26 settembre

 

G8, la catastrofe della Maddalena

Gettati al vento 400 milioni di euro

Nel 2009 avrebbe dovuto ospitare il vertice dei grandi della Terra. Ma il trasferimento del summit a L'Aquila rese i lavori portati a termine a tempo di record, con costi ingentissimi, inutili o quasi. L'ex Arsenale, promise Guido Bertolaso all'epoca plenipotenziario della Protezione Civile, aveva un destino da alberghi di lusso e yacht club. Le previste bonifiche a mare, non effettuate, hanno bloccato il turismo. I costi rischiano di lievitare ancora. E di molto. Mentre Regione, ministero dell'Ambiente e Comune si scaricano le responsabilità del disastro

LA MADDALENA - Esistono catastrofi che il silenzio in cui sono state sprofondate, se possibile, rende ancora più intollerabili. E il G8 sull'Isola della Maddalena è una di quelle. Quattrocento milioni di euro di denaro pubblico hanno consegnato 27mila metri quadrati di edifici, 90mila metri di aree a terra e 110mila di mare al nulla di un progetto privato di fatto mai partito (un polo di lusso per la vela gestito dalla Mita Resort dell'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia). Ai veleni liberati dai fondali della darsena dell'ex Arsenale militare, mercurio e idrocarburi pesanti, la cui dispersione ha raggiunto, sedimentandosi in profondità, l'area limitrofa allo specchio di mare del Parco della Maddalena.

Mezzo milione di Imu. Ogni anno, la Regione Sardegna paga 500mila euro di Imu per strutture architettoniche di avanguardia in cui, in 4 anni e mezzo, non ha messo piede anima viva, abitate soltanto dal maestrale e dalla ruggine di pilastri e tiranti cui non è stata dedicata alcuna manutenzione. Il mare chiede bonifiche urgenti per le quali non esistono risorse sufficienti e lì dove pure esistono impongono un accordo tra amministrazioni dello Stato (Presidenza del Consiglio, ministero, Regione, Comune) non ancora raggiunto. Ogni giorno che passa, ogni inverno che spazza l'Isola, il conto sale. I 400 milioni di denaro pubblico diventeranno presto 500, o forse addirittura 600, necessari a recuperare quello che si sta mandando in malora e a pagare il conto dei danni chiesti dal privato - la Mita di Emma Marcegaglia - che oggi lamenta di aver avuto in concessione quarantennale una Grande Opera che di grande avrebbe solo le lettere maiuscole. Una società che per giunta quella concessione si aggiudicò con un bando sartoriale che la vide non a caso facile vincitrice. Una società che avrebbe dovuto pagare 31 milioni di una tantum in 3 rate alla Protezione Civile e canoni annuali alla Regione di 60mila euro per 40 anni, ma che, dal 2009 a oggi, non ha sborsato un solo centesimo.

Il saccheggio e l'inganno. "La Maddalena è un'altra Ilva", sostiene oggi Stefano Boeri, l'architetto che ha progettato la "Casa sull'acqua" dell'ex Arsenale, che per quel progetto deve ancora essere pagato (il suo debitore, il costruttore e corruttore Diego Anemone, ha dichiarato fallimento) e sotto i cui occhi quelle opere si sono trasformate in fantasmi. Regione, Protezione Civile, Mita Resort "sono come le tre scimmiette sul comò", frusta Angelo Comiti, che dell'Isola è il sindaco, ma più giusto sarebbe dire il primo naufrago, sintetizzando un'immagine e una filastrocca. Anche perché, senza girarci troppo intorno, la verità è che mille e seicento giorni dopo il 23 aprile del 2009, le parole con cui l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò il trasferimento della sede del G8 dalla Maddalena all'Aquila e l'allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso rassicurò l'Isola promettendo di averle quantomeno lasciato in eredità una Grande Opera che sarebbe diventata il volano di un'economia rimasta orfana della chiusura della base americana, dimostrano il cinismo di un inganno. Costruito intorno a un format che abbiamo imparato a conoscere con lo svelamento del Sistema Balducci-Protezione Civile. Dove lo Stato perde sempre. Nella fase iniziale di progettazione e realizzazione delle opere (gravate di un 30-50 per cento di maggiorazioni "in conto corruzione"). Nella fase di concessione al privato (regolarmente a prezzi di saldo). E nella sua fase finale, altrettanto regolarmente affidata al contenzioso "arbitrale", dove lo Stato, ancora una volta, si dispone docilmente a soccombere alla richiesta danni del privato (la Mita Resort in questo caso) nei cui confronti finisce per risultare inadempiente. Per non aver "mai consegnato i verbali di collaudo". Per non aver bonificato quel che c'era da bonificare.

La bonifica velenosa. Già, un caso di scuola, la Maddalena. Non c'è angolo della Grande Opera che non porti le stimmate del Sistema. A cominciare dal mare su cui si affaccia. A fine luglio scorso, la Procura di Tempio Pausania, ha chiuso due anni di indagini del pm Riccardo Rossi e del Noe dei carabinieri di Sassari ed è pronta a chiedere 17 rinvii a giudizio per chi avrebbe dovuto bonificare i 60mila metri dello specchio d'acqua dell'ex Arsenale e, al contrario, lo ha avvelenato una seconda volta. In quel 2009, ballavano 7 milioni di euro per la bonifica e bisognava fare in fretta. Grattarono 50 centimetri di fondale marino di fronte all'ex Arsenale con le benne delle ruspe, smuovendo morchia e veleni depositati in mezzo secolo dalla Marina Militare italiana. E il dragaggio, per giunta, fu fatto a sbalzi, per accumulare più in fretta detriti. Mercurio e idrocarburi pesanti si dispersero in mare e le correnti hanno fatto il resto. Portando i sedimenti velenosi fino ai confini delle acque del Parco e obbligando a una nuova bonifica (per cui oggi non ci sono fondi sufficienti e non è stato ancora approvato un progetto) su un area grande il doppio di quella iniziale.

Danni imprevedibili. Nessuno sa o può dire, in questo momento, quanto tutto questo abbia già intossicato o possa intossicare l'eco-sistema di uno degli angoli più belli del Mediterraneo (la situazione è monitorata dal Parco della Maddalena e dall'Arpas). Esattamente come nessuno sa prevedere i tempi dell'accertamento delle responsabilità dei 17 indagati per questo disastro dalla Procura di Tempio, una di quelle sedi giudiziarie, per dirne una, dove a metà settembre il tribunale è andato a fuoco notte-tempo per un tostapane e dove i gip si arrangiano nelle udienze preliminari in una ex scuola elementare.

Diciassette inquisiti. Già, i 17. Sono l'ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso (falso in atti pubblici, truffa ai danni dello Stato, inquinamento ambientale); l'ex presidente del Consiglio Nazionale dei lavori pubblici Angelo Balducci; Marco Rinaldi e Matteo Canu, responsabili dell'impresa appaltatrice delle bonifiche in mare, la "Cidonio" di Roma; l'ex capo della struttura di missione per il G8 Mauro Della Giovanpaola; il direttore dei lavori Luigi Minenza; l'ingegnere e direttore operativo Riccardo Micciché; il responsabile unico del procedimento Ferdinando Fonti; il provveditore per le opere pubbliche e magistrato delle Acque del Veneto Patrizio Cuccioletta; i "collaudatori" Andrea Giuseppe Ferro e Valeria Olivieri e il segretario della loro commissione, Luciano Saltari; l'ex provveditore ai lavori pubblici per la Toscana Fabio De Santis, l'ingegnere sismico Gian Michele Calvi, il responsabile nazionale dell'Ispra (ministero dell'Ambiente) Damiano Scarcella e il dirigente del ministero dell'Ambiente Gianfranco Mascazzini. Un elenco in cui si rintraccia il filo rosso dei nomi di quella struttura di malaffare battezzata la "Cricca della Ferratella". Oggi a processo a Roma e a Firenze in dibattimenti che raramente, a distanza di 4 anni e mezzo, hanno conosciuto un verdetto di primo grado e, in molti casi, languono ancora davanti a un gip in udienza preliminare.

La grande fuga. I tempi della giustizia penale, ammesso e non concesso che una qualche giustizia riuscirà ad arrivare in tempo, hanno comunque consentito intanto allo Stato di squagliarsela. La Maddalena, che in quei giorni del 2009, era stata battezzata "sito di interesse nazionale" è stata declassata a "sito di interesse regionale" da Corrado Clini, ministro dell'ambiente del governo Monti. La legge di riforma della Protezione Civile ha fatto il resto. Il Grande Nulla dell'ex Arsenale è oggi in carico alle finanze sfiancate degli Enti locali, che non hanno risorse per farlo risorgere dal buco in cui è sprofondato. La Protezione Civile di Franco Gabrielli non ritiene di avere più parte in causa nel capolavoro di Guido Bertolaso (ora tornato a fare il medico volontario in Africa) e non intende ("perché non più competente") partecipare né alla partita delle bonifiche, né fare fronte alle richieste risarcitorie di Mita Resort. Il ministero dell'Ambiente non ha più titolo per convogliare risorse su un angolo del territorio sottratto alla sua gestione diretta. La Politica, nazionale e locale, ha altro a cui pensare. Le 12mila anime dell'Isola hanno un valore nella partita del consenso pari a zero. Naufraghi, appunto. Come l'uomo che li rappresenta, Angelo Comiti. Che in un mattino grigio di settembre, si aggira per l'ex Arsenale come un condannato all'insensatezza e al cinismo di chi non vuole né vedere, né ascoltare. E per questo ripete quella litania che dice tutto. "Tre scimmiette sul comò”.

 

Mondiali, Qatar: scandalo operai-schiavi

Brasile 2014: stadio diverrà carcere

Gli immigrati nepalesi utilizzati per la costruzione degli impianti del Mondiale 2022 denunciano trattamenti disumani, in estate ci sarebbero stati 44 morti. Bizzarra proposta per il futuro dell'Arena da Amazonia di Manaus, diventerebbe una prigione.

Non bastassero le polemiche temporali su quando sia meglio far giocare le partite visto il caldo insopportabile che ci sarà ( in inverno come pensa Blatter o ad aprile come suggerisce Rummenigge?), spunta anche una pesantissima accusa di sfruttamento nei confronti degli operai nepalesi impegnati nella costruzione delle infrastrutture (un progetto da 100 miliardi di dollari che comprende lo stadio da 90mila posti della finale, nuove strade e reti ferroviarie e un collegamento con il Bahrein) a complicare i lavori di preparazione al Mondiale del 2022 in Qatar. A sollevare lo scandalo è un dettagliato report del Guardian, che parla di immigrati trattati come schiavi e ridotti a clandestini, senza passaporto né stipendio (il primo confiscato e il secondo trattenuto nel timore che scappassero dal paese) e lasciati senz’acqua in pieno deserto a dispetto dei 50 gradi all’ombra.

DECINE DI MORTI E CONDIZIONI DISUMANE — Condizioni disumane che avrebbero causato la morte di 44 operai, perlopiù ventenni, fra il 4 giugno e l’8 agosto scorso per problemi cardiaci e infortuni sul lavoro (le stime sono dell’ambasciata nepalese di Doha, dove si sono fra l’altro rifugiati una trentina di immigrati). “Vorremmo andarcene, ma la società per la quale lavoriamo (la Lusail Real Estate Company, ndr) non ce lo permette - ha raccontato un nepalese che ha chiesto l’anonimato per il timore di ulteriori ritorsioni - e se scappassimo, diventeremmo dei clandestini e la polizia potrebbe beccarci e rispedirci a casa in qualunque momento”. “Siamo costretti a lavorare a stomaco vuoto per 24 ore e a dormire in 12 in una stanza - gli fa eco un secondo immigrato, il 27enne Ram Kumar Mahara - ma quando mi sono lamentato, il mio capo mi ha aggredito e mi ha buttato fuori dal campo, rifiutandosi di pagarmi, e ho dovuto supplicare gli altri operai di darmi un po’ di cibo”. E mentre il Comitato organizzativo del Mondiale dice di essere “profondamente preoccupato per le accuse che sono state mosse” e annuncia che le autorità governative “stanno già conducendo un’indagine al riguardo”, la compagnia nel mirino dell’inchiesta scarica la responsabilità su appaltatori e subappaltatori, sostenendo che prenderà “le accuse molto seriamente” e che adotterà “tutte le misure necessarie per punire coloro che verranno riconosciuti colpevoli di aver infranto la legge o i contratti di lavoro”. Ma intanto la macchina Mondiale tira dritto per la sua strada “e le sole lamentele a cui si dà spazio sono quelle legate alle difficili condizioni ambientali che attenderanno i calciatori in Qatar - sottolinea il segretario della Federazione Generale dei sindacati nepalesi - ignorando però che per costruire gli stadi della Coppa del Mondo molti immigrati hanno lavorato in turni che durano otto volte una partita di calcio”.

LO STADIO DIVENTERA’ UNA PRIGIONE? — E a proposito di stadi Mondiali, sta facendo discutere in Brasile l’idea di destinare uno degli impianti realizzati per il torneo del prossimo anno in un centro di detenzione temporaneo, così da alleviare il problema del sovraffollamento delle carceri. Situata nel cuore dell’Amazzonia, a oltre 2.400 km da Rio de Janeiro, l’Arena da Amazonia di Manaus ha una capienza di 44mila posti ed è costata quasi 240 milioni di dollari (i lavori verranno ultimati entro dicembre), ma il timore di molti è che, una volta finito il Mondiale, venga abbandonata a se stessa e si trasformi in una cattedrale nel deserto, a maggior ragione visto che la stessa Fifa riconosce che la città in cui è stata costruita non ha certo una tradizione calcistica particolarmente forte. Da qui la proposta - lanciata da Sabino Marques, presidente del gruppo di controllo e monitoraggio del sistema detentivo dell’Amazzonia, sul sito brasiliano G1 - di destinare lo stadio a prigione di passaggio, dove mettere i detenuti in attesa di essere trasferiti nella prigione Raimundo Vidal Pessoa di Manaus, che ha una capacità massima di 300 persone ma ora ne ospita almeno 1000. Un suggerimento che però non piace all’Ordine degli Avvocati dell’Amazzonia, che sostiene che il problema del sovraffollamento delle prigioni “vada risolto con la creazione di un piano carcerario nazionale” e non già con la trasformazione “di un’opera pubblica - come appunto uno stadio della Coppa del Mondo - in un centro detentivo”.

Simona Marchetti

 

Inchini pericolosi

Circa 700 gigantesche navi da crociera sfiorano pericolosamente ogni anno Piazza San Marco, stravolgendo il panorama di Venezia - Tutti (o quasi) protestano: da destra a sinistra, dagli intellettuali alle star - Ma la sovrintendente Renata Codello tace: perché?

Gian Antonio Stella per "Il Corriere della sera"

Toc toc, c'è qualcuno? Macché, alla Sovrintendenza di Venezia, quando passano le Grandi Navi, non risponde nessuno. E si schierano ministri e fotografi, scrittori e governatori, molleggiati e sottosegretari, sindaci e consoli stranieri, bottegari e venditori di chicchi per i piccioni e insomma tutti meno lei: la Sovrintendente. Muta come Bernardo, il servo muto di Zorro.
L'architetto Renata Codello, probabilmente, lavora con i balconi chiusi. Perché pare impossibile che dalla sua finestra, a Palazzo Ducale, non le sia capitato di veder passare in bacino, davanti al naso, almeno qualcuna delle 654 grandi navi del 2011, delle 663 del 2012 e del mezzo migliaio circa (i conti finali si faranno più avanti) di questo 2013. Sabato, se si fosse affacciata, avrebbe potuto vederne una dietro l'altra: prima nave, seconda nave, terza nave, quarta nave, quinta nave...
Eppure non sono difficili da vedere, quei bestioni da crociera. La «Divina» che è passata anche quel giorno, è lunga ad esempio 333 metri e cioè quasi il doppio di piazza San Marco e alta 67 cioè quanto il campanile dei Frari che svetta su Venezia secondo solo a quello di San Marco. Insomma, è lunga quattro volte e mezzo Palazzo Ducale e alta una volta e mezzo. Per capirci: l'avrebbe vista anche Mister Magoo. Lei no.
Sul tema, finora, hanno detto la loro in tanti. Ministri di centrosinistra come Andrea Orlando: «Venezia non è fatta per le grandi navi». Governatori di centrodestra come Luca Zaia: «È un'immonda schifezza, il problema va risolto: c'è un decreto che è chiaro e che dobbiamo applicare». Sottosegretari centristi come Ilaria Borletti Buitoni: «Si parta dallo stop immediato alle grandi navi e poi si ragioni su possibili alternative». E giù un diluvio di parlamentari di un po' tutti i colori.
E poi sindaci come Giorgio Orsoni che pur essendo tampinato da chi paventa danni inimmaginabili dalla perdita dell'indotto (tesi contestatissima da uno studio di docenti di Ca' Foscari che sostiene che Venezia al contrario ci rimette) è sbottato: «Non si può affrontare il problema dicendo che si risolverà in qualche anno: bisogna risolverlo subito con proposte, magari in via transitoria, che consentono di limitare il passaggio di queste navi».
E poi ancora celeberrimi fotografi come Oliviero Toscani, deciso a fare un libro zeppo di foto scattate dai cittadini «che possa descrivere al mondo l'enormità e la follia del passaggio delle navi nel Canale della Giudecca».
Per non dire di Adriano Celentano, che dopo aver detto peste e corna del traffico in laguna di quei transatlantici ha comprato venerdì una pagina sul Corriere per dire: «Domani non sarà un bel giorno per il nostro Paese, anche se ci sarà il sole. Con l'ignobile sfilata delle 13 navi dentro la Laguna di Venezia si celebra l'Eterno Funerale delle bellezze del mondo».
Perfino Paolo Costa, che scrisse un libro con Jan van der Borg teorizzando che Venezia può accogliere non più di 12 milioni di turisti l'anno ma oggi da presidente dell'autorità portuale difende il traffico crocieristico, ammette che «Venezia è sempre stata un porto e deve restare un porto ma l'inquinamento visivo causato da quelle navi spropositate, non lo nego, c'è». L'unica che non ha mai battuto un colpo è stata la Sovrintendente.
Anni fa, a dire il vero, un'intervista l'aveva data. Anzi, è ancora (youtube.com/watch?v=oVgzzsoDHBc) su YouTube: «Dobbiamo distinguere una seria analisi su un fenomeno come quello delle grandi navi da quello che invece è il luogo comune o il sentimento comune. È assolutamente vero che le navi sono aumentate di dimensioni e quindi sono edifici alti 15 piani di grande volume ma è anche vero che soprattutto quelle di ultima generazione hanno delle soluzioni tecnologiche di grandissima avanguardia.
Nessuna nave entra nel canale della Giudecca coi motori accesi. Viene trascinata dai rimorchiatori e quindi la sua mole non crea autonomamente una serie di fenomeni meccanici in profondità». Sicura? I filmati... «Non ho visto le eliche ferme, non sono un subacqueo. Loro ci hanno detto che entrano con le eliche spente».
Pescano 8 metri e mezzo? Ma no, «sono grandi navi con chiglie pressoché piatte. Non hanno le eliche accese e non provocano grandi fenomeni di erosione. Sicuramente l'impatto chiamiamolo pure ambientale al momento del passaggio nella città può creare una sorta di ansia o di preoccupazione ma...». E qui, ignara della catastrofe che sarebbe successa al Giglio, si avventurò sull'abisso: «È vero peraltro che a queste navi non è mai successo niente». Di più: «Noi abbiamo verificato che molti dei difetti che queste navi potrebbero avere sono stati superati dall'alta tecnologia.
Per esempio pochissimi sanno che queste navi non hanno più un pilota. È una tale cabina di Regia tecnologica che equivale quasi a un pilotaggio automatico...». Schettino permettendo, naturalmente... Diceva allora, la Sovrintendente delegata a difendere la più bella e delicata città del mondo, che era comunque presto per trarre conclusioni e la questione sarebbe stata studiata.
Sono passati cinque anni. Andiamo a vedere l'archivio dell'Ansa? Incrociando le parole «Codello + Venezia + grandi navi» il risultato è: zero. Zero carbonella. O meglio, una notizia c'è: quella che il console francese Gérard-Julien Salvy era furente per i silenzi sulle navi della sovrintendenza. Muta come Bernardo anche sul raddoppio in vetro, cemento e acciaio dell'hotel Santa Chiara sul Canal Grande.
C'era una volta, a Venezia, una sovrintendente che si chiamava Margherita Asso. La chiamavano la Dama del No, la Sovrintendente di ferro, la Lady Margaret (Thatcher) della Laguna.
Quando le presentarono la proposta di fare a Venezia l'Expo 2000 e uscì una immaginaria lettera dal futuro in cui l'architetto Emilio Ambasz diceva di divertirsi molto in una Venezia dove i padiglioni erano costruiti su chiatte e serviti da «tappeti volanti» tra isole artificiali, teatri galleggianti e raggi laser, disse solo: «Dovrete passare sul mio cadavere». E i tappeti volanti, a dispetto del ministro dei Beni culturali che era favorevole, non passarono. A proposito: Massimo Bray, di quelle navi, cosa pensa?

 

25 settembre
 

TU VUO’ FA L’AMERICANO - RISOLTE LE GRANE CON IL SINDACATO VEBA, MARPIONNE POTRÀ FONDERE CHRYSLER-FIAT E QUOTARE TUTTO A WALL STREET (BYE BYE ITALIA)

È ormai chiaro che la nuova società nata dopo la fusione sarà una società americana a tutti gli effetti, quotata a Wall Street e che avrà nell’Italia la discarica dei rottami - Che il pacchetto di controllo sia in mano a una famiglia italiana (con un presidente nato a New York) e la sede legale in Olanda conta poco…

Paolo Griseri per "Affari&Finanza-La Repubblica"

Chi bluffa nella partita a poker della Chrysler? Nei giorni scorsi, nelle dichiarazioni pubbliche prima e in una intervista al Financial Times poi, Sergio Marchionne ha annunciato: «Tecnicamente la quotazione in Borsa è possibile già entro quest'anno. Ma credo che converrà attendere il primo trimestre del 2014».

Traduzione possibile: ci sono ancora cinque mesi per evitare quella che al Lingotto considerano una vera iattura, arrivare a quotare Chrysler prima della fusione con Fiat. Cinque mesi per trovare un accordo con il fondo Veba che garantisce pensioni e assistenza medica a 65.000 ex dipendenti della casa di Detroit. Poi, se l'accordo non dovesse arrivare, nascerà un mostro a due teste: un gruppo industrialmente sempre più integrato ma finanziariamente diviso, con Chrysler che torna a Wall Street dopo la rinascita dal fallimento e Fiat, che ne possiede la maggioranza, quotata alla Borsa di Milano. Insomma: separati in Borsa. A chi conviene davvero?

Forse a nessuno ed è anzi probabile che l'annuncio della quotazione in tempi brevi sia in realtà un bluff e che Marchionne pensi di chiudere la partita con Veba senza passare prima da Wall Street. Magari con l'arbitrato delle banche. Vediamo come e perché.

«Tutto quanto sta accadendo era una delle possibilità previste dall'accordo del 2009», dicono a Auburn Hill, quartier generale di Chrysler. Prevista sì, gradita no. Il braccio di ferro sul valore reale delle azioni ancora in mano a Veba, il 41,5 per cento del totale, dura dal luglio del 2012. Con la complicità di una giustizia americana che non ha nulla da invidiare, quanto a tempi di decisione, a quella italiana. Non sapendo come venire a capo della lite, la Fiat si è infatti rivolta al tribunale.

Ma il giudice del Delaware, Donald Parsons, non sembra morire dalla voglia di dirimere il nodo gordiano e con una serie di rinvii ha fatto chiaramente capire ai legali di Marchionne che è più opportuno che il prezzo lo faccia il mercato e non un magistrato. La distanza tra domanda e offerta è ancora molto alta. Oggi la Fiat calcola che il pacchetto possa valere meno di 3 miliardi di dollari mentre per Veba sono più di 5. «Se vogliono 5 miliardi - ha risposto Marchionne nei giorni scorsi comprino un biglietto della lotteria». Eppure le distanze sono proporzionalmente diminuite: a luglio del 2012 la Fiat offriva 1,8 miliardi di dollari e Veba ne chiedeva 4,2.

Nel frattempo, spiegano gli avvocati che seguono il dossier, lo stato di salute di Chrysler è migliorato e dunque sono saliti i valori determinati dalla formula di calcolo prevista dall'accordo del 2009. Ma i calcoli di Fiat e quelli di Veba continuano a divergere molto. Il pacchetto in mano al fondo del sindacato Usa è diviso in due parti. La prima, di poco superiore al 23 per cento, è destinata ad essere ceduta a Fiat a blocchi del 3,3 cento ogni sei mesi a un prezzo determinato da una formula che tiene conto delle performance dell'azienda. È sul calcolo di quel prezzo che è in corso il braccio di ferro di Detroit. Fino ad oggi Fiat ha già annunciato l'intenzione di acquistare 3 dei 7 blocchi previsti ma il passaggio delle azioni è di fatto sospeso.

Altrimenti il Lingotto avrebbe già in mano il 9,9 per cento di azioni che, aggiunte al 58,5 posseduto a pieno titolo, porterebbero Torino a controllare il 64,9 di Auburn Hills. A gennaio di quest'anno il fondo Veba ha annunciato la sua contromossa, anche questa prevista dall'accordo del 2009. I legali del sindacato Usa hanno dichiarato di voler quotare in Borsa il 16 per cento delle azioni Chrysler in loro possesso che non sono vincolate al sistema delle vendite semestrali a Fiat. In questo modo, ceduto il 23 per cento con le vendite ogni sei mesi e il 16 per cento come flottante in Borsa, il Veba avrebbe ancora in mano poco più del 2 per cento di Chrysler. La logica è stringente: se non si trova un prezzo applicando le formule degli accordi, il prezzo lo faccia Wall Street.

Le espressioni di Sergio Marchionne durante
la presentazione del piano al Lingotto

La minaccia è implicita: se la Fiat è obbligata a quotare in anticipo Chrysler prima di fondere le due società, il piano del Lingotto si complica. E, nella previsione che la quotazione faccia salire il valore delle azioni, Torino sarà costretta a pagare di più di quanto non sia disposta a fare oggi. Marchionne ha annunciato così di essere 'tecnicamente' pronto a quotare Chrysler in Borsa. Ha detto che potrebbe farlo già entro fine anno ma che «è preferibile quotare entro il primo trimestre 2014». Tradizionalmente, fanno sapere a Auburn Hills, i primi mesi dell'anno sono più favorevoli alle Ipo. In realtà con il suo annuncio, l'ad del Lingotto ha spostato a marzo la scadenza dandosi altri mesi di tempo per la trattativa con Veba.

L'idea che circola in queste settimane a Detroit è quella di trovare un soggetto terzo che svolga le funzioni di arbitro nella disputa evitando alle parti di perdere la faccia. Scartata la strada del tribunale, una soluzione potrebbe venire dalle banche. Si potrebbe nominare un gruppo di saggi del sistema creditizio che in poco tempo sia in grado di dirimere la questione del valore delle azioni togliendo le castagne dal fuoco a tutti ed evitando ai dirigenti di Veba la spiacevole accusa dei soci di aver venduto la quota per un piatto di lenticchie. Perché il tempo stringe e tutti hanno fretta in questa storia. Ha probabilmente fretta il Veba, che deve capitalizzare il pacchetto Chrysler per pagare l'assistenza ai suoi 65.000 iscritti.

Ma ha fretta anche Marchionne che deve fondere le due società e quotarle prima che freni la crescita del mercato Usa delle quattro ruote. Una fusione rapida potrebbe avere effetti anche sulla sponda europea dell'impero Chrysler. Non tanto perché Marchionne avrebbe mano libera nell'utilizzo degli utili di Detroit per investire nella disastrata Europa. Questa eventualità è temuta come il fuoco in America. Al punto che nel 2011, quando Auburn Hill restituì il prestito ottenuto dal Tesoro americano al momento del fallimento, contrattò una linea di credito con le banche Usa che prevede esplicitamente il divieto di utilizzare gli utili Chrysler per investirli fuori dall'America.

Quelle linee di credito scadono tra il 2016 e il 2017 e fino a quella data il lucchetto della cassa Chrysler è chiuso. Si aprirebbero invece, dopo la fusione, le possibilità di accedere al sistema creditizio Usa a tassi molto più convenienti di oggi e questo potrebbe favorire anche gli investimenti europei. Perché è ormai chiaro che la nuova società nata dopo la fusione sarà una società americana a tutti gli effetti, quotata a Wall Street. Che il pacchetto di controllo sia in mano a una famiglia italiana (con un presidente nato a New York) e la sede legale in Olanda conta poco.

Anche perché, se vale il meccanismo che si sta sperimentando in queste settimane con la fusione Cnh-Fiat industrial, dopo la quotazione gli Agnelli potrebbero diluire molto la loro partecipazione mantenendo comunque il controllo grazie a un sistema di calcolo del voto che attribuisce alle loro azioni un peso maggiore in assemblea. Un sistema analogo è quello che garantisce alla famiglia Ford il controllo dell'azienda. La nuova Fiat sarà dunque principalmente americana e proprio per questo Marchionne tiene a garantire che in Italia non si chiuderanno altri stabilimenti dopo Termini Imerese. Per raggiungere l'obiettivo però è necessario risolvere il rebus Alfa Romeo.

Solo con i modelli del Biscione Mirafiori potrebbe tornare a occupare i 5.200 dipendenti delle Carrozzerie (che non possono tutti affannarsi intorno a un'unica linea dei modelli Maserati) e saturare l'impianto di Cassino che oggi langue. Ma per risolvere il rebus sono necessari investimenti e per avere i denari è necessario che le banche concedano crediti a tassi vantaggiosi. Meglio affrettare la fusione trovando un accordo sul prezzo con Veba. Anche per questo la quotazione Chrysler annunciata in questi giorni potrebbe essere un bluff.
 

PELLEGRINI SPENNATI IN NOME DI SAN FRANCESCO - AD ASSISI SUORE E FRATI “CONVERTITI” AL DIO DENARO -

Nella città del “poverello” l’accoglienza e la carità cristiana sono sepolte sotto un cumulo di bigliettoni - Con la scusa delle “offerte” i conventi incassano 55 euro a notte a persona ma godono lo stesso dei benefici fiscali - Se a un pellegrino scappa la pipì e non ha 60 cent può anche morire… 

Alessandro Ferrucci per "Il Fatto Quotidiano"

Ad Assisi l'accoglienza non prevede neanche la possibilità di andare al bagno gratis. Se uno ha la sfortuna di un bisogno impellente deve sperare nella fortuna di avere sessanta centesimi brevi manu, altrimenti è inevitabile affidarsi a una preghiera per impietosire il responsabile della toilette costruita sotto il piazzale inferiore della Basilica di San Francesco. Niente da fare. Al pellegrino gli spicci vengono donati da un benefattore.

Soldi, incasso, business, questa è la formula vincente nel paese del Poverello. Basta camminare per le vie, inerpicarsi per le salite, prendere fiato nelle discese, leggere i prezzi (mediamente alti) fuori da negozi, bar, agenzie immobiliari, società specializzate in pellegrinaggi per capire che dello spirito evocato in questi mesi dal papa, fatto di carità, profilo basso, accoglienza, c'è veramente poco: qui è anche impossibile trovare un punto di appoggio per mangiare il proprio, tutto è organizzato per obbligare il forestiero a usufruire dei servizi locali.

E spendere. Ancora peggio se prendiamo alla lettera le parole pronunciate la settimana scorsa da Francesco: "Che i conventi siano aperti ai bisognosi, non siano alberghi".

Bussiamo alla Casa di Santa Brigida, gestita dalle suore Svedesi: la struttura è stata restaurata magnificamente, nel totale rispetto della tradizione umbra, con mattoncini a vista, legno alle finestre, una rara vista sulla vallata e su Santa Maria degli Angeli. "Buongiorno vorrei sapere se avete posto a metà ottobre per un gruppo di venti fedeli". "Mi dica i giorni esatti", risponde una suora di colore, modi bruschi, una vaga inflessione tedesca. "Dal 14 al 16, o anche dopo, a seconda della disponibilità".

In silenzio prende il registro delle presenze. Sfoglia. Riflette, gioca con la matita. Poi sentenzia: "È tutto pieno fino a novembre. Per caso nel gruppo ci sono bambini o molto anziani?". "Cosa, scusi?". "Sì, i bambini causano confusione, mentre gli anziani creano problemi, meglio se li sistemate in una struttura più centrale. Non siamo attrezzati per gli ospiti disabili". "Bene, qual è il prezzo?". "65 euro la pensione completa, 55 la mezza. Guardi che le stanze hanno ogni comfort, compreso il bagno privato. Aspetti, le do la brochure".

La parola magica è "offerta"
Riprendiamo il cammino. A cinquecento metri in linea d'aria incontriamo la Casa di Accoglienza di Santa Elisabetta d'Ungheria, sul portone un semplice campanello e indicazioni su orario e giorno. "Se abbiamo posto per trenta persone? Ne accogliamo fino a sessanta", illustra una laica davanti a un bancone con sopra una lunga serie di portachiavi a forma di croce in legno. "Quanto costa una stanza? No, qui si va a offerta... comunque 55 euro a notte". Ecco la parola magica: offerta.

Ad Assisi ogni ordine ha la sua struttura, ogni ordine negli anni ha conquistato il proprio spazio per marcare una presenza in uno dei luoghi di maggior pellegrinaggio al mondo. Ogni ordine accoglie, ma solo a pagamento, un pagamento mascherato "da offerta". Un frate da quindici anni presente nella cittadina ci dà il buongiorno, ma in stile don Abbondio preferisce evitare la pubblicazione del suo nome di battesimo: "Non vorrei avere problemi con gli altri fratelli.

Comunque sì, qui funziona così, qui è business. Cosa? Lo so, non è bello, abbiamo perso completamente la via indicata da Francesco e con l'escamotage dell'offerta alcune strutture possono usufruire di benefici fiscali, come la tassa sull'immondizia o l'Imu. Ad Assisi oltre a San Francesco, si ringrazia anche un altro beato: ‘San Terremoto'".

Anno 1997: un sisma sconquassa Marche e Umbria. Danneggiate anche Foligno , Nocera Umbra, Preci, Sellano. E, appunto, Assisi dove muoiono in diretta televisiva quattro persone tra tecnici e frati, impegnati nella verifica dei danni. Le immagini del crollo vennero riprese da un cameraman di Umbria Tv, in quel momento presente all'interno della basilica.

"Per la ricostruzione sono giunti miliardi su miliardi, tanti, più i fondi stanziati per il Giubileo del 2000 - spiega l'ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale - in ambo i casi parliamo di finanziamenti pubblici che hanno reso Assisi quello che è oggi,
con qualche stortura o facilitazione a favore dei frati".

Per scoprire a cosa si riferisce l'ingegner Marcucci, dobbiamo tornare virtualmente ai bagni sotto la Basilica, quella struttura è al centro di un contenzioso tra l'ordine religioso e la stessa Assisi: la piazza è del Comune; i frati ci realizzano dei locali a spese dello Stato, "poi con un atto arbitrario modificano a loro nome l'intestazione catastale precedentemente intestata al Comune di Assisi - continua Marcucci - il Comune fa ricorso contro questa procedura, per la quale si arriva in Cassazione. Peccato che in campagna elettorale il sindaco ha promesso di risolvere la faccenda e di rinunciare al ricorso".

In sostanza l'amministrazione ha regalato ai frati la piazza inferiore e i suoi bagni "e poi vada a fare un salto al negozio sotto la Basilica, ogni tanto si dimenticano di battere lo scontrino", sollecita di nuovo il nostro "don Abbondio". Cartoline, ovvio. Crocefissi in tutte le forme, misure, materiali. San Francesco ovunque, Francesco anche. Calendari, tazze, ma anche vino, liquori, rossetto per le labbra, saponi e prodotti di cosmesi come il gel struccante alla calendula. A noi lo scontrino lo fanno con altri scatta la dimenticanza.

"Professore, professore!" urla un signore dall'aspetto modesto per le vie di Assisi, si rivolge a un cinquantenne dalla camminata impegnata. "Professore per caso sa dove posso dormire questa notte? Sono disposto a pagare, anche se come al solito non ho grandi disponibilità". Il professore: "Ora ho fretta, ci penso, ma queste sono giornate difficili, con il prossimo arrivo del papa è tutto pieno".

Chi chiede aiuto si chiama Gabriele, viaggia con un paio di buste di plastica piene, si definisce un colpito dalla crisi, quindi senza lavoro. Si arrangia, magari fa qualche lavoretto per i conventi, consegna la posta. "Ma ricevere aiuto qui - racconta - è oramai impossibile".

Stesso refrain, simili racconti da Angela Serracchioli, bolognese di origine, da otto anni impegnata ad Assisi e autrice di una guida del pellegrino: "Non esistono posti dove si offrono pasti ai poveri. Da nessuna parte. Ma lo sa quanti pellegrini ho visto aggirarsi per la città stupiti e affranti perché nessun convento li ha voluti ospitare? Una volta ho rifocillato anche un frate argentino...".

Prezzi bassi, alti benefici
Direzione suore Alcanterine. Hanno un palazzo centrale, dietro un vicoletto buio, chiuso, nascosto, ecco il portone. Dietro c'è una struttura bellissima, luminosa, curata, con un ampio chiostro. Di lato è organizzata la cucina, le suore sono impegnate a impiattare il pranzo.

"C'è posto per una trentina di pellegrini a metà ottobre?". "Aspetti controllo". Solito registro delle presenze. "Tutto pieno fino a novembre, ma dopo c'è posto. Il costo è di 55 euro per la pensione completa, abbiamo anche la cappella". Sul loro sito è scritto: "L'offerta del nostro servizio intende rispondere alla necessità di tutti coloro che, oggi sempre più numerosi, bussano alla nostra porta". A quanto pare è vero, rispetto ai "numerosi".

"Per noi albergatori tutto questo è un problema: loro hanno oggettivamente costi molto ridotti, anche solo di personale - interviene Fabrizio Leggio, proprietario dell'hotel Windsor Savoia - Le do un solo dato per farle capire: il costo vivo per ogni mia stanza è di quasi 40 euro. In sostanza non ho quasi più margine". Ma nella zona non c'è solo il caso-Assisi. A tre, quattro chilometri, nella vallata, a Santa Maria degli Angeli sorgono due strutture di gran lusso, la "Domus paci" e il "Cenacolo francescano".

La seconda in particolare è stata data in gestione a una società straniera previo un generoso affitto annuale. Così, come recita la pubblicità, tra uno snack, una passeggiata, un'escursione, magari la lavanderia, un drink per rilassarsi è possibile vivere "la splendida atmosfera del luogo con gli ampi spazi verdi che invitano alla riflessione e garantiscono un soggiorno perfetto, adatto alle esigenze di tutti i target di clientela (religiosi, turisti, uomini d'affari, famiglie, gruppi, meeting)".

Turisti, religiosi e uomini d'affari. Anche perché "vicino all'albergo vive una comunità di Frati Minori disponibili a rispondere alle esigenze spirituali e morali dei pellegrini e degli ospiti". Insomma, pacchetto completo. L'importante è pagare, anche qui ad Assisi.
 

23 settembre
 

1. A CASERTA, DOPO LA REGGIA, DOVETE ASSOLUTAMENTE VISITARE UN PAZZESCO BUNKER SOTTERRANEO ANTI ATOMICO REALIZZATO DALLA NATO E ABBANDONATO NEL 1996
2. L’ENORME STRUTTURA (5 KM.) DURANTE LA GUERRA FREDDA SERVIVA PER SORVEGLIARE IL MEDITERRANEO DA GIBILTERRA ALLA TURCHIA E CI LAVORAVANO PIÙ DI 200 PERSONE
3. ORA È ABBANDONATA, ED È STATA DEVASTATA NEGLI ANNI PER RUBARE RAME E ALTRI MATERIALI. ADDIRITTURA DENTRO UNA SEZIONE E’ STATO TROVATO UN CANILE ABUSIVO…

Sergio Nazzaro e Ivano Cirillo per "Wired.it" - Foto di Massimo Mastrolillo

Davanti alla porta antiatomica l'aria è pesante, l'oscurità totale. C'è umido, dalle pareti del tunnel cadono gocce d'acqua che toccando terra fanno un rimbombo sordo. I battiti del cuore colpiscono duro le orecchie tese a captare ogni scricchiolio. Paura, inutile girarci intorno. La sensazione di essere in un'astronave aliena. Varcata quella soglia, nessuna comunicazione con l'esterno sarà possibile. Abbiamo concordato un appuntamento con un medico specializzato in primo soccorso, che ci attende fuori. Se salta il rendez-vous penserà lui a dare l'allarme.

Come siamo arrivati fin qui? Carrello indietro. Un cartello militare, una strada di campagna in salita che conduce al Monte Massico. Uno spiazzo deserto. Nella roccia è visibile l'entrata murata di un tunnel. Porta a una base militare sotterranea, nome in codice Proto, scavata nella roccia tra Mondragone e Sessa Aurunca in provincia di Caserta verso la fine degli anni '50, abbandonata nel 1996, quando la guerra fredda diventava un ricordo e il terrorismo internazionale era il nuovo nemico, e da allora rimasta com'era.

Entriamo. Attraverso un condotto, strisciando a pancia in giù per qualche metro, ci si ritrova in un tunnel largo poco più di una corsia d'autostrada. Si cammina per due chilometri nell'oscurità. Lungo il percorso ci sono attrezzi da lavoro, tracce di vita anche recente. Buchi nel pavimento. Qualche slargo, indicazioni sul muro: "Pedoni a sinistra".

Poi, finalmente, l'entrata. Noi ci siamo arrivati a piedi. Quando Proto era in funzione il tunnel era attraversato dai trenini elettrici lunghi 35 metri che portavano il personale militare e civile al lavoro. A intercettare da Gibilterra fino alla Turchia qualsiasi cosa volasse, navigasse o si muovesse sullo scacchiere della guerra fredda. Perché Proto era una base Nato, un terminale del sistema di ascolto e trasmissione Ace High che partiva dalla Norvegia e attraversava tutta l'Europa.

Ed era anche un bunker a prova di atomica: in caso di conflitto, i vertici del comando Sud della Nato, di stanza a Bagnoli, avrebbero trovato rifugio qui. Il tunnel non finisce davanti alla porta antiatomica, continua per altri tre chilometri circa, fino a sbucare sull'altro lato del Monte Massico.

L'aria è densa. La porta antiatomica, che misura circa tre metri per tre, si muove con facilità su cardini stranamente oliati. Non è il primo né l'ultimo mistero di Proto. Ci inoltriamo con cautela in una città fantasma, o quasi. Qui vivevano almeno 200-300 persone. Durante le simulazioni di guerra si arrivava a mille presenze.

Un corridoio parallelo al tunnel, scavato nella roccia della montagna, collega tra loro i cinque blocchi: la stazione meteorologica, la sede del Raoc (Region Air Operations Center), il centro radio, le mense. In fondo al blocco ufficiali c'è la sala motori. Ogni blocco è un tunnel scavato in profondità, perpendicolare a quello d'ingresso. L'autonomia era assicurata da due motori Isotta Fraschini per cacciatorpediniere. Condutture e filtri garantivano anche l'aria condizionata.

Dopo aver percorso cunicoli, corridoi e scale fino quasi a perdere il senso dell'orientamento, ci troviamo davanti a un'enorme mappa del Mediterraneo. Di fianco alla mappa, un tabellone simile a quello dei treni in arrivo e in partenza. Elenca tutte le basi aeree d'Italia, Grecia e Turchia, con i codici Nato. Ecco, questo forse era il cuore profondo della base, il suo segreto più impenetrabile. Muoversi all'interno di Proto è difficile.

Speleologia industriale. Le torce hanno un'autonomia limitata, c'è il rischio di rimanere al buio, e molti tratti sono una massa di fanghiglia scura e scivolosa. E poi c'è la paura concreta che qualcuno emerga dal buio pesto dei corridoi interminabili. Nessun fantasma o alieni: esseri umani.

La base è stata devastata oltre ogni immaginazione. Dopo la dismissione è cominciata la razzia: rame, motori, quadri elettrici, tutto divelto senza pietà. Nel tunnel principale si incontrano le brandine usate da chi ha lavorato anche di notte, per settimane, per portare via fino all'ultimo pezzo rivendibile al mercato nero. Dal 1996, murate le entrate principali, la sorveglianza è stata saltuaria. E ai ladri, o ai semplici curiosi, è bastato seguire i cunicoli dei fili e delle condutture per entrare. Amianto, vernici, liquidi, oli. Quel che è rimasto cade a pezzi. La ruggine sta corrodendo ogni cosa. Chi ha permesso che una delle basi più segrete in Italia sia stata fatta oggetto di un saccheggio di queste proporzioni?

Abbiamo chiesto spiegazioni alla Marina Militare, attuale responsabile di Proto. L'ufficio stampa, attraverso il capitano di fregata Marco Maccaroni, ha risposto che "nelle more della decisione su un eventuale impiego operativo del sito, al fine di preservarlo per un eventuale e futuro utilizzo, si decise di murare, con porte di cemento armato, gli accessi al sedime.

Ciò solo dopo aver effettuato una compiuta verifica, a cura del personale dipendente, dello stato dei luoghi, alla quale è seguita un'ulteriore ispezione a cura della locale Asl, a seguito della quale fu rilasciata, in data 18 luglio 1996, apposita certificazione di avvenuta bonifica del sito". Tutto a posto dunque? Guarda le foto e giudica.

Gli armadi divelti, le pareti sfondate, i lamierati piegati alla ricerca di cavi di rame. Computer ammassati alla rinfusa, quadri elettrici squartati come fossero maiali. La Marina Militare ammette: "In merito alle condizioni di allarme ecologico, si precisa che durante i sopralluoghi effettuati si è purtroppo rilevata la presenza di rifiuti abbandonati di varia natura, che sono stati ogni volta rimossi.

Recentemente, a seguito di una ulteriore ronda, si è constatata addirittura l'asportazione del cancello di accesso e di una parte della recinzione, già in passato danneggiati e ogni volta ripristinati e convenientemente muniti di catena con lucchetto. Sono stati, quindi, nuovamente rinvenuti rifiuti abbandonati da ignoti, tra cui lastre di eternit, che si provvederà a rimuovere come già avvenuto nel passato. Di ciò sono state sempre informate le competenti autorità".

Sopralluoghi e ronde saltuarie si sono rivelati inutili. Qualche volta - è accaduto nel 2011 - sono stati arrestati in flagranza di reato due ladri. Tutto lì, in 17 anni. Un ex militare, che ha chiesto di restare anonimo, avanza un'ipotesi: "Appena dopo la chiusura, tra militari o civili, qualcuno ha dato le giuste indicazioni per agire indisturbati e asportare tutto il materiale che avesse un qualche valore. Un lavoro fatto con precisione e non improvvisato".

Ladri e rifiuti a parte, ci potrebbe essere un altro motivo di allarme ecologico, perché Proto non si esaurisce con i suoi cinque blocchi. In un angolo c'è un ascensore idraulico, bloccato al piano inferiore. Se lo si rimettesse in funzione, quale vaso di Pandora si aprirebbe? Nessuno ha mai violato la zona, il rischio è di aprire una sacca di aria velenosa: in circostanze simili, altrove si è dovuta constatare la contaminazione da radeon. Per Proto, si possono soltanto incrociare le dita e chiedere accertamenti. E una nuova, vera bonifica.

Sul futuro della base, la Marina Militare spiega: "Da tempo lo Stato Maggiore della Marina ha dichiarato il non interesse operativo sul compendio esprimendo, nel contempo, parere favorevole alla dismissione definitiva del sedime. Anche lo Stato Maggiore della Difesa, a seguito della richiesta formulata dalla Marina, ha comunicato il nulla contro alla dismissione dell'area in parola, non rivestendo più la stessa alcun interesse per la Difesa.

Attualmente è in corso la procedura per la riconsegna all'Agenzia del Demanio". Quanti anni ci vorranno perché questo passaggio avvenga? E chi prenderà veramente in carico l'ex base? La riqualificherà e, in caso affermativo, come? Tante domande, nessuna risposta.

Intanto, dopo i ladri e i saccheggiatori, a Proto sono arrivati i canari. In uno dei primi sopralluoghi a questo malconcio residuato della guerra fredda, mentre ci arrampichiamo sulla montagna dal lato di Sessa Aurunca, notiamo un canile. Non ci fermiamo, perché la nostra meta è la torretta più a nord. Una torretta fondamentale, poiché ha una struttura da bunker, probabilmente collegata alla base stessa. I limiti della base non sono conosciuti.

Mappare le torrette, quelle esterne e quelle collegate a Proto, aiuterebbe a farsi un'idea un po' meno vaga di una struttura di cui nessuno fornisce una mappa precisa. Mentre stiamo per superare il canile, un rottweiler legato alla catena ci ringhia contro. Allarmati, ci accorgiamo che i cancelli sono stati chiusi con lamiera e filo spinato, e che qualcuno ha preso possesso della torretta e del suo bunker. I contadini non usano i rottweiler. Chi usa la base oggi? A quali scopi? Alla Marina Militare rispondono che indagheranno, e che hanno informato le autorità.

Qualche giorno dopo i carabinieri, durante un sopralluogo, denunciano quattro persone per maltrattamento di animali. Il canile era ovviamente abusivo, e i proprietari utilizzavano anche la torretta per tenerci i rottweiler. Se allevassero i cani per rivenderli o, ipotesi che gli inquirenti hanno fatto, li addestrassero per destinarli ai combattimenti clandestini, che alimentano un forte giro di scommesse, non è ancora stato accertato.

I rottweiler sono l'ultima tappa di questa dismissione non troppo gloriosa. In tanti anni e altrettanti saccheggi, sono stati asportati nastri ottici, libri, manuali, suppellettili, materiale militare: potevano contenere indizi per i grandi misteri italiani? Improbabile.

"Ognuno di noi aveva un Nos, nulla osta di sicurezza. Ho lavorato per un anno nella base. Si perdeva la cognizione del tempo", un'altra fonte militare ci racconta la vita quotidiana nella base. "Avevamo una scheda perforata per accedere alle diverse zone della base. Solo una volta sono entrato nella sala Raoc. Non avrei dovuto, e sono stato rimproverato.

Mi ricordo che ho visto plexiglas su cui scrivevano e muovevano navi e aerei, facevano esercitazioni. Tutto era controllato e sorvegliato, anche se non c'erano testate atomiche come è stato detto. Eravamo completamente indipendenti per acqua ed elettricità, dovevamo poter affrontare una guerra atomica. Foto? Neanche una, la segretezza era massima. Quanto era controllato il tutto? Pensa che di fatto eravamo diventati un parco protetto. Mi spiego: gli animali si nascondevano nel nostro perimetro così i cacciatori non potevano ammazzarli, non ti dico quanti animali giravano intorno a noi".

Ora, attorno all'orecchio della Nato che ascoltava tutto da Gibilterra a Istanbul, anche gli animali sono scappati. Restano soltanto gli sciacalli e i ladri di ferraglia. Una proposta: e se la base, bonificata, diventasse un grande museo della guerra fredda?

 

19 settembre

 

Cardiologia, concorso scandalo alla Sapienza. "Ecco i vincitori", già noti un mese prima

Uno dei selezionati accompagnava in auto il professore. L'e-mail inviata a Repubblica il 13 giugno: conteneva già i sei nominati di chi poi avrebbe ottenuto il posto e chi invece sarebbe stato escluso "nonostante i curriculum con voti alti". Il 1° agosto le graduatorie, già previste

di CORRADO ZUNINO

Un concorso universitario L'ULTIMO concorso universitario predeterminato, con una scelta preventiva dei candidati che possono proseguire nella carriera di studio e accedere al mondo del lavoro, si è consumato in piena estate alla Cardiologia della Sapienza di Roma, abituata a questo genere di contestazioni. È l'ateneo del rettore Frati, della famiglia Frati.E la prova pubblica è quella per l'accesso alla scuola di specializzazione della Cardiologia del Policlinico Umberto I, l'ospedale collegato all'università più grande d'Europa.

Alle 11,44 dello scorso 13 giugno a Repubblica è arrivata una mail in cui si segnalavano sei nomi dei vincitori del "concorso che consentirà l'ingresso di sei nuovi cardiologi all'ottavo padiglione del Policlinico". Concorso pilotato, assicurava la mail: "Un mese prima sappiamo già chi entrerà". Entreranno, sosteneva la segnalazione, quattro donne e due uomini tra i 26 e i 33 anni, indicati nel testo con cognome e nome. Abbiamo messo da parte quella posta elettronica, firmata da "un medico deluso", l'abbiamo fatta registrare e abbiamo atteso.

Il concorso "Malattie dell'apparato cardiovascolare" (codice 14.252, 15 posti disponibili) si articolava in due date e due prove, a partire dal 7 luglio. Ai sei vincitori romani segnalati si sarebbero aggiunti, sosteneva la fonte, sei candidati scelti per la seconda cattedra della Sapienza (Cardiologia 2) e tre per la cattedra di Latina, sede distaccata. Di questi successivi nove vincitori, nella mail, non si faceva nome: l'attenzione di chi segnalava era concentrata su Cardiologia 1, diretta dal professor Francesco Fedele. La mail indicava anche i sei aspiranti medici (anche qui quattro donne e due uomini) che sarebbero rimasti fuori nonostante i curricula con punteggi alti: "La prova scritta sarà valutata con voti bassi, per compensare", rivelava la mail.

Il primo agosto sono usciti i risultati del "14.252". I fogli che li illustravano sono stati appesi al piano terra dell'ottavo padiglione del Policlinico e a fianco dell'auletta Valdoni, dove si allarga la stanza di Giacomo Frati (il figlio del rettore diventato ordinario di Cardiochirurgia a 35 anni). Le previsioni segnalate dal "medico deluso" erano tutte centrate: vincitori ed esclusi. Gli ultimi due posti utili della graduatoria erano occupati da due candidati che grazie a un'eccellente seconda prova - l'unica su cui la commissione diretta dal professor Fedele aveva potuto esprimersi - erano riusciti a colmare il gap del loro scarso curriculum. Entrando nel dettaglio, si scopre che il sesto piazzato (posizione utile) era uno studente di 27 anni di grande abnegazione: per tre anni aveva accompagnato in auto il professor Fedele a Fiumicino, ai convegni, a far spese. L'aspirante cardiologo era diventato il suo autista e al terzo tentativo ce l'aveva fatta.

Di fronte a queste evidenze abbiamo incontrato l'autore della segnalazione. Abbiamo verificato la sua conoscenza del tema e l'attendibilità. Ci ha portato documenti, spiegato nuovi dettagli e indicato pediatrie e cardiologie di altri atenei che usano gli stessi sistemi, quindi ci ha offerto il contatto di due testimoni. Abbiamo allora raggiunto la Cardiologia e chiesto spiegazioni del concorso al suo dominus, il professor Francesco Fedele. "Il medico deluso" ci ha raccontato: "Me l'hanno detto in modo esplicito: 'È inutile che vieni alla Sapienza, abbiamo già i nostri. C'è una lista d'attesa, devi aspettare il terzo concorso'. Perché non ho denunciato tutto al preside di facoltà, all'Ordine dei medici? Mi avrebbero risposto: 'Resta in fila, resta muto, è sempre stato così'".

 

 

Se vuoi la Concordia, prepara la guerra

Uno degli atti finali del governo Monti aveva battezzato Piombino come ultima tappa della nave: tutto deciso? Macché, il porto toscano non sembra pronto – Civitavecchia ha mosso la Confindustria locale e Zingaretti, i politici siciliani perorano la causa di Palermo, Genova è il principale terminal della Costa Crociere

Marco Imarisio per " Corriere della Sera "

Ma come, non era tutto deciso? Sguardi di imbarazzo. C'è un gioco delle parti in atto da mesi, che rischia di trasformarsi nella consueta figuraccia di sistema. A farla breve si tratta di questo. Pochi mesi fa, era la vigilia di Natale, uno degli atti finali del governo Monti aveva battezzato Piombino come ultima tappa della nave, stanziando via decreto 110 milioni di euro ai lavori di preparazione del porto. Tutto deciso, quindi. Mica tanto. Perché pare di capire che tutti gli addetti ai lavori siano consapevoli del fatto che alla fine Piombino non sarà pronta per l'appuntamento. Non è solo una sensazione.
Ci sono indizi precisi. Nonostante l'ufficialità della decisione, infatti, gli altri concorrenti alle spoglie della Concordia non hanno smesso di lanciare la propria candidatura. Negli ultimi giorni, mentre si avvicinava il raddrizzamento, i politici siciliani di ogni colore hanno fatto da massa d'urto a mezzo stampa nel perorare la causa di Palermo.
Non smette di crederci Civitavecchia, che ha mosso la Confindustria locale e il governatore Nicola Zingaretti. In trepida attesa Genova, penalizzata dal fatto di essere il principale terminal di Costa Crociere, che non farebbe salti di gioia nel tenere quella carcassa davanti agli occhi dei turisti in partenza sulle navi gemelle della Concordia.
La fiducia non elevata in Piombino è testimoniata anche dall'affitto contestuale della Vanguard, enorme nave piattaforma specializzata nel trasporto di consorelle sfortunate nei mari di tutto il mondo. È stata prenotata per due diversi periodi della prossima primavera, quando la Concordia dovrebbe essere pronta a lasciare il Giglio. A leggere le referenze di questo bestione dei mari, costruito in Sud Corea ma battente bandiera danese, appare evidente come sia usata solo per viaggi molto lunghi, non certo per l'equivalente di una gita fuori porta, seppur complicata, come la tratta Giglio-Piombino.
Quel gigante fa gola. Il suo smantellamento porterebbe posti di lavoro e commesse garantiti per un paio d'anni, e di questi tempi non è poco. È per questo che il governatore della Toscana ha giocato d'anticipo. Il porto di Piombino è al centro di un polo siderurgico in crisi da tempo. Bruxelles ha varato una legge che a partire dal 2015 impone la rottamazione di navi europee in continente.
«Credo di essere stato lungimirante. E non voglio certo uno smaltimento scorretto della nave. Comunque vada, Piombino si attrezzerà per questo business». Non fa una piega, almeno per gli interessi regionali. Rossi ha fatto pressione sull'ex ministro dell'Ambiente Corrado Clini, ha portato a casa un decreto che destina 110 milioni di euro a Piombino, contestualmente «nominata» ultima destinazione della Concordia. Bingo.
Invece no. C'era una falla nel ragionamento del governatore, che ne è sempre stato a conoscenza. È difficile che Piombino ce la faccia. I soldi non danno la felicità, e neppure le misure per accogliere una carcassa di tale portata. L'accoglienza della nave più famosa del mondo comporta la costruzione di una diga foranea da 1.150 metri, lo scavo dei fondali, una delle imprese più complicate dell'ingegneria portuale, e la costruzione di due bretelle stradali.
Tanto, forse troppo. Un dato eloquente: oggi il punto più profondo del porto di Piombino misura 9 metri, la parte sommersa della Concordia 25. E così, davanti a dati così netti, la trovata di Rossi è stata ben presto derubricata in «furbata» da chi lavora allo smaltimento della nave.
«A chi sta sollevando un'indecorosa canea sul destino della Concordia, ricordo che il coltello dalla parte del manico ce l'ho io. La nave è classificata come rifiuto, quindi decido io della sua sorte». Anche i governatori nel loro piccolo si incazzano, e parecchio. «Sta andando in scena una sceneggiata indecente, mentre gli altri porti europei si attrezzano per un business milionario, a prescindere dalla Concordia».

Rossi si congeda con un lapsus freudiano. In estate Piombino sarà pronta, dice. Peccato che il termine ultimo per la partenza della Concordia sia la primavera. «Spero vi sia una convergenza parallela tra l'allestimento del porto e i tempi della Concordia. Possiamo fare in tempo, anche se nessuno ci crede. Ma in caso contrario, nessun problema. Prima viene il Giglio».
Adesso si festeggia la rotazione della Concordia, come è giusto che sia. Ma la faccenda tornerà presto di attualità. All'orizzonte una consueta figuraccia nostrana. Tutti contro tutti, dimenticando che al momento nessun porto italiano dispone di un pescaggio e di una larghezza di banchina tali da accogliere la Concordia. Tutti dovrebbero fare dei lavori. Ma se non si decide davvero, lo smaltimento avverrà lontano dall'Italia, magari dopo una sosta di facciata per salvare l'onor di bandiera. L'opzione non è sgradita a Costa Crociere, date le norme ambientali che da noi rendono l'operazione costosissima. Avanti così, facciamoci del male.

 

Scuole italiane fatiscenti e pericolose. Palestre e bagni i luoghi più sporchi

Nell'XI rapporto sullo status degli istituti scolastici di Cittadinanzattiva i numeri parlano chiaro. I problemi più grandi riguardano la manutenzione dei plessi, la presenza di barriere architettoniche e sovraffollamento delle aule. Intanto si aspetta l'Anagrafe dell'edilizia scolastica per sfruttare al meglio i fondi destinati dal decreto del Fare

di CHIARA NARDINOCCHI

Scuole italiane fatiscenti e pericolose. Palestre e bagni i luoghi più sporchi ROMA - Le scuole italiane cadono a pezzi. Tra problemi di manutenzione e strutture inadeguate, quello disegnato dall'"XI Rapporto su sicurezza, qualità e comfort degli edifici scolastici" da Cittadinanzattiva, che già in passato è stata protagonista di indagini sul tema , è un quadro in chiaro e scuro. Lo studio che ha interessato 165 scuole in 18 regioni (tutte tranne Liguria e Valle d'Aosta), ha evidenziato le anomalie dei plessi italiani che spesso, da luogo di formazione, si trasformano in potenziali pericoli. Sono infatti 29 le tragedie sfiorate quest'anno a causa di crolli di diversa entità.

Se da un lato sono aumentati gli istituti che possiedono le certificazioni richieste dalla legge (lo scorso anno solo un quarto delle scuole era in regola con tutte le certificazioni), dall'altro è andato via via peggiorando il loro stato. ll 39% delle scuole presenta una manutenzione del tutto inadeguata (lo scorso anno era il 21%). L’84% ha richiesto dei lavori di mantenimento, ma nel 21% dei casi l'ente interessato ha risposto con estremo ritardo. Mentre il 34% ha sollecitato degli interventi strutturali, che richiedono più soldi e tempo, ma solo in un caso su quattro dall’ente proprietario c'è stata una risposta tempestiva e nel 14% dei casi non è stato preso nessun provvedimento.

Non sempre andare a scuola "fa bene", soprattutto se temperature e aerazione non sono adeguate. Nel 51% delle aule non ci sono tapparelle o persiane e il 28% ha le finestre rotte. Oltre il 10% delle sedie e dei banchi è rotto e in più di un terzo dei casi (39%) gli arredi non sono a norma, adeguati ad esempio all'altezza degli alunni.

Oltre alla manutenzione, anche il sovraffollamento e le barriere architettoniche sono problemi ancora irrisolti. Una classe su 5 ha più di 25 alunni, dunque non è adeguata alla normativa antincendio. E pur applicando l' art.64 della legge 133/2008, che ha innalzato il limite di alunni per classe, sono state riscontrate 47 classi fuorilegge. I dati sono allarmanti anche per i 207.244 ragazzi disabili che quest'anno frequenteranno gli istituti italiani. Per dare l'idea del disagio basta sapere che il 44% delle aule non ha banchi adatti per una persona in carrozzina e nel 57% dei casi, non ci sono in aula attrezzature didattiche o tecnologiche per facilitare la partecipazione alle lezioni.

Sembra quasi un paradosso, ma nelle scuole il luogo più sporco è la toilette. Priva di sapone nel 41% dei casi, di asciugamano nel 53%, di carta igienica nel 50%. Ma anche la palestra non gode un buono stato di salute. Il 28% delle scuole non ne possiede una all'interno dell'edificio. Dove presenti, nel 19% dei casi presentano distacchi di intonaco, muffe ed infiltrazioni (24%), barriere architettoniche (18%), fonti di pericolo (23%), nell'8% dei casi non hanno alcun tipo di attrezzatura e quasi una su due (44%) è priva di cassetta di pronto soccorso.

Per migliorare lo stato delle scuole il Governo, con il decreto del Fare, ha annunciato che nel prossimo triennio saranno elargiti circa trecento milioni di euro. “Pur apprezzando il grande sforzo compiuto dall’attuale Governo - ha dichiarato Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale della scuola di Cittadinanzattiva - è poca cosa rispetto al reale fabbisogno. Basti pensare che il costo di un edificio scolastico di media dimensioni, antisismico, energetico, a norma costa 5 milioni di euro". Bizzarri si scaglia poi sulla lentezza delle istituzioni nel creare un'anagrafe scolastica per gestire agilmente e in modo mirato i fondi da destinare alla ristrutturazione degli edifici.

Quest'anno le famiglie italiane hanno elargito circa 390 milioni di euro sotto forma di contributo volontario o donazione di materiali e beni per supportare la scuola italiana. " L'anagrafe - ha concluso Bizzarri - è indispensabile alle famiglie per sapere in quali scuole si recano ogni giorno i nostri figli. Per questo siamo ricorsi alla procedura di accesso civico agli atti nei confronti del Ministero dell’Istruzione che, entro 30 giorni dovrà risponderci in merito all'anagrafe. A tutela soprattutto dei più piccoli e degli studenti con disabilità, penalizzati più degli altri dalle pessime condizioni degli edifici scolastici”.

 

Smaltimento rifiuti ed evasione fiscale, per il nuovo business i clan cambiano volto

Per il traffico della spazzatura servono altri modi: niente intimidazione, facce pulite, rassicuranti e fare professionale. Commercialisti, avvocati, imprenditori con le carte in regola per sedersi ai tavoli con politici e industriali. Così si può agire senza problemi e anche evadere le tasse. Un pentito vent'anni aveva detto tutto, indicato dove finivano i veleni, ma le sue dichiarazioni furono ignorate.

Il traffico di rifiuti ha bisogno di facce pulite. Commercialisti, avvocati, imprenditori. Professionisti, loquaci e col vestito buono, in grado di sedersi ai tavoli con politici e industriali senza che questi avvertano la puzza di mafia, di camorra, di affare sporco. Sono i broker ingaggiati dai clan. Intermediari, sensali dei rifiuti. Figure moderne nate per risolvere "problemi" collaterali della produzione, dello sviluppo. Offrono un servizio - il servizio - alle aziende. Figure centrali nel business dei rifiuti. Lavorano di fino, giocano sul filo della legge. Si muovono nel Paese, lo attraversano da Sud a Nord, cercando clienti che desiderano abbattere i costi dello smaltimento delle scorie prodotte dalle loro imprese. Oppure imprenditori che evadono il fisco e perciò costretti a scaricare illecitamente parte dei rifiuti per eludere i controlli incrociati che confrontano produzione, vendita e tonnellate di spazzatura smaltite.

Il profilo. Nel codice di comportamento non scritto del broker dei rifiuti vige una regola: mai palesare il nome e l'organizzazione mafiosa per cui si lavora. Evitare frasi kitsch da film sulla mafia anni '50: "Mi manda don Raffaele". I tempi sono cambiati. Gli affari e la legge anche. Al centro più che il rispetto, l'onore, le regole, ci sono gli affari. E per farli crescere l'atteggiamento è fondamentale. Ecco perché chi si occupa di trafficare rifiuti tenta in tutti i modi di celare metodi criminali con modi di fare apparentemente legali. Gli intermediari si presentano negli uffici delle imprese del nord Italia e propongono l'offerta. Parlano di costi, tempi, luoghi. Descrivono nei dettagli i mezzi che utilizzeranno e il vantaggio competitivo che ne deriva affidandosi a loro. Non una parola sui reali beneficiari del business, né sul nome del datore di lavoro. I broker di professione non impongono il servizio mettendo in soggezione l'imprenditore, minacciandolo e indicandogli il nome del clan per cui operano.

Tranquillizzare il cliente. Una tecnica di marketing che tranquillizza il futuro cliente, che si spaventerebbe se consapevole di avere davanti un emissario in giacca e cravatta dei clan. Così l'imprenditore può solo immaginare dove andranno a finire quei rifiuti smaltiti a costi bassissimi, ma ricevute le dovute rassicurazioni a parole la sua coscienza ritrova la tranquillità e la necessaria determinazione per affidarsi ai manager della spazzatura stipendiati dalle cosche. Far finta di non sapere aiuta a superare le paure prodotte più dallo spettro di un'inchiesta che da questioni etiche e di salvaguardia dell'ambiente. "Esistono varie tipologie di broker", osserva Sergio Costa, comandante provinciale del Corpo Forestale di Napoli e profondo conoscitore del territorio e dei traffici illeciti di rifiuti. "Operano figure con competenze transnazionali, professionisti affermati, nella gestione dei rifiuti di grosso livello, si parla di società, di consigli di amministrazione, di fatture. Lo stesso sistema che esiste per l'evasione fiscale esiste per i traffici internazionali. Poi c'è il livello micro territoriale, più ruspante, di chi fa l'intermediario sul territorio. In realtà la figura del sensale, dell'intermediario, del broker è un metodo che vale per tutte le attività e traffici".

Si paga cash e in nero. I boss utilizzano i broker per chiudere contratti legali. I manager uniscono due mondi quello della impresa e della politica con il sistema mafioso. I personaggi di spicco della camorra non possono partecipare a riunioni dove siedono persone colpite da provvedimenti. Quindi scelgono persone insospettabili, professionisti, facce pulite. Nel momento in cui vengono "assunti" ai broker viene dato il mandato di firmare i contratti. Sanno perfettamente quanto e fino a dove potevano spingersi. I pagamenti li ricevono cash, tutto in nero. E in caso di inchiesta la strategia è già decisa: i mediatori devono fare la parte delle vittime di estorsione o di usura. Perché il boss accetta senza fiatare una condanna per estorsione e usura ma vuole a tutti i costi mantenere segreto il business dei rifiuti (che prevede reati punibili con pene molto più gravi).
Trattano le facce pulite. Al tavolo delle trattative non siedono i boss ma le loro facce pulite. Il capo camorra comunica con il broker. E il "manager della monnezza" comunica con l'imprenditore che deve smaltire le tonnellate di rifiuti illeciti. Il primo conosce soltanto il secondo e il secondo interloquisce con il terzo, senza specificare per chi lavora. La gestione del business è a compartimenti stagni. I padrini sono gli unici a conoscere nomi e cognomi dei professionisti a loro servizio. i soldati dell'organizzazione non sono tenuti a saperlo. Anzi se fanno troppe domande rischiano di finire male. Questo serve a limitare i danni nel caso di blitz e indagini. Carmine Schiavone, pentito di primissimo livello, in una delle sue prime ricostruzioni ricorda quando nel 1988 propose a suo cugino Francesco Schiavone "Sandokan" di seppellire rifiuti a Casale. "Ma che vogliamo avvelenare il nostro Paese?", rispose sdegnato. Ma i suoi buoni propositi cambiarono in fretta, e dopo appena un anno la grande famiglia Casalese entrò nel business trascinata dai compari di affari Bidognetti.

I re del disastro ambientale. È l'inventore dell'ecomafia profondo conoscitore della politica nazionale e locale. Il mediatore che ha trasformato in oro e denari per il clan montagne di spazzatura e scorie industriali. L'uomo che ha escogitato il meccanismo delle società commerciali - scatole vuote - per gestire il business della spazzatura. Questo e altro ancora è Cipriano Chianese, sotto processo a Napoli per disastro ambientale e truffa ai danni dello Stato insieme ai boss del clan dei Casalesi e a Gaetano Cerci, inserito in ambienti massonici della P2 e legatissimo al boss Francesco Bidognetti, alias "Cicciotto 'e mezzanotte". Rischiano una pena altissima per avere avvelenato le falde acquifere. Il periodo oggetto dell'inchiesta è quello che va dal 1985 al 2004. Vent'anni di veleni, scorie, liquidi industriali. I continui sversamenti nella discarica di proprietà di Chianese, la Resit di Giugliano, hanno prodotto un danno ambientale enorme. Una catastrofe. E per la prima volta in un processo sulla ecocamorra viene contestato l'omicidio dell'ambiente. Il massimo della pena prevista è 30 anni di carcere. Il dato storico è che per la prima volta un capomafia qual è Bidognetti viene indicato come il killer di un intera comunità. Un danno di immagine che potrebbe produrre effetti devastanti per i padrini, sempre attenti ad apparire in veste di salvatori del popolo, e ora accusati di avvelenamento. Indicati dalla pubblica accusa come i portatori di mali incurabili e tumori mortali.

Migliaia di tonnellate di veleni. Chianese, appoggiato dal clan Bidognetti, ha, secondo la procura antimafia di Napoli, interrato nella discarica non impermeabilizzata 806mila 509 tonnellate di rifiuti. Ben 30mila provenivano dalla Acna di Cengio, il che vuol dire residui e scorie pericolose derivanti dagli impianti chimici liguri. Il problema invece che risolverlo è stato spostato da Cengio a Giugliano. Gli esperti della procura hanno calcolato che quella massa di rifiuti pericolosi ha prodotto 57mila tonnellate di percolato, l'elemento che produce il danno peggiore, il quale lento scivola nel terreno e contamina le falde acquifere. La punta massima di inquinamento sarà raggiunta nel 2064, ma produrrà effetti fino al 2080. Per questo è necessaria una bonifica rapida e immediata. Che ancora non è partita.

Una storia durata nel tempo. La storia di Chianese e dei camorristi assassini dell'ambiente inizia tra l'88 e l'89. Secondo i magistrati è durata almeno 20 anni. Chianese lanciò l'idea di creare una società, una scatola vuota, senza mezzi e strutture produttive, chiamata Ecologia 89. Nella gestione diretta entrò anche il massone Cerci. "Attraverso la società Ecologia 89 e altre analoghe strutture hanno creato la copertura formale alla gestione mafiosa dello smaltimento dei rifiuti". "Operavano in regime di monopolio e consentivano lo smaltimento abusivo in discariche campane, in particolare nelle aree di Giugliano, di quantitativi ingenti di rifiuti in un arco temporale snodatosi tra il 1988 e il 1994", si legge negli atti giudiziari. Il modello organizzativo fu quello scoperto con l'indagine Adelphi. Processo poi in parte azzoppato dalle assoluzioni ma che ha ricostruito per la prima volta il sistema messo in piedi dai Casalesi per gestire il business dei rifiuti. Già allora Cipriano Chianese veniva indicato come il fondatore dello smaltimento rifiuti in Campania.

Cambiano le rotte. "Il traffico di rifiuti si può dividere in due momenti storici", spiega a Sergio Costa. "Il primo è quello del traffico da Nord a Sud, proseguito fino al 2000, col tempo diminuito di pari passo con l'alzarsi della soglia di attenzione da parte degli investigatori e dei cittadini. I rifiuti hanno seguito questa direttrice per 25 anni". Poi qualcosa è cambiato, all'inizio del nuovo millennio e con rischi sempre maggiori i boss e i loro broker hanno mutato strategia. "La mia sensazione è che lo spartiacque è stato il nuovo millennio. Oggi scopriamo discariche precedenti al 2000, nel traffico da Nord a Sud i rifiuti venivano interrati, c'era bisogno di un'organizzazione strutturata. Oggi per esempio troviamo anche rifiuti che da Sud vanno verso Nord: la raccolta del ferro, i metalli non bonificati, che arrivano in Lombardia (Bergamo e Brescia) e nell'est Europa. Il fatto che non si muovano da Nord a Sud non vuol dire che non sia finito il traffico. Per esempio una rotta che oggi i manager dei rifiuti scelgono è quella verso i paesi in via di sviluppo. Dove la corruzione è diffusa e l'attenzione minore. Ci sono i paesi balcanici e alcuni stati dell'Africa".

Destinazioni lontane. I rifiuti partono dai porti italiani per raggiungere destinazioni lontane, competenza esclusiva di broker internazionali, o meglio, "manager della monnezza". Le nuove frontiere dello smaltimento o del riciclo dei rifiuti si sono spostate a Oriente, Cina e Hong Kong. "Il traffico di rifiuti transfrontaliero è in rapida crescita, soprattutto in direzione della Repubblica Popolare Cinese e Hong Kong", si legge nella relazione della Commissione parlamentare. Le attività investigative del Nucleo ecologico dei Carabinieri hanno individuato organizzazioni criminali che attraverso alcune società del settore dello smaltimento dei rifiuti sparse nelle regioni italiane, spedivano rifiuti in plastica camuffandoli alle dogane di Salerno e Gioia Tauro, come materie prime. "Sarebbero poi state riutilizzate nei paesi orientali per la produzione di merci per il mercato europeo. Una volta acquistati i rifiuti in plastica presso varie imprese italiane, l'organizzazione si limita a pressarli e ridurli di volume e con apposite dichiarazioni il materiale era trasformato, da rifiuto in materia prima". In realtà la merce veniva acquistata mediante denaro contante da intermediari specializzati, "consapevoli che in realtà si trattava di rifiuti speciali". Le spedizioni sono poi organizzate tramite imprese di comodo di Hong Kong. Con la complicità di titolari di agenzie di spedizionieri di Bari, Napoli e Salerno, vengono prodotti documenti fasulli che certificano una normale spedizione di merci. E il gioco è fatto.

Imprenditori riciclati. Nel 1999 si chiude in secondo grado il processo Adelphi. Reati prescritti per gran parte delle figure centrali dell'inchiesta. Prescrizione anche per Gaetano Cerci e Luca Avolio. Se di Cerci tanto si è detto e continua a essere protagonista nel dibattimento assieme al broker Chianese, Avolio è scomparso dalla scena giudiziaria dopo Adelphi. Nonostante una dettagliata informativa del 1996 della Criminalpol di Roma-rimasta per lungo tempo nei cassetti della Procura e oggi, dopo 16 anni, acquisita nel processo contro Chianese in cui sono elencati i contatti, le società e le telefonate tra Avolio e i manager dei rifiuti. Un dossier successivo all'inchiesta madre della ecomafia Casalese ma con dati allarmanti. Stessi nomi e cognomi, massoneria, aziende del Nord. Il copione è lo stesso. In più ci sono le dichiarazioni di un altro pentito, un nome pesante del Clan, Carmine Schiavone, cugino del super boss Francesco Schiavone "Sandokan". Dichiarazioni inascoltate, quasi snobbate dai giudici che non hanno inserito la sua audizione nelle motivazioni della sentenza. Carmine Schiavone nel lontano 1994 "descriveva con dovizia di particolari" accordi tra i vertici del Clan e Cipriano Chianese, l'avvocato, "sia Gaetano Cerci che Chianese sono massoni. Anche Chianese frequentava il circolo massone di Aversa del quale ho già detto".
Informazioni preziosissime. Il collaboratore rovescia sul tavolo dei magistrati napoletani un mare di informazioni preziosissime. "Una fotografia dai contorni netti e nitidi delle varie fasi attraverso cui si realizzavano le attività legali della camorra: un vero e proprio ciclo compiuto che inizia dallo sventramento dell'ambiente approvvigionandosi di materiale per le costruzioni e termina con lo sversamento di enormi quantità di rifiuti di vario genere negli immensi crateri", scrivono i detective della Criminalpol di allora. Carmine Schiavone indica anche luoghi e zone esatte. Dichiarazioni che non saranno sufficienti a far condannare Chianese nel procedimento Adelphi. In quella informativa di 17 anni fa compare il nome della Bohemia Sud. "Punto di raccordo tra i settori masson-affaristici di Napoli e Caserta" per quanto riguarda la gestione dei rifiuti. In liquidazione dal 1995, la Bohemia Sud è, secondo gli investigatori dell'epoca, la propagine campana della Bohemia con sede a Roma. Ufficialmente commerciano macchine per l'industria, in realtà i poliziotti le descrivono nel loro rapporto come centri di gestione del traffico.

Intrecci societari. Un altro elemento, mai utilizzato nei processi processo, salta agli occhi rileggendo quegli atti ormai datati. Una delle società di Chianese, intestate alla moglie, ha sede nella stessa via e allo stesso civico della Bohemia Sud diretta espressione di Luca Avolio. Imputato nel processo Adelphi perché titolare della Alma, la società di gestione della discarica di Villaricca (Napoli). Una delle discariche insieme alla Resit di Chianese da cui è iniziata la storia delle ecomafia campana. Entrambe, si legge nelle informative, utilizzate per lo sversamento dei veleni di mezza Italia. Condannato in primo grado, il salvagente della prescrizione l'ha salvato in appello. In quel procedimento c'erano indagati eccellenti. Dal fratello dell'ex ministro Gava al deputato Altissimo, fino a un assessore liberale, Raffaele Perrone Capano, assolto per falso in secondo grado e prescrizione per i reati di corruzione e abuso d'ufficio. Oggi la Bohemia Sud è in liquidazione, ma Avolio insieme ad altri imprenditori risulta nella compagine societaria del Consorzio Ecologico Italiano, con l'ufficio nella centralissima via Toledo a Napoli. Si occupa di smaltimento rifiuti. Anche se non risulta operativa per conto della Sapna, l'ente provinciale che si occupa della gestione integrata dei rifiuti.

Nuovi patti. Sono passati più di dieci anni dalla conclusione del primo processo sull'avvelenamento delle terre di Gomorra. Vent'anni dalle dichiarazioni esplosive e inizialmente sottovalutate di Carmine Schiavone. E solo nel 2011 Cipriano Chianese, il re e primo broker dei rifiuti è stato incastrato. Ma la storia amara di avvelenamento non finisce con Chianese. Ci sono nuovi intermediari, nuove rotte, nuove società. Nuovi patti. E metodi più raffinati hanno permesso di continuare i traffici nonostante la pioggia di sequestri e arresti. I grandi business si decidono negli studi di commercialisti e di avvocati con la passione per "la monnezza" e il disprezzo per l'ambiente.

Questione di fatturato. Anche perché senza "monnezza" il clan muore. Correva l'anno 2001. La polizia accerta il versamento di 30????mila euro a un clan di Mondragone, Caserta. "Contributo significativamente incidente sull'attivo del bilancio mafioso, rappresentando infatti circa i 2/5 dell'intero fatturato annuale relativo alle entrate ordinarie", si legge nell'ultima relazione della Commissione sul ciclo dei rifiuti. Pentiti hanno parlato di miliardi di vecchie lire, un quarto del fatturato del Clan dei Casalesi. Cifre impressionanti non scritte su libri contabili ufficiali. Dalle parole del pentito Gaetano Vassallo, principale accusatore di Nicola Cosentino e imprenditore dei rifiuti per i Casalesi, si comprende bene l'entità dell'affare: nel periodo d'oro tra gli anni '80 e '90 i clan guadagnarono, solo da Vassallo, la somma complessiva di due miliardi di lire, con incassi di circa 10 miliardi di lire per lo smaltitore. Ecco perché il business fa gola al Clan. E alle mafie.Dallo sversamento nelle discariche e nei terreni agricoli, al controllo della gestione del ciclo dei rifiuti urbani (il caso del Consorzio Eco4 in cui è coinvolto il politico Nicola Cosentino, referente politico della camorra Casalese) e ora il pericolo di infiltrazione nelle bonifiche dei terreni contaminati che gli stessi clan hanno avvelenato. Ci sono segnali in questo senso. Ma le attività degli inquirenti sono blindate dal massimo riserbo.

 

17 settembre

 

 

Scuola, bambini cacciati dalla mensa. I genitori non pagano, servizio interrotto

Quattrocentocinquanta vengono esclusi a Vigevano, 500 a Vercelli rinunciano a iscriversi, ma è solo la punta dell'iceberg, sono migliaia gli alunni che rimangono fuori dal refettorio. Molto spesso è la ditta appaltatrice a chiedere l'intervento delle amministrazioni pubbliche per ottenere il recupero dei crediti. L'allarme di Save the children: "Responsabilità degli adulti scaricate sui più piccoli”.

La crisi pagata dai bambini, dagli alunni di asili ed elementari. I genitori non ce la fanno a pagare la quota della mensa e i Comuni bloccano il servizio. 400 a Vigevano, 69 a Fino Mornasco, in provincia di Como, 250 a Mantova, mentre a Vercelli 500 rinunciano a iscriversi. Sono i primi numeri di un fenomeno destinato a espandersi. Bambini di scuole primarie e dell'infanzia esclusi dalle mense dei loro istituti. "Colpevoli" di non aver pagato la retta per la refezione scolastica negli anni precedenti, e perciò "vittime" delle politiche di rigore del proprio Comune. Perché se non paghi il servizio, non puoi mangiare il pasto caldo come i tuoi compagni di classe e si aprono due possibilità: portarti il cibo da casa e consumarlo in un'altra aula , dove i "morosi" vengono collocati, o lasciare la scuola all'ora di pranzo. Come è successo a Vigevano con buona pace dei dirigenti scolastici, spesso in disaccordo con le decisioni della giunta comunale. A Fino Mornasco, per esempio, nonostante l'altolà del sindaco Giuseppe Napoli il preside dell'Istituto comprensivo Clemente Pasquale non ci sta: "Continueremo a fornire i pasti a tutti". La situazione, però, sta tornando alla normalità grazie a un piano di rateizzazione del debito

Bilanci comunali. Pratiche dal sapore discriminatorio che servono a tutelare i bilanci comunali. I sindaci, infatti, con il mancato pagamento delle rette da parte dei genitori si trovano a far fronte a buchi anche consistenti nelle casse comunali: a Vigevano il debito pregresso per le mense scolastiche ammonta a quasi 120mila euro; 43mila euro nel Comune di Fino Mornasco; 200mila euro a Vercelli, per parlare solo dei casi più eclatanti. E se in misura minore il debito contratto dalle famiglie è verso il Comune di appartenenza, se questo gestisce direttamente il servizio, nella maggior parte dei casi chi deve riscuotere sono società che hanno il servizio in appalto.

Colpiti i più piccoli. A volte il mancato pagamento è dovuto a effetiva indigenza delle famiglie, altre volte perché l'accesso alle esenzioni è complicato, altre volte ancora per pratiche scorrette dei genitori. Ma chi in definitiva ne fa le spese sono sempre i più piccoli, ai quali viene tagliato il servizio, con conseguenze educative e psicologiche tutt'altro che trascurabili.

Servizi in appalto. "Quando il Comune non gestisce direttamente la mensa scolastica appalta il servizio a una società privata o pagandoglielo per intero", spiegano dalla Sodexo, una delle aziende leader nei servizi di ristorazione collettiva "oppure lasciando al privato la facoltà di gestire gli introiti". In caso di riscossione diretta da parte della società, dunque, il debito che i genitori contraggono, non è con il Comune, ma con l'azienda privata che svolge il servizio di refezione scolastica.

Solleciti e azioni legali. "Con la riscossione diretta, che avviene attraverso bollettino postale o per mezzo di carte prepagate ricaricabili, si possono, naturalmente, riscontrare episodi di morosità", spiegano alla Sodexo "Sebbene ogni azienda abbia la propria linea di comportamento, nella maggior parte dei casi succede che dopo ripetuti solleciti (minimo 4) inviati alle famiglie, si procede con il recupero del credito: o con una azione legale nei confronti dell'utente, o dialogando e cercando delle soluzioni con il Comune, che rimane cliente principale del servizio".

Poi tocca ai Comuni. E così accade che il Comune per rientrare del credito (o per far fronte agli ammanchi segnalati delle aziende appaltatrici), sempre dopo ripetuti solleciti e invio di cartelle esattoriali, decida di passare alla linea dura per punire i recidivi e garantire gli onesti: chiude le porte della mensa a quei bambini (con età che va orientativamente dai 5 ai 9 anni) che non se la possono permettere e che (per motivi che molte volte, a onor del vero, non hanno niente a che fare con le difficoltà economiche delle loro famiglie) non hanno pagato il buono pasto.

"Giù le mani dai bambini". "In questo modo le eventuali responsabilità degli adulti vengono scaricate sui più piccoli", dice Antonella Inverno, responsabile dell'unità legale di Save The Children, la associazione a tutela dei diritti dell'Infanzia, che si sta occupando in particolare dei casi di Vigevano e Brescia. "È certamente giusto chiedere conto a quei genitori che approfittano di agevolazioni senza averne la necessità, ma la rivalsa nei confronti degli insolventi può essere fatta in altre forme, senza coinvolgere i bambini. Ad esempio, mandando cartelle esattoriali alle famiglie e procedendo ad un recupero coatto, come molti Comuni già fanno".

Ma non ci sono solo i furbetti. A volte si tratta di famiglie indigenti che non possono permettersi di pagare la quota. E spesso riscontrano anche non poche difficoltà per l'accesso alle agevolazioni previste. Nel rapporto pubblicato nel maggio scorso da Save The Children, dove si faceva il punto sulle differenze dei criteri d'accesso alle mense scolastiche italiane, su 36 Comuni presi in esame, veniva segnalato come in alcune città (per esempio a Palermo) l'esenzione dal pagamento della quota di contribuzione al servizio non è prevista in alcun caso. Solo a Verona, Parma, Pisa, Bari, Sassari hanno attivato delle misure di sostegno all'impoverimento delle famiglie legato o alla numerosità dei figli o alla perdita del posto di lavoro. In 11 comuni - Brescia, Adro, Udine, Padova, Verone, Pescara, Perugia, Pisa, L'Aquila, Campobasso, Lecce - si segnalano addirittura alcune cattive prassi, come la richiesta del requisito della residenza per l'accesso all'esenzione o alla riduzione della contribuzione.

Welfare da ripensare. "In un momento di profonda crisi economica e sociale la mensa dovrebbe essere considerata uno strumento educativo e di contrasto alla povertà", continua Antonella Inverno "ci sembra assurdo che si vadano a colpire proprio i servizi per l'infanzia, con interventi politici che per giunta hanno effetti discriminatori. La nostra associazione sta cercando di agire per il momento attraverso una forma di moral suasion nei confronti delle amministrazioni, affinché ripensino il welfare che deve mirare alla tutela delle politiche educative e al benessere infantile ad ogni costo. I bambini non devo essere lesi in alcun modo: allontanarli dalla mensa non significa solo privarli del pasto, ma anche del loro momento di socialità; significa separarli dai loro amici, facendoli sentire diversi".

Ricadute psicologiche. Le ricadute psicologiche di una violenza di questo tipo possono essere "diverse e traumatiche", come conferma la dottoressa Simonetta Gentile, psicologo-psicoterapeuta responsabile dell'unità operativa di Psicologia Clinica dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. "L'allontanamento dalla mensa scolastica non fa che rafforzare il senso di emarginazione e di esclusione che i bambini appartenenti a famiglie bisognose già vivono. Il vedersi separati dai propri compagni sancisce la diversità, dà loro misura di quanto la loro condizione sia distante dagli altri".

Traumi diseducativi. Perché fin dalla più tenera età il bambino è in grado di percepire e farsi carico delle difficoltà familiari. "Avere la consapevolezza di non poter mangiare come tutti perché non è stato pagato il servizio, di non poter partecipare alla mensa scolastica, è diseducativo, una pratica dannosa che incide sulla strutturazione del sé del bambino, che apprende in questo modo il principio di disuguaglianza e non quello della solidarietà", continua Simonetta Gentile. "Può essere un'esperienza traumatica anche nel caso ci si trovi di fronte a una morosità dovuta non all'indigenza dei genitori, bensì a una pratica scorretta. In tal caso il bambino capirà che sua madre o suo padre stanno tradendo i valori della legalità e sarà di rimando educato alla corruzione. Oppure svilupperà un senso di colpa e di vergogna che potrebbe sfociare anche in azioni di rivalsa, simili al bullismo”.

 

La terra dei fuochi come il Vajont

Aversa, Giugliano, Nola, Marigliano, la provincia tra Napoli e Caserta, 50 chilometri di terreni avvelenati. E i morti, i troppi decessi oltre l’evidenza scientifica provano che qualcosa non va. Lo urlano le popolazioni, qualche medico onesto, lo scrivono e lo filmano alcuni giornalisti che sembrano caparbi e altrettanto inascoltati come le denunce, di Tina Merlin, sull’Unità prima del disastro del Vajont. La presidente della Camera Laura Boldrini sabato ha detto a Pollica, durante la commemorazione per il terzo anno dalla morte di Angelo Vassallo, che l’inquinamento a Nord di Napoli è “un fatto imperdonabile, una sorta di Cernobyl premeditata”: “Si tratta – ha detto – di un crimine contro quella popolazione i cui responsabili devono essere individuati. In Italia troppo spesso si è messo il segreto per nascondere situazioni che non erano proprio nell’interesse dei cittadini”. Lo stesso commissario alla bonifica Mario De Biase ammette che il percolato presente a Giugliano può scendere nella falda acquifera e che l’esposizione prolungata in queste zone abbia effettivamente ripercussioni devastanti sulle persone. Per questo i bambini, le madri, gli abitanti, i cittadini si ammalato e muoiono. Ma i comitati delle Terre dei fuochi, che ieri, domenica 15 settembre hanno organizzato un corteo funebre ad Aversa da mesi chiedono attenzione dal governo anche su un altra questione: “Ancora una volta ecco la realtà nuda e cruda. Immediata. Lampante. Disarmante e sempre uguale a se stessa – dicono – i roghi tossici continuano a bruciare. Senza vergogna. E nella più totale impunità. Se per il ministro Orlando sono stati arginati, allora davvero non osiamo immaginare cosa sarebbe accaduto in caso contrario durante questi mesi”. La paura dei cittadini delle provincie di Napoli e Caserta non riguarda infatti solo la presenza ormai dichiarata e confermata di intere zone avvelenate dagli scarti speciali e pericolosi delle industrie settentrionali sotterrati illecitamente dalla camorra. Si tratta di 220 ettari di terra impossibili da bonificare dove sono presenti elementi cancerogeni volatili.

Come si vede chiaramente dalla mappa, i timori riguardano anche i numerosi “incendi” che quotidianamente (e soprattutto nel triangolo Giugliano-Villaricca-Qualiano) immettono nell’aria diossina a pcb. I dati sull’aumento non solo dei tumori (si arriva a punte del 47%) ma anche dell’autismo e dell’infertilità sono esaustivi. Non basta dunque per rassicurare le popolazioni la nascita dell’Osservatorio per la “terra dei fuochi”, costituito dai ministri De Girolamo, Lorenzin e Orlando. Ci vuole un passo in più. Un’operazione a tappeto di bonifica e controllo del territorio. E di sicuro non si può chiedere a queste terre di accogliere un altro inceneritore. Basta dare una lettura ai dati del dottor Marfella, vicepresidente dei medici per l’ambiente e oncologo del Pascale: “Acerra con i suoi volumi eccessivi (600mila tonnellate anno) brucia rifiuti urbani in perfetta media nazionale (italia = 100 kg /incenerito procapite/anno ; campania = 100 kg/incenerito procapite anno) e il solo mostro di Acerra supera di un terzo la portata complessiva di tutti e 8 gli inceneritori toscani (dati ISPRA). L’inceneritore di Napoli est nasce proprio per “compensare” ASIA della truffa subita e mettere in ordine le casse del comune di Napoli con i CIP6 conseguenti, determinando , senza alcuno scrupolo, una concentrazione di impianti tossici in soli 9 km di raggio , la cui portata risulterebbe equivalente non all’inceneritore di Vienna , ma a tutti e nove gli inceneritori di tutta l’Austria”.

 

Insegnanti di sostegno, “turnover serrato impedisce la continuità didattica”

La storia di Andrea, bimbo down di 7 anni: alla scuola dell'infanzia ha cambiato 4 maestre in tre anni, ora, alla primaria, non ha ancora il suo insegnante di riferimento. L'associazione Fish propone: "I docenti che lavorano sul sostegno non possono avere contratto in scadenza al termine di ogni anno scolastico". Il ministero: i problemi ci sono, ma dobbiamo andare fieri del modello italiano che evita le classi "ghetto"

di Enrico Bandini

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, recita l’articolo 3 della Costituzione. Ma non è così per Andrea, un bambino romano di 7 anni con la sindrome di down. Durante la scuola dell’infanzia Andrea ha cambiato 4 insegnanti in 3 anni e la sua non è un’esperienza isolata. La mancanza di continuità didattica e il precariato del corpo docente, il cui ricambio fino al concorso a cattedra è stato garantito solo dal turnover , sono due dei motivi che hanno portato a un impoverimento dell’offerta formativa nei confronti degli alunni disabili. Il 28 maggio 2013 il ministro Maria Chiara Carrozza ha affermato: “La scuola è il pilastro su cui ricostruiremo il Paese dopo la crisi”. A sentire gli addetti ai lavori, però, le fondamenta su cui erigere questo pilastro dimostrano di non essere ancora ben ferme, nonostante gli interventi del decreto scuola annunciati pochi giorni fa.

LA STORIA DI UN BAMBINO - Andrea quest’anno ha iniziato nella capitale la scuola primaria. Nel suo primo percorso d’istruzione, alla materna, è stato affiancato da 4 diverse insegnanti. “L’inizio – racconta la madre – non era andato male: un’ottima maestra gli forniva sostegno per 24 ore alla settimana. Coprivano poi le ore restanti educatori di una coop del Comune”. Il secondo anno sono iniziati i problemi, quando per Andrea è stata messa a disposizione un’altra insegnante per sole 11 ore. A quel punto la famiglia, tramite un avvocato del sindacato, ha fatto ricorso al Tar ottenendo tutte le ore. La sentenza è arrivata a dicembre e con essa è stata individuata una nuova maestra con un incarico annuale fino a giugno. Al terzo anno è ripreso il balletto delle nomine e Andrea si è trovato nuovamente a ricominciare daccapo, un nuovo dialogo educativo con un’altra insegnante. Quest’anno, con l’esordio nella scuola primaria, per il bambino down le cose non sembrano andare meglio: “L’anno scolastico è iniziato e non gli è ancora stato assegnato un sostegno”, spiega – con un po’ di preoccupazione – la madre.

MANCANZA DI CONTINUITÀ DIDATTICA - La politica dei tagli drastici, inaugurata dall’ex ministro Gelmini, e i problemi connessi a un precariato ormai storico nella classe docente incidono sulla continuità didattica di cui gli alunni disabili hanno bisogno. A loro infatti non viene sempre garantita la presenza dello stesso docente di sostegno nell’arco dei vari cicli scolastici. Nell’anno 2009/2010 sono stati tagliati 422 posti di insegnamento sul sostegno, a fronte di un aumento di 5399 studenti certificati con una disabilità. Dato non trascurabile che si somma all’ecatombe operata dai tagli sugli insegnanti curricolari (-40.662 posti nello stesso a.s.). Nel caso delle classi di concorso riguardanti il sostegno l’emorragia è stata impedita non dalla politica ma dalla magistratura, che è intervenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 80/2010. In base a tale provvedimento giurisdizionale, che salvaguarda il diritto all’istruzione dei disabili gravi, decadono le disposizione che prevedono un limite massimo nella determinazione del numero degli insegnanti di sostegno e l’eliminazione della possibilità di assumerli in deroga. Per effetto di tale sentenza dal 2010 si sono avuti 10 mila posti di sostegno in più . Se non fosse intervenuta la Consulta i posti si sarebbero dovuti mantenere congelati a 90.453, a causa delle norme sugli organici, nonostante il costante aumento degli alunni disabili (+26.536 negli ultimi 5 anni). Gli effettivi 10.848 posti in più sono stati creati però in organico di fatto e non di diritto . Si tratta cioè di posti non stabili, che aumentano la quota di precariato su cattedre certe ormai da anni e ciò ha l’effetto di minare le condizioni per impostare una programmazione didattica continuativa con gli alunni disabili. È stato così fino a lunedì 9 settembre 2013 quando il consiglio dei ministri ha approvato la progressiva immissione in organico di diritto di circa 26 mila insegnanti in 3 anni. Tenendo però conto della situazione su cui il provvedimento è intervenuto, non sono in pochi a chiedersi se non si tratti solo di un timido segnale, un punto di partenza insomma, ma ancora insufficiente.

UN PROBLEMA STRUTTURALE - “Il problema dell’organico di diritto al di sotto del fabbisogno è endemico, nel senso che ci sarà almeno da 20 anni” chiarisce Nicola Quirico presidente della Fadis, federazione associazione di docenti per l’integrazione scolastica. “Nel sostegno c’è sempre stata una grossa presenza di docenti precari. Questo – aggiunge – ha effetto sulla continuità didattica . Lo studente disabile può trovare in 3 anni di medie 3 diversi insegnanti di sostegno. Alle superiori non va meglio: la concentrazione degli studenti disabili è soprattutto negli istituti professionali, che oltre alla disabilità raccolgono altre condizioni di difficoltà, come la massiccia presenza di studenti stranieri ancora scarsamente alfabetizzati”.

L’AVVOCATO CHE HA FATTO TREMARE LA GELMINI - La fotografia della scuola scattata da Quirico non si discosta di molto da quella di Livio Neri , il legale milanese di Avvocati per Niente onlus che nel 2011, tutelando 17 alunni disabili, ottenne la condanna del ministero di Mariastella Gelmini per discriminazione nei confronti di studenti con disabilità. “La mia impressione è che da 4 anni il rapporto tra docenti di sostegno e numero di alunni certificati sia andato peggiorando ” dichiara Neri. Da allora ho assistito almeno un centinaio di persone nel milanese e per loro c’è stato un progressivo contenimento delle ore. Alla fine solo le famiglie che hanno possibilità economiche fanno ricorso al Tar e riescono così a ottenere che il diritto del figlio sia garantito”.

LA VOCE DEL MIUR – “Il rischio di una sperequazione nei confronti degli alunni disabili, per cui la continuità è particolarmente rilevante, c’è” ammette Paolo Mazzoli , dirigente scolastico e capogabinetto del sottosegretario Marco Rossi Doria, che ha la delega all’integrazione. “Può capitare che si avvicendino professori diversi a fianco agli studenti disabili. Mi sento però di dire che dobbiamo andare fieri del modello italiano , che inserisce questi alunni in classi ‘normali’. In altri Paesi vengono create classi differenziali, che rischiano di diventare un ghetto . Il rapporto poi tra docenti di sostegno e studenti è in media di 1 a 2 e le disparità tra regioni sono molto contenute e poco significative. Il ministro Carrozza – prosegue Mazzoli – è al corrente della situazione e ritiene che serva una riflessione che porti a diminuire, fino ad annullare, questo problema. Lo ha detto chiaramente già nell’audizione del 6 giugno 2013 alle commissioni della Camera e del Senato”.

LE PAROLE DEL MINISTRO - Nel testo citato da Mazzoli emerge la presa di coscienza da parte del ministro di dover far fronte a un problema ineludibile: “La capacità di garantire a tutti e ciascuno gli apprendimenti indispensabili per l’esercizio minimo della cittadinanza deve ancora migliorare, proprio per salvaguardare il principio di inclusione e di solidarietà su cui la nostra scuola si fonda. Per questo il ministero intende procedere nella direzione dello sviluppo della direttiva ministeriale del 27/12/2012 che migliora l’azione a favore del sostegno alle disabilità e fragilità degli studenti a scuola –i bisogni educativi speciali – implementando la rete territoriale di supporto, la formazione per i docenti e la realizzazione dei piani didattici ed educativi personalizzati”.

RICONOSCERE UN “DISABILE” - “Nulla di nuovo sotto il sole. Siamo alla farsa continua: è il solito balletto delle cifre”. Così un indignato Toni Nocchetti , presidente dell’associazione “Tutti a scuola” di Napoli, commenta la stima del totale degli alunni disabili fatta dal ministero. “In primo luogo – spiega – i disabili sui banchi di scuola sono 18mila in più rispetto al numero comunicato da Roma. Probabilmente i dati del Miur non tengono conto delle regioni a statuto speciale, come Trentino e Valle d’Aosta, poi va detto che ogni anno le aziende sanitarie locali sottopongono a visita gli studenti disabili, quindi può capitare che risulti un periodo finestra, anche di 6 mesi, in cui l’alunno per il sistema sanitario nazionale risulta guarito. Su ciò la politica marcia da anni. Con Tremonti e Gelmini si stabilì che il certificato rilasciato da un neuropsichiatra dell’asl non fosse valido fintantoché una visita all’Inps non avesse confermato la disabilità dello studente. È il gioco delle 3 carte per fare sparire i disabili. Anche il ministro Carrozza è caduta nelle ‘guarigioni miracolose’. Immagino che i funzionari della pubblica amministrazione non le abbiano spiegato il meccanismo, ma il sottosegretario Marco Rossi Doria queste cose le sa benissimo”.

SUPERARE IL PRECARIATO - Se l’analisi di Nocchetti insiste soprattutto nel criticare una politica che a detta sua non fa vera inclusione, quella dell’avvocato Salvatore Nocera della Fish , federazione italiana per il superamento dell’handicap (che fa parte dell’Osservatorio permanente per l’integrazione scolastica) punta l’attenzione sui quasi 38mila insegnanti di sostegno a cui ogni anno scade il contratto a giugno. “La faccenda dell’organico di diritto è relativa -sostiene Nocera. Il problema autentico è il precariato . Noi della Fish abbiamo avanzato una proposta di legge che presenteremo nel corso del mese di settembre, se il governo reggerà, in cui affronteremo il tema della continuità didattica sotto due aspetti: proporremo che i docenti che lavorano con i disabili, una volta passati di ruolo, abbiano l’ obbligo di permanere non 5 ma 10 anni sul sostegno e in secondo luogo chiederemo che le supplenze di sostegno siano della durata di 3 anni e non di uno solo”.

 

16 settembre

 

La folle giostra delle grandi opere

Paolo Berdini

Un Paese che guarda al futuro deve avere una struttura di programmazione pubblica in grado di avere il controllo del quadro complessivo delle opere da realizzare in coerenza con l'Europa. E al variare dei parametri in gioco questa struttura dovrebbe essere in grado di compiere scelte nell'interesse generale.
Ritorna dunque il nodo scorsoio cui l'Italia è stata appesa dalla scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che l'Italia si era data con molta fatica.
Era infatti costata venti anni di discussione l'approvazione nel gennaio 2001 del Piano generale dei trasporti e della logistica, un quadro certo imperfetto, ma simile a quelli in uso negli altri paesi europei, e cioè una bussola per orientare il sistema paese. Nel dicembre dello stesso anno nasce la cultura delle «grandi opere» senza alcuna coerenza tra loro ma guidate dagli appetiti delle lobby: Con il secondo trionfo elettorale berlusconiano nasce la legge Obiettivo (443 - dicembre 2001). Con la consueta bravura mediatica subito amplificata dalla disinformazione imperante, quella decisione fu descritta come il passaggio da una "visione burocratica" alla modernità. In realtà era il contrario: si colpiva al cuore la già debole funzione pubblica e ci allontanavamo dai paesi che conservano gli strumenti programmatori.
Un solo esempio. Il primo programma delle infrastrutture strategiche del dicembre 2001 conteneva 115 opere mentre attualmente esse sono diventate 390: un gigantesco puzzle senza coerenza e efficacia. E mentre il primo fiume di soldi pubblici che doveva sostenere le opere spesso inutili era giustificato da segnali economici flebili ma positivi, dal 2008 siamo piombati nella più grave crisi economica mondiale. Eppure tutto continua peggio di prima: il primo programma prevedeva di 126 miliardi pubblici; oggi sono diventati 367. Contemporaneamente si continua a colpire senza pietà il welfare urbano e le reali condizioni di vita dei cittadini.
A causa della crisi economica mondiale, il 21 marzo 2012 il governo portoghese ha annunciato l'abbandono dell'alta velocità ferroviaria e sono note le disastrose condizioni dei paesi dell'Est europeo. La fantastica spina dorsale dell'Europa - così è stata descritta - Lisbona-Kiev si è ridotta alla modesta tratta Torino - Lione. E addirittura il 12 luglio di quest'anno il Sole24Ore riporta la seguente affermazione di Mario Virano, commissario di governo per l'opera: «La ratifica del trattato internazionale da parte di Francia e Italia e l'ok dell'Europa a garantire il 40% di copertura dell'opera» sono le condizioni per partire. Condizioni senza le quali, aggiunge il Sole, «probabilmente i francesi potrebbero tirarsi indietro forse anche prima degli italiani».
Dunque abbiamo una grande "operetta" inutile di fronte ad una prospettiva del corridoio del San Gottardo in grado di garantire l'ancoraggio tra nord e sud Europa entro pochi anni. Se avessimo quella struttura pubblica di controllo scientificamente competente e indipendente dalle lobby che fu cancellata dalla cultura berlusconiana ci sarebbero le condizioni per ripensare il sistema di trasporto transnazionale alla luce delle mutate condizioni. Non se ne vedono le condizioni. Il ministro Lupi presidia la cassaforte per le grandi opere e il governo pensa solo a misure di polizia contro la popolazione della Val di Susa. Ma non è con la criminalizzazione di tutte le persone che non sono d'accordo con i cacciatori di soldi pubblici che si risolvono i problemi di prospettiva del sistema Italia. Bisogna invece prendere atto che è la deregulation che ha dominato il paese negli ultimi 20 anni la causa principale della mancanza di un moderno sistema di infrastrutture e del fallimento economico in cui ci dibattiamo. E' questa l'unica prospettiva per uscire dal tunnel.

 

Nuova politica, vecchi metodi! Monti fa pagare la sua segretaria politica dalla Bocconi

Silvia Colombo, capo segreteria di Monti a palazzo Chigi e segretario esecutivo del comitato di presidenza di “Scelta Civica”, dal 2 settembre è assunta all’università milanese - Qualche settimana fa i bocconiani avevano storto il naso al doppio incarico del Professore…

Gianni Barbacetto per "Il Fatto Quotidiano"

Mario Monti
La comunicazione ufficiale del servizio risorse umane del`Università Bocconi è datata 12 settembre e diretta a tutto il personale docente e tecnico amministrativo. Questo il contenuto: "Si informa che a partire dal 2 settembre, la dottoressa Silvia Colombo ha iniziato un rapporto di collaborazione con l`Università in qualità di Assistente del Presidente per i rapporti istituzionali". Il presidente è Mario Monti che da presidente del Consiglio aveva chiamato la Colombo come "chief of staff", per usare la dicitura del comunicato della Bocconi (espressione tipica della Casa Bianca).

Il capo della segreteria particolare. Prima che a palazzo Chigi Silvia Colombo ha lavorato per quindici anni presso lo studio legale The European House Ambrosetti, quello che organizza ogni anno il meeting di Cernobbio. Stando al sito di Scelta Civica, il partito di Monti, la Colombo è anche "segretario esecutivo del comitato di presidenza", cioè di quell`organismo creato per esautorare di fatto il coordinatore politico Andrea Olivero e rimettere tutto il potere in mano al presidente Monti.

Il fatto che ora sia la Bocconi a pagare uno stipendio alla collaboratrice del professore non è piaciuto molto ai docenti bocconiani preoccupati dalla sovrapposizione tra l`ateneo e un partito minimale come Scelta Civica. Qualche settimane fa il professor Enrico Valdani aveva scritto una mail formale agli organi di vertice dell`università per invitare a una riflessione critica sul doppio ruolo di Monti.

Ma non è successo molto. In Bocconi il potere di Monti è quasi assoluto, la presidenza non è una carica onorifica ma implica grande influenza (anche sul consiglio di amministrazione) e una presa sull`ateneo di gran lunga superiore a quella del rettore, Andrea Sironi. Perché i rettori passano, il presidente resta. Il prossimo anno Monti festeggerà i 20 anni alla guida della Bocconi (traguardo già superato se si considera che è stato anche rettore tra 1989 e 1994).

 

Pignorano le case per pagare il loro esercito di avvocati: l'incredibile caso dei 51 milioni spesi da Equitalia per “servizi professionali"

Dai conti 2012 di Equitalia spunta una “parcella” da 51 milioni di euro per “servizi professionali” - Soldi dati a 5.700 avvocati esterni che difendono la società nelle cause fiscali - Le “altre spese amministrative” (dipendenti a parte) ammontano a 379 milioni - Chi paga? I contribuenti…

Stefano Sansonetti per La Notizia

Un esercito di collaboratori e consulenti composto da 5.700 persone. La maggior parte delle quali è costituita da avvocati a cui il Fisco si deve rivolgere per difendere in giudizio le sue ragioni. Il tutto pagando una maxi-parcella da 51 milioni di euro. Un salasso. A mettere mano al portafoglio, pur negli sforzi di contenimento dei costi, è Equitalia, la società pubblica di riscossione dei tributi controllata dall'Agenzia delle entrate e Inps.

Il fatto è che per la società presieduta da Attilio Befera, accanto agli 8.167 lavoratori dipendenti, lavora anche la bellezza di 5.678 "lavoratori autonomi". Quest'ultima cifra viene fuori da un bando di gara che Equitalia ha predisposto di recente per assegnare in outsourcing i processi di amministrazione del personale.

Una valanga
Ma chi c'è all'interno di questi 5.678 lavoratori non dipendenti ma comunque gestiti dal gruppo della riscossione? Equitalia, interpellata da La Notizia, ha fatto sapere che "nella categoria rientrano i soggetti che percepiscono redditi di lavoro diversi da quelli di lavoro dipendente". Redditi che, ha aggiunto il gruppo "per la maggior parte riguardano prestazioni legali e il pagamento delle spese legali in caso di soccombenza".

Naturalmente tutto questo ha un peso sulle casse di Equitalia. Sul punto la società ha spiegato che "non si tratta di costo del personale ma di spese amministrative". E che "l'ammontare di tali spese professionali varia a seconda dell'andamento del contenzioso e delle relative soccombenze".

In realtà un cifra che esprime il costo di tutti questi avvocati c'è. Ed è inserita all'interno dell'ultimo bilancio 2012 approvato dalla società guidata dall'amministratore delegato Benedetto Mineo, il nuovo uomo forte di Equitalia dopo un passato come direttore del dipartimento credito e finanze della regione Sicilia all'epoca di Totò Cuffaro.

I costi
Ebbene, all'interno del documento contabile è riportata l'entità delle spese amministrative, proprio quelle a cui fa riferimento la società nelle spiegazioni fornite. Diciamo subito che nel 2012 questa voce ha pesato per complessivi 886 milioni di euro, in calo rispetto ai 975 milioni dell'anno precedente.

All'interno di questa cifra, però, 506 milioni rappresentano le spese per il personale (salari, stipendi, oneri sociali Tfr e via dicendo), mentre 379 milioni (in discesa rispetto ai 425 dell'anno precedente) rappresentano le "altre spese amministrative". Ora, è proprio all'interno di queste ultime che bisogna andare a disaggregare la varie voci. Si scopre così, tra le diverse uscite, che 119 milioni di euro se ne sono andati per "servizi esattoriali", 69 milioni per "servizi informatici" e 51 milioni per "servizi professionali".

Da registrare i forti risparmi conseguiti da Equitalia su tutte queste voci, per un totale di 45 milioni (del resto la società è impegnata in un'azione di complessa razionalizzazione). Ciò non toglie che la carica degli avvocati del Fisco continua ad avere un peso non indifferente. Nei 51 milioni di euro, la magna pars è costituita dalle spese legali per contenzioso esattoriale, che come spiega il bilancio "si riferiscono agli oneri relativi a spese legali e derivanti da eventuali soccombenze". I punto, semmai, è andare a vedere come mai le cause in cui viene coinvolta Equitalia sono così numerose. Nel frattempo gli avvocati del Fisco fanno festa.

 

13 settembre

 

 

La Magistratura: «Un Governo occulto»

Un’inchiesta ha svelato l’esistenza di un gruppo di potere che agiva come una sorta di «Gladio interna» alla fabbrica, con una struttura parallela su tre livelli. Un caso senza precedenti nella storia delle relazioni industriali in Italia, che fa luce ancor di più sul buco nero dello stabilimento tarantino. Dopo l'ennesimo sequestro di beni i Riva chiudono gli stabilimenti che non fanno parte dell'Ilva

Alessandro Leogrande

Fin dalla sua privatizzazione nel 1995, il più grande stabilimento siderurgico italiano, l'Ilva, è stato trasformato in un uno "stato d'eccezione" normativo e disciplinare. È quanto emerge dalle inchieste della magistratura che nell'ultimo anno e mezzo hanno dissezionato il sistema-Riva. È quanto emerge, soprattutto, dall'ultima ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Patrizia Todisco, relativa agli arresti dei massimi vertici del "governo ombra" dell'Ilva.
Da quanto si apprende, a governare davvero l'Ilva, in questi anni, non sarebbero stati i dirigenti che ricoprivano ufficialmente le più alte cariche aziendali, bensì i componenti di una struttura parallela, e segreta ai più, posta al di sopra di essi. Una piramide di "fiduciari", a suo modo efficiente ed innervata nella vita di fabbrica, che aveva il compito di ottenere il massimo profitto, riducendo i costi di produzione, irregimentando gli operai, premiando i "quadri" obbedienti, bruciando materiali inquinanti nei forni, sversando liquami in mare, non ottemperando alle più elementari norme ambientali.
Questa sorta di "Gladio interna" non ha precedenti, almeno in tali forme, nella storia delle relazioni industriali di questo paese. E poiché non è stata formata solo negli ultimi anni, bensì si è costituita come asse portante del siderurgico in tutta la parabola della sua privatizzazione fino alla decisione del commissariamento, merita di essere seriamente analizzata.
L'inquinamento che ha appestato Taranto, si è detto più volte, è la manifestazione esterna delle rapporti di forza interni alla fabbrica: della gabbia disciplinare volta a premiare i "dipendenti modello" e a punire ed escludere i dissenzienti, dell'elevata erosione dell'appartenenza sindacale, dell'insicurezza quotidiana del lavoro operaio... Ora di questa gabbia disciplinare, volta alla militarizzazione di una grande fabbrica nel XXI secolo, sembrano emergere con maggiore chiarezza i lineamenti. Che all'Ilva ci fossero dei "fiduciari" lo si sapeva, o almeno lo avevano intuito in molti, tra le forze sindacali. Non era così evidente, però, la creazione di un vero e proprio sistema.
La struttura parallela dei "fiduciari" aveva tre livelli. Uno, di base, volto al controllo del lavoro più minuto, dei suoi tempi e della sua disciplina. Uno intermedio, di raccordo, e uno - l'ultimo - collocato al vertice, al di sopra dello stesso vertice della dirigenza di fabbrica.
Stando a quanto si legge nell'ordinanza, nomi sconosciuti alla città di Taranto e alla stragrande maggioranza dei dipendenti sarebbero stati - con il beneplacito dei Riva che hanno orchestrato il sistema - i reali viceré della fabbrica. Lanfranco Legnani, "direttore-ombra" dello stabilimento. Alfredo Ceriani, responsabile di tutta l'area a caldo, con il compito di massimizzare la produzione. Giovanni Raioli, gestore dell'area parchi minerari e dell'area degli impianti marittimi. Agostino Pastorino, responsabile dell'area ghisa. Enrico Bessone, responsabile della manutenzione.
I Riva non hanno mai voluto mettere in discussione la loro struttura-ombra, anzi l'hanno oleata per bene nel tempo, favorendo una totale torsione dei rapporti interni allo stabilimento. Governare una enorme fabbrica rilevata dallo Stato con una struttura occulta avrebbe permesso, almeno nelle intenzioni, di deresponsabilizzare il vero vertice dell'azienda (pagato con premi di produzione, esterni alla normale retribuzione), scaricando su altri - gli utili idioti - i comportamenti illeciti adottati, e soprattutto creando una gerarchia ancora più verticistica, proprio perché non codificata e dai confini incerti. Va da sé che una struttura occulta, così concepita, si sarebbe sottratta (e difatti si è sottratta) al confronto con chi sta dall'altra parte, siano essi gli operai, i sindacati o l'intera città.
Devastazione ambientale a parte, è la creazione stessa del "governo-ombra" a inquietare. È un caso isolato, prodotto dall'eccezione Ilva, o è il modello occulto verso cui il capitalismo post-novecentesco corre a perdifiato?
Viene alla mente il 1971, quando emerse una fitta rete di spionaggio interna alla Fiat. Tale rete, poi venne appurato, aveva prodotto in vent'anni oltre 300 mila "schede personali" sugli operai del gruppo. Anche quella struttura, scientificamente volta al controllo dei dipendenti, era occulta, e vedeva il coinvolgimento, oltre che dei vertici aziendali, dei servizi, di agenti di polizia e carabinieri... Nell'Ilva, per certi versi - pur non pervenendo a quelle forme di controllo - si è raggiunto uno stadio ancora peggiore, perché tale struttura ha programmato in toto la produzione dello stabilimento al fine di raggiungere il massimo profitto, spremendo gli impianti senza ammodernarli.
Così il buco nero dell'Ilva si rovescia ancora una volta nella frontiera estrema del capitalismo. Importando all'interno dell'Italia, e dell'Europa, regole "marziane", forse già presenti in forme non dissimili nelle propaggini neocoloniali dei grandi gruppi industriali del Nord del mondo in Asia o in Africa.
Governare l'eccezione industrial-ambientale, facendosi a propria volta stato d'eccezione disciplinare: è questa la lezione del capitalismo ultramoderno dalle parti dell'Ilva. Al pari dell'inquinamento prodotto, delle malattie e dei tumori, la "Gladio interna" andrebbe studiata nei suoi più reconditi dettagli per essere meglio rovesciata. L'Ilva può sopravvivere, portando a termine la complicatissima partita della trasformazione degli impianti, solo espellendo da sé le scorie di tali modi e rapporti di lavoro, incistati per vent'anni nella pelle del drago.

 

Come ti sistemo il “Clan Alfano”: incarico d'oro alle poste per il fratello di Angelino

Anche le colombe tengono famiglia: il fratellino di Angelino Alfano, Alessandro, incassa un bell’incarico a Poste Italiane - La nomina a dirigente di “Postecom”, società di servizi internet, senza concorso o selezione - Stipendio medio per poltrone del genere? Anche 200mila euro l’anno…

Da unita.it

Un posto alle Poste non si nega a nessuno. Si diceva così durante la prima Repubblica. Epoca finita ormai un ventennio fa, ma forse le abitudini di allora hanno resistito al terremoto dei primi anni '90. Almeno a guardare gli ultimi arrivi nella linea direttiva del gigante postale.

Una decina di giorni fa a sbarcare tra i dirigenti di Postecom (la società dei servizi internet di Poste italiane) è stato Alessandro Alfano, fratello minore del più celebre Angelino, vicepremier e ministro dell'Interno nel governo delle larghe intese. Nulla da ridire, per carità.

Formalmente un dirigente può essere «nominato» senza alcun concorso, senza selezione: in un giorno si può anche accedere all'incarico di direttore commerciale di una controllata del Tesoro, dove lo stipendio medio per una figura apicale può arrivare a 200mila euro annui...

 

Una «Sanitopoli» calabrese

La procura di Cosenza indaga sul management dell'Azienda sanitaria provinciale: decine di consulenti accreditati con curriculum falsi, spese extrabudget, transazioni con spese gonfiate e soldi in Svizzera. Mentre gli ospedali non hanno le medicine

Silvio Messinetti

Decine di avvocati ammessi come consulenti senza che fossero eseguite le procedure previste per legge. Il tutto grazie a curriculum farlocchi. Tra i destinatari, il 7 settembre scorso, di un avviso di garanzia dalla procura di Cosenza, tutti i componenti del management pro-tempore dell'Azienda sanitaria provinciale, dirigenti e liberi professionisti. Tra questi l'attuale direttore generale Gianfranco Scarpelli, Franco De Rose, che è stato commissario dell'azienda per circa un anno tra il 2010 e il 2011, e il precedente direttore generale Franco Petramala. L'Asp di Cosenza, sotto la lente della commissione di accesso per infiltrazioni mafiose nel 2013, si conferma una nebulosa di traffici poco chiari, un porto delle nebbie di favori, prebende e trame milionarie. Che varca l'Italia e sconfina all'estero. E i protagonisti sono sempre gli stessi.
La "sanitopoli" di Calabria ha spalle larghe e lunghe leve. È un'oliata architettura di sprechi e disfunzioni, di cinghie strette e tasche bucate, un vortice che si muove dagli Appennini verso le Alpi, scavalca frontiere e valica crinali. Lungo la direttrice Cosenza-Lugano solo andata si è inerpicata in questi anni una fitta ragnatela di transazioni, rinegoziazioni e arbitrati milionari. Un magma di sprechi, una torsione di politica, affari e massoneria, che ha impoverito il popolo per arricchire i soliti noti. Perché a queste latitudini ci sono due tipi di sanità. C'è quella disastrata, che ha cancellato una trentina di ospedali e fatto schizzare ai massimi storici l'emigrazione da ricovero, e le pratiche allegre della burocrazia colabrodo e compiacente, che ha agevolato strani flussi di danaro verso la patria del segreto bancario, dei conti correnti criptati e della fiscalità leggera, la Svizzera. L'Azienda sanitaria di Cosenza è ricca sfondata. Difficile da credere per chi frequenta ospedali e reparti sparsi sul territorio. A Cetraro, ad esempio, sul litorale tirrenico, nell'ospedale manca tutto: antibiotici, prodotti nutrizionali, guanti, cerotti, garze, carta igienica. Il colosso farmaceutico Roche ha persino disdettato la fornitura di farmaci oncologici: vanta crediti enormi nei confronti dell'Asp cosentina. Che stringe la cinghia sulle prestazioni sanitarie ma è di manica larga su lodi arbitrali e rimborsi extrabudget a cliniche private. Transazioni con interessi gonfiati e arbitrati che fanno impennare le spese legali e agevolano flussi milionari dalle casse pubbliche a quelle private. Un viaggio di soldi dall'Asp di Cosenza a una società schermata di Roveredo, nel canton Ticino.
I soldi pubblici della sanità sono finiti, dunque, in Svizzera, grazie a un contratto stipulato con una società finanziaria. La storia ha inizio nel 2005. La Sifin, assistita da Enzo Paolini, avvocato ma anche presidente dell'Aiop, il "re delle cliniche private" e uomo politico, con un passato nel Psi di Giacomo Mancini, un presente in Sel e un futuro - pare - sul carro di Matteo Renzi, ha fatto causa all'Asl di Paola per ottenere il pagamento di 17 milioni, effetto di un vecchio contenzioso tra l'Asp e le strutture private della costa tirrenica per prestazioni extrabudget. I giudici hanno dato ragione a Sifin anche perché, stranamente, l'Asp aveva riconosciuto il debito e a quella cifra, già molto pesante, si sono aggiunti altri 9 milioni di interessi per rivalutazione monetaria. Sifin ha stipulato successivamente una transazione con l'Asp rinunciando al 20% del credito e accontentandosi, si fa per dire, di 22 milioni. A firmare la transazione per conto dell'Asp è il già citato Palamara, il direttore generale. A questo punto Sifin, a sole 48 ore dall'accordo, ha ceduto parte del suo maxicredito alla Insitor Capital Sa, una società anonima con sede a Roveredo, in Svizzera. L'accordo prevedeva che Sifin cedesse alla società elvetica la somma corrispondente agli interessi maturati (9 milioni) e ne ricevesse in cambio 6. Alla fine del giro, iniziato 8 anni orsono, un fiume milionario è transitato, così, dalla sanità pubblica fino al canton Ticino, coperto dal segreto bancario e schermato da una società anonima. Un gioco di scatole cinesi che parte da Cosenza ed arriva sino in Svizzera. Con la trasparenza che va a farsi benedire. Ma non finisce qui.
Il denaro è transitato dall'Asp di Cosenza a Sifin per quasi un anno. Ma con le ultime tre rate, da tre milioni al mese, sono iniziate le difficoltà nei pagamenti. I vertici dell'Asp, guidati dal berlusconiano De Rose, si sono accordati con Paolini per rinegoziare il piano di pagamenti con un tasso di interessi superiore al 30%. A Sifin è andata di lusso. Potrà beneficiare di questo piano di pagamenti fino al prossimo febbraio. Riceverà le somme da Cosenza e le girerà in terra elvetica dove se ne perderanno inevitabilmente le tracce. Palamara, il direttore generale dell'Asp, il 21 febbraio scorso, è stato indagato per abuso d'ufficio e falso morale ed ideologico per rimborsi milionari erogati (e non dovuti) ad alcune case di cura accreditate negli anni duemila. Per quanto riguarda Paolini, il suo nome era già rimbalzato nelle cronache a proposito del meccanismo dei rimborsi extrabudget. L'ex senatrice Angela Napoli, in un'interrogazione parlamentare, aveva sollevato il caso.
Il sistema era collaudato. Nel corso degli anni le cliniche private non si sono mai risparmiate: hanno sempre fornito più prestazioni rispetto alle convenzioni, ricoveri ed esami extra. È il cosiddetto extrabudget, che ha dissanguato i bilanci. Tuttavia una serie di sentenze del Consiglio di Stato hanno messo fine alla questione: l'Asp non è tenuta a pagare per le quote non previste in convenzione. Ma a Cosenza le cose sono andate in ben altro modo. Alcune cliniche private hanno chiesto dal 2010 in poi all'Asp le somme dell'extrabudget, più robusti interessi. E l'Asp, anziché richiamarsi alla giurisprudenza, ha preferito scendere a patti con i privati. Affidando la risoluzione delle controversie a una serie di lodi arbitrali. Secondo Napoli il nome di Paolini ricorreva troppo spesso tra gli arbitri chiamati a risolvere le grane degli extrabudget: un grosso conflitto di interessi, visto che questi riceveva la parcella dell'Asp come arbitro e quella delle cliniche che difende, essendone tra l'altro il presidente. «I personaggi coinvolti in questa vicenda sono portatori di mostruosi conflitti di interesse - denuncia Delio Di Blasi della direzione Cgil - hanno costruito le loro fortune (anche economiche) su un sistema ben rodato, efficiente e che dura nel tempo, come deliberato dalla Corte dei Conti nel 2009. In un territorio piegato da un piano di rientro lacrime e sangue che paga l'addizionale regionale più alta d'Italia a fronte di servizi sempre più squalificati o inesistenti, questa vicenda assume i contorni del paradosso, in un clima di silenzio e disinteresse quasi generale».
Ma Paolini non è l'unico arbitro eccellente legato alla politica. Ci sono anche Nicola Abele e Nicola Gaetano, pezzi grossi del Pdl calabrese, vicini al senatore Tonino Gentile e a Peppe Scopelliti, presidente della Regione e commissario straordinario per il piano di rientro dal debito sanitario. Anche nel loro caso le parcelle sono extralarge. Così come gli interessi in ballo e i legami di alcune strutture sanitarie private con la politica. Intanto a Cetraro alla farmacia dell'ospedale mancano i medicinali per curare le lesioni da decubito. Mentre le consulenze agli amici degli amici sbocciano come funghi. La chiamano spending review. A senso unico.

 

Aspettando il miracolo dell'ospedale: l'incompiuta più antica d'Italia

La storia della struttura mai aperta di San Bartolomeo in Galdo, dal libro "La Mangiatoia". Così la Sanità è diventata il più grande affare d'Italia

di MICHELE BOCCI e FABIO TONACCI

In Italia ci sono 132 ospedali "fantasma". Costati milioni di euro, non sono mai stati aperti o sono utilizzati solo in minima parte. Uno spreco di denaro pubblico enorme. Negli anni però sono stati il pretesto per assumere primari, capi dipartimento, infermieri. L'ospedale di San Bartolomeo in Galdo, è uno di questi. La sua storia è raccontata in un capitolo del libro inchiesta di Michele Bocci e Fabio Tonacci "La Mangiatoia - Come la sanità è diventata il più grande affare d'Italia" (ed. Mondadori, 176 pagine) da oggi nelle edicole.

A San Bartolomeo in Galdo da cinquantadue anni si attende un miracolo: l'apertura dell'ospedale comunale San Pio. Ormai quello serve, un miracolo. I più anziani se la ricordano ancora la giornata del 1961 quando sindaco e istituzioni varie giunsero in massa da tutta la Campania fino quassù, in questa cittadina in collina nella Val Fortore, profonda provincia di Benevento. Era la cerimonia di posa della prima pietra di quello che doveva diventare il punto di riferimento sanitario per almeno 32.000 persone che fino ad allora, quando avevano bisogno di un medico, dovevano farsi un'ora di macchina o due di autobus per scendere a Foggia, a Benevento o a Campobasso. San Bartolomeo, infatti, ha la sfortuna di trovarsi esattamente nel mezzo delle tre città.
Bene, dopo mezzo secolo, quell'ospedale non è stato ancora aperto. Però ci è costato 25 milioni di euro. L'incompiuta più antica d'Italia. Ha una superficie di 2000 metri quadrati su tre piani, è arredato, è attrezzato con apparecchiature, è predisposto per avere un piccolo eliporto. Ma è chiuso.

Nel primo progetto, quello degli anni Cinquanta, erano previsti reparti di Cardiologia, Emodialisi, Riabilitazione, Ostetricia, Pediatria, Ortopedia, Rianimazione, Day Hospital, Terapia intensiva, Radiologia. Un totale di 133 posti letto. Col tempo sono diventati 90, poi 20. Senza mai accogliere un paziente, ovviamente. Tutto sulla carta.
Oggi l'unico spazio aperto di questa megastruttura è un Psaup, un centro di primo soccorso, con un medico, un infermiere e un autista, inaugurato all'inizio del 2013 e costato la bellezza di 2,5 milioni di euro in strumenti e impianti. Badate bene, un Psaup non è un Pronto Soccorso. Per i codici rossi, per le emergenze vere, tocca comunque farsi ancora 45 minuti di macchina fino a Lucera, come mezzo secolo fa. La montagna ha partorito una pulce.

Eppure questa cattedrale che è stata costruita, ristrutturata, rivista, modificata per cinquant'anni di seguito, come la famosa tela di Penelope, che ha succhiato fondi al ministero dei Lavori pubblici, alla regione Campania, alla Cassa del Mezzogiorno, al Cipe, non è stata del tutto inutile. A qualcosa è servita. Per esempio ad assumere, a metà degli anni novanta, 3 primari, 1 aiuto di medicina generale, 4 assistenti, 2 biologi, 3 tecnici di laboratorio, 3 animatori di comunità, 20 ausiliari specializzati, 2 assistenti sociali e un assistente per il Sert e ben 52 infermieri professionali.

Ecco spiegato il grande interesse per quell'ospedale dell'allora giovane deputato della Dc Clemente Mastella, nato nella non lontana Ceppaloni. Che venisse realizzato o no, era comunque un serbatoio di voti da intercettare e sfruttare. Giravano appalti da centinaia di milioni di lire e posti di lavoro. Solo così si comprende la solerzia con cui Mastella inviò da Roma il 23 ottobre 1985 un telegramma al sindaco di San Bartolomeo, Raffaele Sepe, informandolo e complimentandosi per il fatto che il ministero per il Mezzogiorno avesse appena firmato un decreto per 3,6 miliardi di lire a favore della struttura.

La storia del San Pio è la riproduzione plastica di quanto la politica, a tutti i livelli, consideri la sanità non un fine, ma un mezzo per accrescere il consenso, per cavalcare campagne mediatiche, per elargire favori, distribuire nomine e sistemare famiglie, in cambio naturalmente di voti elettorali. In Italia si contano 132 strutture sanitarie inutilizzate in 16 regioni. Siamo il paese degli "ospedali fantasma".

 

12 settembre

 

Siamo una grande famiglia!

 

Riforme, week end da 20mila euro per i saggi di Napolitano. Paga Palazzo Chigi

Ospiti a Francavilla al Mare (Chieti) in un hotel 4 stelle Superior. Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato a Perugia, ha scritto una mail in cui si manifestavano dubbi di opportunità. "Una qualsiasi sede istituzionale (dalla scuola della magistratura, a quella Superiore della Pa a quella di polizia) sarebbe stata più appropriata" dice

di Wanda Marra

Riforme, week end da 20mila euro per i saggi di Napolitano. Paga Palazzo Chigi
Era il 2003 quando in una austera baita di Lorenzago nel Cadore si riunirono i 4 saggi dell’allora Polo della Libertà per mettere a punto la riforma costituzionale del centrodestra poi bocciata dal referendum. Era solo la scorsa primavera quando Enrico Letta i nvitò il suo governo a “fare spogliatoio” nell’abbazia di Spineto. Un convento poco riscaldato, che i neo ministri pagarono di tasca loro. Adesso, i saggi che stanno lavorando alle riforme costituzionali per lo sprint finale cambiano stile: Francavilla al Mare (Chieti), hotel 4 stelle Superior. Tant’è vero che qualcuno si è sentito a disagio. Sabato scorso i saggi propriamente detti e tutto il gruppo che gira intorno alla Commissione hanno ricevuto una mail in cui si manifestavano dei dubbi sull’opportunità di una scelta del genere e si invitavano tutti a riflettere sul fatto che una sede istituzionale sarebbe stata più appropriata per la conclusione dei lavori di una struttura propriamente turistica. A scrivere è il più giovane, professore di Diritto pubblico comparato a Perugia, politicamente renziano, Francesco Clementi . Un appello caduto nel vuoto. E così il variegato gruppetto addetto alle riforme costituzionali (una cinquantina di persone tra i 33 saggi originari, al netto delle dimissioni di Urbinati e Carlassare, i 7 relatori, le segretarie e qualche addetto alla scorta) si appresta alla gita.

Domenica, lunedì e martedì i saggi (come scritto ieri da Repubblica ) vanno tutti al Villa Maria. Per chi è di Roma, partenza alle dieci di mattina col pullman da Palazzo Chigi. Uno sguardo al sito dell’hotel, ne spalanca le meraviglie: piscina, spiaggia privata, due ristoranti, due bar, una terrazza. Pure un salone delle feste. E soprattutto Linfa “molto più di un centro benessere, è l’essenza del benessere, un luogo dove ritrovare se stessi, dimenticando per un po’ il logorio delle giornate frenetiche e tornare finalmente padroni del proprio tempo”. Per mantenere la promessa si compone di un’area relax, un’area estetica e un’area fitness. Con tutti i comfort del caso, dall’idromassaggio alla sauna.

Il tutto a spese di Palazzo Chigi. E dunque, come mai il governo dell’emergenza nazionale sponsorizza l’albergo di lusso? Dal ministero delle Riforme , addetto all’organizzazione, fanno sapere che Palazzo Chigi ha indetto addirittura un bando di gara tra 5 strutture della zona, e questa sarebbe risultata la più idonea. Il costo complessivo? 20mila euro , 93 euro a stanza (un prezzo scontatissimo rispetto agli standard). Ma insomma, non sarebbe stato meglio una sede istituzionale? Dal ministero ci tengono a far sapere che tutte le riunioni finora sono state tenute in sedi istituzionali, che è meglio concentrare il lavoro in 3 giorni, e finire prima, invece di arrivare al 15 ottobre, come previsto. Una scelta anche più economica, assicurano. E poi ricordano che i saggi stanno lavorando gratis. E gli interessati, che dicono? Tendenzialmente, il meno possibile. L’accusa di casta fa paura. “Perché non chiedete a Valerio Onida , che è molto più autorevole di me?”, dice Beniamino Caravita di Toritto (professore di Diritto Pubblico alla Sapienza di Roma ). “…Aspetti, mi faccia soppesare le parole…”. E poi si lancia in una difesa convinta: “La formula del ritiro è corretta. E questa mi pare una scelta sobria”. Augusto Barbera , costituzionalista dell’università di Bologna chiarisce: “Io so solo che ci vediamo domenica e lunedì. Andiamo in un albergo a 4 stelle? La cosa non mi imbarazza”. Luciano Violante si limita a dire “chiedete a Palazzo Chigi”. Francesco Clementi , alla domanda se effettivamente avesse mandato una mail, ammette: “Sì è vero. Ho segnalato agli organizzatori i miei forti dubbi di opportunità; capisco le difficoltà di trovare una struttura, ma tuttavia in una situazione difficile del paese, anche i simboli hanno un senso. Una qualsiasi sede istituzionale (dalla scuola della magistratura, a quella Superiore della Pa a quella di polizia) sarebbe stata più appropriata”. In tutto questo i saggi scopriranno proprio in questo ritiro il testo della relazione finale, steso dalla Commissione Violante in base al loro lavoro. E visto lo stato di salute del governo, chissà se tutto questo sfocerà mai effettivamente in qualche riforma.

 

"Un decreto pieno di incongruenze"

Luisa Betti

Critiche di donne e giuristi alla nuova norma: arretrata rispetto alle direttive Ue. Molti i dubbi emersi nelle audizioni alla camera. Le associazioni chiedono profonde modifiche. La discussione in aula dal 20 settembre

Il decreto sul femminicidio sembra ormai un treno in corsa, un treno che potrebbe deragliare e a cui la stessa la società civile sta chiedendo di rallentare. In vista dell'approdo in aula per il 20 settembre - e con la scadenza per la presentazione degli emendamenti fissata a lunedì prossimo - le audizioni delle associazioni nelle commissioni giustizia e affari costituzionali della camera hanno chiesto ieri una maggiore riflessione e un'apertura verso un'azione più complessa e ampia. Un problema di cui Lunetta Savino, a nome di Snoq Factory, ha dato bene il senso, dicendo che «la violenza sulle donne riguarda la società intera e non solo gli uomini», e che per questo si risolve solo intervenendo in profondità «sulla formazione, la presa in carica dei violenti, sui media, la scuola, e con un forte spostamento culturale e simbolico».
Titti Carrano, presidente della rete dei centri antiviolenza DiRe, ha sottolineato come per contrastare la violenza maschile sulle donne, sia necessaria «una rete funzionante, un numero di centri antiviolenza adeguato, un'adeguata protezione». «Per quanto ci riguarda - ha detto - ci aspettavamo una legge organica con un congruo finanziamento e invece ci troviamo di fronte a un decreto che affronta il fenomeno solo su un piano penale», e che considera ancora la violenza sulle donne come una «emergenza sociale, mentre è stato detto molte volte che si tratta di un problema strutturale». Ma le magagne di questo decreto si trovano soprattutto tra le sue pieghe, perché oltre a tralasciare l'approccio culturale e strutturale, inciampa anche sul fronte giuridico-penale. Come osservato dall'Associazione nazionale magistrati nell'audizione, questo decreto rischia di «introdurre elementi che non sono coerenti» con il codice penale, un giudizio su cui sembra concordare anche l'Unione delle camere penali.
Sulla violenza assistita dai minori, per esempio, che innalza l'età dai 14 ai 18 anni, è stato rilevato da più parti come sia insufficiente l'applicazione solo ai maltrattamenti, in quanto la stessa Convenzione di Istanbul la riconosce in tutte le situazioni di violenza intrafamiliare, dando ben altre indicazioni (come il divieto di affido condiviso tra coniugi che si separano in una situazione di violenza domestica).
Incongruenze che Barbara Spinelli - avvocata dei Giuristi democratici che ha parlato a nome della Convenzione «No More» insieme a Vittoria Tola dell'Udi - ha sottolineato prendendo in considerazione l'articolo 2. «La più grossa incongruenza - dice Spinelli - è quando si introducono i vari obblighi di informazione e protezione della vittima nel processo penale per il maltrattamento, perché si tratta di obblighi già introdotti dalla direttiva europea 29 del 2012 come spettanti a tutte le vittime di reato doloso per tutto il processo penale. Una direttiva su cui, tra l'altro, il parlamento italiano ha dato mandato al governo con la legge comunitaria 2013 entrata in vigore il 20 agosto, cioè 4 giorni dopo il decreto sul femminicidio». In poche parole un inaccettabile restringimento della stessa direttiva europea. In un decreto che torma indietro anche quando definisce la violenza domestica come fenomeno «non episodico» - e non come violenza in sé - con un passaggio in chiara contraddizione con la Convenzione di Istanbul che invece ne definisce i termini in maniera più ampia e realistica, in sintonia con tutta la letteratura internazionale sul tema.
Anche Vittoria Tola, responsabile nazionale dell'Udi, ha segnalato incongruenze del decreto, facendo notare come l'articolo 5, che chiede un piano antiviolenza straordinario, sia davvero curioso in quanto «ce ne è già uno in corso in Italia che deve essere verificato a novembre». «Noi vogliamo che il parlamento si interroghi su quello che stiamo dicendo qui e imposti un dialogo con le associazioni», ha detto Tola, aggiungendo una nota anche folkloristica sulla confusione del linguaggio usato nel decreto dove si parla di violenza sessuale, stalking e violenza di genere, senza riconoscere che le prime due sono interne a quest'ultima definizione.

 

11 settembre

 

Berlusconi ricorre alla Corte di Strasburgo 

 

Genova trema: Montepaschi-bis per Carige? La bomba a orologeria dei "derivati a leva" nel mirino di Bankitalia (e procura)

Il “funding gap” di Carige si ingrossa oltremisura per una “mina-derivati” che assorbe liquidità - Si tratta di contratti “a leva” sui titoli di stato italiani per circa 7 miliardi di euro - La “controparte” del leone? Deutsche Bank! - Bankitalia: “Posizione di grande rischio…”

Gianluca Paolucci per "La Stampa "

C'è anche una mina-derivati nei conti di Carige, che «assorbe» liquidità del gruppo bancario e che ha causato un consistente «funding gap». Ovvero, la banca raccoglie meno di quanto le serve. Per capire cosa è successo nell'istituto genovese, è necessario dare qualche spiegazione.

C'è un parametro, detto «Valore a rischio» (VaR), che misura la perdita potenziale di una posizione d'investimento in un certo orizzonte temporale. È guardata con attenzione da chiunque operi sui mercati perché dovrebbe dire a quali rischi ci si espone con un dato investimento. Nel caso delle banche, anche Bankitalia monitora con attenzione il parametro per evitare che vengano assunti rischi troppo elevati.

Con la corsa dello spread e la crisi del debito italiano, il parametro in Carige viene sistematicamente sforato e lo sforamento viene prima autorizzato con delibere d'urgenza del Presidente e poi viene semplicemente deciso di eliminare la componente «sovrana», ovvero i titoli di Stato.

La ragione è in una serie di contratti derivati «a leva» (a debito, ovvero con rischi di perdite superiori all'investimento) sui Titoli di Stato italiani sottoscritti dall'istituto. Posizioni pari a circa 7 miliardi di euro, scrive Bankitalia nella sua relazione. Tanto, per una banca che ha 26 miliardi di raccolta e 30 miliardi di impieghi.

A fare la parte del leone come controparte è Deutsche Bank, istituto tedesco già coinvolto con Santorini nel caso di Mps. A fronte dell'investimento sono previsti dei collaterali a garanzia, da integrare o diminuire a seconda dell'andamento dei contratti - come nel caso Montepaschi - che per Carige a fine giugno erano pari a 1,1 miliardi. Proprio per la crescita dei collaterali, la posizione con Deutsche Bank «ha assunto la dimensione di grande rischio», scrive Bankitalia.

Ancora, una cifra di tutto rispetto: prendendo raccolta e impieghi come i parametri fondamentali per misurare la dimensione di una banca, siamo al 4% della raccolta e al 3,5% degli impieghi che vengono dati in deposito di garanzia.

Sempre sugli stessi contratti, Bankitalia registra l'immobilizzo degli investimenti gravati da riserve negative, un ulteriore mezzo miliardo a fine giugno con picchi passati di oltre un miliardo. Basterebbe, se non fosse che le posizioni, complesse e rischiose, vengono anche gestite con una certa approssimazione.

Così ad esempio gli ispettori si accorgono che per misurare il valore dei derivati non quotati - i cosiddetti «over the counter» - l'istituto usa parametri diversi da quelli di mercato, con il risultato che la valutazione che viene data dalle controparti è «sistematicamente inferiore». A giugno erano 18 milioni di differenza, per dire.

In tutto questo, si è mossa sul caso Carige anche la procura. Per ora con l'apertura di un fascicolo contro ignoti dopo la consegna dei risultati ispettivi da parte di Via Nazionale. Agli uomini di Ignazio Visco sono anche stati richiesti chiarimenti su alcune voci della relazione. Gli aspetti segnalati sono numerosi: i rischi di riciclaggio, i rapporti con una serie di clienti e anche gli aspetti patrimoniali. Lunedì prossimo si riunirà il cda della Banca per una prima valutazione sulle relazioni degli ispettori.

La riunione, non convocata ufficialmente, servirà a gettare le basi delle controdeduzioni da presentare a Bankitalia. Anche se gli spazi non sembrano molti. La lettera di Visco del 30 agosto scorso che accompagnava la relazione si chiudeva con un laconico «ove venga riscontrato il mancato adeguamento alle indicazioni sopra fornite, la Banca d'Italia fa sin d'ora riserva di adottare tutte le iniziative ritenute opportune». C'è tempo fino a fine dicembre.

 

La Svizzera rinuncia al segreto bancario con gli Usa. Con l’Italia, invece…

di Angelo Richiello

Raggiunto l'accordo che pone fine alla lunga controversia tra gli Usa e gli istituti di credito svizzeri, accusati di favorire l'evasione fiscale dei cittadini statunitensi. Tra Berna e Roma la questione è ancora lontana da una soluzione.

Alle ore 6:01 del mattino di venerdì 30 agosto, nell’edizione online del Neue Zürcher Zeitung , il quotidiano liberal-borghese di Zurigo, il corrispondente economico da Washington apre un proprio articolo con la frase Die Katze ist aus dem Sack , "il gatto è fuori dal sacco".

Nella tarda serata del giorno prima il Dipartimento di Giustizia statunitense aveva pubblicato una dichiarazione congiunta con il Dipartimento federale delle Finanze di Berna in cui annunciava la fine della lunga controversia fiscale tra Stati Uniti e banche elvetiche. Queste ultime, accusate di aiutare i cittadini americani ad evadere le tasse, potranno ora regolarizzare il proprio passato attraverso un procedimento standard.
 
[Carta di Laura Canali]

Tutto inizia nel 2007, quando le autorità americane avviano nei confronti di Ubs un’inchiesta per frode fiscale. Bradley Birkenfeld, ex-dirigente della banca svizzera, decide di informare il Dipartimento di Giustizia sulle violazioni che la banca opera nei confronti del fisco americano; con pratiche sleali e ingannevoli, Ubs aiuta facoltosi cittadini americani a evadere le tasse spostandone i proventi su conti correnti svizzeri.

La confessione di Birkenfeld porta Ubs a pagare una multa di 780 milioni di dollari pur di evitare un processo penale. Chiusa l’azione civile nei confronti di Ubs, l’attenzione si sposta su altre banche svizzere come Credit Suisse, Pictet (Hsbc Suisse), Julius Bär, Wegelin - costretta poi a chiudere i battenti dopo una multa di 56 milioni di dollari - e le banche cantonali di Basilea e Zurigo.

Nel 2011 l’amministrazione americana chiede i nomi dei consulenti degli evasori americani, nomi negati dal governo svizzero in virtù del proprio ordinamento giuridico sulla protezione dei dati personali. Dopo un primo tentativo di chiudere rapidamente la controversia, sfumato per il ricorso di un cliente al Tribunale amministrativo federale, Stati Uniti e Svizzera iniziano a lavorare su un accordo fiscale programmatico che prende il nome di Foreign account tax compliance act, definito dalla stampa svizzero-tedesca “Lex Usa”, in quanto inteso come un’imposizione americana sul diritto svizzero.

Secondo l’accordo, siglato nel dicembre 2012, con un sistema prossimo allo scambio automatico di dati, sono tassabili i conti correnti svizzeri di cittadini americani soggetti a imposta negli Stati Uniti. Pochi mesi dopo, Berna ratifica l’accordo, poi bocciato dal Consiglio nazionale (Camera) con una netta maggioranza di 126 voti contrari su 195 votanti, malgrado l'ok delle stesse banche che volevano evitare contenziosi legali con le autorità statunitensi.

Il governo elvetico guidato dalla socialista Eveline Widmer-Schlumpf, ben consapevole che l’unica via di uscita per la salvezza del sistema bancario nazionale è un accordo con l’amministrazione americana, raggira il blocco conservatore dei consiglieri di Stato concordando con il Dipartimento di Giustizia Usa la possibilità per le banche di richiedere singolarmente al Dipartimento federale delle Finanze l’autorizzazione alla trasmissione dei dati dei propri clienti. Poche settimane dopo, la decisione di un tribunale elvetico di respingere i ricorsi di alcuni clienti di Credit Suisse consente alla banca l’invio dei dati richiesti dall’amministrazione statunitense, legittimando l’accordo governativo.

Stati Uniti e Svizzera firmano il 29 agosto a Washington l’accordo che pone fine alla lunga controversia fiscale (e che entra in vigore con la sottoscrizione della dichiarazione comune). Per le banche svizzere che vogliono evitare procedimenti penali con la giustizia americana, tale accordo definisce il quadro di cooperazione con le autorità statunitensi per una trasparente trasmissione dei dati dei conti correnti di cittadini americani, pur rispettando l’ordinamento giuridico svizzero per la protezione dei dati personali.

L’accordo classifica le banche in 4 categorie ed è aperto a tutti gli istituti di credito intenzionati a disciplinare la loro posizione con la legge statunitense, a eccezione delle 14 banche già sotto inchiesta penale come Credit Suisse, Julius Bär, Zürcher Kantonalbank, Basler Kantonalbank e Pictet, poste nella “Categoria 1”.

Le banche che hanno motivi fondati per credere di avere violato il diritto fiscale statunitense, collocate nella “Categoria 2”, possono entro il 31 dicembre 2013 presentare una richiesta di non perseguibilità penale alle autorità americane, fornendo loro informazioni sulle operazioni transfrontaliere concernenti evasori che di fronte al rischio di essere scoperti spostano i fondi in banche non rientranti nell’accordo o fuori dai confini elvetici. Gli istituti della Categoria 2 devono inoltre pagare una multa, il cui importo è commisurato al volume del patrimonio statunitense non dichiarato, secondo una formula che riflette l'irritazione del governo americano quando alcune banche accettano i depositi in fuga da Ubs. Le multe corrispondono al 20% per i conti esistenti al 1° agosto 2008, al 30% per i conti aperti tra il 1° agosto 2008 e il 28 febbraio 2009 e al 50% per i conti aperti dopo il 28 febbraio 2009.

Le banche che ritengono di non avere violato il diritto fiscale statunitense (Categoria 3) e quelle che svolgono solo un’attività locale (Categoria 4) potranno tra il 1° luglio 2014 e il 31 ottobre 2014 richiedere alle autorità statunitensi un nullaosta per continuare le proprie attività.

Il programma per il recupero dei capitali sottratti al fisco statunitense con la complicità delle banche svizzere, che interessa circa 300 istituti di credito, non differisce di molto dall’accordo previsto dalla “Lex Usa” respinta a giugno dal Consiglio nazionale; prevede anch’esso sanzioni valutate tra i 7 e i 10 miliardi di dollari. Il colossale universo offshore svizzero è stimato in 2.200 miliardi di dollari, pari a circa quattro volte il prodotto interno lordo del paese.

Il nuovo accordo sancisce la definitiva abolizione del segreto bancario svizzero nei confronti dell’amministrazione americana, per la quale invece, decreta un’importante vittoria sull’evasione fiscale globale. A lasciarlo intendere è lo stesso procuratore generale Eric Holder quando afferma che l’accordo pone gli Stati Uniti nelle condizioni per riportare in patria il denaro illegalmente trasferito fuori dai confini nazionali - un evidente riferimento alla Svizzera come il più grande forziere al mondo di capitali illeciti.

Alla luce di quest’episodio, torna in primo piano il tema di un accordo tra la Svizzera e l’Italia, secondo partner commerciale svizzero dopo la Germania. Da uno studio della Banca d’Italia del luglio 2011 è possibile stimare i capitali italiani occultati in Svizzera tra i 100 e i 135 miliardi di euro, pari rispettivamente al 6,4% e 8,6% del pil italiano a fine 2008. I dati dell’ultimo scudo fiscale evidenziano una forte incidenza di capitali provenienti dalla Svizzera, pari al 68,8%, a conferma del grande ruolo svolto da questo paese nella gestione delle attività non dichiarate, se si considera che dal secondo paese, il Lussemburgo, ne proviene solo il 7,9%, mentre il restante 23,3% è suddiviso tra un folto numero di Staterelli esotici.

Il percorso si prospetta tutt’altro che semplice. La Svizzera, infatti, non riesce da anni a raggiungere con l’Italia nessun nuovo accordo fiscale; figura ancora nella lista degli Stati fiscalmente privilegiati ( black list ). Sul tavolo delle trattative, vi è da parte italiana la revisione della convenzione sulle doppie imposizioni risalente al 1976, non rispecchiante l’attuale standard Ocse sullo scambio d’informazioni, e la regolarizzazione dei patrimoni non dichiarati detenuti in Svizzera da contribuenti italiani; da parte Svizzera vi è una lunga serie di aspettative che fanno da contropartita alla richiesta italiana, come l’anonimato dei residenti italiani intestatari di conti correnti svizzeri, lo stralcio dalla black list , la rimozione dalla lista degli Stati che non prevedono lo scambio d’informazioni fiscali conformemente allo standard Ocse, l’accesso al mercato italiano per gli istituti finanziari svizzeri e la revisione dell’accordo sui lavoratori frontalieri.

Considerando che nulla e nessuno garantisce il pieno scambio d’informazioni dalla Svizzera all’Italia, trattandosi pur sempre di solo rischio legale e non di certezza penale, il recupero delle imposte sui redditi dei capitali depositati nelle banche elvetiche potrebbe rivelarsi considerevolmente inferiore alle attese, come accade nel 2004 con l’accordo sulla fiscalità del risparmio tra Svizzera e Unione europea; pertanto, le richieste svizzere appaiono sproporzionate.

I pochi benefici per l’Italia sono rappresentati dall’incasso delle imposte e dal riconoscimento dell’evasione fiscale come reato penale. Il primo beneficio, la liberatoria delle pendenze passate, è valutato attendibilmente dal ministero dell’Economia e delle Finanze tra 10 e 25 miliardi di euro - l'ampiezza della stima evidenzia tutta l’incertezza sull’efficacia dell’accordo - e circa 5-10 miliardi di gettito annuale sui capitali futuri.

Il secondo beneficio, il riconoscimento dell'evasione fiscale come reato penale, attiva le procedure di collaborazione internazionale tra le autorità, quantunque il Consiglio federale parli di evasione come reato penale solo per i residenti in Svizzera; ciò nondimeno, a rigor di diritto, nel momento in cui Berna riconosce il reato penale per i suoi cittadini deve riconoscerlo anche per i cittadini degli altri paesi in cui l’evasione fiscale è già reato penale.

I rischi e gli svantaggi per l’Italia appaiono invece tanti. Il primo riguarda l’imposta liberatoria retroattiva che, come previsto dal cosiddetto "modelo Rubik" inizialmente proposto al governo Monti, consente agli evasori di mantenere intatto l'anomimato affrancandosi da eventuali accertamenti fiscali futuri in Italia. L'accertamento dell'identità degli evasori è stato un elemento irrinunciabile nelle richieste statunitensi. Il secondo svantaggio è il valore stesso dell'imposta liberatoria, che per la stampa sarebbe attorno al 25%; una percentuale che le stesse banche svizzere riconoscono eccessiva, poiché i precedenti scudi fiscali non superano la soglia del 7%.

Esiste tuttavia un’altra via alla soluzione del contenzioso italo-svizzero ; essa consentirebbe all’Italia di concludere un accordo originale rispetto agli altri Stati Ue, che riguarda elementi economici di primaria importanza. I capitali collocati in Svizzera, di cui l’economia italiana ha estremo bisogno - molto più dell’imposta liberatoria o dell’anticipo in acconto - reimmessi nel sistema produttivo italiano consentirebbero alle imprese italiane di sollevarsi dal “nanismo” di cui oggi sono patologicamente affette.

Si potrebbero costituire giusti veicoli di diritto svizzero armonizzati alle direttive europee, in cui vengano obbligatoriamente convogliati, in tutto o in parte, i capitali liberati, con lo scopo regolamentato di agevolare le quotazioni d’imprese italiane o di investire in fondi italiani per le infrastrutture, direttamente o insieme con altri attori istituzionali, come il Fondo strategico italiano. Questo sarebbe un modo per rendere l’accordo eticamente ed economicamente accettabile.

 

5 settembre

C’eravamo tanto Amato! Altra tegola sul "sistema Siena": Mussari e Ceccuzzi verso il processo per il crac del pastificio napoletano

Il pm di Salerno vuole chiedere il rinvio a giudizio per l'ex presidente Mps e l'ex sindaco piddino, insieme al mastelliano Paolo Del Mese - Su pressione di Mussari e Ceccuzzi, la Banca regalò 19 milioni agli Amato, pur sapendo che l'azienda stava per fallire…

Andrea Greco e Francesco Viviano per " La Repubblica "

Si avvicina il processo per Giuseppe Mussari, Franco Ceccuzzi, Paolo Del Mese, indagati con altri 11 a Salerno dopo il fallimento del pastificio Amato. Il pm Vincenzo Senatore tramite il nucleo di polizia tributaria della Gdf campana ha notificato la conclusione delle indagini preliminari, e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per 14 persone con l'ipotesi di bancarotta fraudolenta in concorso. Per il crac Amato a metà 2012 s'era già chiusa un'indagine su 37 persone, 28 delle quali rinviate a giudizio.
Sei mesi fa, poi, uno sviluppo di indagini si aggiunse ai problemi con epicentro Mps, e travolse le ambizioni dell'allora sindaco di Siena Ceccuzzi a poche ore dalle elezioni ammini-strative. Sotto accusa era finito il finanziamento alla Amato Re, immobiliare costituita nel 2008 come costola del pastificio per effettuare una speculazione edilizia con cui «gli indagati dissipavano il patrimonio alienando lo storico stabilimento del pastificio Amato, anche al fine di porlo al riparo dai creditori nell'ambito di procedure fallimentari». Il gruppo fallì il 20 luglio 2011. I soldi per la tresca immobiliare li mise in gran parte Mps (19 milioni) mentre vari istituti si ritiravano.
Per i magistrati contò l'intercessione di Del Mese, politico Udeur allora presidente della Commissione finanze, che sfruttando «il suo inserimento occulto nel tessuto economico locale» portò gli Amato a Siena, e organizzò nel 2006 una cena nella loro villa sulla Costiera, presenti il presidente di Mps, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca e l'allora deputato Pd Ceccuzzi. Negli atti si legge che Mussari, Del Mese e Ceccuzzi «fornivano un decisivo contributo causativo a commettere i suddetti reati», pur agendo «nella piena consapevolezza dello stato di illiquidità in cui versava la Amato spa nel 2006».
E la banca senese, benché conoscesse i problemi del pastificio e «l'assenza di effettive risorse in capo alla non ancor costituita Amato Re», il 2 marzo 2007 erogò lo stesso il prestito contribuendo alla "dissipazione" del patrimonio del gruppo, e ottenendo in cambio un'ipoteca sull'immobile, un pegno sul 100% di Amato Re e varie fideiussioni personali degli Amato. Si nota, nell'elenco degli indagati, l'assenza di Marco Morelli, ex vice dg del Monte e da un anno a capo di Merrill Lynch Italia. Morelli era stato indagato a Salerno in febbraio, e interrogato per il ruolo tecnico avuto nel finanziare il progetto; verosimilmente va verso l'archiviazione.
Morelli - come Mussari e l'intero vecchio management senese - resta però indagato a Siena: la sua accusa, in concorso con l'ex dg Antonio Vigni, è di ostacolo alla vigilanza, perché - hanno scritto gli inquirenti nella chiusura inchiesta di fine luglio - «ometteva di comunicare a Banca d'Italia di avere rilasciato in data 10 marzo 2009 una indemnity side letter a Bank of New York». Tramite i suoi legali e come prevede la procedura prima che il gip decida se accogliere le richieste dei pm - Morelli avrebbe chiesto un nuovo interrogatorio a Siena; sarà sentito verso metà settembre.

 

Taglio tribunali, a Rossano sindaco chiude strada per evitare trasloco

"Lo Stato non abbandoni il nostro territorio alla mafia. Chiudere il tribunale di Rossano significherebbe lasciarci in mano alla criminalità". E' l'appello dei cittadini dei 20 comuni calabresi per i quali gli uffici giudiziari in provincia di Cosenza rappresentano uno dei pochi presidi della legalità. Proteste anche in Friuli e Puglia

di Redazione Il Fatto Quotidiano Rossano

"Lo Stato non abbandoni il nostro territorio alla mafia. Chiudere il tribunale di Rossano significherebbe lasciarci in mano alla criminalità". Sono parole forti quelle urlate dai cittadini dei 20 comuni calabresi per i quali il Tribunale di Rossano (Cosenza) rappresenta uno dei pochi presidi della legalità. Ben 1.500 chilometri quadrati di territorio, superiore anche a quello di alcune province italiane, per una popolazione che supera i 130.000 abitanti, questo il territorio di competenza del tribunale calabrese che conta al momento oltre 20mila processi pendenti . Le proteste - ben documentate su Facebook sul gruppo Io Non Chiudo - vanno avanti ormai da un anno, cioè dall'approvazione del decreto che ha predisposto i taglio di 30 tribunali, 30 procure e 220 sezioni distaccate. Proteste diventate esasperate ora che il provvedimento si sta concretizzando con il tentativo di smantellamento del presidio.
Tentativo per il momento fallito grazie a un ordinanza del sindaco di Rossano, Giuseppe Antoniotti , che ha chiuso al traffico la zona intorno al tribunale fino al 6 settembre per una festa patronale che di fatto impedisce il passaggio ai camion che dovranno traslocare i materiali dal tribunale di Rossano a quello di Castrovillari. Non solo. Il tribunale è occupato da associazioni, avvocati e cittadini che notte e giorno presidiano la struttura brandendo striscioni e manifesti contro la chiusura. Va avanti invece da 4 giorni lo sciopero della fame dell'ingegnere Flavio Stasi, del movimento Terra e Popolo, e dell'avvocato Mauro Mitidieri che, contro il parere dei medici, hanno deciso di continuare a protestare contro "l'ennesimo scippo per questo territorio". "Noi non ci fermiamo e difenderemo con la forza e con i denti questo presidio che per noi rappresenta l'ultima avanguardia di uno Stato sempre più distante dai cittadini ed in particolare del Sud", dice il sindaco Antoniotti.
Il presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti, che ieri ha fatto visita ai protestanti, dichiara di essere "fiducioso" che il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri , riconsideri la situazione calabrese. "C'è un interesse particolare per un territorio - aggiunge Scopelliti - dove la presenza della giustizia e delle sue strutture ha un senso e un significato maggiore rispetto ad altre parti del paese". Non è infatti un mistero che la zona, soprattutto nella fascia jonica-cosentina, sia costantemente assediata dalla criminalità. A questo si aggiunge anche la carenza di infrastrutture sicure ed efficienti, in primis quelle dei trasporti, che ostacolerebbero lo svolgimento delle operazioni necessarie alla giustizia.
Ma il tribunale calabrese non è l'unico a chiedere la salvezza. Proteste anche in Puglia contro la chiusura della sezione distaccata di Bitonto del tribunale di Bari, A Tolomezzo, in provincia di Udine, sono in assemblea permanente. Anche a Ostia (Roma) i cittadini non si arrendono alla chiusura del presidio. E così per la gran parte dei tribunali interessati dal decreto.
Per alcuni la speranza di sopravvivere c'è ancora. Dal ministro Cancellieri è atteso, infatti, un decreto correttivo, in cui i tribunali situati nelle aree a maggior rischio criminalità verranno salvati. Per gli altri non ci sarà nulla da fare: alla mezzanotte del prossimo 13 settembre verranno cancellati formalmente dalla mappa geografica giudiziaria.

 

La restaurazione proprietaria

Paolo Berdini

I principi di equità e di solidarietà sociale sono alla base della nostra Costituzione. Lo stesso governo «dei professori» li aveva citati tra i suoi obiettivi: non ci credeva affatto - si è visto dai provvedimenti approvati - ma almeno formalmente si poneva all'interno di quella cultura. Con la cancellazione dell'Imu per tutti i proprietari di prime case, il governo Letta rompe l'ultimo tabù: si governa per rafforzare e perpetuare disuguaglianze e privilegi.
Con la riforma dell'Imu i proprietari di un solo alloggio di 80 metri quadrati di categoria catastale usuale, risparmieranno 4-500 euro all'anno. Quelli di 4 o 500 metri quadrati di maggior pregio ne risparmieranno 10-15 mila. Ma non basta! I grandi costruttori non pagheranno l'Imu 2013 e 2014 per il gigantesco numero di alloggi invenduti che popolano le desolate periferie urbane. Un regalo misurabile in decine di milioni di euro. Soldi con cui si possono acquistare o potenziare giornali (Caltagirone e Bonifaci - Messaggero e Tempo - ne sono il più noto esempio) utili a cantare le lodi al governo di turno. O ad aiutare nelle strepitose rimonte berlusconiane in campagna elettorale. Sociologi ed economisti di ogni corrente di pensiero concordano nell'affermare che il ventennio che abbiamo alle spalle è quello in cui si sono prodotte le più impressionanti differenze sociali a tutto vantaggio dei ceti benestanti. Il governo Letta ha aumentato la forbice.
Ma oltre ai numeri contano ancora di più i fatti simbolici e strutturali. L'Italia, come paventava La voce.info, è diventata l'unico paese sviluppato a non tassare la proprietà edilizia. Sono soggette a Imu soltanto le abitazioni di lusso: in tutto 73 mila immobili su 20 milioni di alloggi. Tutti gli altri sono stati equiparati e azzerati alla faccia della Costituzione. Tanto è vero che nascerà la «service tax», un'imposta legata all'erogazione dei servizi urbani che verrà pagata in gran parte dagli inquilini invece dei proprietari com'era con l'Imu.
In buona sostanza con la novità introdotta i proprietari di una sola abitazione perderanno immediatamente i benefici della cancellazione dell'Imu, mentre gli inquilini vedranno crescere notevolmente il prelievo fiscale. Un altro regalo alla rendita immobiliare. Un altro colpo micidiale all'equità.
Non stupisce dunque la felicità del centro destra.
Ha cancellato il principio fondante della progressività della tassazione, chiudendo con un suggello impensabile il ventennio della restaurazione proprietaria. Stupisce invece la serafica indifferenza del primo ministro Letta che sembra non aver colto la rilevanza di questo micidiale colpo. Eppure dovrebbe essere culturalmente erede di quel Fiorentino Sullo che aveva compreso cinquant'anni fa - pagando un prezzo personale pesantissimo - che il nodo scorsoio che strangola l'Italia è il dominio della rendita speculativa. Evidentemente i cattolici «democratici» alla Letta non appartengono a questo importante filone di pensiero. Ma stupisce di più la sconcertante sudditanza dell'intero Pd che ha messo sullo stesso piatto della bilancia 500 milioni per la cassa integrazione, che dovevano essere comunque trovati se non si volevano acuire le tensioni sociali del prossimo autunno caratterizzato dalla crescente disoccupazione, con la cancellazione di uno dei pilastri che reggeva lo stato.
Il trionfo di Berlusconi sta qui, nell'aver lasciato senza rappresentanza i due terzi della popolazione italiana. Una ristretta élite sociale governa per interposta persona e continua a colpire ciecamente le classi più sfavorite. Può contare su una maggioranza dei due terzi del parlamento cui impone ogni tipo di provvedimento legislativo: articoli come quelli approvati ieri l'altro sono scritti da chi conosce alla perfezione i meccanismi, come ad esempio l'ufficio studi dei costruttori.
Ridare voce e rappresentanza a questa Italia senza più fiducia è il compito sempre più urgente che ha la sinistra in cui crediamo. La proposta di Micro Mega ripresa da Pierfranco Pellizzetti mercoledì su queste pagine di lavorare per un governo di «legalità repubblicana» formato da personalità impermeabili alle pressioni delle lobby, è l'unica strada per ridare speranza al paese.
Siamo la nazione che cresce di meno perché siamo in perenne ostaggio di una rendita parassitaria che non ci permette di diventare un paese realmente libero e moderno. Non ci si può meravigliare se mancano investimenti stranieri. O se molti imprenditori non investano nei comparti produttivi: meglio giocare all'eterna tombola della speculazione immobiliare improduttiva e intascare plusvalenze gigantesche. Il trucco funziona sempre, anche grazie al governo Letta.

 

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