L'azienda di Mountain View tramite il suo "think/do
tank" utilizza il Web per combattere le minacce globali. La sua agenda ha una
strana somiglianza con quella della Casa Bianca.
Ormai da tempo, Google ha smesso di essere un
semplice browser per diventare un attore politico in piena regola. Ne è un
esempio il recente cambio di intestazione (da “Territori Palestinesi” a
“Palestina”) nella versione palestinese del motore di ricerca, che è stato
equiparato a un “riconoscimento” della Palestina come Stato.
C’è però un vero e proprio braccio armato di Google che combatte in prima linea
le sue battaglie politiche, ed è il think-tank Google Ideas.
È un’entità bizzarra, Google Ideas. Nata nel 2010 per volontà del ceo
(l'amministratore delegato) Eric Schmidt, la stessa qualifica di think-tank le
sta stretta: la definizione ufficiale è “think/do-tank”, come dire che pensare
va bene, ma a un certo punto bisogna pure agire.
Il suo direttore è Jared Cohen, golden boy della geopolitica, già nello staff
del Dipartimento di Stato americano sia con la Rice sia con la Clinton. Il fine
dichiarato di Google Ideas è utilizzare la tecnologia e il Web per combattere le
minacce globali. Queste vengono in genere identificate con attori non statali
violenti: terroristi, mafie, cyber-criminali.
L’idea di fondo è che i delinquenti del Terzo Millennio sono sempre più abili
nello sfruttare la tecnologia a loro vantaggio ed è perciò imperativo
sconfiggerli sul loro stesso terreno.
L’ultima iniziativa, lanciata poche settimane fa, si propone di combattere il
traffico di esseri umani. Si calcola che circa 21 milioni di persone vivano in
schiavitù (molte impiegate nel mercato del sesso) e che i proventi del lavoro
schiavile siano superiori ai 32 miliardi di dollari annuali. Questa piaga
affligge soprattutto Asia e America Latina, ma non c’è angolo del mondo che ne
sia esente. Il panorama delle ong e delle hotline (numeri verdi di assistenza)
che si occupano di contrastare il fenomeno è vastissimo; allo stesso tempo molte
organizzazioni sono troppo legate alle singole realtà territoriali per
affrontare efficacemente una sfida che si fa sempre più globale.
L’obiettivo di Google Ideas è costruire una rete internazionale di ong che,
condividendo informazioni e dati, creino una mappa mondiale del traffico di
persone (quali sono le zone più a rischio, quali sono i metodi utilizzati dai
criminali) per poi adottare strategie d’azione condivise. A tal fine, Cohen ha
messo insieme una squadra che comprende tre ong regionali (l’americana Polaris,
l’europea La Strada International e Liberty Asia) e due aziende hi-tech
specializzate rispettivamente nell’analisi dei dati e nella localizzazione delle
telefonate che arrivano alle hotline. Per finanziare l’impresa, ha già staccato
un assegno da 14 milioni di dollari.
Resta il dubbio sul perché un motore di ricerca abbia deciso di prendere
sistematicamente di petto la criminalità internazionale.
L’anno scorso i nemici designati erano le “reti criminali”, incarnate
principalmente dai narcotrafficanti messicani. Nella conferenza di presentazione
dell’iniziativa - un sistema informatico anti-omertà che permetteva di
denunciare i crimini anonimamente - Schmidt raccontò del suo viaggio a Ciudad
Juárez, città simbolo della guerra della droga messicana e chiosò : “ci sono un
sacco di persone che vanno arrestate, o uccise”. Un linguaggio da falco, più
adatto a un marine che a un manager.
La sensazione di trovarsi di fronte a un’agenzia governativa (o a una compagnia
militare privata) è difficile da allontanare, non solo per i commenti di Schmidt
e i legami fra Cohen e il Dipartimento di Stato. È proprio l’agenda di Google
Ideas a rimandare a quella della Casa Bianca.
C’è infatti un non detto dietro le campagne che Google Ideas ha lanciato contro
“reti criminali”, “attori non statali violenti” e “minacce globali diffuse”: che
dietro questo tipo di misfatti spesso si celino degli Stati, quasi tutti
avversari degli Usa.
L’etichetta “reti criminali”, ad esempio, non è stata applicata solo ai cartelli
messicani. Al lancio dell’iniziativa dello scorso anno parteciparono anche
alcuni dissidenti nordcoreani; si deduce che per Google anche la Corea del Nord
facesse parte del club delle “reti criminali”. La dittatura asiatica è stata poi
meta di un enigmatico viaggio di Cohen e Schmidt al seguito dell'ex governatore
del New Mexico Bill Richardson, lo scorso gennaio. Al ritorno, il numero uno di
Google ha dichiarato di essere andato in missione per spiegare ai nordcoreani i
benefici (anche economici) di un libero accesso a Internet. A mo' di ironica
sottolineatura, poche settimane dopo il viaggio, Google Maps ha mostrato per la
prima volta le immagini satellitari dei gulag dove il regime di Kim Jong-Un
rinchiude gli oppositori.
Ma fra gli obiettivi di Google non ci sono solo Stati-paria con ambizioni
nucleari: vengono prese di mira anche le superpotenze - beninteso, rivali di
Washington. Basti pensare che, pochi giorni fa, mentre Google Ideas dichiarava
guerra alla tratta di esseri umani, il Dipartimento di Stato discuteva se
sanzionare Russia e Cina a causa del loro scarso impegno contro il traffico di
persone. Pechino è stata addirittura accusata di “incoraggiare il traffico”di
esseri umani.
Washington e Mountain View si muovono quindi su un binario parallelo.
Non sorprende che gli analisti di Stratfor, in una delle mail diffuse dagli
hacker di Anonymous nel 2012, avessero scritto che Cohen era manovrato
direttamente dalla Casa Bianca. Nella stessa mail, fra l’altro, si diceva che
Google “fa quello che neanche la Cia riesce più a fare”.
Ilva, il punto di non
ritorno
DA SBILANCIAMOCI.INFO
I due ordini di sequestro emanati in pochi
giorni da parte della Procura di Milano e di Taranto rendono necessario
l’intervento della mano pubblica. Obiettivo: nazionalizzare l’intero gruppo Riva
Fire e affidarne la gestione ad un management responsabile
Le notizie degli ultimi giorni riaprono anche drammaticamente l’interesse
dell’opinione pubblica per un caso che sembrava per il momento messo in sordina.
È ancora una volta la magistratura da sola che cerca di portare avanti un
dossier per molti aspetti cruciale per il paese.
Dopo che la procura di Milano ha ordinato nei giorni scorsi il sequestro di un
miliardo e 200 milioni al gruppo Riva per frode fiscale e truffa allo stato, ora
la gip Patrizia Todisco, accogliendo una richiesta della procura di Taranto, ha
emesso un secondo ordine di sequestro, questa volta per ben 8 miliardi e 100
milioni. Il magistrato ha cioè deciso di bloccare la somma corrispondente a
quello che appare come l’illecito profitto ottenuto dai Riva nel tempo con il
mancato rispetto delle leggi per la tutela dell’ambiente, della popolazione,
nonché della salute dei lavoratori. Il magistrato si riserva anche di
intervenire in futuro per quanto riguarda i danni inflitti all’ambiente.
Ricordiamo peraltro che il valore di mercato dell’intero gruppo Riva Fire non
raggiunge probabilmente la cifra sopra indicata. Per valutare meglio la
situazione attuale e le prospettive dello stabilimento di Taranto e dell’intero
gruppo Riva Fire ricordiamo alcuni dei punti salienti della questione.
L’azienda, la magistratura, il governo
Il gruppo Riva Fire è controllato interamente dalla famiglia Riva attraverso una
complessa rete di società collocate in diversi paradisi fiscali; secondo i
magistrati inquirenti, e secondo anche delle segnalazioni della Guardia di
Finanza, queste società sarebbero servite anche per riciclare clandestinamente
una parte delle risorse finanziarie del gruppo.
A leggere in particolare le cronache giudiziarie, il gruppo ha continuato ad
inquinare per molti anni il territorio di Taranto e dintorni nella più assoluta
impunità, assicurata anche a lungo dalla complicità sostanziale delle autorità
centrali e locali e di una parte del sindacato.
Sembrerebbe che siamo arrivati ormai ad un punto in cui si impone
obbligatoriamente una drastica opera di risanamento tecnico e finanziario, che
temiamo che potrebbe però essere vanificata ancora una volta da un intervento
maldestro della politica, cosa che non può peraltro mai essere esclusa nel
nostro paese.
Ricordiamo soltanto, a questo proposito, il fortunatamente breve soggiorno del
signor Clini alla testa del ministero dell’ambiente durante il governo Monti,
soggiorno caratterizzato principalmente dal fatto che egli dettava di frequente
delle roventi dichiarazioni alla stampa contro l’operato della magistratura.
Ambiente, occupazione, qualità delle produzioni
La proprietà dell’Ilva, aiutata nell’ombra dagli altri attori sopra citati, ha
cercato nei mesi scorsi, con un certo successo, di accreditare l’idea che ci
sarebbe un contrasto tra l’opera di bonifica ambientale del sito di Taranto e
l’occupazione nello stesso stabilimento.
In realtà la situazione di molti grandi gruppi internazionali e l’analisi delle
tecnologie di disinquinamento disponibili nel mondo indica che ambiente e lavoro
possono tranquillamente coesistere.
Per altro verso, nei mesi scorsi, sotto l’incalzare degli interventi della
magistratura, è bastato che la proprietà riducesse drasticamente l’ammontare
fisico dei magazzini materie prime e che sia stata più attenta di prima nel
manipolare gli stessi materiali nei giorni di vento, perché l’emissione di
particelle inquinanti si riducesse per qualche tempo,in una rilevante misura,
prima di ogni intervento strutturale con i relativi investimenti.
Un risanamento dell’impianto, del resto, contribuirebbe anche a migliorare
notevolmente la qualità delle produzioni e quindi a rendere più competitiva
l’azienda su di un mercato dove essa tende da molto tempo a perdere colpi sotto
l’incalzare della concorrenza. Lo stabilimento di Taranto deve affrontare
comunque una sostanziale ristrutturazione dal momento che gli impianti sono
molto vecchi.
La situazione competitiva del gruppo e il mercato dell’acciaio
Ma risanare non basta; si deve prevedere una politica di sviluppo più
complessiva che affronti i molteplici problemi strategici, organizzativi,
finanziari del gruppo, giunto ormai alla fine del suo percorso almeno nei suoi
attuali assetti.
In effetti il gruppo Riva tende a perdere quote di mercato; per altro verso,
esso concentra gran parte delle sue vendite nel nostro paese, dove nel 2011 si
collocava il 62,7% del fatturato, mentre il resto era frazionato in pochi altri
paesi europei. E questo in un settore sempre più internazionalizzato. Anche
sotto i colpi della crisi, i bilanci degli ultimi anni hanno mostrato un
rilevante deterioramento.
Va ricordato anche che in passato, in un mercato che peraltro cresceva
fortemente, il management e la proprietà hanno perseguito delle politiche da
“cortile di casa”, potendo contare sulla docilità delle autorità pubbliche e
puntando più sulla speculazione sulle materie prime che su strategie
concorrenziali sofisticate.
Il settore è ormai dominato nel mondo da pochi grandi gruppi che, anche per
superare una caduta della redditività e l’esistenza un rilevante livello di
capacità produttiva inutilizzata, stanno portando avanti delle strategie di
internazionalizzazione, di integrazione verticale, di riduzione dei costi, cui
la Riva Fire fatica a star dietro. Il gruppo solo nel 2005 era decimo nella
classifica mondiale dei principali produttori, mentre nel 2011 era retrocesso al
ventitreesimo. A livello di singoli paesi, oggi la Cina controlla più del 45%
della produzione mondiale di acciaio.
Il governo e la risposta dei Riva
Il governo precedente, sotto l’incalzare della magistratura e anche per
devitalizzarne l’azione, ha emesso qualche mese fa un provvedimento (Aia) volto
ufficialmente a risanare i problemi ambientali dell’impianto di Taranto. Tale
provvedimento aveva il merito di fissare delle regole per l’intervento e anche
di determinare delle scadenze, per altro verso blande, per le azioni relative.
Tra i molti difetti dell’editto ricordiamo soltanto che esso non prevedeva una
struttura di direzione lavori, con competenze tecniche specifiche, per
controllare passo passo il rispetto del programma, accontentandosi di nominare
un cosiddetto garante, un magistrato di Cassazione, senza competenze tecniche.
Inoltre le sanzioni previste in caso di mancato rispetto delle norme erano
piuttosto deboli e molto vaghe.
L’azienda, poi, ha messo a punto un cronoprogramma degli interventi che per la
verità appariva già all’inizio come largamente insufficiente e che prevedeva
interventi al ribasso – stimando nella sostanza la spesa relativa intorno ai 2
miliardi di euro –, alcuni dei quali improbabili. Un’azione seria avrebbe
richiesto circa 4 miliardi.
Sembra poi che anche tale cronoprogramma non sia stato quasi per nulla
rispettato, come ha poi segnalato lo stesso garante sulla base delle analisi
tecniche dell'Ispra. Tutto questo ancora una volta nel sostanziale disinteresse
del governo.
Va ricordato infine che in crisi non solo c'è solo l’Ilva, ma anche un altro
complesso nazionale di rilievo operante nel settore, il gruppo Lucchini, in
difficoltà da molto tempo e già commissariato.
Cosa fare
Appare evidente che a questo punto, vista la situazione, non resta che
l’intervento pubblico. Il governo dovrebbe provvedere da subito al
commissariamento del gruppo, unica azione giuridica attivabile immediatamente,
mentre si dovrebbero poi avviare le mosse per arrivare a una nazionalizzazione
dello stesso. Ci potrebbero essere nell'immediato dei problemi finanziari. Si
potrebbe comunque coinvolgere nel tempo, se fosse necessario, la Cassa Depositi
e Prestiti. Più in generale, andrebbe ripensato complessivamente il
posizionamento e l’organizzazione dell’industria siderurgica nel nostro paese,
con eventuali integrazioni tra i vari gruppi e qualche chiusura pilotata.
Ma va anche sottolineato che ormai l’Italia farà comunque difficoltà a gestire
nell'ambito solamente nazionale un’azienda di quelle dimensioni in un mercato
siderurgico come l’attuale, per cui appare opportuno cercare al più presto
un’alleanza, anche nel capitale, con qualche altro gruppo, presumibilmente
asiatico.
In questo quadro l’arrivo dei “cinesi”, che molti paventano, dovrebbe essere
invece visto come un’opportunità da cogliere senza indugi.
27
maggio
Ferrovie,
utili salgono a 380 milioni. Ma preparano 4 miliardi di nuovo debito
Il programma di emissioni
obbligazionarie, annunciato dall'ad per far fronte ai crediti verso lo Stato,
sta lievitando rispetto ai previsti 1,5 miliardi. Intanto Montezemolo torna alla
carica con le accuse di dumping verso Italo
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 21 maggio 2013
“Le
Ferrovie dello Stato sono un’azienda che nella storia d’Italia ha bruciato
un’infinità di risorse”. Lo ha ammesso lo stesso Mauro Moretti , amministratore
delegato del gruppo, annunciando che l’azienda ha chiuso il 2012 con un utile
pari a 380 milioni di euro, superando i 285 milioni registrati nel 2011. Ma al
cda di oggi si discute anche della maxi emissione di bond da 1,5 miliardi
annunciata a marzo. Le Ferrovie hanno infatti deciso di indebitarsi, come aveva
spiegato lo stesso Moretti, per far fronte agli oltre 2 miliardi di crediti
accumulati verso la pubblica amministrazione . E l’indebitamento rischia di
salire ulteriormente. Il programma di emissioni obbligazionarie, secondo Milano
Finanza , potrebbe infatti raggiungere i 4 miliardi .
Il numero uno del gruppo ha ricordato che, al suo arrivo al vertice, l’azienda
“aveva 2,1 miliardi di perdite su un fatturato di 6,7 miliardi: in sostanza era
fallita. Il ministro di allora, Tommaso Padoa-Schioppa , mi disse di non fare
terrorismo, ma io risposi che non sapevo da che parte iniziare”. Comunque, ha
proseguito Moretti, “l’Italia ha bisogno di imprese sane e grandi”, che facciano
da volano per l’industria nazionale. “Ci considerano un gigante”, ha aggiunto,
“ma il nostro fatturato da 8,2 miliardi circa si confronta con i 38 miliardi
delle ferrovie tedesche e i 33 di quelle francesi”.
Per Moretti, tuttavia, non è ancora tempo di festeggiare. Ntv , la compagnia di
Luca Cordero di Montezemolo finanziata da Intesa Sanpaolo che opera nell’alta
velocità con il convoglio Italo e ha chiuso il 2012 in rosso per 83 milioni, ha
inviato all’ Antitrust una segnalazione lamentando nuovamente attività di
dumping da parte di Ferrovie sulle tratte dell’ alta velocità . “Quanto al
cosiddetto dumping, ovvero al ribasso eccessivo dei prezzi da parte dell’ex
monopolista per stroncare sul nascere la concorrenza “, ha detto una portavoce
della società in un’intervista al Foglio , “noi pensiamo che ci sia, in forma
molto grave. Sarà comunque l’Antitrust, cui ci siamo rivolti con una specifica
segnalazione, a dire come stanno effettivamente le cose”.
Secondo Ntv quello delle Ferrovie è un “comportamento da Robin Hood alla
rovescia, che toglie a chi viaggia male (e spesso molto male) per dare a chi
viaggia meglio (anzi, molto meglio). I prezzi praticati da Trenitalia sulle
linee tradizionali sono infatti ben più alti di quelli sulle linee ad alta
velocità e di recente sono stati aumentati (mediamente del 6 per cento) i prezzi
sui vecchi treni intercity “. Non si è fatta attendere la risposta di Moretti.
”I nostri clienti già accusano noi e Ntv di avere prezzi troppo alti. Che
facciamo, li aumentiamo ancora?”, ha detto, spiegando di essere “rimasto a bocca
aperta”, perché “non si è mai visto che un nuovo entrante chieda all’incumbent
di alzare i prezzi”.
Moretti ha poi affrontato un’altra questione che ha fatto molto discutere. “Tra
oggi e domani Grandi stazioni consegnerà al ministro dei Trasporti la relazione
sullo stato della Stazione Tiburtina “, ha avvertito dopo che il ministro dei
Trasporti Maurizio Lupi nei giorni scorsi aveva definito “incredibile” il fatto
che all’interno della stazione non ci fossero ancora servizi, bar o negozi. E ha
aggiunto: “Faremo capire chi è in ritardo e chi no”.
I marines a
Sigonella con un occhio a Bengasi
di Federico Petroni
Gli Stati Uniti distaccano una
parte della forza d’intervento rapido per il Mediterraneo nella base in Sicilia.
Il motivo? Politica interna: Obama deve alleviare la pressione per i nuovi
sviluppi dello scandalo attorno all’attentato in Libia dello scorso settembre.
[Carta di Laura Canali]
Dici
marines, aggiungi Sigonella, pensi a Bengasi . Lo schieramento nella base
siciliana di una parte della forza d’intervento rapido stanziata da appena un
mese in Spagna non va letta come preparazione degli Stati Uniti a un nuovo
attacco in Libia o come ultima tappa della colonizzazione militare della Sicilia
(vedi le polemiche sul Muos di Niscemi).
Questa manovra sullo scacchiere mediterraneo non deve nemmeno essere
interpretata unicamente come tentativo di Washington di evitare che in Libia si
ripeta una crisi come quella che ha portato, l’11 settembre 2012, alla morte
dell’ambasciatore Christopher Stevens.
No, la mossa ha un sapore squisitamente di politica interna . Americana, non
nostrana. L’annuncio del trasferimento dei marines (e di qualche unità delle
forze speciali) giunge al termine di una settimana difficile per
l’amministrazione Obama.
Nei giorni scorsi infatti è riaffiorato uno scheletro che già aveva perseguitato
il presidente verso il voto di novembre: quello dell’attentato a Bengasi, per il
quale la Casa Bianca era stata accusata di aver lasciato soli i propri uomini
durante l’attacco e di non aver fornito tutto il supporto necessario. Tentando
poi di minimizzare l’accaduto a scopi elettorali.
A far tornare a galla lo scandalo è stata l’audizione al Congresso del numero
due della missione diplomatica in Libia, Gregory Hicks che, sull’orlo delle
lacrime, ha testimoniato come quell’infausta notte alle forze speciali fosse
stato esplicitamente vietato di recarsi a Bengasi a soccorrere i connazionali
sotto attacco.
Per aggiungere sale sulle ferite, la Abc ha pubblicato il litigio via e-mail tra
Cia e dipartimento di Stato sul modo in cui presentare l’attentato alla stampa.
Nella fattispecie, il dicastero allora guidato da Hillary Clinton ha insistito
per eliminare ogni riferimento ai responsabili dell’attentato, che si riteneva
appartenessero a una milizia legata ad al-Qa’ida. Mossa poi interpretata dai
repubblicani come tentativo di spazzare la polvere sotto il tappeto e non
ammettere che i qaidisti erano lungi dall’essere sconfitti, contrariamente a
quanto andava affermando il presidente in campagna elettorale.
Proprio in questi giorni, Obama era a caccia di appigli per alleviare la
pressione su di sé. L’accerchiamento era così stretto che si è dovuto riesumare
un ex del calibro di Robert Gates, fino al 2011 capo del Pentagono, autore di
un’inconsueta quanto significativa apparizione in un talk show. “Fossi stato in
carica all’epoca dell’attentato, avrei preso le stesse identiche decisioni
dell’amministrazione”, s’è speso Gates in difesa di Obama. “Visto il numero di
missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, non avrei approvato
l’invio di un aereo, di un singolo aereo, a Bengasi in quelle circostanze. E
mandare delle forze speciali sul campo [...] senza conoscere quale sia la
minaccia [...] sarebbe stato molto pericoloso”.
Schierare un contingente militare in una base dirimpettaia al calderone libico
fornisce un altro assist alla Casa Bianca. Con Roma, l’amministrazione aveva già
cercato negli ultimi mesi questo accordo. Tuttavia, lo stallo
politico-istituzionale che ha attanagliato il nostro paese per due mesi dopo le
elezioni lo ha ritardato non poco. Gli emissari statunitensi si erano scontrati
col rifiuto del governo Monti, ormai ridotto a sbrigare solo le pratiche
quotidiane, di discutere il tema prima della formazione di un nuovo esecutivo in
grado di assumersi la responsabilità di una tale decisione.
Così il Pentagono s’era accontentato di negoziare con la Spagna la dislocazione
per almeno un anno nelle sue basi di circa 500 marines, più alcune unità dei
Navy Seals, le forze speciali che hanno eliminato Bin Laden. Con l’evidente idea
di distaccare una parte di questo contingente, non appena un nuovo e
accondiscendente governo si fosse insediato a Roma.
Un’interpretazione geopolitica dello schieramento dei militari a stelle e
strisce a Sigonella è tuttavia possibile. Questa mossa costituisce un primo
importante ridimensionamento di un progetto che Washington coltivava per il
continente africano. Sin da inizio 2012, il Pentagono aveva cominciato a inviare
piccoli team di forze speciali nei vari paesi a sud del Mediterraneo, specie in
Nordafrica e nella fascia sahelo-sahariana. Con l’obiettivo di creare una rete
in grado di mettere le Forze armate regolari nelle condizioni di rispondere in
autonomia alle minacce locali. Un simile sforzo era stato tentato anche in
Libia, per la quale l’amministrazione aveva chiesto 8 milioni di dollari per
addestrare 500 truppe speciali.
L’arrivo dei marines in Sicilia dimostra che, di fronte alla progressiva
polverizzazione della Libia in una guerra civile a bassa intensità, la Casa
Bianca ritiene di dover mutare l’approccio. Quando non solo il governo ma anche
un esercito regolare evapora, l’opzione di affidarsi a piccole squadre di forze
speciali si dimostra insufficiente. Ed è richiesta una risposta militare più
convenzionale. Di stanza a Sigonella.
14
maggio
Regione, un milione di
rimborsi irregolari. La Corte dei Conti: "Restituite quei soldi"
Si tratta di denaro pubblico speso nello scorso
anno per ristoranti, alberghi, viaggi e tablet. In testa alla classifica delle
violazioni c'è il gruppo della Lega, seguto dal Pdl. Tra i primatisti, Nicole
Minetti con 12mila euro contestati
di ORIANA LISO
Poco più di un milione di euro spesi, in un anno,
tra ristoranti, alberghi, viaggi, tablet e pc: soldi non dovuti che, ora, i
consiglieri regionali dello scorso mandato dovranno restituire. L’analisi della
sezione di controllo della Corte dei Conti sulle spese del 2012 è stata
minuziosa e ha messo in fila ogni scontrino e ricevuta presentati dai singoli
consiglieri e dai gruppi di riferimento, arrivando a stabilire chi, e quanto, ha
speso soldi pubblici senza averne diritto. Guida la classifica dei rimborsi non
dovuti la Lega Nord, a cui vengono contestate spese per 597.525 euro in un solo
anno; seguono il Pdl, con 297.721 euro, l’Udc con 48.886 euro, il Pd con 46.256
euro, l’Idv con 12.365 euro, Sel con 10.308 euro e, infine, il Partito
Pensionati (che conta un solo consigliere) con 827 euro.
Il totale delle spese dei sette gruppi per la comunicazione e il funzionamento,
nello scorso anno, è stato di poco più di 3 milioni e 700mila euro (di dieci
milioni, invece, è la cifra che comprende anche altre voci): di questi, quindi,
poco meno di un quarto sono somme non dovute, secondo i magistrati, che hanno
chiuso la prima
verifica sui conti del Pirellone, visto che questo tipo di controllo è stato
introdotto da pochissimo, dopo aver dato la possibilità ad ogni partito di
giustificare le spese sotto esame (e c’è chi l’ha fatto, tanto che non tutti i
consiglieri dovranno rendere le cifre incassate).
La legge prevede, oltre alla restituzione delle somme percepite illecitamente da
ogni consigliere, anche lo stop all’erogazione dei rimborsi nell’anno in corso:
per il momento, come è stato detto dal presidente del Consiglio regionale
Raffaele Cattaneo, sarà sospesa la distribuzione dei 220.212 euro che avrebbero
coperto le spese dei gruppi per il trimestre aprile-giugno, in attesa che il
tavolo di lavoro sui costi della politica, comunque, decida come e quanto
tagliare definitivamente queste somme.
Di certo, tra le irregolarità più evidenti trovate dai magistrati, le richieste
di rimborsi sulle spese di viaggio e di ristorazione presentate da diversi
consiglieri: spese già coperte dall’indennizzo forfettario e dalla diaria e che,
quindi, i consiglieri non avrebbero dovuto mettere tra i rimborsi. Ma, tant’è:
c’è chi ha provato a duplicare il rimborso (e magari, negli anni precedenti, ci
è anche riuscito). Di fatto, quindi, i consiglieri della Lega hanno spese
contestate per oltre la metà di quelle sostenute nel 2012, il Pdl per un quarto,
il Pd per un ventesimo. Pranzi e cene in ristoranti, soprattutto in zona
Pirellone — dall’ormai famoso ristorante sushi (tra i frequentatori abituali,
l’ex consigliera Nicole Minetti, che ha una contestazione di 12mila euro) a
Giannino — pernottamenti in alberghi di tutta la Lombardia (già coperti, come
detto, dai rimborsi personali), computer portatili, gadget tecnologici, taxi,
libri e riviste senza alcuna attinenza con i motivi di studio e lavoro
dell’attività di consigliere.
Tutte queste spese — o meglio: tutte le spese di questo tipo non giustificate, o
giustificate con generiche indicazioni — sono state ritenute illegittime. Anche
su queste cifre va avanti l’indagine penale parallela, che si allarga però ai
rimborsi allegri anche degli anni precedenti. Ora bisognerà capire se davvero il
Consiglio regionale vuole rientrare in possesso del milione di rimborsi non
dovuti. Il presidente dell’aula Raffaele Cattaneo ha rimandato la decisione:
«Dobbiamo fare degli approfondimenti, non sappiamo chi deve rendere esecutivo
l’atto, né se si possa far ricorso». Per tutti, ma soprattutto per chi ha il
record delle contestazioni da ripagare, ovvero la Lega, «questa è una pagina che
riguarda il passato».
Il «Coraggio» di rivendicare
le terre agricole
Il Borghetto San Carlo, un terreno agricolo di
pregio alle porte di Roma, abbandonato anni, venerdì è stato picchettato dai
ragazzi della Cooperativa Romana Giovani Agricoltori che vorrebbe averlo in uso
per coltivarlo
Alessandro Portelli
In questi giorni a Roma «coraggio» vuol dire
Cooperativa Romana Giovani Agricoltori. Insieme con altre cooperative e
collettivi legati al rilancio dell'agricoltura multifunzionale (legata alla
qualità della vita, all'occupazione giovanile, a un uso intelligente e
sostenibile delle risorse), i ragazzi della cooperativa hanno avuto il coraggio
di picchettare il Borghetto San Carlo, un vasto terreno agricolo abbandonato
sulla via Cassia, poco oltre il raccordo anulare per rivendicarne l'apertura e
l'uso agricolo, come previsto dal piano d'assetto del parco di Veio, in cui la
zona rientra. Da qualche tempo, ci rendiamo sempre più conto che la città
moderna non è un'uniforme distesa di asfalto e cemento, ma è tempestata di orti
di tutte le dimensioni e di spazi importanti di terre inutilizzate. Nel
volantino che i giovani delle cooperative distribuiscono a chi si ferma a
parlarci, si legge: «Sono in pochi a sapere che in via Cassia 1450, a ridosso
del tuo quartiere, ci sono 22 ettari di pregiato territorio agricolo e un casale
dei primi del novecento acquisiti in proprietà dal comune di Roma nel marzo 2010
e da allora in stato di abbandono». Io passo tutti i giorni davanti a quel
cancello arrugginito e chiuso da un pesante lucchetto dove le cooperative hanno
posto i tavoli e gli striscioni del picchetto, e non mi ero mai davvero fatto
domande su quello spazio verde e vuoto al di là: era quasi come se accettassi
implicitamente il senso comune che dà per scontato l'abbandono di tante preziose
risorse. Ci sono voluti i picchetti perché ci facessi caso, io come non poche
altre persone del quartiere che si sono fermati a parlare, a chiedere
informazioni, a dare solidarietà a appoggi (questo è un quartiere difficile, che
anni fa insorse in furibondi blocchi stradali contro l'ipotesi di ospitare un
piccolo insediamento Rom. Ma certe volte basta che qualcuno si muova per far
uscire fuori anche la sua nascosta anima civile). Il Borghetto San Carlo,
continua il volantino, è un «bene comune già acquisito in proprietà pubblica
grazie a una compensazione urbanistica, un contratto prevede la completa
ristrutturazione del casale per metterlo a disposizione dei cittadini», a carico
del precedente proprietario, il costruttore Mezzaroma che, cedendolo al comune,
ha acquisiti diritti di edificazione in altre parti della città.
Naturalmente, l'amministrazione Alemanno si è "dimenticata" di far rispettare il
contratto. I lavori di ristrutturazione del casale, che avrebbe dovuto essere
riconsegnato due mesi fa, non sono neanche cominciati e adesso anche quell'edificio
di pregio cade in pezzi. La Cooperativa Coraggio, insieme con altre cooperative
e associazioni (Cobragor, me&tree, Biosfera, Amaltea) ha presentato al comune un
progetto che prevede il pieno utilizzo agricolo dei terreni, orti sociali per il
quartiere, vendita diretta dei prodotti, ristorazione a chilometro zero,
attività ricreative e culturali, un agri-asilo pubblico, e la creazione di
trenta posti di lavoro. Sono proposte in piena linea con la formazione e le
biografie degli attivisti: laureati in agronomia o in economia agraria, insieme
con giovani che hanno già un'esperienza di lavoro contadino e bracciantile.
Il presidio davanti al cancello chiuso del Borghetto San Carlo è una delle molte
espressioni di quel movimento che pensa al "ritorno" alla terra non come un
passo indietro verso il passato ma come un elemento cruciale di una diversa e
più vivibile modernità. Per ora, è pensato soprattutto come un modo per
richiamare l'attenzione. Poi, si vedrà. Nel frattempo, i partecipanti al
presidio invitano tutti a una festa con cibo e musica, domenica a partire dalle
10 davanti al Borghetto San Carlo, mezzo chilometro oltre la stele che ricorda i
14 antifascisti massacrati in quel punto dai nazisti il 4 giugno 1944.
Fornitore in crisi ferma le
consegne e Fiat stoppa la produzione
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Attività sospesa a Grugliasco, Kragujevac e
Madrid. A rischio anche altri impianti. La Selmat avrebbe chiesto un incremento
dei prezzi negato dal Lingotto. Appello disperato da Termini Imerese
La Selmat , fornitore Fiat , non consegna
componenti di plastica per auto e tre stabilimenti del gruppo torinese sono
costretti a sospendere l’attività produttiva. Si fermano le Officine Maserati di
Grugliasco, l’impianto di Kragujevac in Serbia, dove si produce la 500 L e l’
Iveco di Madrid, ma a rischio sono anche le altre fabbriche, alcune come quella
polacca di Tychy già colpite nei giorni scorsi.
La vicenda Selmat va avanti da tempo, ma si è aggravata da un paio di settimane,
da quando cioè l’azienda piemontese ha messo in cassa integrazione 80 dipendenti
dello stabilimento di Airasca, nel torinese. La Fiat, che si è anche rivolta
all’autorità giudiziaria, denuncia “gravissimi danni al gruppo e agli altri
fornitori che stanno consegnando regolarmente il materiale”, con migliaia di
lavoratori rimasti a casa venerdì 10 e lunedì 13 maggio.
A provocare lo scontro – secondo le indiscrezioni che circolano a Torino – ci
sarebbe da parte della Selmat la richiesta di un incremento del prezzo dei
componenti e di nuove forniture, mentre la Fiat lamenta il mancato rispetto
degli impegni contrattuali sia sul fronte della qualità sia su quello della
logistica. “Il contenzioso che si è aperto tra Fiat e Selmat sulla definizione
dei costi delle forniture a Fiat non deve danneggiare i lavoratori”, afferma il
segretario della Fim Cisl Torino e Canavese, Claudio Chiarle , per il quale “i
lavoratori Fiat, come quelli Selmat, non possono essere usati per ridiscutere
prezzi e costi delle forniture tra imprese.
Concorda Federico Bellono , segretario generale della Fiom torinese, che
aggiunge: “La vicenda Selmat è emblematica in quanto la crisi dell’ indotto sta
provocando situazioni paradossali con aziende che avrebbero lavoro ma non hanno
liquidità. E questo è colpa dei grandi gruppi che hanno imposto le loro regole
sulla fornitura scaricando sulle aziende piccole tutti i problemi”.
Sullo sfondo il dramma dimenticato di Termini Imerese , dove l’impianto della
Fiat ha cessato la produzione da un anno e mezzo e gli operai in cassa
integrazione sono da tempo in attesa di una risposta. In una lettera al premier
Enrico Letta e ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso,
il sindaco, Totò Burrafato, ha lanciato un appello perchè “tutte le cariche
istituzionali sappiano la situazione difficile e al limite della sopportabilità
che vive Termini Imerese”.
7
maggio
Perché
Biancofiore è inadeguata alle pari opportunità
da Il Manifesto
Micaela Biancofiore
Finalmente
si cominciano ad aprire squarci di luce per le italiane. E devo dire, fuori dai
denti, che non vedevo l'ora di lottare insieme, e sulla stessa lunghezza d'onda,
con donne come la presidente della camera, Laura Boldrini e la ministra per
l'integrazione, Cecile Kyenge, che pur subendo sulla loro pelle quello che non
auguro neanche al mio peggior nemico, resistono e continuano a rispondere in
maniera ferma ed efficace agli attacchi violenti, sessisti, discriminatori,
razzisti, che vorrebbero umiliarle schiacciandole nella morsa di chi scambia la
violenza come una forma di libertà di espressione, e la denuncia di questa
stessa violenza, come censura. Uno squarcio di sole che si allarga alle parole
della ministra alle pari opportunità, Josefa Idem (Pd), che oltre a esprimere
solidarietà alle colleghe in parlamento, in una intervista a Elisabetta Carta
per il Tg3, dichiara come tra le prime azioni che intende mettere in campo
contro il femminicidio, ci sia l'avvio di una task-force interministeriale tra
Pari Opportunità, Interni e Giustizia, e l'approfondimento del problema
attraverso un Osservatorio nazionale: dimostrando finalmente di capire che il
problema non è una legge dai tempi biblici contro il femminicidio ma azioni
politiche dirette e immediate per una situazione, quella della violenza sulle
donne in Italia, ormai strutturale al Paese. (Veramente esulto! Perché dà
ragione a ciò che scrivo qui da un bel po' di tempo e che abbiamo messo nero su
bianco nella Convenzione No More! contro il femminicidio, un intervento chiesto
a Fornero che non ha mai voluto fare).
Spiragli che, non nascondo, si sono spalancati alla notizia della rimozione
dalla delega alle pari oppotunità della sottosegretaria Michaela Biancofiore (Pdl)
ricollocata con delega alla pubblica amministrazione e semplificazione. Un
ordine arrivato dal presidente del consiglio, Enrico Letta, dopo l'intervista
che Biancofiore aveva rilasciato a "Repubblica" con dichiarazioni "discutibili"
sui gay, frasi che hanno indignato le associazioni. Il motivo scatenante
sarebbero state alcune affermazioni definite "omofobe" nell'intervista, anche se
in realtà la sottosegretaria non è mai stata favorevole a rapporti tra lo stesso
sesso, tanto che in un comizio con Berlusconi e un intervento con Klaus Davi,
aveva detto: "Chi va con i trans ha seri problemi di posizionamento sessuale";
"Gli italiani sono tendenzialmente contrari ai matrimoni gay perché noi restiamo
un popolo profondamente cattolico"; "Per un etero anche un approccio affettivo
di un gay crea imbarazzo"; "Non c'è solo l'eterosessualità, ma anche una
sessualità diversa, che oggi, purtroppo, è estremamente comune" (e questo non
l'altro ieri, quindi un pensiero risaputo anche per chi l'aveva scelta
all'inizio per la delega alle pari opportunità).
La cosa più grave però, ed è quella che mi solleva al pensiero che non sia più
con delega alle pari opportunità, è che Biancofiore, anche se ha accusato le
associazioni gay di "autoghettizzarsi" dimenticandosi di condannare "i tanti
femminicidi delle ultime ore", ha nel suo curriculum qualcosa che la fa definire
davvero molto poco adatta alle pari opportunità, ovvero la proposta di legge che
ha presentato lo scorso anno alla camera sulla modifica dell'affido condiviso:
una proposta speculare al ddl 957 presentato al senato, che avrebbero potuto
introdurre il concetto di PAS (sindrome di alienazione parentale) - nello
specifico una malattia inesistente e mai riconosciuta ufficialmente - come norma
di legge.
Nella fattispecie l'atto della camera sulle "Modifiche al codice civile, al
codice di procedura civile e alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, in materia di
affidamento condiviso dei figli" (5257) di Biancofiore, introduceva all'articolo
155- bis del codice civile che "Il giudice può escludere un genitore
dall'affidamento, con provvedimento motivato, qualora ritenga che da quel
genitore, se affidatario, possa venire pregiudizio al minore. La comprovata e
perdurante violenza, sia fisica che psicologica, nei confronti dei figli e, in
particolare, la manipolazione di essi mirata al rifiuto dell'altro genitore o al
suo allontanamento, comportano l'esclusione dall'affidamento. Le denunce per le
quali sia provata la falsità, mosse al medesimo scopo, comportano altresì
l'esclusione dall'affidamento, ove non ricorrano gli estremi per unasanzione più
grave. In ogni caso il giudice può, per gravi motivi, ordinare che la prole sia
collocata presso una terza persona o, nell'impossibilità, in una comunità di
tipo familiare".
In poche parole, in questo testo di legge deposistato dalla sottosegretaria, si
metteva pericolosamente sullo stesso piano una malattia che non esiste come la
sindrome di alienazione parentale ("manipolazione di essi mirata al rifiuto
dell'altro genitore o al suo allontanamento"), con la violenza fisica e
psicologica sui minori, che invece esiste ed è un fenomeno grave, non solo
quando avviene nei confronti dei minori ma anche quando i bambini assistono a
quella nei confronti di un membro della famiglia, soprattutto le madri, in
quanto possono creare danni anche irreversibili. Senza stare ancora a ricordare
che in Italia l'85% della violenza sulle donne è violenza domestica, e che circa
400 mila bambini assistono a violenza intrafamiliare con gravi danni fino ad
arrivare a veri blocchi della crescita (rapporto Daphne), ricordiamo invece
quello che succede con i femminicidi, quelli che Biancofiore rinfaccia alle
associazioni gay. Il 70 % delle donne uccise all'interno delle relazioni intime,
aveva già segnalato il partner alle forze dell'ordine o ai servizi sociali, e
malgrado questo sono morte. Ma il femminicidio non è solo l'atto criminoso e
comprende tutte le violenze che una donna può subire, tutte le forme di
discriminazioni culturalmente attribuibili al fatto di appartenere al genere
femminile: un fenomeno che in Italia, senza ombra di dubbio, vede la sua
situazione più grave dentro le mura domestiche - dove spesso si è in presenza di
minori - e che nella statistica "esplode" proprio quando la donna dice "basta",
denunciando e lasciando il partner, e provocando quello che molti giornali
chiamano ancora "raptus", intendendo l'atto del femmicidio. Tutto questo per
dire che è proprio quando una donna si separa dal partner violento che è
maggiormente in pericolo e che ha bisogno di essere protetta e aiutata, anche
perché, quando ci sono, i minori diventano uno dei ricatti abituali (mi lasci?
ti toglierò i figli, stai sicura!).
Ma cosa succede nei tribunali italiani? Succede ormai troppo spesso, e in modo
particolare nei tribunali dei minori, che se una donna denuncia la presenza di
un marito violento (il 95% delle violenze nei rapporti intimi in Italia sono
dell'uomo verso la donna) di cui ha paura per sé e per i figli, rischierà non
solo di non essere protetta ma anche di non essere creduta e di perdere i figli
anche in maniera definitiva. Perché di fronte a una richiesta di affido
esclusivo del genitore non violento, ci si vede ormai opporre sempre più spesso
un ricorso in cui non solo si mettono in discussione le accuse (che ovviamente
devono essere provate), ma in cui il giudice chiederà una perizia, una Ctu
(consulenza tecnica d'ufficio), in cui lo psicologo o lo psichiatra di turno può
fare - e ormai nella maggior parte dei casi fa - una diagnosi di Pas sul minore,
dicendo che il bambino non vuole vedere o rifiuta l'altro genitore non perché
eventualmente ci sono violenze o abusi da accertare (con strumenti processuali
come testimonianza, ascolti dei minori e degli adulti, ecc.), ma perché è
malato: cioè subisce una "manipolazione mirata al rifiuto dell'altro genitore o
al suo allontanamento", e quindi va rinchiuso in una casa famiglia perché va
curato oppure affidato al genitore rifiutato per guarire (non oso pensare
all'eventualità che l'altro genitore sia davvero un violento abusante: come
mettere i bambini nella tana dell'orco).
Questa non è una storiella horror che mi piace raccontare, questa è la realtà
che sta distruggendo intere generazioni, e che ascolto ogni giorno da madri
disperate che perdono i loro figli, e da figli abusati scappati da genitori
violenti o da strutture perché sedati e obbligati ad abbandonare la scuola, gli
amici, la casa, gli affetti, come se fossero in carcere. Un'ingiustizia disumana
tutta italiana. E questo in virtù di diagnosi ben pagate, avvocati che invece di
mediare istigano al contrasto aumentando la violenza quando c'è (e anche le loro
parcelle), giudici che non si rendono conto del danno che fanno e che sembrano
aver perso gli strumenti processuali affidandosi solo a psicologi e alle loro
Ctu. Figuratevi se una cosa del genere fosse messa come norma di legge.
Chi confonde queste cose, chi non sa bene cosa è la violenza e i parametri di
misura della stessa, non può avere né la capacità di analisi né la competenza di
interagire e risolvere quei problemi che hanno oggi le donne italiane, che
intanto continuano a rischiare la loro salute e la loro vita. Come detto tante
volte: non basta essere donne, bisogna conoscere e attuare precise politiche a
favore delle donne stesse.
C'è un po' di made in Italy nel crollo
I sindacati locali e il Forum internazionale per i diritti sul lavoro
richiamano in causa Benetton: contrariamente a quanto ha finora sostenuto, nello
scorso marzo l'azienda produceva ancora in quelle fabbriche. Nuovi documenti
sulle forniture recuperati tra le macerie del Rana Plaza.
Emanuele Giordana
C'è una data che incastra un pezzo di Italia nel crollo del palazzo di Dhaka
dove dieci giorni fa più di 550 persone sono morte e dove alacri fabbriche
tessili lavoravano al servizio della moda di regioni lontane. C'è una data, il
23 marzo del 2013 - un mese esatto prima del crollo del Rana Plaza - che
inchioda il Gruppo Benetton alle sue responsabilità. Una data su una nuova bolla
commerciale che, accanto ad altri nuovi documenti, si aggiunge a quella che fu
trovata giorni fa tra le macerie del palazzo imploso ma che Benetton aveva
liquidato come «one shot», acquisto spot dalla New Wave, fabbrica bangladeshi di
indumenti. Anzi, Benetton dichiarava che quella ditta, su cui si erano già
addensate nubi e dubbi, non era più tra quelle di cui si serviva. Una presa di
distanze sbugiardata due volte. Col primo documento dopo che Benetton aveva
negato di aver mai lavorato con le fabbriche coinvolte nel crollo. Una seconda
volta - dopo la prima ammissione - ora che sono emersi nuovi documenti, chissà
se gli ultimi di una brutta vicenda cui ora l'azienda trevigiana è chiamata a
rispondere: ai lavoratori del Bangladesh, che la pubblicistica più moderata
definisce «schiavi», e ai clienti degli oltre 5 mila negozi di un colosso noto
per le pubblicità con bimbi multietnici stretti felicemente negli United Colors
of Benetton, marchio diventato provocatoriamente famoso con gli scatti di
Oliviero Toscani (che ha interrotto la collaborazione nel 2000). Quei documenti
li hanno trovati gli uomini della Bangladesh Garments and Industrial Workers
Federation e del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, due sigle sindacali
(la prima del Bangladesh, la seconda che fa capo all'American Federation of
Labor-Congress of Industrial Organizations) che ancora stanno scandagliando le
macerie. Una delle foto mostra chiaramente un foglio nel quale vengono
contestati alcuni capi: bottoni, strappi, sporco. In alto a sinistra il nome
dell'azienda fabbricante, la New Wave, e il nome del cliente, Benetton. A destra
la data, il 23 marzo del 2013, 7 del pomeriggio. Negli altri documenti, ci sono
bolle col nome Benetton o intestate alla società indiana Shahi Exports Pvt che
citano Benetton, una «scheda controllo misure produzione» (in italiano) con
alcune indicazioni per la manifattura di magliette riconducibile a Benetton e
altro ancora. Nell'insieme dei documenti (l'ordine di cui il manifesto ha
scritto il 30 aprile e quelli odierni), il coinvolgimento di Benetton è
evidente. E la data di uno dei documenti che riproduciamo rivela quanto negato
dalla società: se il 23 marzo, a un mese dal crollo, si contestava la fattura di
certi abiti, come può dire l'azienda trevigiana che New Wave era ormai fuori
dalla lista dei fornitori? Quelle fotografie sono state passate all'International
Labour Rights Forum, un'organizzazione con base a Washington che difende i
diritti dei lavoratori nel mondo e con meno peli sulla lingua dell'Ilo,
l'agenzia dell'Onu per il lavoro. È stato il Ilrf a passarli a sua volta a un
giornalista dell' International Business Times e a farli così arrivare anche sul
tavolo della campagna Abiti Puliti, che in Italia ha per prima sollevato il caso
Benetton e reso noto il primo documento che la coinvolgeva. Ora le immagini di
quei documenti sono a disposizione dei lettori de il manifesto e indicano
chiaramente date, ordini, tipo di confezione. Carta, come si dice, che canta e
che canta una brutta musica. Una musica cui Benetton dovrebbe rispondere con un
controcanto meno equivoco rispetto a quanto fatto sinora, prima negando, poi
parlando di uno, massimo due ordini forse addirittura da addebitare a una
sussidiaria. Un modo per stare lontani da una responsabilità che chiede due
risposte: se Benetton non debba concorrere al fondo di solidarietà che alcune
aziende hanno già sottoscritto che ripaghi almeno in parte le famiglie delle
vittime. Se non debba spiegare chiaramente se intende firmare e quando il
Bangladesh Fire and Building Safety Agreement promosso dall'International Labor
Rights Forum e da Abiti puliti in Italia. Un accordo che impegna le aziende
straniere al controllo sulla salute e la sicurezza degli stabili con verifiche
pagate di tasca propria. In Bangladesh la magistratura va avanti con le indagini
mentre le piazze si riempiono di una nuova fiumana di persone (ieri a Dhaka è
stata la volta della coalizione di 18 partiti guidata dall'opposizione del
Bangladesh Nationalist Party, oggi tocca agli islamisti del Hefajat-e-Islam
Bangladesh) tra le quali, a parte le polemiche politiche tra partiti (il Paese è
guidato dalla laica Lega Awami), il dramma del Rana Plaza è uno dei grandi temi
che le organizzazioni di massa stanno affrontando. Intanto ieri a Treviso, al
termine di un incontro col giurista Ugo Mattei in piazza Aldo Moro, gli
attivisti del collettivo Ztl Wake Up hanno dato vita a un blitz contro la
Benetton di piazza Indipendenza con lanci di vernice e uno striscione con
scritto: «Dacca, Bangladesh, United Colors of Benetton». Inequivocabile.
Confcommercio: "Consumi a marzo toccano il livello più basso dal 2000″
La flessione più marcata è ancora
quella relativa ai beni e servizi per la mobilità, la cui domanda scende
dell'8,5 per cento, ma calano anche i pasti fuori casa. La Confederazione
generale italiana del commercio stima inoltre che l'inflazione sarà stabile
intorno all'1,5 per cento nei prossimi mesi
di Redazione Il Fatto Quotidiano
I consumi delle famiglie italiane tornano ai livelli del 2000. L'indicatore di
Confcommercio ha registrato a marzo un calo del 3,4 per cento in termini
tendenziali e dello 0,1 per cento rispetto a febbraio che segna un nuovo record
negativo. La flessione più marcata è ancora quella relativa ai beni e servizi
per la mobilità , la cui domanda scende dell'8,5 per cento. Mentre l'unico
segmento relativo ai beni e servizi per le comunicazioni mostra una tendenza
espansiva nei confronti dell'analogo mese dello scorso anno (+3,1 per cento).
"Il dato segnala il permanere di una situazione fortemente critica che interessa
tutti i segmenti che compongono il comparto e che non sembra essere ancora
giunta ad un punto di svolta", avverte l'organizzazione. Riduzioni dei consumi
particolarmente significative hanno interessato anche i beni e servizi
ricreativi (-5,6 per cento), gli alimentari , le bevande e i tabacchi (-3 per
cento), gli alberghi i pasti e le consumazioni fuori casa (-2,8 per cento).
La Confederazione generale italiana del commercio stima inoltre che l'
inflazione sarà stabile intorno all'1,5 per cento nei prossimi mesi. "Sulla base
delle dinamiche registrate dalle diverse variabili che concorrono alla
formazione dei prezzi al consumo, per il mese di maggio si stima una variazione
congiunturale dell'indice dei prezzi al consumo dello 0,1 per cento", ha
spiegato l'organizzazione. "Con un tasso di crescita tendenziale pari all'1,3
per cento, in contenuto aumento rispetto all'1,2 per cento del mese precedente".