28 maggio

 

Google Ideas: alla guerra per conto degli Usa

di Gian Maria Volpicelli

L'azienda di Mountain View tramite il suo "think/do tank" utilizza il Web per combattere le minacce globali. La sua agenda ha una strana somiglianza con quella della Casa Bianca.

Ormai da tempo, Google ha smesso di essere un semplice browser per diventare un attore politico in piena regola. Ne è un esempio il recente cambio di intestazione (da “Territori Palestinesi” a “Palestina”) nella versione palestinese del motore di ricerca, che è stato equiparato a un “riconoscimento” della Palestina come Stato.

C’è però un vero e proprio braccio armato di Google che combatte in prima linea le sue battaglie politiche, ed è il think-tank Google Ideas.

È un’entità bizzarra, Google Ideas. Nata nel 2010 per volontà del ceo (l'amministratore delegato) Eric Schmidt, la stessa qualifica di think-tank le sta stretta: la definizione ufficiale è “think/do-tank”, come dire che pensare va bene, ma a un certo punto bisogna pure agire.

Il suo direttore è Jared Cohen, golden boy della geopolitica, già nello staff del Dipartimento di Stato americano sia con la Rice sia con la Clinton. Il fine dichiarato di Google Ideas è utilizzare la tecnologia e il Web per combattere le minacce globali. Queste vengono in genere identificate con attori non statali violenti: terroristi, mafie, cyber-criminali.

L’idea di fondo è che i delinquenti del Terzo Millennio sono sempre più abili nello sfruttare la tecnologia a loro vantaggio ed è perciò imperativo sconfiggerli sul loro stesso terreno.

L’ultima iniziativa, lanciata poche settimane fa, si propone di combattere il traffico di esseri umani. Si calcola che circa 21 milioni di persone vivano in schiavitù (molte impiegate nel mercato del sesso) e che i proventi del lavoro schiavile siano superiori ai 32 miliardi di dollari annuali. Questa piaga affligge soprattutto Asia e America Latina, ma non c’è angolo del mondo che ne sia esente. Il panorama delle ong e delle hotline (numeri verdi di assistenza) che si occupano di contrastare il fenomeno è vastissimo; allo stesso tempo molte organizzazioni sono troppo legate alle singole realtà territoriali per affrontare efficacemente una sfida che si fa sempre più globale.

L’obiettivo di Google Ideas è costruire una rete internazionale di ong che, condividendo informazioni e dati, creino una mappa mondiale del traffico di persone (quali sono le zone più a rischio, quali sono i metodi utilizzati dai criminali) per poi adottare strategie d’azione condivise. A tal fine, Cohen ha messo insieme una squadra che comprende tre ong regionali (l’americana Polaris, l’europea La Strada International e Liberty Asia) e due aziende hi-tech specializzate rispettivamente nell’analisi dei dati e nella localizzazione delle telefonate che arrivano alle hotline. Per finanziare l’impresa, ha già staccato un assegno da 14 milioni di dollari.

Resta il dubbio sul perché un motore di ricerca abbia deciso di prendere sistematicamente di petto la criminalità internazionale.

L’anno scorso i nemici designati erano le “reti criminali”, incarnate principalmente dai narcotrafficanti messicani. Nella conferenza di presentazione dell’iniziativa - un sistema informatico anti-omertà che permetteva di denunciare i crimini anonimamente - Schmidt raccontò del suo viaggio a Ciudad Juárez, città simbolo della guerra della droga messicana e chiosò : “ci sono un sacco di persone che vanno arrestate, o uccise”. Un linguaggio da falco, più adatto a un marine che a un manager.

La sensazione di trovarsi di fronte a un’agenzia governativa (o a una compagnia militare privata) è difficile da allontanare, non solo per i commenti di Schmidt e i legami fra Cohen e il Dipartimento di Stato. È proprio l’agenda di Google Ideas a rimandare a quella della Casa Bianca.

C’è infatti un non detto dietro le campagne che Google Ideas ha lanciato contro “reti criminali”, “attori non statali violenti” e “minacce globali diffuse”: che dietro questo tipo di misfatti spesso si celino degli Stati, quasi tutti avversari degli Usa.

L’etichetta “reti criminali”, ad esempio, non è stata applicata solo ai cartelli messicani. Al lancio dell’iniziativa dello scorso anno parteciparono anche alcuni dissidenti nordcoreani; si deduce che per Google anche la Corea del Nord facesse parte del club delle “reti criminali”. La dittatura asiatica è stata poi meta di un enigmatico viaggio di Cohen e Schmidt al seguito dell'ex governatore del New Mexico Bill Richardson, lo scorso gennaio. Al ritorno, il numero uno di Google ha dichiarato di essere andato in missione per spiegare ai nordcoreani i benefici (anche economici) di un libero accesso a Internet. A mo' di ironica sottolineatura, poche settimane dopo il viaggio, Google Maps ha mostrato per la prima volta le immagini satellitari dei gulag dove il regime di Kim Jong-Un rinchiude gli oppositori.

Ma fra gli obiettivi di Google non ci sono solo Stati-paria con ambizioni nucleari: vengono prese di mira anche le superpotenze - beninteso, rivali di Washington. Basti pensare che, pochi giorni fa, mentre Google Ideas dichiarava guerra alla tratta di esseri umani, il Dipartimento di Stato discuteva se sanzionare Russia e Cina a causa del loro scarso impegno contro il traffico di persone. Pechino è stata addirittura accusata di “incoraggiare il traffico”di esseri umani.

Washington e Mountain View si muovono quindi su un binario parallelo.

Non sorprende che gli analisti di Stratfor, in una delle mail diffuse dagli hacker di Anonymous nel 2012, avessero scritto che Cohen era manovrato direttamente dalla Casa Bianca. Nella stessa mail, fra l’altro, si diceva che Google “fa quello che neanche la Cia riesce più a fare”.

 

 

Ilva, il punto di non ritorno

DA SBILANCIAMOCI.INFO

I due ordini di sequestro emanati in pochi giorni da parte della Procura di Milano e di Taranto rendono necessario l’intervento della mano pubblica. Obiettivo: nazionalizzare l’intero gruppo Riva Fire e affidarne la gestione ad un management responsabile

Le notizie degli ultimi giorni riaprono anche drammaticamente l’interesse dell’opinione pubblica per un caso che sembrava per il momento messo in sordina. È ancora una volta la magistratura da sola che cerca di portare avanti un dossier per molti aspetti cruciale per il paese.
Dopo che la procura di Milano ha ordinato nei giorni scorsi il sequestro di un miliardo e 200 milioni al gruppo Riva per frode fiscale e truffa allo stato, ora la gip Patrizia Todisco, accogliendo una richiesta della procura di Taranto, ha emesso un secondo ordine di sequestro, questa volta per ben 8 miliardi e 100 milioni. Il magistrato ha cioè deciso di bloccare la somma corrispondente a quello che appare come l’illecito profitto ottenuto dai Riva nel tempo con il mancato rispetto delle leggi per la tutela dell’ambiente, della popolazione, nonché della salute dei lavoratori. Il magistrato si riserva anche di intervenire in futuro per quanto riguarda i danni inflitti all’ambiente.

Ricordiamo peraltro che il valore di mercato dell’intero gruppo Riva Fire non raggiunge probabilmente la cifra sopra indicata. Per valutare meglio la situazione attuale e le prospettive dello stabilimento di Taranto e dell’intero gruppo Riva Fire ricordiamo alcuni dei punti salienti della questione.

L’azienda, la magistratura, il governo

Il gruppo Riva Fire è controllato interamente dalla famiglia Riva attraverso una complessa rete di società collocate in diversi paradisi fiscali; secondo i magistrati inquirenti, e secondo anche delle segnalazioni della Guardia di Finanza, queste società sarebbero servite anche per riciclare clandestinamente una parte delle risorse finanziarie del gruppo.

A leggere in particolare le cronache giudiziarie, il gruppo ha continuato ad inquinare per molti anni il territorio di Taranto e dintorni nella più assoluta impunità, assicurata anche a lungo dalla complicità sostanziale delle autorità centrali e locali e di una parte del sindacato.

Sembrerebbe che siamo arrivati ormai ad un punto in cui si impone obbligatoriamente una drastica opera di risanamento tecnico e finanziario, che temiamo che potrebbe però essere vanificata ancora una volta da un intervento maldestro della politica, cosa che non può peraltro mai essere esclusa nel nostro paese.

Ricordiamo soltanto, a questo proposito, il fortunatamente breve soggiorno del signor Clini alla testa del ministero dell’ambiente durante il governo Monti, soggiorno caratterizzato principalmente dal fatto che egli dettava di frequente delle roventi dichiarazioni alla stampa contro l’operato della magistratura.

Ambiente, occupazione, qualità delle produzioni

La proprietà dell’Ilva, aiutata nell’ombra dagli altri attori sopra citati, ha cercato nei mesi scorsi, con un certo successo, di accreditare l’idea che ci sarebbe un contrasto tra l’opera di bonifica ambientale del sito di Taranto e l’occupazione nello stesso stabilimento.

In realtà la situazione di molti grandi gruppi internazionali e l’analisi delle tecnologie di disinquinamento disponibili nel mondo indica che ambiente e lavoro possono tranquillamente coesistere.

Per altro verso, nei mesi scorsi, sotto l’incalzare degli interventi della magistratura, è bastato che la proprietà riducesse drasticamente l’ammontare fisico dei magazzini materie prime e che sia stata più attenta di prima nel manipolare gli stessi materiali nei giorni di vento, perché l’emissione di particelle inquinanti si riducesse per qualche tempo,in una rilevante misura, prima di ogni intervento strutturale con i relativi investimenti.

Un risanamento dell’impianto, del resto, contribuirebbe anche a migliorare notevolmente la qualità delle produzioni e quindi a rendere più competitiva l’azienda su di un mercato dove essa tende da molto tempo a perdere colpi sotto l’incalzare della concorrenza. Lo stabilimento di Taranto deve affrontare comunque una sostanziale ristrutturazione dal momento che gli impianti sono molto vecchi.

La situazione competitiva del gruppo e il mercato dell’acciaio

Ma risanare non basta; si deve prevedere una politica di sviluppo più complessiva che affronti i molteplici problemi strategici, organizzativi, finanziari del gruppo, giunto ormai alla fine del suo percorso almeno nei suoi attuali assetti.

In effetti il gruppo Riva tende a perdere quote di mercato; per altro verso, esso concentra gran parte delle sue vendite nel nostro paese, dove nel 2011 si collocava il 62,7% del fatturato, mentre il resto era frazionato in pochi altri paesi europei. E questo in un settore sempre più internazionalizzato. Anche sotto i colpi della crisi, i bilanci degli ultimi anni hanno mostrato un rilevante deterioramento.

Va ricordato anche che in passato, in un mercato che peraltro cresceva fortemente, il management e la proprietà hanno perseguito delle politiche da “cortile di casa”, potendo contare sulla docilità delle autorità pubbliche e puntando più sulla speculazione sulle materie prime che su strategie concorrenziali sofisticate.

Il settore è ormai dominato nel mondo da pochi grandi gruppi che, anche per superare una caduta della redditività e l’esistenza un rilevante livello di capacità produttiva inutilizzata, stanno portando avanti delle strategie di internazionalizzazione, di integrazione verticale, di riduzione dei costi, cui la Riva Fire fatica a star dietro. Il gruppo solo nel 2005 era decimo nella classifica mondiale dei principali produttori, mentre nel 2011 era retrocesso al ventitreesimo. A livello di singoli paesi, oggi la Cina controlla più del 45% della produzione mondiale di acciaio.

Il governo e la risposta dei Riva

Il governo precedente, sotto l’incalzare della magistratura e anche per devitalizzarne l’azione, ha emesso qualche mese fa un provvedimento (Aia) volto ufficialmente a risanare i problemi ambientali dell’impianto di Taranto. Tale provvedimento aveva il merito di fissare delle regole per l’intervento e anche di determinare delle scadenze, per altro verso blande, per le azioni relative. Tra i molti difetti dell’editto ricordiamo soltanto che esso non prevedeva una struttura di direzione lavori, con competenze tecniche specifiche, per controllare passo passo il rispetto del programma, accontentandosi di nominare un cosiddetto garante, un magistrato di Cassazione, senza competenze tecniche. Inoltre le sanzioni previste in caso di mancato rispetto delle norme erano piuttosto deboli e molto vaghe.

L’azienda, poi, ha messo a punto un cronoprogramma degli interventi che per la verità appariva già all’inizio come largamente insufficiente e che prevedeva interventi al ribasso – stimando nella sostanza la spesa relativa intorno ai 2 miliardi di euro –, alcuni dei quali improbabili. Un’azione seria avrebbe richiesto circa 4 miliardi.

Sembra poi che anche tale cronoprogramma non sia stato quasi per nulla rispettato, come ha poi segnalato lo stesso garante sulla base delle analisi tecniche dell'Ispra. Tutto questo ancora una volta nel sostanziale disinteresse del governo.

Va ricordato infine che in crisi non solo c'è solo l’Ilva, ma anche un altro complesso nazionale di rilievo operante nel settore, il gruppo Lucchini, in difficoltà da molto tempo e già commissariato.

Cosa fare

Appare evidente che a questo punto, vista la situazione, non resta che l’intervento pubblico. Il governo dovrebbe provvedere da subito al commissariamento del gruppo, unica azione giuridica attivabile immediatamente, mentre si dovrebbero poi avviare le mosse per arrivare a una nazionalizzazione dello stesso. Ci potrebbero essere nell'immediato dei problemi finanziari. Si potrebbe comunque coinvolgere nel tempo, se fosse necessario, la Cassa Depositi e Prestiti. Più in generale, andrebbe ripensato complessivamente il posizionamento e l’organizzazione dell’industria siderurgica nel nostro paese, con eventuali integrazioni tra i vari gruppi e qualche chiusura pilotata.

Ma va anche sottolineato che ormai l’Italia farà comunque difficoltà a gestire nell'ambito solamente nazionale un’azienda di quelle dimensioni in un mercato siderurgico come l’attuale, per cui appare opportuno cercare al più presto un’alleanza, anche nel capitale, con qualche altro gruppo, presumibilmente asiatico.

In questo quadro l’arrivo dei “cinesi”, che molti paventano, dovrebbe essere invece visto come un’opportunità da cogliere senza indugi.

 

27 maggio

Ferrovie, utili salgono a 380 milioni. Ma preparano 4 miliardi di nuovo debito

Il programma di emissioni obbligazionarie, annunciato dall'ad per far fronte ai crediti verso lo Stato, sta lievitando rispetto ai previsti 1,5 miliardi. Intanto Montezemolo torna alla carica con le accuse di dumping verso Italo

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 21 maggio 2013

“Le Ferrovie dello Stato sono un’azienda che nella storia d’Italia ha bruciato un’infinità di risorse”. Lo ha ammesso lo stesso Mauro Moretti , amministratore delegato del gruppo, annunciando che l’azienda ha chiuso il 2012 con un utile pari a 380 milioni di euro, superando i 285 milioni registrati nel 2011. Ma al cda di oggi si discute anche della maxi emissione di bond da 1,5 miliardi annunciata a marzo. Le Ferrovie hanno infatti deciso di indebitarsi, come aveva spiegato lo stesso Moretti, per far fronte agli oltre 2 miliardi di crediti accumulati verso la pubblica amministrazione . E l’indebitamento rischia di salire ulteriormente. Il programma di emissioni obbligazionarie, secondo Milano Finanza , potrebbe infatti raggiungere i 4 miliardi .

Il numero uno del gruppo ha ricordato che, al suo arrivo al vertice, l’azienda “aveva 2,1 miliardi di perdite su un fatturato di 6,7 miliardi: in sostanza era fallita. Il ministro di allora, Tommaso Padoa-Schioppa , mi disse di non fare terrorismo, ma io risposi che non sapevo da che parte iniziare”. Comunque, ha proseguito Moretti, “l’Italia ha bisogno di imprese sane e grandi”, che facciano da volano per l’industria nazionale. “Ci considerano un gigante”, ha aggiunto, “ma il nostro fatturato da 8,2 miliardi circa si confronta con i 38 miliardi delle ferrovie tedesche e i 33 di quelle francesi”.

Per Moretti, tuttavia, non è ancora tempo di festeggiare. Ntv , la compagnia di Luca Cordero di Montezemolo finanziata da Intesa Sanpaolo che opera nell’alta velocità con il convoglio Italo e ha chiuso il 2012 in rosso per 83 milioni, ha inviato all’ Antitrust una segnalazione lamentando nuovamente attività di dumping da parte di Ferrovie sulle tratte dell’ alta velocità . “Quanto al cosiddetto dumping, ovvero al ribasso eccessivo dei prezzi da parte dell’ex monopolista per stroncare sul nascere la concorrenza “, ha detto una portavoce della società in un’intervista al Foglio , “noi pensiamo che ci sia, in forma molto grave. Sarà comunque l’Antitrust, cui ci siamo rivolti con una specifica segnalazione, a dire come stanno effettivamente le cose”.

Secondo Ntv quello delle Ferrovie è un “comportamento da Robin Hood alla rovescia, che toglie a chi viaggia male (e spesso molto male) per dare a chi viaggia meglio (anzi, molto meglio). I prezzi praticati da Trenitalia sulle linee tradizionali sono infatti ben più alti di quelli sulle linee ad alta velocità e di recente sono stati aumentati (mediamente del 6 per cento) i prezzi sui vecchi treni intercity “. Non si è fatta attendere la risposta di Moretti. ”I nostri clienti già accusano noi e Ntv di avere prezzi troppo alti. Che facciamo, li aumentiamo ancora?”, ha detto, spiegando di essere “rimasto a bocca aperta”, perché “non si è mai visto che un nuovo entrante chieda all’incumbent di alzare i prezzi”.

Moretti ha poi affrontato un’altra questione che ha fatto molto discutere. “Tra oggi e domani Grandi stazioni consegnerà al ministro dei Trasporti la relazione sullo stato della Stazione Tiburtina “, ha avvertito dopo che il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi nei giorni scorsi aveva definito “incredibile” il fatto che all’interno della stazione non ci fossero ancora servizi, bar o negozi. E ha aggiunto: “Faremo capire chi è in ritardo e chi no”.

 

I marines a Sigonella con un occhio a Bengasi

di Federico Petroni

Gli Stati Uniti distaccano una parte della forza d’intervento rapido per il Mediterraneo nella base in Sicilia. Il motivo? Politica interna: Obama deve alleviare la pressione per i nuovi sviluppi dello scandalo attorno all’attentato in Libia dello scorso settembre.

[Carta di Laura Canali]
Dici marines, aggiungi Sigonella, pensi a Bengasi . Lo schieramento nella base siciliana di una parte della forza d’intervento rapido stanziata da appena un mese in Spagna non va letta come preparazione degli Stati Uniti a un nuovo attacco in Libia o come ultima tappa della colonizzazione militare della Sicilia (vedi le polemiche sul Muos di Niscemi).

Questa manovra sullo scacchiere mediterraneo non deve nemmeno essere interpretata unicamente come tentativo di Washington di evitare che in Libia si ripeta una crisi come quella che ha portato, l’11 settembre 2012, alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens.

No, la mossa ha un sapore squisitamente di politica interna . Americana, non nostrana. L’annuncio del trasferimento dei marines (e di qualche unità delle forze speciali) giunge al termine di una settimana difficile per l’amministrazione Obama.

Nei giorni scorsi infatti è riaffiorato uno scheletro che già aveva perseguitato il presidente verso il voto di novembre: quello dell’attentato a Bengasi, per il quale la Casa Bianca era stata accusata di aver lasciato soli i propri uomini durante l’attacco e di non aver fornito tutto il supporto necessario. Tentando poi di minimizzare l’accaduto a scopi elettorali.

A far tornare a galla lo scandalo è stata l’audizione al Congresso del numero due della missione diplomatica in Libia, Gregory Hicks che, sull’orlo delle lacrime, ha testimoniato come quell’infausta notte alle forze speciali fosse stato esplicitamente vietato di recarsi a Bengasi a soccorrere i connazionali sotto attacco.

Per aggiungere sale sulle ferite, la Abc ha pubblicato il litigio via e-mail tra Cia e dipartimento di Stato sul modo in cui presentare l’attentato alla stampa. Nella fattispecie, il dicastero allora guidato da Hillary Clinton ha insistito per eliminare ogni riferimento ai responsabili dell’attentato, che si riteneva appartenessero a una milizia legata ad al-Qa’ida. Mossa poi interpretata dai repubblicani come tentativo di spazzare la polvere sotto il tappeto e non ammettere che i qaidisti erano lungi dall’essere sconfitti, contrariamente a quanto andava affermando il presidente in campagna elettorale.

Proprio in questi giorni, Obama era a caccia di appigli per alleviare la pressione su di sé. L’accerchiamento era così stretto che si è dovuto riesumare un ex del calibro di Robert Gates, fino al 2011 capo del Pentagono, autore di un’inconsueta quanto significativa apparizione in un talk show. “Fossi stato in carica all’epoca dell’attentato, avrei preso le stesse identiche decisioni dell’amministrazione”, s’è speso Gates in difesa di Obama. “Visto il numero di missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, non avrei approvato l’invio di un aereo, di un singolo aereo, a Bengasi in quelle circostanze. E mandare delle forze speciali sul campo [...] senza conoscere quale sia la minaccia [...] sarebbe stato molto pericoloso”.

Schierare un contingente militare in una base dirimpettaia al calderone libico fornisce un altro assist alla Casa Bianca. Con Roma, l’amministrazione aveva già cercato negli ultimi mesi questo accordo. Tuttavia, lo stallo politico-istituzionale che ha attanagliato il nostro paese per due mesi dopo le elezioni lo ha ritardato non poco. Gli emissari statunitensi si erano scontrati col rifiuto del governo Monti, ormai ridotto a sbrigare solo le pratiche quotidiane, di discutere il tema prima della formazione di un nuovo esecutivo in grado di assumersi la responsabilità di una tale decisione.

Così il Pentagono s’era accontentato di negoziare con la Spagna la dislocazione per almeno un anno nelle sue basi di circa 500 marines, più alcune unità dei Navy Seals, le forze speciali che hanno eliminato Bin Laden. Con l’evidente idea di distaccare una parte di questo contingente, non appena un nuovo e accondiscendente governo si fosse insediato a Roma.

Un’interpretazione geopolitica dello schieramento dei militari a stelle e strisce a Sigonella è tuttavia possibile. Questa mossa costituisce un primo importante ridimensionamento di un progetto che Washington coltivava per il continente africano. Sin da inizio 2012, il Pentagono aveva cominciato a inviare piccoli team di forze speciali nei vari paesi a sud del Mediterraneo, specie in Nordafrica e nella fascia sahelo-sahariana. Con l’obiettivo di creare una rete in grado di mettere le Forze armate regolari nelle condizioni di rispondere in autonomia alle minacce locali. Un simile sforzo era stato tentato anche in Libia, per la quale l’amministrazione aveva chiesto 8 milioni di dollari per addestrare 500 truppe speciali.

L’arrivo dei marines in Sicilia dimostra che, di fronte alla progressiva polverizzazione della Libia in una guerra civile a bassa intensità, la Casa Bianca ritiene di dover mutare l’approccio. Quando non solo il governo ma anche un esercito regolare evapora, l’opzione di affidarsi a piccole squadre di forze speciali si dimostra insufficiente. Ed è richiesta una risposta militare più convenzionale. Di stanza a Sigonella.
 

14 maggio

Regione, un milione di rimborsi irregolari. La Corte dei Conti: "Restituite quei soldi"

Si tratta di denaro pubblico speso nello scorso anno per ristoranti, alberghi, viaggi e tablet. In testa alla classifica delle violazioni c'è il gruppo della Lega, seguto dal Pdl. Tra i primatisti, Nicole Minetti con 12mila euro contestati

di ORIANA LISO

Poco più di un milione di euro spesi, in un anno, tra ristoranti, alberghi, viaggi, tablet e pc: soldi non dovuti che, ora, i consiglieri regionali dello scorso mandato dovranno restituire. L’analisi della sezione di controllo della Corte dei Conti sulle spese del 2012 è stata minuziosa e ha messo in fila ogni scontrino e ricevuta presentati dai singoli consiglieri e dai gruppi di riferimento, arrivando a stabilire chi, e quanto, ha speso soldi pubblici senza averne diritto. Guida la classifica dei rimborsi non dovuti la Lega Nord, a cui vengono contestate spese per 597.525 euro in un solo anno; seguono il Pdl, con 297.721 euro, l’Udc con 48.886 euro, il Pd con 46.256 euro, l’Idv con 12.365 euro, Sel con 10.308 euro e, infine, il Partito Pensionati (che conta un solo consigliere) con 827 euro.

Lo shopping con i soldi pubblici

Il totale delle spese dei sette gruppi per la comunicazione e il funzionamento, nello scorso anno, è stato di poco più di 3 milioni e 700mila euro (di dieci milioni, invece, è la cifra che comprende anche altre voci): di questi, quindi, poco meno di un quarto sono somme non dovute, secondo i magistrati, che hanno chiuso la prima

verifica sui conti del Pirellone, visto che questo tipo di controllo è stato introdotto da pochissimo, dopo aver dato la possibilità ad ogni partito di giustificare le spese sotto esame (e c’è chi l’ha fatto, tanto che non tutti i consiglieri dovranno rendere le cifre incassate).

La legge prevede, oltre alla restituzione delle somme percepite illecitamente da ogni consigliere, anche lo stop all’erogazione dei rimborsi nell’anno in corso: per il momento, come è stato detto dal presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo, sarà sospesa la distribuzione dei 220.212 euro che avrebbero coperto le spese dei gruppi per il trimestre aprile-giugno, in attesa che il tavolo di lavoro sui costi della politica, comunque, decida come e quanto tagliare definitivamente queste somme.

Di certo, tra le irregolarità più evidenti trovate dai magistrati, le richieste di rimborsi sulle spese di viaggio e di ristorazione presentate da diversi consiglieri: spese già coperte dall’indennizzo forfettario e dalla diaria e che, quindi, i consiglieri non avrebbero dovuto mettere tra i rimborsi. Ma, tant’è: c’è chi ha provato a duplicare il rimborso (e magari, negli anni precedenti, ci è anche riuscito). Di fatto, quindi, i consiglieri della Lega hanno spese contestate per oltre la metà di quelle sostenute nel 2012, il Pdl per un quarto, il Pd per un ventesimo. Pranzi e cene in ristoranti, soprattutto in zona Pirellone — dall’ormai famoso ristorante sushi (tra i frequentatori abituali, l’ex consigliera Nicole Minetti, che ha una contestazione di 12mila euro) a Giannino — pernottamenti in alberghi di tutta la Lombardia (già coperti, come detto, dai rimborsi personali), computer portatili, gadget tecnologici, taxi, libri e riviste senza alcuna attinenza con i motivi di studio e lavoro dell’attività di consigliere.

Tutte queste spese — o meglio: tutte le spese di questo tipo non giustificate, o giustificate con generiche indicazioni — sono state ritenute illegittime. Anche su queste cifre va avanti l’indagine penale parallela, che si allarga però ai rimborsi allegri anche degli anni precedenti. Ora bisognerà capire se davvero il Consiglio regionale vuole rientrare in possesso del milione di rimborsi non dovuti. Il presidente dell’aula Raffaele Cattaneo ha rimandato la decisione: «Dobbiamo fare degli approfondimenti, non sappiamo chi deve rendere esecutivo l’atto, né se si possa far ricorso». Per tutti, ma soprattutto per chi ha il record delle contestazioni da ripagare, ovvero la Lega, «questa è una pagina che riguarda il passato».

 

Il «Coraggio» di rivendicare le terre agricole

Il Borghetto San Carlo, un terreno agricolo di pregio alle porte di Roma, abbandonato anni, venerdì è stato picchettato dai ragazzi della Cooperativa Romana Giovani Agricoltori che vorrebbe averlo in uso per coltivarlo

Alessandro Portelli

In questi giorni a Roma «coraggio» vuol dire Cooperativa Romana Giovani Agricoltori. Insieme con altre cooperative e collettivi legati al rilancio dell'agricoltura multifunzionale (legata alla qualità della vita, all'occupazione giovanile, a un uso intelligente e sostenibile delle risorse), i ragazzi della cooperativa hanno avuto il coraggio di picchettare il Borghetto San Carlo, un vasto terreno agricolo abbandonato sulla via Cassia, poco oltre il raccordo anulare per rivendicarne l'apertura e l'uso agricolo, come previsto dal piano d'assetto del parco di Veio, in cui la zona rientra. Da qualche tempo, ci rendiamo sempre più conto che la città moderna non è un'uniforme distesa di asfalto e cemento, ma è tempestata di orti di tutte le dimensioni e di spazi importanti di terre inutilizzate. Nel volantino che i giovani delle cooperative distribuiscono a chi si ferma a parlarci, si legge: «Sono in pochi a sapere che in via Cassia 1450, a ridosso del tuo quartiere, ci sono 22 ettari di pregiato territorio agricolo e un casale dei primi del novecento acquisiti in proprietà dal comune di Roma nel marzo 2010 e da allora in stato di abbandono». Io passo tutti i giorni davanti a quel cancello arrugginito e chiuso da un pesante lucchetto dove le cooperative hanno posto i tavoli e gli striscioni del picchetto, e non mi ero mai davvero fatto domande su quello spazio verde e vuoto al di là: era quasi come se accettassi implicitamente il senso comune che dà per scontato l'abbandono di tante preziose risorse. Ci sono voluti i picchetti perché ci facessi caso, io come non poche altre persone del quartiere che si sono fermati a parlare, a chiedere informazioni, a dare solidarietà a appoggi (questo è un quartiere difficile, che anni fa insorse in furibondi blocchi stradali contro l'ipotesi di ospitare un piccolo insediamento Rom. Ma certe volte basta che qualcuno si muova per far uscire fuori anche la sua nascosta anima civile). Il Borghetto San Carlo, continua il volantino, è un «bene comune già acquisito in proprietà pubblica grazie a una compensazione urbanistica, un contratto prevede la completa ristrutturazione del casale per metterlo a disposizione dei cittadini», a carico del precedente proprietario, il costruttore Mezzaroma che, cedendolo al comune, ha acquisiti diritti di edificazione in altre parti della città.
Naturalmente, l'amministrazione Alemanno si è "dimenticata" di far rispettare il contratto. I lavori di ristrutturazione del casale, che avrebbe dovuto essere riconsegnato due mesi fa, non sono neanche cominciati e adesso anche quell'edificio di pregio cade in pezzi. La Cooperativa Coraggio, insieme con altre cooperative e associazioni (Cobragor, me&tree, Biosfera, Amaltea) ha presentato al comune un progetto che prevede il pieno utilizzo agricolo dei terreni, orti sociali per il quartiere, vendita diretta dei prodotti, ristorazione a chilometro zero, attività ricreative e culturali, un agri-asilo pubblico, e la creazione di trenta posti di lavoro. Sono proposte in piena linea con la formazione e le biografie degli attivisti: laureati in agronomia o in economia agraria, insieme con giovani che hanno già un'esperienza di lavoro contadino e bracciantile.
Il presidio davanti al cancello chiuso del Borghetto San Carlo è una delle molte espressioni di quel movimento che pensa al "ritorno" alla terra non come un passo indietro verso il passato ma come un elemento cruciale di una diversa e più vivibile modernità. Per ora, è pensato soprattutto come un modo per richiamare l'attenzione. Poi, si vedrà. Nel frattempo, i partecipanti al presidio invitano tutti a una festa con cibo e musica, domenica a partire dalle 10 davanti al Borghetto San Carlo, mezzo chilometro oltre la stele che ricorda i 14 antifascisti massacrati in quel punto dai nazisti il 4 giugno 1944.

 

Fornitore in crisi ferma le consegne e Fiat stoppa la produzione

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Attività sospesa a Grugliasco, Kragujevac e Madrid. A rischio anche altri impianti. La Selmat avrebbe chiesto un incremento dei prezzi negato dal Lingotto. Appello disperato da Termini Imerese

La Selmat , fornitore Fiat , non consegna componenti di plastica per auto e tre stabilimenti del gruppo torinese sono costretti a sospendere l’attività produttiva. Si fermano le Officine Maserati di Grugliasco, l’impianto di Kragujevac in Serbia, dove si produce la 500 L e l’ Iveco di Madrid, ma a rischio sono anche le altre fabbriche, alcune come quella polacca di Tychy già colpite nei giorni scorsi.

La vicenda Selmat va avanti da tempo, ma si è aggravata da un paio di settimane, da quando cioè l’azienda piemontese ha messo in cassa integrazione 80 dipendenti dello stabilimento di Airasca, nel torinese. La Fiat, che si è anche rivolta all’autorità giudiziaria, denuncia “gravissimi danni al gruppo e agli altri fornitori che stanno consegnando regolarmente il materiale”, con migliaia di lavoratori rimasti a casa venerdì 10 e lunedì 13 maggio.

A provocare lo scontro – secondo le indiscrezioni che circolano a Torino – ci sarebbe da parte della Selmat la richiesta di un incremento del prezzo dei componenti e di nuove forniture, mentre la Fiat lamenta il mancato rispetto degli impegni contrattuali sia sul fronte della qualità sia su quello della logistica. “Il contenzioso che si è aperto tra Fiat e Selmat sulla definizione dei costi delle forniture a Fiat non deve danneggiare i lavoratori”, afferma il segretario della Fim Cisl Torino e Canavese, Claudio Chiarle , per il quale “i lavoratori Fiat, come quelli Selmat, non possono essere usati per ridiscutere prezzi e costi delle forniture tra imprese.

Concorda Federico Bellono , segretario generale della Fiom torinese, che aggiunge: “La vicenda Selmat è emblematica in quanto la crisi dell’ indotto sta provocando situazioni paradossali con aziende che avrebbero lavoro ma non hanno liquidità. E questo è colpa dei grandi gruppi che hanno imposto le loro regole sulla fornitura scaricando sulle aziende piccole tutti i problemi”.

Sullo sfondo il dramma dimenticato di Termini Imerese , dove l’impianto della Fiat ha cessato la produzione da un anno e mezzo e gli operai in cassa integrazione sono da tempo in attesa di una risposta. In una lettera al premier Enrico Letta e ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, il sindaco, Totò Burrafato, ha lanciato un appello perchè “tutte le cariche istituzionali sappiano la situazione difficile e al limite della sopportabilità che vive Termini Imerese”.

 

7 maggio

 

 

Perché Biancofiore è inadeguata alle pari opportunità

da Il Manifesto

Micaela Biancofiore
Finalmente si cominciano ad aprire squarci di luce per le italiane. E devo dire, fuori dai denti, che non vedevo l'ora di lottare insieme, e sulla stessa lunghezza d'onda, con donne come la presidente della camera, Laura Boldrini e la ministra per l'integrazione, Cecile Kyenge, che pur subendo sulla loro pelle quello che non auguro neanche al mio peggior nemico, resistono e continuano a rispondere in maniera ferma ed efficace agli attacchi violenti, sessisti, discriminatori, razzisti, che vorrebbero umiliarle schiacciandole nella morsa di chi scambia la violenza come una forma di libertà di espressione, e la denuncia di questa stessa violenza, come censura. Uno squarcio di sole che si allarga alle parole della ministra alle pari opportunità, Josefa Idem (Pd), che oltre a esprimere solidarietà alle colleghe in parlamento, in una intervista a Elisabetta Carta per il Tg3, dichiara come tra le prime azioni che intende mettere in campo contro il femminicidio, ci sia l'avvio di una task-force interministeriale tra Pari Opportunità, Interni e Giustizia, e l'approfondimento del problema attraverso un Osservatorio nazionale: dimostrando finalmente di capire che il problema non è una legge dai tempi biblici contro il femminicidio ma azioni politiche dirette e immediate per una situazione, quella della violenza sulle donne in Italia, ormai strutturale al Paese. (Veramente esulto! Perché dà ragione a ciò che scrivo qui da un bel po' di tempo e che abbiamo messo nero su bianco nella Convenzione No More! contro il femminicidio, un intervento chiesto a Fornero che non ha mai voluto fare).

Spiragli che, non nascondo, si sono spalancati alla notizia della rimozione dalla delega alle pari oppotunità della sottosegretaria Michaela Biancofiore (Pdl) ricollocata con delega alla pubblica amministrazione e semplificazione. Un ordine arrivato dal presidente del consiglio, Enrico Letta, dopo l'intervista che Biancofiore aveva rilasciato a "Repubblica" con dichiarazioni "discutibili" sui gay, frasi che hanno indignato le associazioni. Il motivo scatenante sarebbero state alcune affermazioni definite "omofobe" nell'intervista, anche se in realtà la sottosegretaria non è mai stata favorevole a rapporti tra lo stesso sesso, tanto che in un comizio con Berlusconi e un intervento con Klaus Davi, aveva detto: "Chi va con i trans ha seri problemi di posizionamento sessuale"; "Gli italiani sono tendenzialmente contrari ai matrimoni gay perché noi restiamo un popolo profondamente cattolico"; "Per un etero anche un approccio affettivo di un gay crea imbarazzo"; "Non c'è solo l'eterosessualità, ma anche una sessualità diversa, che oggi, purtroppo, è estremamente comune" (e questo non l'altro ieri, quindi un pensiero risaputo anche per chi l'aveva scelta all'inizio per la delega alle pari opportunità).

La cosa più grave però, ed è quella che mi solleva al pensiero che non sia più con delega alle pari opportunità, è che Biancofiore, anche se ha accusato le associazioni gay di "autoghettizzarsi" dimenticandosi di condannare "i tanti femminicidi delle ultime ore", ha nel suo curriculum qualcosa che la fa definire davvero molto poco adatta alle pari opportunità, ovvero la proposta di legge che ha presentato lo scorso anno alla camera sulla modifica dell'affido condiviso: una proposta speculare al ddl 957 presentato al senato, che avrebbero potuto introdurre il concetto di PAS (sindrome di alienazione parentale) - nello specifico una malattia inesistente e mai riconosciuta ufficialmente - come norma di legge.

Nella fattispecie l'atto della camera sulle "Modifiche al codice civile, al codice di procedura civile e alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, in materia di affidamento condiviso dei figli" (5257) di Biancofiore, introduceva all'articolo 155- bis del codice civile che "Il giudice può escludere un genitore dall'affidamento, con provvedimento motivato, qualora ritenga che da quel genitore, se affidatario, possa venire pregiudizio al minore. La comprovata e perdurante violenza, sia fisica che psicologica, nei confronti dei figli e, in particolare, la manipolazione di essi mirata al rifiuto dell'altro genitore o al suo allontanamento, comportano l'esclusione dall'affidamento. Le denunce per le quali sia provata la falsità, mosse al medesimo scopo, comportano altresì l'esclusione dall'affidamento, ove non ricorrano gli estremi per unasanzione più grave. In ogni caso il giudice può, per gravi motivi, ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell'impossibilità, in una comunità di tipo familiare".

In poche parole, in questo testo di legge deposistato dalla sottosegretaria, si metteva pericolosamente sullo stesso piano una malattia che non esiste come la sindrome di alienazione parentale ("manipolazione di essi mirata al rifiuto dell'altro genitore o al suo allontanamento"), con la violenza fisica e psicologica sui minori, che invece esiste ed è un fenomeno grave, non solo quando avviene nei confronti dei minori ma anche quando i bambini assistono a quella nei confronti di un membro della famiglia, soprattutto le madri, in quanto possono creare danni anche irreversibili. Senza stare ancora a ricordare che in Italia l'85% della violenza sulle donne è violenza domestica, e che circa 400 mila bambini assistono a violenza intrafamiliare con gravi danni fino ad arrivare a veri blocchi della crescita (rapporto Daphne), ricordiamo invece quello che succede con i femminicidi, quelli che Biancofiore rinfaccia alle associazioni gay. Il 70 % delle donne uccise all'interno delle relazioni intime, aveva già segnalato il partner alle forze dell'ordine o ai servizi sociali, e malgrado questo sono morte. Ma il femminicidio non è solo l'atto criminoso e comprende tutte le violenze che una donna può subire, tutte le forme di discriminazioni culturalmente attribuibili al fatto di appartenere al genere femminile: un fenomeno che in Italia, senza ombra di dubbio, vede la sua situazione più grave dentro le mura domestiche - dove spesso si è in presenza di minori - e che nella statistica "esplode" proprio quando la donna dice "basta", denunciando e lasciando il partner, e provocando quello che molti giornali chiamano ancora "raptus", intendendo l'atto del femmicidio. Tutto questo per dire che è proprio quando una donna si separa dal partner violento che è maggiormente in pericolo e che ha bisogno di essere protetta e aiutata, anche perché, quando ci sono, i minori diventano uno dei ricatti abituali (mi lasci? ti toglierò i figli, stai sicura!).

Ma cosa succede nei tribunali italiani? Succede ormai troppo spesso, e in modo particolare nei tribunali dei minori, che se una donna denuncia la presenza di un marito violento (il 95% delle violenze nei rapporti intimi in Italia sono dell'uomo verso la donna) di cui ha paura per sé e per i figli, rischierà non solo di non essere protetta ma anche di non essere creduta e di perdere i figli anche in maniera definitiva. Perché di fronte a una richiesta di affido esclusivo del genitore non violento, ci si vede ormai opporre sempre più spesso un ricorso in cui non solo si mettono in discussione le accuse (che ovviamente devono essere provate), ma in cui il giudice chiederà una perizia, una Ctu (consulenza tecnica d'ufficio), in cui lo psicologo o lo psichiatra di turno può fare - e ormai nella maggior parte dei casi fa - una diagnosi di Pas sul minore, dicendo che il bambino non vuole vedere o rifiuta l'altro genitore non perché eventualmente ci sono violenze o abusi da accertare (con strumenti processuali come testimonianza, ascolti dei minori e degli adulti, ecc.), ma perché è malato: cioè subisce una "manipolazione mirata al rifiuto dell'altro genitore o al suo allontanamento", e quindi va rinchiuso in una casa famiglia perché va curato oppure affidato al genitore rifiutato per guarire (non oso pensare all'eventualità che l'altro genitore sia davvero un violento abusante: come mettere i bambini nella tana dell'orco).

Questa non è una storiella horror che mi piace raccontare, questa è la realtà che sta distruggendo intere generazioni, e che ascolto ogni giorno da madri disperate che perdono i loro figli, e da figli abusati scappati da genitori violenti o da strutture perché sedati e obbligati ad abbandonare la scuola, gli amici, la casa, gli affetti, come se fossero in carcere. Un'ingiustizia disumana tutta italiana. E questo in virtù di diagnosi ben pagate, avvocati che invece di mediare istigano al contrasto aumentando la violenza quando c'è (e anche le loro parcelle), giudici che non si rendono conto del danno che fanno e che sembrano aver perso gli strumenti processuali affidandosi solo a psicologi e alle loro Ctu. Figuratevi se una cosa del genere fosse messa come norma di legge.

Chi confonde queste cose, chi non sa bene cosa è la violenza e i parametri di misura della stessa, non può avere né la capacità di analisi né la competenza di interagire e risolvere quei problemi che hanno oggi le donne italiane, che intanto continuano a rischiare la loro salute e la loro vita. Come detto tante volte: non basta essere donne, bisogna conoscere e attuare precise politiche a favore delle donne stesse.

 

C'è un po' di made in Italy nel crollo

I sindacati locali e il Forum internazionale per i diritti sul lavoro richiamano in causa Benetton: contrariamente a quanto ha finora sostenuto, nello scorso marzo l'azienda produceva ancora in quelle fabbriche. Nuovi documenti sulle forniture recuperati tra le macerie del Rana Plaza.

Emanuele Giordana

C'è una data che incastra un pezzo di Italia nel crollo del palazzo di Dhaka dove dieci giorni fa più di 550 persone sono morte e dove alacri fabbriche tessili lavoravano al servizio della moda di regioni lontane. C'è una data, il 23 marzo del 2013 - un mese esatto prima del crollo del Rana Plaza - che inchioda il Gruppo Benetton alle sue responsabilità. Una data su una nuova bolla commerciale che, accanto ad altri nuovi documenti, si aggiunge a quella che fu trovata giorni fa tra le macerie del palazzo imploso ma che Benetton aveva liquidato come «one shot», acquisto spot dalla New Wave, fabbrica bangladeshi di indumenti. Anzi, Benetton dichiarava che quella ditta, su cui si erano già addensate nubi e dubbi, non era più tra quelle di cui si serviva. Una presa di distanze sbugiardata due volte. Col primo documento dopo che Benetton aveva negato di aver mai lavorato con le fabbriche coinvolte nel crollo. Una seconda volta - dopo la prima ammissione - ora che sono emersi nuovi documenti, chissà se gli ultimi di una brutta vicenda cui ora l'azienda trevigiana è chiamata a rispondere: ai lavoratori del Bangladesh, che la pubblicistica più moderata definisce «schiavi», e ai clienti degli oltre 5 mila negozi di un colosso noto per le pubblicità con bimbi multietnici stretti felicemente negli United Colors of Benetton, marchio diventato provocatoriamente famoso con gli scatti di Oliviero Toscani (che ha interrotto la collaborazione nel 2000). Quei documenti li hanno trovati gli uomini della Bangladesh Garments and Industrial Workers Federation e del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, due sigle sindacali (la prima del Bangladesh, la seconda che fa capo all'American Federation of Labor-Congress of Industrial Organizations) che ancora stanno scandagliando le macerie. Una delle foto mostra chiaramente un foglio nel quale vengono contestati alcuni capi: bottoni, strappi, sporco. In alto a sinistra il nome dell'azienda fabbricante, la New Wave, e il nome del cliente, Benetton. A destra la data, il 23 marzo del 2013, 7 del pomeriggio. Negli altri documenti, ci sono bolle col nome Benetton o intestate alla società indiana Shahi Exports Pvt che citano Benetton, una «scheda controllo misure produzione» (in italiano) con alcune indicazioni per la manifattura di magliette riconducibile a Benetton e altro ancora. Nell'insieme dei documenti (l'ordine di cui il manifesto ha scritto il 30 aprile e quelli odierni), il coinvolgimento di Benetton è evidente. E la data di uno dei documenti che riproduciamo rivela quanto negato dalla società: se il 23 marzo, a un mese dal crollo, si contestava la fattura di certi abiti, come può dire l'azienda trevigiana che New Wave era ormai fuori dalla lista dei fornitori? Quelle fotografie sono state passate all'International Labour Rights Forum, un'organizzazione con base a Washington che difende i diritti dei lavoratori nel mondo e con meno peli sulla lingua dell'Ilo, l'agenzia dell'Onu per il lavoro. È stato il Ilrf a passarli a sua volta a un giornalista dell' International Business Times e a farli così arrivare anche sul tavolo della campagna Abiti Puliti, che in Italia ha per prima sollevato il caso Benetton e reso noto il primo documento che la coinvolgeva. Ora le immagini di quei documenti sono a disposizione dei lettori de il manifesto e indicano chiaramente date, ordini, tipo di confezione. Carta, come si dice, che canta e che canta una brutta musica. Una musica cui Benetton dovrebbe rispondere con un controcanto meno equivoco rispetto a quanto fatto sinora, prima negando, poi parlando di uno, massimo due ordini forse addirittura da addebitare a una sussidiaria. Un modo per stare lontani da una responsabilità che chiede due risposte: se Benetton non debba concorrere al fondo di solidarietà che alcune aziende hanno già sottoscritto che ripaghi almeno in parte le famiglie delle vittime. Se non debba spiegare chiaramente se intende firmare e quando il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement promosso dall'International Labor Rights Forum e da Abiti puliti in Italia. Un accordo che impegna le aziende straniere al controllo sulla salute e la sicurezza degli stabili con verifiche pagate di tasca propria. In Bangladesh la magistratura va avanti con le indagini mentre le piazze si riempiono di una nuova fiumana di persone (ieri a Dhaka è stata la volta della coalizione di 18 partiti guidata dall'opposizione del Bangladesh Nationalist Party, oggi tocca agli islamisti del Hefajat-e-Islam Bangladesh) tra le quali, a parte le polemiche politiche tra partiti (il Paese è guidato dalla laica Lega Awami), il dramma del Rana Plaza è uno dei grandi temi che le organizzazioni di massa stanno affrontando. Intanto ieri a Treviso, al termine di un incontro col giurista Ugo Mattei in piazza Aldo Moro, gli attivisti del collettivo Ztl Wake Up hanno dato vita a un blitz contro la Benetton di piazza Indipendenza con lanci di vernice e uno striscione con scritto: «Dacca, Bangladesh, United Colors of Benetton». Inequivocabile.

 

Confcommercio: "Consumi a marzo toccano il livello più basso dal 2000″

La flessione più marcata è ancora quella relativa ai beni e servizi per la mobilità, la cui domanda scende dell'8,5 per cento, ma calano anche i pasti fuori casa. La Confederazione generale italiana del commercio stima inoltre che l'inflazione sarà stabile intorno all'1,5 per cento nei prossimi mesi

di Redazione Il Fatto Quotidiano

I consumi delle famiglie italiane tornano ai livelli del 2000. L'indicatore di Confcommercio ha registrato a marzo un calo del 3,4 per cento in termini tendenziali e dello 0,1 per cento rispetto a febbraio che segna un nuovo record negativo. La flessione più marcata è ancora quella relativa ai beni e servizi per la mobilità , la cui domanda scende dell'8,5 per cento. Mentre l'unico segmento relativo ai beni e servizi per le comunicazioni mostra una tendenza espansiva nei confronti dell'analogo mese dello scorso anno (+3,1 per cento).

"Il dato segnala il permanere di una situazione fortemente critica che interessa tutti i segmenti che compongono il comparto e che non sembra essere ancora giunta ad un punto di svolta", avverte l'organizzazione. Riduzioni dei consumi particolarmente significative hanno interessato anche i beni e servizi ricreativi (-5,6 per cento), gli alimentari , le bevande e i tabacchi (-3 per cento), gli alberghi i pasti e le consumazioni fuori casa (-2,8 per cento).

La Confederazione generale italiana del commercio stima inoltre che l' inflazione sarà stabile intorno all'1,5 per cento nei prossimi mesi. "Sulla base delle dinamiche registrate dalle diverse variabili che concorrono alla formazione dei prezzi al consumo, per il mese di maggio si stima una variazione congiunturale dell'indice dei prezzi al consumo dello 0,1 per cento", ha spiegato l'organizzazione. "Con un tasso di crescita tendenziale pari all'1,3 per cento, in contenuto aumento rispetto all'1,2 per cento del mese precedente".

 

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