narrazione, i paesi occidentali hanno vinto la battaglia, per lo meno nei confronti delle loro opinioni pubbliche: il sostegno alla risoluzione è stato quasi universale e tra i pochi contrari o astenuti è stato facile per i media transatlantici trovare rapidamente i soliti sospetti.

La Russia e la Cina, già additati come principali responsabili dello stallo in Siria; la Siria stessa, che è andata oltre l’astensione di Mosca e Pechino, opponendosi; l’Iran, alleato-patrono di Damasco, che ha compiuto la stessa scelta; la Corea del Nord di Kim Jong Un, anch’essa contraria, che con le provocazioni degli ultimi giorni si sta accreditando agli occhi occidentali (e non solo) come la principale minaccia alla pace mondiale.

A completare lo stereotipo, l’astensione dell’Alba, l’Alleanza bolivariana dei popoli della nostra America ideata da Fidel Castro e dal defunto Hugo Chávez: Bolivia, Cuba, Ecuador e Nicaragua non hanno votato, mentre al Venezuela non è stato permesso di votare perchè in ritardo con i pagamenti alle Nazioni Unite (sic). Caracas si sarebbe comunque astenuta, come hanno fatto anche Bielorussia e Sudan.

Non è stata riservata la stessa enfasi alle astensioni di tre preziosi alleati degli Stati Uniti - quindi, di default, dell’Europa - la cui pagella in tema di diritti umani è piuttosto deludente. Si tratta dell’Arabia Saudita, del Bahrein e del Qatar, capisaldi della politica mediorientale di Washington: Riyad fornisce petrolio e leadership anti-iraniana, Manama ospita la Quinta flotta della Marina Usa, Doha grandi giacimenti di gas e una base dell’Aeronautica statunitense. Sauditi e qatarini stanno armando i ribelli anti-Asad in Siria - quali, non si sa con certezza; truppe saudite e degli Emirati sono inoltre impegnate in Bahrein, dove sono intervenute nel marzo 2011 su invito della famiglia regnante degli al-Khalifa (sunnita) per reprimere le manifestazioni - pacifiche - della popolazione, di maggioranza sciita.

Evidentemente, la “primavera araba” e i diritti umani sono una giusta causa solo se non ci sono altri, più cogenti interessi in ballo. Se non si possono salvare vite umane, bisogna almeno cercare di salvare la faccia.

L’Occidente ha votato compatto a favore del trattato sul commercio di armi e ha sostenuto la narrazione che più gli fa comodo - quella per cui i mali del mondo possono essere attribuiti a Russia, Cina e un manipolo di altre dittature non troppo distanti dall'Asse del male di bushiana memoria.

Così non riuscirà a salvare vite umane, ma almeno in questa occasione è riuscito a salvare la faccia.

 

I plutocrati la fanno «franca»

Giuseppe Acconcia

Da Washington a Baku, da Parigi a Mosca, la stampa inchioda i «furbetti globali». 12 mila società coinvolte in 170 paesi. Per un giro d'affari da 32mila miliardi di dollari. 200 gli italiani in elenco

Tempi duri per i plutocrati di tutto il mondo. Wikileaks ha l'aria di un piccolo scandalo rispetto alla portata del nuovo leak che coinvolge oligarchi e politici che hanno i loro beni in paradisi fiscali. A portare alla luce gli evasori miliardari è stata l'indagine del Consorzio internazionale dei giornalisti d'inchiesta (Icji) che unisce testate di 86 paesi. Una frode dalle dimensioni senza precedenti: due milioni e mezzo di file di 130 mila titolari di conti correnti e investimenti tramite 12 mila società offshore, per somme sottratte al fisco dei 170 paesi di provenienza tra i 21 mila e i 32 mila miliardi di dollari.

Le banche impegnate a fornire ai propri clienti compagnie coperte dal segreto nelle Isole Vergini e in altri paradisi fiscali vanno da Ubs a Credit Suisse e Deutsche Bank, che da sola avrebbe creato oltre 300 società di comodo. L'indagine è partita da una soffiata, trasmessa alla Icji, di due impiegati della Commonwealth Trust Limited, delle isole Vergini britanniche, e dalla Portcullis Trustnet, con base a Singapore e sedi nelle isole Cayman, Cook e Samoa.
E così ieri le prime pagine di Guardian, Washington Post, Le Monde e Sueddeutsche Zeitung hanno raccolto le rivelazioni che coinvolgono i «furbetti globali». Da Londra si rende noto che compare tra i nomi dei plutocrati il premier georgiano Bidzina Ivanishvili, insieme ad oligarchi pachistani, thailandesi e indonesiani, oltre al britannico, Neil Gaitely, direttore della Tamalaris Consolidated Ltd, società che per la Ue opera per conto della compagnia di navigazione statale iraniana. In Francia lo scandalo investe il tesoriere del presidente François Hollande mentre al centro dell'inchiesta in Italia ci sono noti commercialisti.
Ma le rivelazioni toccano le élites politiche e finanziarie di tutto il mondo, nessuno escluso, cominciando con l'ex ministro delle Finanze della Mongolia e vice presidente del parlamento, Bayartsogt Sangajav, titolare di un conto segreto in Svizzera e detentore di una società offshore cinese, che avrebbe depositato milioni di dollari senza dichiararli quando era a guida della Banca asiatica dello sviluppo.
Per arrivare poi a Imee Marcos, figlia del presidente filippino. Mentre in Azerbaijan è coinvolto il capo di Stato Ilham Aliyev e la sua famiglia, proprietari di holding nelle isole Vergini, gestite da Hassan Gozal, uomo d'affari della Btp con contratti pubblici a Baku. In Russia emergono i nomi di politici vicini al presidente Putin tra cui Olga Shuvalova, moglie del vice primo ministro russo Igor Shuvalov, all'origine di una transazione con una società con sedi alle Bahamas.
Ben 4 mila americani figurano nella lista dell'Icij tra cui Denise Rich, moglie di un magnate del petrolio, graziato dall'allora presidente Clinton dopo essere stato condannato per frode fiscale. Denise Rich ha raccolto per anni i fondi per le campagne elettorali del Partito democratico e ha depositato 144 milioni di dollari in un trust delle isole Cook. È recidivo anche l'avvocato ed ex politico canadese, Tony Merchant, marito della senatrice Pana Merchant. Non è sconosciuto al fisco, infatti nel 1998 in un conto offshore depositò 800 mila dollari. In Spagna è coinvolta nello scandalo una collezionista d'arte, la baronessa Carmen Thyssen-Bornemisza, vedova del miliardario Thyssen, usava le holding per comprare opere d'arte e rivenderle a Christies e Sotheby's.
A bloccare indagini che potrebbero inchiodare i più grandi evasori di sempre ci pensano per ora le convenzioni internazionali sul segreto bancario. Mentre Berlino chiede almeno alla stampa trasparenza nel rivelare i dati.

 

4 aprile

La battaglia arriva sui nostri mercati

Nicoletta Dentico*

La sentenza con cui la Corte Suprema dell'India ha respinto il ricorso di Novartis segna un precedente decisivo per l'affermazione del diritto alla salute a livello globale

La sentenza di centododici pagine con cui la Corte Suprema dell'India ha respinto il ricorso di Novartis in reazione alla mancata assegnazione del brevetto alla forma beta cristallina del suo farmaco anti-leucemico Gleevec segna un precedente decisivo per l'affermazione del diritto alla salute a livello globale. Anche per questo la notizia ha fatto il giro del mondo. Malgrado i triti commenti dell'industria svizzera, la decisione indiana non è un attacco contro la innovazione biomedica, né un'azione offensiva contro i brevetti. Come scriveva ieri The Economic Times, Novartis ha perso la causa per motivazioni tecniche. La multinazionale non è riuscita a dimostrare - dati clinici alla mano - in che modo la versione beta cristallina del principio attivo imanitib mesilato (la molecola del farmaco Gleevec) potesse determinare un'efficacia terapeutica superiore rispetto alla base libera dello stesso principio attivo, prodotta in India in versione generica equivalente da diverse aziende. Sicché il brevetto, se fosse stato concesso, avrebbe semplicemente rinnovato la posizione di monopolio della Novartis in India, con l'esito di immettere sul mercato un farmaco ben più costoso di quelli già disponibili, senza beneficio alcuno per i pazienti affetti dal tumore in grado di pagarsi una confezione di Gleevec a 2600 dollari!Una pratica diffusa nella quale si cimentano con dovizia di creatività le grandi industrie farmaceutiche. Un fenomeno oggi finalmente riconosciuto nei circuiti accademici come frivolous patenting, una deriva che ha banalizzato i tre requisiti fondamentali per conseguire un brevetto secondo l'accordo TRIPS sulla proprietà intellettuale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC): invenzione, innovatività, e applicazione industriale (Art. 27.1 dell'accordo TRIPS). Con la nuova legge sulla proprietà intellettuale del 2005, l'India ha invece preso i brevetti molto sul serio. Ha inserito nella norma, questa volta estesa anche ai prodotti farmaceutici - dal 1970 l'India escludeva i brevetti sui medicinali, una scelta che le ha permesso di sviluppare l'industria farmaceutica nazionale, oggi settore trainante dell'economia - rigide clausole di salvaguardia, come il comma 3d. In nome dell'interesse pubblico, esso stabilisce criteri severi per la brevettabilità, e misure contro il prolungamento fittizio dei monopoli industriali. Novartis ci si scagliò contro per prima, nel 2006 e nel 2009 arrivò la prima sonora sconfitta per il gigante svizzero. La battaglia è politica, filosofica ed economica, commentava Piero Bianucci su La Stampa. L'India combatte anche per salvaguardare il suo modello imprenditoriale ed il ruolo che si è conquistata come farmacia di qualità per i paesi del sud del mondo. Nuove prospettive inoltre si aprono verso i mercati occidentali, visto che sono in scadenza brevetti che hanno garantito a big pharma negli anni passati redditi stratosferici. E' il caso del brevetto Pfizer sull'anti-colesterolico Lipitor; a novembre 2012 l'indiana Ranbaxy è stata autorizzata da Food and Drug Administration (FDA) a vendere l'equivalente generico negli USA. Ma è troppo presto per cantar vittoria. Da anni l'India è sotto torchio per via di uno spinoso negoziato commerciale bilaterale con l'Unione Europea, che si trascina sul fil di lama. Il pericolo maggiore viene dal capitolo sulla proprietà intellettuale e sugli investimenti, che rischia di strangolare ogni ulteriore sviluppo dell'industria nazionale, compresa quella farmaceutica.

* presidente Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (OISG)

 

Eni, 7 milioni di euro all’amministratore di Saipem indagato per tangenti

Il manager pubblico si è dimesso a dicembre per l'inchiesta algerina che ha coinvolto anche il numero uno dell'Eni, Paolo Scaroni. Portando a casa 3,81 milioni come tfr e incentivo all'esodo oltre a 2,28 milioni di bonus

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Quasi 7 milioni di euro. Tanto ha incassato, nel 2012, l’ex amministratore delegato della Saipem, Pietro Franco Tali. Il manager del gruppo pubblico, in quanto controllato dall’Eni che a sua volta fa capo al ministero del Tesoro, si era dimesso lo scorso 5 dicembre dopo l’avvio delle indagini a suo carico per le presunte tangenti pagate dalla società in Algeria. Un’inchiesta che da febbraio di quest’anno vede indagato anche il numero uno di Eni, Paolo Scaroni.

Nel dettaglio Tali nel 2012 ha percepito compensi per 6,95 milioni di euro. La retribuzione del manager, si legge nella relazione sulla remunerazione depositata dalla società, include una buonuscita di 3,81 milioni, a titolo di trattamento di fine rapporto e incentivazione all’esodo per la risoluzione del rapporto di lavoro e 2,28 milioni come bonus. La retribuzione fissa era invece di 837mila euro.

Sul fronte dell’inchiesta, nel bilancio del gruppo si legge di contro che dopo l’avvio dell’inchiesta sul colosso statale Sonatrach e sulle presunte tangenti pagate a uomini politici e d’affari locali, la magistratura algerina ha bloccato “diversi conti correnti” di Saipem Contracting Algerie, una società di Saipem attiva nel Paese nordafricano. A fine gennaio restavano ancora congelati due conti su cui sono depositati 79 milioni di euroin valuta locale. Saipem Contracting Algerie è stata rinviata a giudizio dalla Chambre d’accusation lo scorso 30 gennaio con l’accusa di corruzione.

“Si segnala inoltre che in Algeria sono in corso indagini avviate nel 2010 nei confronti di terzi con riferimento alle quali diversi conti correnti in valuta locale di Saipem Contracting Algerie SpA sono stati bloccati”, si legge nel documento. “Successivamente – viene spiegato – sono stati sbloccati alcuni di questi conti correnti e, al 25 gennaio 2013, rimangono bloccati due conti correnti denominati in dinari algerini per un saldo totale equivalente a 79 milioni di euro”.

A settembre dello scorso anno la Chambre d’accusation della Corte di Algeri ha formalizzato a Saipem Contracting Algerie un’indagine nei suoi confronti “relativa ad asserita maggiorazione dei prezzi in occasione dell’aggiudicazione di contratti conclusi con una società pubblica a carattere industriale e commerciale beneficiando dell’autorità o influenza di rappresentanti di tale organismo”. Lo scorso 30 gennaio l’organismo inquirente ha rinviato a giudizio la società, confermando il blocco dei due conti correnti. Saipem Contracting Algerie, le cui sedi sono state oggetto di perquisizione lo scorso 24 marzo, ha presentato ricorso di fronte alla Corte Suprema.

 

Benzina, “aumento illecito dei prezzi”. Indagate 7 compagnie petrolifere

Inchiesta a Varese partita dopo un esposto del Codacons. Ipotizzati i reati di rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi sul mercato, manovre speculative e truffa. Gli accertamenti sono iniziati dopo i continui rincari dello scorso anno

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Un aumento illecito dei prezzi dei carburanti. E’ l’accusa mossa alle compagnie petrolifere Shell, Tamoil, Eni, Esso, Total Erg, Q8 e Api, coinvolte in un’inchiesta della Guardia di Finanza e della procura di Varese. I reati ipotizzati sono rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi sul mercato, manovre speculative su merci e truffa. Il gip del tribunale di Varese ha disposto il trasferimento degli atti a Roma e Milano, dove sono le sedi legali delle società.

L’indagine, iniziata un anno fa in occasione del continuo rialzo dei prezzi della benzina, è scaturita da un esposto del Codacons e ha consentito di accertare l’esistenza di un rialzo ingiustificato da parte delle compagnie, attraverso una serie di manovre speculative. I militari del nucleo di polizia tributaria di Varese hanno prima ricostruito le dinamiche che concorrono alla formazione del prezzo dei prodotti petroliferi ed hanno esaminato la documentazione acquisita presso le compagnie e riguardante l’origine e l’andamento dei prezzi per ricostruire le variazioni in aumento e diminuzione nel periodo gennaio 2011 al marzo 2012. Per accertare i reati sono stati anche esaminati i documenti relativi alle istruttorie aperte dall’Authority per la Concorrenza e il Mercato e dal ministero dello Sviluppo economico. Nel corso dell’indagine si è inoltre proceduto al raffronto con i prezzi praticati negli altri paesi dell’Ue nello stesso periodo, rilevando prezzi medi in Italia maggiori della media.

Gli accertamenti dei finanzieri hanno consentito di accertare che la causa principale dell’aumento dei prezzi è attribuibile al ruolo rilevante dei fondi di investimento in commodity (materia prime come petrolio, rame, argento, oro) e gli Etf sul petrolio (fondi indicizzati quotati in borsa, in tempo reale, come semplici azioni) che, risultando fortemente influenzati da azioni speculative, da un lato hanno attratto investitori in grado di determinare un aumento del prezzo del petrolio pur restando estranei al suo mercato reale, e dall’altro hanno determinato un intervento speculativo da parte delle compagnie petrolifere attraverso operazioni finanziarie con strumenti di finanza derivata finalizzati al mantenimento di prezzi elevati sui mercati del greggio di loro proprietà ai fini di una definizione conveniente dei prezzi dei carburanti praticati alla pompa.

 

2 aprile

 

 

Ci sono tre contadini Tizio, Caio e Sempronio...

Ci sono tre contadini Tizio, Caio e Sempronio...

alle base di una torre con damigella di Capua chiusa all'ultimo piano. La torre ha preso fuoco. Tizio, Caio e Sempronio accorrono per spegnere l'incendio e salvare la damigella. Pero' a Tizio fa schifo Caio, a Caio fa schifo Tizio, a Tizio e Caio fa schifo Sempronio e a Sempronio fanno schifo sia Tizio che Caio. Devono mettersi d'accordo e formare in qualche modo una squadra perche' la torre sta bruciando e alla damigella nella stanza di sopra non resta molto tempo, la torre stessa rischia di crollare a breve per l'incendio.. La damigella deve incaricare almeno due di loro per fare la squadra per spegnere l'incendio. Tutti e tre tovviamente hanno in mente idee e una procedura diversa, in parte valida e in parte no su come spegnere l'incendio. Tutti e tre, oltre a destestarsi, pensano che la loro ricetta sia l'unica valida per spegnere l'incendio e riparare la torre. Che fa la damigella!? Semplice...direte voi...!!

(1° aggiornam.)
ormai la damigella sa di essere spacciata ma invece di rassegnarsi prova comunque a scomporre le procedure proposte da Tizio Caio e Sempronio in elementi piu' semplici e trovare una forma di sintesi per riuscire a mettere i tre contadini bastevolmente d'accorso per riuscire almeno a spegnere l'incendio.
Purtroppo i tre contadini continuano a litigare e a perdere tempo. Intanto a distanza, il popolino urla e bestemmia e diviso in famiglie e incita il contadino della propria casa a mantenere il punto d'onore rispetto altri due, non calcolando che la torre, piuttosto alta, rischia seriamente di cascare sulla loro teste e fare una strage. Per rasserenare ulteriormente gli animi popolino e contadini urlano pure contro la damigella di Capua accusandola di perdere tempol con le procedure di spegnimento e non fare invece abbastanza per spingere almeno due di loro ad accordarsi...nel frattempo, furbescamente, i tre pensano a quale damigella del luogo scegliere sognando che sia della propria famiglia.

(continua...forse)

 

Mesi prededenti

> Marzo

> Febbraio

> Gennaio

Anni precedenti

> Anno 2012

> Anno 2011

> Anno 2010

> Anno 2009

> Anno 2008

> Anno 2007

> Anno 2006

> Anno 2005

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE