29 gennaio

Istat: "Nel 2012 crescita dei prezzi doppia rispetto a salari: mai così male dal '95″

L'istituto di statistica comunica i dati sulle retribuzioni contrattuali orarie nella media dell'anno appena concluso aumentate dell'1,5 per cento rispetto al 2011: "Si tratta della crescita media annua più bassa dal 1983". L'inflazione li doppia: +3 per cento. Il divario tra le due voci è il maggiore dal 1995. Confindustria: "Toccato il fondo, ora possibile rimbalzo"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 28 gennaio 2013

Prezzi sempre più alti, stipendi sempre più bassi. Nella serie Istat sulle retribuzioni contrattuali orarie per l'intera economia, che riporta i valori medi annui dal 1983, non si era mai registrato un livello così basso. Infatti il 2012 segna un incremento inferiore anche a quello del già 'nero' 2011, quando l'indice era salito dell'1,8%, il minimo dal 1999.

Tornando al 2012, parlando del dato più basso dal 1983, ovvero da 29 anni quindi del record assoluto negativo, si deve tenere conto delle condizioni molto differenti che caratterizzavano gli anni Ottanta, con un'inflazione molto più alta visto che c'era ancora la lira.

Nella media del 2012 la forbice tra l' aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,5%) e l' inflazione (+3,0%), su base annua, è stata di 1,5 punti percentuali. Quindi la crescita dei prezzi è stata doppia rispetto a quella dei salari . Si tratta del divario maggiore, a sfavore delle retribuzioni, dal 1995.

Le retribuzioni contrattuali orarie a dicembre restano quasi ferme rispetto a novembre, salendo solo dello 0,1%, mentre crescono dell'1,7% su base annua (dal +1,6% del mese precedente). Il dato tendenziale, il più alto dall'ottobre 2011 (terzo aumento consecutivo), nonostante la frenata dei prezzi, rimane sotto il livello d'inflazione (+2,3%), ma il divario si restringe a 0,6 punti percentuali (il gap era di 0,9 punti a novembre).

Inoltre, a dicembre risultano in attesa di rinnovo 32 accordi contrattuali , di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione, relativi a circa 3,7 milioni di dipendenti (intorno ai 3 milioni nel pubblico impiego). La quota di dipendenti che aspettano il rinnovo è pari al 28,4% nel totale dell'economia. A riguardo l'Istituto ricorda che a partire dal 2010 tutti i contratti della pubblica amministrazione sono scaduti.

L'economia italiana "sta toccando il fondo della dura recessione , la seconda in cinque anni. Si delineano i presupposti di un rimbalzo che può dare avvio alla ripresa", commenta nella Confindustria nel rapporto "Congiuntura flash". "La sfiducia ha infatti compresso la domanda interna ben oltre quanto giustificato dalla situazione oggettiva dei bilanci familiari e aziendali - si legge nell'analisi mensile - gli acquisti di beni durevoli sono scesi molto più del reddito reale disponibile, gli investimenti sono ai minimi storici in rapporto al Pil e le scorte sono bassissime".

Secondo il Centro studi di viale dell'Astronomia , infatti, la sfiducia ha compresso la domanda interna "ben oltre quanto giustificato dalla situazione oggettiva dei bilanci familiari e aziendali": gli acquisti di beni durevoli sono scesi molto più del reddito reale disponibile , gli investimenti sono ai minimi storici in rapporto al Pil e le scorte sono bassissime. Contemporaneamente, si legge ancora, vengono meno o si allentano le tre cause del regresso: credit crunch, iper-restrizione dei bilanci pubblici e frenata della domanda globale.

A giudizio di Confindustria, però "basilare per la ripartenza è che si sollevi la cappa di paura creata dalla situazione politica interna; perciò - ribadisce l'organizzazione - è cruciale che l'esito delle imminenti elezioni dia al Paese una maggioranza solida, che abbia come priorità le riforme e la crescita, fornendo così un quadro chiaro che infonda fiducia nel futuro e orienti favorevolmente verso la spesa le decisioni di consumatori e imprenditori. Rimarranno deboli le costruzioni, per le quali vanno prese misure specifiche".

Tra gli elementi positivi, Confindustria elenca il fatto che nel sistema globale l' incertezza politica si sia "quasi dissolta", i "continui segnali di progresso, alcuni perfino nell'Eurozona" grazie all'azione della Bce ("che rimane però timida sui tassi"), la Cina che è ripartita, il risveglio dell'edilizia residenziale negli Stati Uniti, le materie prime, specie il petrolio, "che fiutano il riavvio mondiale".

 

Femminicidio: il silenzio delle liste

Oggi Donika Xhafa, una donna albanese di 47 anni, è stata trovata morta in mezzo alla starda uccisa dall'ex convivente, Raffaele Vorraro, 59 anni, a Vercelli dove lei viveva con i figli dopo la separazione. Sembra che l'uomo si fosse recato da lei per una riconciliazione ma per farlo era andato con una pistola in tasca, arma usata per uccidere la donna con 4 colpi: "l'uomo le avrebbe sparato un primo colpo dalla sua auto, poi sarebbe sceso per finirla con altre 3 colpi" ( Quotidiano.net). Donika Xhafa è la sesta vittima di femminicidio in Italia dall'inizio dell'anno, e arriva alle pagine della cronaca dopo un anno di insistenti richieste di intervento della società civile nei confronti del governo Monti e dopo mesi di dibattito sul femminicidio nei media. E se anche oggi è triste vedere ancora sui giornali parlare di "raptus" e di "gelosia", ancora più inquetante è il silenzio di questa campagna elettorale di fronte a un fenomeno che continua come se "nulla fosse", anche dopo che Amnesty International ha presentato a tutti i leader delle coalizioni politiche che si presentano alle elezioni del 24 e 25 febbraio, il suo decalogo sui diritti umani introducendo esplicitamente il punto su "il femminicidio e la violenza contro le donne". Di fronte a un attacco evidente, frontale, massiccio sui diritti delle donne, nessun partito si è alzato dicendo: questo lo metto nel mio programma. Ma bisogna fare delle distinzioni: se Vendola ha almeno firmato la Convenzione nazionale "No More!" contro la violenza maschile sulle donne pochi giorni prima delle primarie, e Bersani ha appoggiato il ddl per il contrasto al femmincidio su cui ha lavorato Anna Serafini, nel movimento di Ingroia c'è un silenzio assordante su questi temi, un silenzio non giustificabile per un movimento che si pone a sinistra e che vorrebbe partire dalla società civile. Una dimenticanza, in una campagna elettorale che arriva dopo un anno molto faticoso per le donne, ingiustificata. La violenza domestica, che non è uno scherzo per la quantità di donne e bambini che coinvolge (l'85% della violenza in Italia è violenza domestica e ci sono circa 400 mila bambini che assistono alla violenza in famiglia), è il terreno su cui si sviluppa il 70% dei femmincidi in Italia, in situazioni in cui le donne il più delle volte si trovano in una prigione da cui non riescono a uscire. Su questo, prima della campagna elettorale, si sono consumati fiumi di inchiostro ma quello che il governo Monti ha fatto praticamente - a parte far firmare all'Italia la Convenzione europea di Istanbul e fare un ddl per una ratifica futura - è nulla, o meglio ha detto "faremo" (forse) ma non ha risposto agli appelli che chiedevano politiche immediate, con la conseguenza che le donne sono continuate a essere uccise per mano dei propri partner. Ora, per esempio, sarei curiosa di sapere come le diverse forze politiche in corsa per le elezioni, intendendono prendersi carico di questo problema, e come penserebbero di "vestire" la Convenzione di Istanbul, perché se anche adesso tutti sono d'accordo per la ratifica, in realtà bisogna vedere come il parlamento italiano intende rendere effettive le indicazioni di Istanbul. E alla luce del dibattito al Senato nel settembre scorso sulla firma della Convenzione europea, dove alcune forze politiche di centro destra (Udc e Lega) facevano notare il pericolo di mettere in discussione il concetto di famiglia (si è parlato addirittura di incostituzionalità di alcuni punti della Convenzione), mi sembra evidente che ogni intesa con questi signori, soprattutto se hanno stretti rapporti con il Vaticano, sia molto pericolosa per le donne. E questo bisogna dirlo prendendo posizione pubblica.

Le forze politiche dovrebbero chiarirci come la pensano, e come intendono aiutare le donne che, nel tentativo di uscire da un incubo, cercano aiuto, denunciano, si separano da un marito violento e invece di trovare tutela e protezione dalle istituzioni, o vengono uccise (come la donna di oggi) o si ritrovano non credute in tribunale, o vengono implicate loro stesse in responsabilità che non hanno sulla violenza che subiscono e, nel caso siano presenti minori, con il rischio di sottrazione anche dei figli. Mi preme chiarire ai leader che si presentano, che un Paese che ha ratificato varie convenzioni internazionali a protezione dei minori, vuole una risposta chiara al perché qui, in Italia, sono in aumento casi in cui - anche in presenza di un procedimento penale per violenza fisica, sessuale, psicologica, stalking, ecc. - un giudice può decidere di togliere il bambino dal contesto in cui vive per metterlo in casa-famiglia, o collocarlo addirittura presso il genitore che il minore rifiuta, in base alla diagnosi, fatta da psicologi o psichiatri nei tribunali attraverso le Ctu (consulenze tescniche d'ufficio) di una malattia che non esiste, ovvero la sindrome di alienazione parentale (Pas). Bambini sottratti con la forza o con l'inganno, perché le istituzioni devono "tutelare" il diritto a una bigenitorialità che non può essere costruita "resettando" il cervello dei bambini. Dopo il caso di Padova, che ha fatto scalpore per i modi in cui il minore è stato prelevato a scuola il cui video trasmesso a "Chi l'ha visto" ha fatto il giro del mondo, sulla questione non si è più aperto bocca e tutto è stato messo nel cassetto. Eppure in Italia i bambini che transitano nelle case famiglia - per varie ragioni tra cui anche i contrasti sull'affido - sono circa 30.000, con un costo di circa 3mila al mese a bambino. Un trauma che si aggiunge al trauma e che può avere effetti devastanti sul minore che viene strappato dal suo contesto: casa, scuola, affetti, amici, tutto, per essere appunto "resettato" in un ambiente "neutro".

L'anno scorso la Commissione giustizia al Senato, grazie all'impegno di alcuni senatori e senatrici dell'Idv e del Pd - e soprattutto grazie alla senatrice Silvia Della Monica - è stato bloccato il disegno di legge (ddl 957) sulla modifica dell'affido condiviso dei minori che avrebbe sdoganato definivamente la Pas introducendola nella legge: una malattia che lo stesso ministero della salute ha diffidato dal riconoscere e che non è mai stata riconosciuta in maniera ufficiale in alcun modo. Malgrado ciò il partito democratico non ha voluto ripresentare in queste liste Silvia Della Monica (Pd), mentre Rivoluzione Civile ha collocato Sara Vatteroni (Idv), che si occupa sia di Pas che di minori che di violenza contro le donne, al 23° posto (Camera) nella lista Toscana, mentre Frida Alberti (Idv), per cui vale lo stesso discorso di Vatteroni, è stata messa al 6° posto in Liguria per il Senato: donne con competenze specifiche e importanti che quasi sicuramente non passeranno.

C'è però chi alla questione ci tiene eccome, perché la Pas si è intrufolata nei tribunali italiani grazie alla lobby pro-Pas (che ora chiamano alienazione parentale ma che ha gli stessi effetti devastanti nei tribunali), schieramento di avvocati, psicologi, pscichiatri, esperti vari che coinvolgono padri in fase di separazioni problematiche. Senza nulla togliere ai padri separati in difficoltà economica e/o con problemi di relazione con le ex partner in presenza di figli minori (che sicuramente vanno aiutati come e quanto le mamme), questo gruppo rappresenta un tesoretto di voti su cui qualcuno già ha messo gli occhi, nella prospettiva di riattivare il ddl 957 sulle modifiche dell'affido condiviso ora fermo al Senato (mentre un altro disegno è alla Camera). Ed è così che Casa Pound Italia, che partecipa alle prossime elezioni, ha messo nel suo programma: "Sostegno ai padri separati e ridefinizione delle norme sull'affidamento della prole e sull'assegnazione degli alimenti in caso di separazione coniugale", mentre Fratelli d'Italia - che sostengono Francesco Storace nella corsa verso la presidenza della Regione - hanno fatto di questi temi la loro bandiera assecondando molte delle istanze contenute nel ddl 957 che modificherebbe l'affido condiviso con gravi effetti su donne e minori. E se anche il Movimento 5 stelle ha cominciato a interloquire con queste istanze, Bruno Volpe - il direttore di Pontifex da cui prese infelice spunto il prete di Lerici per dire che le donne il femminicidio se lo vanno a cercare - ha parole di conforto dichiarando che da una parte pensa "ai tanti padri separati che dormono per strada ridotti in miseria" e dall'altra pensa "ai tanti bimbi abortiti, molti più delle donne uccise". Giorni fa Casini (schierato con Monti e Fini) ha detto da Vespa che pensa "ai padri separati che dormono in macchina e fanno la fila alle mense della Caritas", mentre Matteo Salvini (Lega alleata con Pdl) da Santoro ha ricordato il finanziamento di 500 mila euro della Regione Veneto pensato in particolare per i padri separati. Aiuti importanti che non tengono conto che di fronte ai tanti padri separati ridotti in miseria, esiste una maggioranza di madri separate in povertà che nessuno aiuta e che non cercano sponsor politici. Secondo l'Istat il 12,7% delle persone che si rivolgono alla Caritas sono separate o divorziate, e di queste il 66,5% sono donne mentre il 33,5% sono uomini. Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento Istat, ha affermato tempo fa che "certamente esistono padri in gravi condizioni, ma i dati Istat ci dicono che sono le donne sole e con figli separate/divorziate le persone a maggior rischio di povertà e non lo afferma solo l'Istat ma anche altre ricerche". Per l'Istat tra gli uomini separati l'1,6% è povero di contro a un 3,5% di separate in povertà, dato che in presenza di figli minori sale al 15,4% per le donne.

Vorremmo che lo schieramento "di sinistra" si pronunciasse su questi temi, e non solo sul femminicidio o sulla Pas, ma sul grave attacco riguardo i diritti delle donne e dei minori, perché il voto delle donne non è affatto scontato.

di Luisa Betti

 

28 gennaio

Cronache dall'Italia in crisi: "Così siamo diventati poveri"

Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro al mese. L’ascensore sociale è tornato indietro di 27 anni. La crisi economica ha massacrato la classe media che si ritrova così a fare i conti con le bollette ammucchiate sul frigo, l’assillo dell’affitto da pagare, la retta dei bambini a scuola. Ecco alcune semplici storie di chi per farcela compra il pane del giorno prima o divide la casa con altre famiglie. Vite di laureati che fanno i baristi e di mariti mandati sul lastrico dal divorzio di CONCITA DE GREGORIO

I NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre.

Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo.

C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà relativa.

Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi,

che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, come queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato assolutamente normale.

Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere.

LA CASSIERA
"Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza"
"Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca solo quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime sono rimasta l'ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi meno un giorno, poi cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti danno due euro, ti "formano", poi ti mandano a casa e avanti un'altra. Così se ne va la giovinezza e poi dopo a quarant'anni dove lo trovi un impiego? Sì, qui nel nostro "super" facciamo gli sconti last minute. Non li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il formaggio, o il latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino all'80 per cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che vada a male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi pensionati. Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro, la busta di plastica da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli anziani, ma i pensionati che vedo io hanno anche meno di sessant'anni. A 58 anni non sei vecchio, ma se da un giorno all'altro i duemila euro di stipendio diventano 900 di pensione e se hai ancora i figli a casa... Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare la carne che scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben vestiti, poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più in monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i punti della spesa si possono devolvere all'istituto di quartiere per il materiale scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?"

L'OPERATRICE DI CALL CENTER
"Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese"
"Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con me. Ho cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata, tre anni fa. Il mio ex marito non è in condizione di darci niente. Prendo, come tutti, 80 centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da quanto lavoro. Se sono in salute, se ci metto gli straordinari posso arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di affitto, più un centinaio di bollette varie. Con i 300 euro che restavano a vivere in due non ce la facevamo. Come me le altre, che al call center siamo soprattutto donne, e tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere insieme, un paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre donne, una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli. Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A turno laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una ha il figlio con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo anche una serata libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una tv, un computer. Dividiamo tutto, per orari e per giorni. È una specie di comune anni Settanta: solo che allora lo facevamo per scelta, ora per necessità. Mio padre era impiegato, mia madre maestra. Hanno laureato tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia laurea ho dovuto nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il lavoro. Mia figlia dice che l'università non serve, non so più cosa risponderle. Da ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no, a votare non ci vado più".

IL PANETTIERE
"Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c'è la fila per comprarlo"
"Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: "Il pane di ieri a metà prezzo". Ho raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare le suscettibilità di nessuno. Sa com'è: siamo tutti benestanti fino a prova contraria, il paese è piccolo, la gente parla, la dignità non ha prezzo. Però vedo che lo chiedono in tanti, il pane di ieri. Mi chiamo Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il commerciante, qui a Sulmona. Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno "Profumo di pane", che è anche una pasticceria. Un'attività di medie dimensioni: tre punti vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si vendevano tutti i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il pane da noi siamo abituati a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno spreco che non ci possiamo più permettere. Mia madre faceva il pane con le patate che durava venti giorni. Allora ho pensato: ma perché abbiamo smesso di fare così? Se avessimo fatto attenzione, in passato, se fossimo stati più sobri... Io le vedo le persone a negozio, la conosco Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell'Aquila, abbiamo passato tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i figli che sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo i conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri, l'impresa. È buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è sacro. Non si butta. Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per giustificarsi: sa, ci devo fare le polpette, i ripieni. Che importa se non è vero".

L'IMPRENDITRICE FALLITA
"Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l'azienda non c'è più"
"Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le ingiunzioni di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per rimetterci in piedi ci voleva un po' di tempo, un po' di liquidità, soprattutto avevamo bisogno di non essere in mora coi pagamenti. C'è una legge per i casi come il nostro, ho controllato. Ma non è successo niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni continuavano ad arrivare. 200 mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi? Papà si è sparato. L'azienda non c'è più. E lo sa poi cos'è che lo ha rovinato? L'amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti, consegnati, con la mano d'opera e i materiali pagati: e i pagamenti delle municipalizzate, delle Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a dodici mesi. E se protesti è peggio, perché poi non lavori più. Ma come fai ad aspettare e intanto pagare i contributi ai dipendenti? Da dove li prendi i soldi? E se ritardi la stessa amministrazione pubblica che non ti paga i lavori ti nega la patente di legalità, non ti dà le carte che ti servono per accedere ai crediti bancari. E così muori, perché poi ci sarebbe da parlare dell'usura bancaria, l'usura legale che ti strozza e ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono stanca e non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo pensato di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo, il polmone produttivo d'Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo Flavia, lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel'ho detto. Tanto qui da noi lo sanno tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei solo sparire".

IL SEPARATO
"Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità"
"Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono tutti a intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: "Le case dei padri separati", scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse storie, tutte uguali. Cosa c'è di interessante? Non è normale? E poi perché tutti ora? Sono anni che va così e nessuno si è mai occupato di come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si separa, deve pagare gli alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che viva? Con 300 euro al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì, va bene, scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana ogni due. La casa l'ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo nello stesso letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima, quando giravo per i divani letto degli altri, era peggio. Sono diplomato: grafico. Lavoro in una ditta, faccio il materiale pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo lavoro, ma è un miracolo se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo sono andato in depressione. Dopo l'apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma come è possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare la tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è schifezza per addormentarsi. La macchina l'ho venduta, mio figlio a scuola lo accompagno coi mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo alla fermata prima della scuola. Non bisognerebbe separarsi mai. Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l'ho fatta, e ora pago".

IL LAUREATO
"Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese"
"Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala Consilina, una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori operai. Ho due fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato niente. Ho visto i miei lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola c'era la torta e il vino dolce, d'estate si andava in vacanza al mare, stavamo bene, noi figli abbiamo studiato tutti. Certo che i miei hanno fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me che mi hanno mandato a Roma e mi hanno pagato i libri, l'affitto della stanza, i biglietti del treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora: Giurisprudenza, con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa. Una festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che bellezza Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io non lo faccio l'avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno, come si dice da me. Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello che faccio è lavorare in un pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la notte: entro alle sette e stacco alle tre del mattino, e prendo 400 euro al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio io entra un altro. Ho una ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei essere contento, ho avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho un'angoscia dentro che mi porta via. Io l'avvocato non lo faccio ma al paese mio non lo sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po', non salite, aspettate che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la terza media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?".

 

Noi li espelliamo loro li picchiano

Human Rights Watch denuncia lo scandalo dei migranti minorenni arrivati nei nostri porti e ricacciati in Grecia, dove sono maltrattati e malmenati. Senza che nessuno dica niente. La testimonianza dei ragazzi dall'inferno

di LUCA FAZIO

Se qualche anima bella non ha il coraggio di guardare la scena dei cani che sbranano uno schiavo «negro» nell'ultimo film di Tarantino ambientato nell'America razzista di 160 anni fa, può consolarsi immaginando la scena raccontata da un ragazzino afghano scoperto in un camion nel porto di Patrasso (Grecia, settembre 2011). Si chiama Assad H. Non è un film. «Uno mi ha storto la mano dietro la schiena e l'altro ha lasciato la catena con cui teneva il cane e ha detto qualcosa al cane, che mi ha attaccato. Mentre l'altro ufficiale mi teneva. Ho pianto, i commandos mi hanno portato dietro i binari in modo che nessuno potesse vedermi, e mi hanno lasciato lì».
Anche Sadaat S, afghano, 16 anni, diverse volte ha provato a saltare su un camion per raggiungere l'Italia via mare. E ci riproverà ancora. «Molte volte cerco di andarmene, ma loro mi catturano. Mi hanno fatto male. Mi hanno messo in prigione. Cerco di salire dentro un camion. Non ho soldi per un trafficante. Alcuni dei miei amici hanno fatto la traversata... in un camion frigorifero con cibo e carne. Sono morti». Ahmed S., anche lui minorenne, lo scorso maggio era anche riuscito ad arrivare in Italia, ma lo hanno rispedito indietro. Sempre Patrasso. «Quando ci prendono vogliono la nostra Sim e allora me la sono nascosta bene in tasca. Così mi hanno fatto male, in tutti i modi, calci, pugni, su tutto il corpo. Questo è successo il giorno dopo il mio ritorno dall'Italia. Ero andato al porto per provarci di nuovo... Ora non ho i documenti con me. Ho paura della polizia, perché mi farà del male. Ci catturano all'interno del porto e se non c'è nessuno lì, ci fanno del male, del male sul serio».
Ogni anno migliaia di persone cercano di raggiungere l'Italia nascondendosi sulle navi che attraversano l'Adriatico, un numero superiore ai migranti che sbarcano o muoiono nel mare di Lampedusa. Sono di più, ma fanno meno notizia, e probabilmente molti ce la fanno. Tra i protagonisti di queste storie di ordinaria immigrazione ci sono anche bambini e adolescenti che scappano dalle guerre. Poi ci sono «i cattivi», le autorità greche: la Grecia, come ha certificato anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha un sistema di asilo che non funziona caratterizzato da condizioni inumane e degradanti di detenzione, con una lunga teoria di violenze xenofobe già documentate. Infine, ci sono i «complici», cioé noi, le autorità italiane, che in violazione di tutte le leggi del diritto internazionale rispediscono in Grecia quasi tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste. Bambini soli compresi. Senza controlli e senza tanti complimenti, anche se le leggi italiane proibiscono l'allontanamento immediato e senza riscontri di bambini migranti.
Non era ragionevole immaginarsi procedure diverse, ma adesso questa violazione di un diritto umano è documentata da un rapporto presentato da Human Rights Watch intitolato Restituiti al mittente: le riconsegne sommarie dall'Italia alla Grecia dei minori stranieri non accompagnati e degli adulti richiedenti asilo. L'associazione ne ha incontrari tredici. Si comporta così la polizia di frontiera dei porti di Ancona, Bari, Brindisi e Venezia, facendo finta di ignorare le condizioni spaventose che i migranti incontreranno in Grecia. L'associazione ha intervistato 29 persone, tra bambini e adulti, 20 dei quali «rispediti al mittente» nel 2012, durante il governo di Mario Monti, quello che aveva restituito la credibilità internazionale all'Italia.
Dopo aver rischiato la morte per soffocamento, o lesioni permanenti, nascondendosi nei camion o nelle intercapedini tra una merce e l'altra, i migranti «rispediti» solitamente vengono affidati ai comandanti dei traghetti commerciali e trascorrono altre ore di navigazione rinchiusi in celle improvvisate o nelle sale macchine, a volte ammanettati, nutriti alla meno peggio. Per legge, invece, il governo italiano dovrebbe disporre accertamenti per tutti coloro che affermano di essere minorenni, ma solo uno dei ragazzi intercettati da Human Right Watch ha detto di essere stato sottoposto a un controllo. Una radiografia al polso. «La maggior parte di quelli che abbiamo incontrato - spiega Alice Farmer - sono ragazzi afghani in fuga dai pericoli, dal conflitto e dalla povertà. L'Italia deve comportarsi responsabilmente verso questi bambini e garantirgli tutele adeguate a cui hanno diritto». Quasi inutile aggiungere, invece, che il diritto di asilo viene palesemente calpestato, per tutti, adulti compresi: nei porti le domande di asilo sostanzialmente non vengono prese in considerazione. La polizia di frontiera di Bari, per esempio, su 900 stranieri scoperti tra il gennaio 2011 e il giugno 2012 (più di 50 al mese) ha concesso solo 12 permessi. Quasi nessuno può testimoniare cosa avviene quando si scatena la caccia all'uomo nei porti italiani. Le ong sotto contratto per offrire servizi ai migranti scoperti di solito non possono nemmeno avvicinarsi. Significa che quasi nessuno viene informato sul suo diritto di presentare domanda di asilo. Non ci sono interpreti e molti sono costretti ad esprimersi a gesti davanti ai poliziotti.
Secondo Human Right Watch, la Corte europea dei diritti umani presto dovrebbe emettere una sentenza di condanna contro l'Italia proprio per i respingimenti verso la Grecia. Si tratta di un caso specifico che risale al 2009, quando Maroni era ministro degli Interni. Trentacinque persone, tra cui dieci bambini, sostengono che quel procedimento di espulsione fosse in violazione del loro diritto alla vita e alla protezione contro la tortura e i maltrattamenti. Ieri proprio il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, ha ammonito l'Italia a non respingere i migranti in Grecia. «La Corte di Strasburgo - ha aggiunto - nel 2011 ha già condannato uno stato, il Belgio, per il rinvio automatico di un migrante che chiedeva asilo in Grecia, dato che il sistema di asilo di questo paese è fortemente deficitario. L'Italia deve fare la sua parte per assicurare che le richieste di asilo fatte dai migranti siano attentamente esaminate», perché «i respingimenti automatici sono incompatibili con la protezione dei diritti umani».

 

23 gennaio

«Bisogna presentar liste pulite,
perciò vi prego di restare fuori
-dice il Cavalier, udite, udite !-
Ce lo richiedono gli elettori !».
Seguono attacchi di epatite,
crescono dappertutto malumori,
scelte discusse e maldigerite,
tutti diventano contestatori !
Vorrebbero riccorrer in appello
ed hanno presentato già l’istanza,
gridano al complotto, al tranello:
«Tradito il principio d’uguaglianza !».
Il Cavaliere, nell’ora cruciale,
risponde : « Io sono … più uguale !».

 

In Sicilia gli impresentabili Pdl rimangono al loro posto. Lascia solo Dell’Utri

Se in Campania l’esclusione di Nicola Cosentino dalle liste per le prossime elezioni politiche ha causato un vero e proprio terremoto nel Popolo della libertà, sull'Isola il partito di Silvio Berlusconi non ha riservato grosse sorprese. Così,se da una parte rinuncia il senatore palermitano, dall'altra restano in pole position D'Alì, Schifani, Caputo, Romano e Minardo
di Giuseppe Pipitone

Nessuna fuga e tutti al proprio posto, inclusi gli “impresentabili”. Se in Campania l’esclusione di Nicola Cosentino dalle liste per le prossime elezioni politiche ha causato un vero e proprio terremoto nel Pdl , a metà tra la farsa e la tragedia, in Sicilia il partito di Silvio Berlusconi non ha riservato grosse sorprese. Nelle liste presentate dal Pdl sull’Isola, infatti, sono inclusi tutti gli esponenti del partito del predellino che nelle scorse settimane avevano rischiato di rimanere fuori dalla corsa per un seggio in Parlamento.

In forse fino all’ultimo era il senatore Antonio D’Alì , attualmente imputato con il rito abbreviato per concorso esterno in associazione mafiosa . D’Alì è un fedelissimo di Berlusconi: a Palazzo Madama dal 1994, è stato sottosegretario all’Interno fino al 2006. Dopo anni d’indagini, nell’ottobre scorso è iniziato il processo che lo vede accusato di concorso esterno a Cosa Nostra: secondo la procura di Palermo il senatore ha intrattenuto rapporti con i Messina Denaro, storica famiglia mafiosa trapanese. Don Ciccio Messina Denaro , capostipite del clan, era stato campiere proprio nelle terre della famiglia D’Alì, mentre secondo alcuni collaboratori di giustizia lo stesso Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante di Cosa Nostra , si sarebbe adoperato attivamente per fare votare il senatore alle elezioni del 1994. D’Alì ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento, ma quel processo per mafia rischiava di far depennare il suo nome dalle liste per il Senato. Berlusconi però non poteva permettersi di escludere l’esponente principale del suo partito a Trapani, storica roccaforte di Forza Italia prima e del Pdl poi. D’Alì è quindi stato inserito in sesta posizione nella lista per il Senato.

A guidare i candidati siciliani per Palazzo Madama sarà lo stesso Berlusconi, dietro di lui l’attuale presidente del Senato Renato Schifani , recentemente archiviato dalla procura di Palermo che lo indagava per concorso esterno a Cosa Nostra . All’ottavo posto nella lista del Pdl al Senato anche Antonio Scavone , braccio destro di Raffaele Lombardo : già condannato a 400mila euro di risarcimento dalla corte dei conti per la gestione della Asp 3 di Catania , Scavone è accusato di abuso d’ufficio per aver affidato senza gara un appalto da due milioni di euro a Melchiorre Fidelbo , marito di Anna Finocchiaro . Candidato al Senato, ma con la lista Fratelli d’Italia, è invece il deputato regionale del Pdl Salvino Caputo , condannato in appello a un anno e cinque mesi per tentato abuso d’ufficio .

E se, il 20 gennaio, il senatore Marcello Dell’Utri , l’amico di una vita di Berlusconi, annunciava il ritiro della sua candidatura (“non mi serve più”, diceva a Il Fatto Quotidiano), trova posto nelle liste del Pdl per la Camera dei Deputati, anche l’ex ministro dell’agricoltura Saverio Romano . Al leader del Cantiere Popolare è stata garantita la seconda posizione in Sicilia Occidentale, subito dietro Angelino Alfano : l’elezione del fedelissimo di Totò Cuffaro è dunque blindata. Romano è stato di recente assolto per concorso esterno in associazione mafiosa , nel processo che in primo grado è stato celebrato con il rito abbreviato. Di recente la Procura di Palermo per lui ha chiesto l’archiviazione anche per un’altra indagine che vede Romano indagato per corruzione : avrebbe ricevuto 50mila euro da Gianni Lapis , storico tributarista di Vito Ciancimino , per inserire in finanziaria una norma a favore della Gas spa , l’azienda energetica che avrebbe fatto capo all’ex sindaco mafioso di Palermo e a Bernardo Provenzano .

Confermato tra i candidati alla Camera, ma in Sicilia Orientale, anche Nino Minardo , condannato nel 2011 in primo grado con il rito abbreviato ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio . Minardo è il giovane rampollo di una dinastia di petrolieri con la passione per la politica: suo zio Riccardo, già deputato nazionale e regionale con il Movimento per l’Autonomia, è stato arrestato nell’aprile del 2011 per associazione a delinquere, truffa aggravata e malversazione ai danni dello Stato proprio mentre sedeva all’Assemblea regionale Siciliana. Si affida a candidature familiari anche Gianpiero Samorì che nei suoi Moderati in Rivoluzione candida i fratelli Ruggirello : Paolo, deputato regionale proveniente dal Movimento per l’Autonomia è numero due alla Camera, mentre Bice, già candidata alle regionali del 2006 con il Ccd, è numero 2 al senato. Sono i figli di Giuseppe Ruggirello, banchiere trapanese proprietario negli anni ’70 della Banca Industriale, storico sponsor del leader socialista Bartolo Pellegrino , vice presidente della Regione Sicilia governata da Cuffaro, arrestato per mafia nel 2007 mentre al telefono chiamava i carabinieri “sbirri e infami” e poi assolto in via definitiva.

Curiosa invece la seconda piazza al Senato che la lista Monti per l’Italia ha riservato allo “sconosciuto” Rosario Sidoti . L’ex consigliere provinciale del piccolissimo comune messinese di Montagnareale ha infatti superato a sorpresa nomi di peso come quello del senatore uscente Benedetto Adragna , che per seguire Monti ha lasciato il Pd, e quello di Antonino Recca , rettore dell’Università di Catania, piazzandosi dietro soltanto al capolista Pierferdinando Casini, e dunque in posizione utilissima per l’elezione. Sidoti però è indicato come uomo di fiducia dell’ex tesoriere dell’Udc Pippo Naro , già condannato in via definitiva a sei mesi per abuso d’ufficio e sotto processo per le tangenti Enav: il partito di Casini ha dunque preferito non riproporlo. Almeno non in prima persona.

 

La crisi fa arretrare l’Italia di 27 anni “Reddito pro capite come nel 1986”

Nel 2012 nel mondo persi 4 milioni di posti di lavoro

L’analisi di Rete Imprese Italia: negli ultimi 12 mesi hanno chiuso 100 mila aziende

Il reddito disponibile degli italiani scivola ancora e nel 2013 tornerà ai livelli di 27 anni fa. Secondo un’analisi di Rete Imprese Italia il dato è sceso a meno di 17mila euro: 16.955 euro contro i 17.337 euro dello scorso anno. Nel 2007, anno di inizio della crisi, il dato era a 19.515 euro.

Redditi
Il reddito disponibile reale pro capite è calato nel 2012 del 4,8% a 17.337 euro: il dato emerge da un’analisi di Rete Imprese Italia che prevede un ulteriore calo, a 16.955 euro, nel 2013. Questa previsione, ha spiegato Mariano Bella di Rete Imprese Italia, determina su questo fronte «un salto indietro al 1986».

Imprese
Sale a quota 100mila il conto delle imprese `morte´ nel 2012 rispetto al 2011. Lo afferma Rete Imprese Italia in un’analisi presentata oggi. Il saldo tra mortalità e natalità delle aziende artigiane e di servizi di mercato più manifatturiere e costruzioni porta la somma a 100mila aziende «scomparse».

Consumi
Consumi ancora in calo nel 2013 dopo un 2012 che ha segnato -4,4% dei consumi reali procapite. Lo afferma Rete Imprese Italia stimando una flessione dell’1,4% per l’anno in corso, con un balzo indietro di 15 anni: 15.695 euro i consumi procapite nel 2013 rispetto a 15.753 del 1998.

 

18 gennaio

Casini, difensor della famiglia,
la sua se l’è tutta candidata:
il genero, marito della figlia
ed un nipote dell’altra cognata.
E non si ferma a questa pariglia,
ci mette dentro tutta la nidiata
per allestir un’intera squadriglia
ed affrontare l’ardita crociata !
La coerenza di Pierferdinando
è diventata quasi proverbiale:
per prender voti si va ammogliando
e fa la campagna elettorale!
Della famiglia ha un senso raro
e si sposò persino con…. Cuffaro !
vox

 

La metamorfosi di Berlusconi: “Ora fa il simpatico e il voto ci guadagna”

Secondo il critico letterario Marco Belpoliti, il Cavaliere "è un attore, non un presidente" e gesti come quello di pulire la sedia di Travaglio a Servizio Pubblico servono per rafforzare la propria immagine di "venditore". Un copione che potrebbe avere conseguenze sulle urne

di Beatrice Borromeo

“Mi tassa il piffero?” ha chiesto il Cavaliere a Ilaria D’Amico che lo intervistava, poche ore prima di incontrare Antonio Ingroia nei corridoi de La7 salutandolo col gesto delle manette, in perfetto gangnam style , o di dare in testa a un cronista dell’ Espresso un cartellone di polistirolo. “È il perfetto Vitellone felliniano, goliardico, infantile. Soprattutto simpatico. E sa una cosa? Funziona”, dice il critico letterario Marco Belpoliti , che sul sito doppiozero.com ha anche analizzato lo sketch numero uno di B., quello della sedia.

Professore, cos’ha pensato quando ha visto Berlusconi che spolverava il suo sgabello a Servizio Pubblico, dopo che lì s’era seduto Travaglio?
Era una scena da commedia all’italiana, da Sordi al cinepanettone. Era un gesto che voleva sdrammatizzare la sua lettera a Marco Travaglio, accattivare il pubblico e far ridere. Infatti, per la prima volta dall’inizio della trasmissione, aveva quel suo sorriso pienamente soddisfatto in volto. Poi c’è anche il fattore mania.

In che senso?
Da bravo venditore, Berlusconi è fissato con l’igiene, con l’alito fresco, con l’aspetto fisico, con la pulizia. Lui ha purificato quella sedia dalla presenza del nemico, estraendo il fazzoletto in maniera meccanica, sapendo di averlo in tasca pronto per l’uso.

Mossa studiata?
Poco importa, perché lui è un Totò per davvero. Attinge dal cabaret: è un attore, non un presidente. Se lo immagina Monti fare una cosa simile? Piuttosto, mi ricorda gli sberloni ai passeggeri del treno in partenza di Amici Miei .

Sembrano lontani i tempi del Berlusconi spregiudicato e aggressivo, che chiamava Gad Lerner per insultarlo e difendere la Minetti. È il Caimano cangiante che si adatta alla campagna elettorale?
Ricordiamo che l’ex premier nasce come intrattenitore sulle navi da crociera, però è evidente che essere antipatici prima delle elezioni non serva. Questo anche perché Berlusconi non è un politico, e non ha nulla da perdere: dubito che la simpatia sia sufficiente, ma certo male non fa.

Crede che basti almeno a farlo percepire come innocuo?
Le risate riescono a far dimenticare molte nefandezze. E lui, che vive solo l’attimo e ha completamente cancellato o riscritto il passato, conosce bene questa regola.

Si dice che durante l’ultimo anno abbia meticolosamente studiato l’approccio di Beppe Grillo, preparando la strategia perfetta per il ritorno.
Di certo Grillo è il suo vero competitor: pagherei per vedere un faccia a faccia tra i due. Dice che qualcuno gli scrive le battute? Dubito che ce ne sia bisogno.

Magari c’è chi gli consiglia di farle.
Ma lui è così, e lo era anche prima di questa campagna elettorale: ricordate il cucù alla Merkel e le corna nella foto del vertice Ue? Il che non significa che sia se stesso. È solo una delle parti che recita.

Se continua a recitarla bene potremmo avere sorprese alle urne?
Ha presente la celebre frase “una risata vi seppellira”? Ecco, sta provando a seppellirci.
 

Bike-sharing Roma, il flop: un milione e 600mila euro buttati e bici rubate

Paola Mentuccia

Le isole del bike sharing a Roma sono abbandonate. Ormai i cittadini si sono assuefatti al degrado e al mancato servizio della ‘bici condivisa’ . Un flop milionario per il Comune e centinaia di biciclette sparite. Il servizio è partito nel 2008 durante gli ultimi mesi della giunta del sindaco Walter Veltroni , affidato alla multinazionale spagnola Cemusa, incaricata della gestione e manutenzione delle stazioni in cambio di preziosi spazi pubblicitari in città. Il risultato di utenza era positivo: 3000 abbonamenti in sei mesi . Sempre nel 2008, si insedia il sindaco Gianni Alemanno (Pdl) e il contratto con la ditta viene revocato perché le imprese di pubblicità romane si oppongono all’ingresso di una ditta concorrente. Il bike sharing viene quindi affidato all’azienda per la mobilità Atac e presto abbandonato. “A causa di un debole sistema di sicurezza, un controllo inesistente – racconta Massimiliano Tonelli del blog ‘bike-sharing Roma’ - il parco bici in poco tempo è stato depredato dai ladri: oltre 450 biciclette al costo di circa 200 euro ciascuna. La spesa pubblica complessiva – continua – è stata di circa un milione e 600 mila euro per un servizio, ad oggi, inesistente” di Paola Mentuccia

 

16 gennaio

Lo scambio tra Michele e Silvio

NORMA RANGERI

Uno spettacolo televisvo vecchio e triste che peserà sul risultato del 24 febbraio perché gli elettori, specialmente gli indecisi, si formano un'opinione politica attraverso la televisione. La controprova è la flessione dei consensi a Grillo (da qualche settimana fuori dalla tv). E tre ore in prima serata sono un inestimabile tesoro, un capitale che frutterà con gli interessi. Silvio Berlusconi ha di che essere soddisfatto, perché è lui, il leader bollito, che, alla fine del confronto con Michele Santoro, ha vinto la partita, politica e mediatica, incassando e restituendo colpi e sorrisi.
Una platea di nove milioni di telespettatori il Cavaliere la sognava. Tanti, tutti insieme non li aveva mai conquistati. Solo nel faccia a faccia con Prodi gli era capitato di trovarsi di fronte a qualcosa di simile (dodici milioni di italiani), ma da allora è passata un'era politica. La marcia forzata e solitaria davanti alle telecamere gli stava dando qualche soddisfazione, i sondaggi registravano un certo successo, il cono d'ombra cominciava a illuminarsi. Ma il colpo grosso, quello che davvero avrebbe restituito un certo rango alla sua campagna elettorale continuava solo a sognarlo. Poi il miracolo, l'invito tanto atteso nello studio di Cinecittà, di fronte allo storico nemico mediatico.
Ma davvero Santoro gli offriva questa meravigliosa, straordinaria occasione? Possibile che, pur sapendo che il vecchio leader non aveva nulla da perdere, lo avrebbe accolto come l'ospite d'onore di Servizio Pubblico, dentro un format pietrificato, fatto di servizi e ritorni in studio, di protagonismi scontati, di narcisismi allo specchio? Ma certo che sì, chi meglio dei duellanti poteva capire il valore di questo do ut des virtuale? La7 incassava uno stratosferico risultato di audience, Santoro un record personale. A Berlusconi un auditorium che nemmeno i suoi miliardi avrebbero potuto comprare. E così è stato.
Un parte del pubblico, più maschile che femminile, nella maggior parte del centronord, con un alta permanenza temporale davanti al piccolo schermo, ha rivissuto un incubo, proprio come se il tempo si fosse fermato. Alla fine, dopo un fuoco d'artificio finale sparato da Marco Travaglio, e il siparietto di una simil-rissa con Santoro, le luci si sono spente con una stretta di mano. E un retrogusto amaro. Per aver consentito al vecchio nemico di giocare bene la sua partita.
Solo un faccia a faccia avrebbe potuto sciogliere la maschera. Se non con Bersani almeno con l'ex moglie, Veronica Lario. L'unica, non a caso, che è riuscita a mandarlo ko in tribunale. Pretendere di farlo in un talk-show è stato un errore, con l'informazione vittima illustre.
Da domani, rinfrancato dall'elisir delle telecamere, Berlusconi potrà sviluppare lo schema di gioco della partita delle urne. Che, prima di tutto, consiste nella riconquista di una larga parte dello zoccolo berlusconiano, impresa possibile solo tornando al centro della scena, dalla quale Monti prima e le primarie dopo, lo avevano escluso.

Dal welfare al warfare, così si indebita lo Stato. Comprando armi

L'acquisto di armamenti avviene in sordina. Si sfoglia un depliant e si sceglie il modello aereo o elicottero, siluro o sistema di puntamento. Tutto è presentato con il codice rosso dell'emergenza, il voto del Parlamento è solo consultivo

di Daniele Martini

Dal welfare al warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con un’accelerazione recente, l’Italia da paese che impegna le sue forze per la protezione sociale e il benessere ( welfare ), sta diventando uno Stato che si indebita per le armi ( warfare ). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate decisioniste , con un sistema che tra il serio e il faceto nell’ambiente è chiamato il “depliant” , come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi, l’Italia ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini , la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di euro all’anno , a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico.

SOLDATO DEL FUTURO, MA QUANTO MI COSTI?

L’elenco delle spese è impressionante. In prima fila ci sono i soliti F-35 , i cacciabombardieri della Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec , cioè il soldato robotizzato del futuro (vedi foto). Per entrambi l’Italia ha già preso impegni e speso quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva. Entrambi implicano un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di euro ciascuno di spese vive , cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare gli annessi e connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla sostituzione di componenti.

Per gli F-35, per esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In pratica con gli F-35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40 miliardi di euro . Gli Stati maggiori sostengono, però, che una quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista italiana difesa , molto vicina agli ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane. Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto.

Con Forza Nec ci sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della “lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti, anche nel rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari : un tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’esercito e ai programmi interforze. L’esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone, necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh 101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000, costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al 2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767 rifornitori un altro miliardo.

Per Forza Nec il soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso, forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa tornare indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane: Galileo, Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa soldato futuro . Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90 milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di compravendita di armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe.

DUE “FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE

Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre Finmeccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto questo mamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè una nota generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali ricadute produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece decisivo per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra il 10 per cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e ammannito a opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si trattasse di roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la stessa scelta concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani: “I clienti possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”.

IL PARLAMENTO DICE NO ALL’ACQUISTO? SI COMPRA LO STESSO

Il Parlamento italiano con le armi può pronunciarsi liberamente, a patto che dica sì, se dice no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non può fare a meno di spendere per difendersi, così come del resto è previsto anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola, cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’ più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante.

 

10 gennaio

Infortuni sul lavoro: la strage silenziosa. E la vita di un giovane vale duemila euro

I numeri ufficiali degli incidente (mortali e non) sono in calo. Ma, in parte, dipende dalla crisi e, in parte, secondo fonti diverse dall'Inail, da una serie di sottovalutazioni del problema. Tra fatalismo e tentativi di prevenzione, l'Italia resta in testa alle classifiche europee per le morti e al terzo posto per numero di incidenti. E il registro previsto dalla legge non parte mai. Messi sotto accusa dalla Ue dopo la denuncia di un lavoratore toscano

ROMA - "Se gli infortuni nel settore edile diminuiscono, è perché si lavora meno. Non sono infortuni che dipendono da tecnologie particolari, per i quali si possono produrre processi di apprendimento... la caduta dall'alto, per esempio è un fenomeno abbastanza primitivo". Chi parla è il presidente dell'Inail, Massimo De Felice. Dalle sue parole "l'ineluttabile fatalità" sembra essere ancora una componente imprescindibile quando si parla di sicurezza sul lavoro (in questo caso nell'ambito dell'edilizia). Eppure ai progetti di prevenzione nella costruzione di edifici l'Inail ha destinato il maggior importo di finanziamenti alle imprese, nel 2011, con circa 23 milioni di incentivi assegnati sui 205 totali (155 l'importo nel bando per il 2012).

Fatalità e prevenzione. Stesso settore: cambio di scena. Michele Russo è un sindacalista gambizzato dalla camorra. Attualmente fa parte del Cpt (Comitato paritetico territoriale) di Caserta, un organo che opera grazie a un accordo tra costruttori e organizzazioni sindacali per la prevenzione nei luoghi di lavoro. Il suo territorio, da trent'anni, è compreso tra il Nord della Campania e l'agro aversano: una zona tradizionalmente ad alta densità di imprese edili. Le persone che prova a tutelare sono i 'favricatori'. "Gente per lo più analfabeta" - racconta, "che però ha costruito l'alta velocità". Le prime volte che visitava un cantiere lo scambiavano per un camorrista: "Avevo il codino e la prima reazione immediata era la paura. Poi pensavano che fossi dell'ispettorato e avevano ancora più timore. Quando capivano che non ero neppure quello, la felicità massima. Non teniamo tempo da perdere... lasciateci in pace, mi dicevano. Eppure siamo riusciti a farci aprire cantieri dove non vanno neanche gli ispettori del lavoro". Oggi, però, di grandi cantieri neanche l'ombra: "Non saprei dove portarvi", ammette. La crisi economica morde, con ricadute pesanti anche sul versante della sicurezza. "Se negli ultimi dieci anni qualche miglioramento c'era stato, adesso stiamo tornando indietro. Chi lavora nei cantieri fa cose che aveva imparato a non fare, perché è troppo grande il rischio di essere mandati a casa".

La distanza tra De Felice e Russo, lo iato tra fatalismo e prevenzione, incarna la prima contraddizione in cui ci imbattiamo nel nostro viaggio tra infortuni e morti da lavoro. Una strage per taluni ancora 'inevitabile' e troppo spesso silenziosa. La fotografia dell'ultimo rapporto Inail (relativo al 2011): 725mila infortuni denunciati, (-6,6% rispetto al 2010, -5% al netto dell'effetto perdita quantità di lavoro), 920 casi mortali (680 sul luogo di lavoro e 240 in itinere, complessivamente -5,4% rispetto al 2010, -4% tenendo conto della contrazione occupazionale), 46.558 malattie professionali (+9,6%). Cosa resta fuori? Sempre secondo le stime dell'istituto i circa i 165mila infortuni 'invisibili' derivati da lavoro nero. Il 90% degli infortuni denunciati rientra nella gestione Industria e servizi, il 6% in Agricoltura, il 4% riguarda lavoratori statali. Per quanto riguarda i casi mortali 115 sono avvenuti nell'agricoltura, 425 nell'industria (tra cui 195 nelle costruzioni), 380 nei servizi. Le cause più ricorrenti: caduta dall'alto (33%), caduta di gravi (27%), variazione di marcia del veicolo (13%). Altra notazione: il 60% del fenomeno infortunistico si concentra al Nord, con Lombardia, Emilia Romagna e Veneto che da sole sommano il 42% dei casi.

Primato europeo. Tentiamo con cautela un raffronto europeo (la materia è spesso gestita diversamente, soprattutto per quando riguarda gli infortuni in itinere, cioè accaduti nel viaggio verso il posto di lavoro). Secondo statistiche Eurostat (aggiornate a dicembre 2012) considerando le attività del Nace-R2 (una sorta di 'paniere' delle 13 attività economiche comuni ai paesi della Ue) l'Italia tra il 2008 e il 2010 è stato per valori assoluti il Paese con più morti sul lavoro (718 vittime nell'ultimo anno considerato, contro le 567 della Germania, le 550 della Francia, le 338 della Spagna e le 172 della Gran Bretagna). Situazione leggermente migliore per gli infortuni con Germania e Spagna, che precedono il nostro Paese, in valori assoluti.

La guerra dei dati. Anche in Italia, accanto ai dati ufficiali dell'Inail, altre voci provano a raccontare una realtà differente. Carlo Soricelli è un operaio metalmeccanico in pensione, che vive a Casalecchio di Reno (alle porte di Bologna). Dal 2008 cura l'Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro. "Lo faccio da solo, mi danno una mano i miei figli e qualche altro volontario". I suoi dati si discostano sensibilmente da quelli dell'ente pubblico: nel 2011, secondo Soricelli, ci sono stati più di 1170 vittime (+11,6% rispetto al 2010), e anche per il 2012 il valore si manterrebbe costante, con una stima di 1180. Ecco perché non nasconde le sue critiche su quelli che sono ritenuti le statistiche più autorevoli del settore. "L'Inail non tiene conto dei lavoratori che non hanno nessuna assicurazione e muoiono in nero" - spiega l'ex operaio - "senza dimenticare le vittime nei nostri corpi militari o delle forze dell'ordine e la difficoltà di classificare tutte le morti che avvengono sulle strade". Nonostante da tempo sia diventato un punto di riferimento della materia, il suo Osservatorio non trova sponde istituzionali: "I politici non mi rispondono", rivela.

Risarcimenti: una vita vale poco. Altre polemiche si sono accese attorno alle prestazioni erogate dall'Inail ai familiari di due vittime sul lavoro di quest'ultimo anno: Matteo Armellini, morto a marzo, a Reggio Calabria, sotto il palco di Laura Pausini e Nicola Cavicchi, che ha perso la vita nel crollo di un capannone nel sisma dell'Emilia. Alle loro famiglie l'istituto ha versato soltanto un assegno funerario di 1936,80. "C'è una legge", spiega il presidente dell'Inail Massimo De Felice, "E l'Inail non può non applicarla, non ha gradi di libertà". La norma in questione è il Testo Unico 1124/65. L'art. 85 disciplina, infatti, anche le rendite ai superstiti (che si aggiungono ai 560mila invalidi titolari di rendita per infortunio e ai 150mila per malattie professionali). Punto controverso: la legge in questione non prevede indennizzi in caso di vittime che non abbiano mogli e figli e non partecipino al mantenimento dei genitori. Una norma che ignora, contrariamente a quanto succede nei principali paesi europei, la convivenza more uxorio e penalizza i lavoratori più giovani. Visto che le loro condizioni, infatti, per salari e contratti sono spesso peggiorate rispetto ai loro genitori, mentre il meccanismo di calcolo della rendita è rimasto immutato. Marco Bazzoni, un operaio metalmeccanico (responsabile sindacale della sicurezza nell'azienda dove lavora in provincia di Firenze), ha lanciato una petizione per la revisione del TU. "Valutare la vita di un lavoratore meno di duemila euro è un'elemosina", spiega. La sua iniziativa è stata recepita da una proposta di legge (n.5523) di alcuni deputati del Pd, che rischia però, di non fare molta strada, vista anche la fine della legislatura. Non è l'unico fronte su cui è attivo l'operaio toscano. Nel 2009, grazie a una sua petizione, Bazzoni ha sollecitato l'apertura di una procedura d'infrazione ai danni dell'Italia per le modifiche apportate dall'allora governo Berlusconi, con il dlgs 106/2009, al Testo Unico del 2008. Due i punti sotto accusa."Hanno stravolto l'impianto della legge con la deresponsabilizzazione del datore di lavoro" - attacca Bazzoni -, "e la proroga del documento di valutazioni dei rischi per le nuove aziende". Il 21 novembre l'Ue ha inviato un parere motivato all'Italia, che ha due mesi di tempo per evitare pesanti sanzioni

Il mondo misconosciuto delle malattie. La situazione non appare più nitida per le malattie professionali. I dati, a riguardo, indicano un aumento ininterrotto negli ultimi anni (+9,6% nel 2011). E l'Inail stima che i quasi 300 decessi indennizzati relativi al 2011 siano destinati nel lungo periodo ad attestarsi attorno alle 1000 unità (705 nel 2009 e 623 nel 2010). I tumori professionali rappresentano la prima causa di morte (oltre il 90%) per malattia tra i lavoratori: 1200 denunce all'anno più le ulteriori 2000 denunce per patologie tumorali legate all'amianto (e secondo l'Istituto Superiore di Sanità il picco di mortalità per l'esposizione all'asbesto arriverà tra il 2015 e il 2020). Un dato di cui la stessa Inail ammette la probabile sottostima. In forte crescita anche le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee che costituiscono il 66% del totale delle denunce. Resta comunque la percezione di muoversi tra confini ignoti agli stessi addetti ai lavori. Come conferma Vincenzo Di Nucci presidente dell'Aitep (Associazione italiana tecnici della prevenzione): "E' un mondo misconosciuto con una grande zona grigia. Se l'infortunio è un fenomeno che ha un qui e ora, l'esposizione a un agente di rischio può durare anche tutta la vita lavorativa così ricostruire l'inizio del processo diventa molto complicato. Gli epidemiologi ci dicono che sul totale dei morti all'anno per tumore in Italia è possibile stabilire un range tra il 4 e il 10% dovuto a un'esposizione avvenuta sul posto di lavoro".

Il registro che non c'è. De Felice, nominato ai vertici dell'Istituto dal ministro Fornero a maggio 2012 depotenzia così le polemiche sui dati: "Riteniamo che l'Inail debba essere un fornitore ufficiale, quindi non debba né rispondere a richieste né entrare in dibattiti troppo animati, deve fissare un calendario per la diffusione dei dati e una chiave di lettura, una sorta di Istat, col vantaggio che noi non dobbiamo raccoglierli ex novo". Quello che è fuori di dubbio è che la difficoltà di avere dati omogenei tra tutti operatori del settore è nota da tempo. Per questo tra le novità introdotte dal TU 81/2008 una delle più attese, prevista dall'art.8, riguardava il SINP (Sistema informativo nazionale prevenzione), un flusso di dati comune tra tutti gli operatori del settore (tra gli altri Ministero del Lavoro, della Salute, delle Regioni e delle Province di Trento e Bolzano, Inail, ex Ipsema e Ispesl). Una sorta di database, gestito dall'Inail, costantemente aggiornato con tutte le statistiche relative al fenomeno. A più di 4 anni dall'emanazione del Testo unico il SINP, però, non è ancora partito. "Ne abbiamo sollecitato l'attivazione agli ultimi due ministri del lavoro" - spiega Oreste Tofani presidente della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sugli infortuni sul Lavoro - "Ci dicono che è tutto è a posto, però non parte". "Abbiamo avuto un lungo periodo di confronto con il Garante, trattandosi di dati personali" - risponde Giuseppe Piegari, il responsabile Coordinamento vigilanza tecnica del Ministero del Lavoro -,"i ritardi sono dovuti alla delicatezza della materia, e ci sono state anche osservazioni del Consiglio di Stato, ma siamo in dirittura d'arrivo". Al momento in cui si scrive, tuttavia, non è ancora possibile sapere con certezza quando entrerà in funzione il Sinp.

 

Lazio, acqua all'arsenico: "Popolazione contaminata oltre la soglia di rischio"

Studio dell'Istituto superiore di sanità su un campione di 269 volontari: l'analisi delle unghie mostra una concentrazione media del metallo cancerogeno tre volte superiore ai limiti. E' il risultato di una "emergenza" che va avanti da anni tra Latina, Viterbo e i Castelli romani. Il 31 dicembre è scaduto il termine imposto dall'Ue, ma la situazione non è cambiata

di Andrea Palladino

E' un'emergenza senza fine quella dell' arsenico nelle acque di tre province del Lazio , con migliaia di persone obbligate a vivere senza acqua potabile, costrette a usare le taniche anche solo per cucinare. Migliaia le persone coinvolte nei Castelli romani , a sud della capitale, a Latina e in buona parte della provincia di Viterbo. Una popolazione che - secondo un recentissimo studio dell' Istituto superiore di sanità - ha accumulato nel proprio corpo alte concentrazioni di arsenico, anche grazie al sistema delle deroghe, che ha permesso ai gestori degli acquedotti di agire al di fuori dei limiti di legge . Il 31 dicembre è scaduto il termine ultimo stabilito dalla Commissione europea per la normalizzazione della situazione, ma senza esito: in moltissime città dai rubinetti continua ad uscire acqua non potabile.

La ricerca dell'Iss è partita nel 2011 subito dopo il diniego da parte della commissione europea di una deroga che innalzasse i limiti di legge di cinque volte, presentata due anni fa dalla giunta regionale del Lazio. Nell'ottobre del 2010 Bruxelles decise di non autorizzare quel provvedimento, che prorogava una deroga iniziata subito dopo l'entrata in vigore delle norme europee sulla qualità delle acque potabili, accolta dall'Italia nel 2001.

Il Reparto di tossicologia alimentare e veterinaria del Dipartimento di sanità pubblica dell'Istituto superiore di sanità ha avviato - subito dopo l'ultimatum della commissione europea - il biomonitoraggio di 269 volontari, tutti residenti nelle zone con acqua ad alto contenuto di arsenico. Lo scopo dello studio era di capire come la sostanza si accumulasse nel corpo, fattore chiave per stimare il possibile pericolo per la salute. Il primo risultato è stato divulgato in una newsletter del dipartimento di sanità pubblica e mostra dati poco rassicuranti.

La concentrazione dell'arsenico nelle unghie della popolazione monitorata, ad esempio, raggiunge picchi di molto superiori alla norma (ovvero ai tassi normalmente presenti nella popolazione residente in zona non contaminata): "Nelle aree oggetto di studio, la concentrazione media e mediana di arsenico nelle unghie è risultata pari rispettivamente a 252 ng/g e 188 ng/g (valori di riferimento: 88 ng/g e 83 ng/g, ndr), con un valore massimo di 5107 ng/g . Per oltre la metà dei soggetti, l'esposizione a lungo termine stimata mediante tale biomarcatore è risultata superiore a quella massima misurata per la popolazione di controllo", si legge nello studio.

Superiore ai valori di legge è anche il contenuto medio di arsenico riscontrato nell'acqua utilizzata per cucinare dal campione della popolazione monitorato: "La concentrazione media di arsenico nell'acqua utilizzata per la cottura e preparazione degli alimenti è pari a 16,6 μg/L (mediana 14,7 μg/L), con un intervallo di valori pari a 0,2-65,2 μg/L. Il 70% e 36% dei campioni presenta concentrazioni superiori rispettivamente a 10 μg/L e 20 μg/L . Pertanto, l'acqua utilizzata per la preparazione degli alimenti può dare un contributo significativo all'esposizione complessiva".

E' la prova che l'arsenico assunto attraverso la cottura dei cibi con acqua contaminata o bevendo dal rubinetto nelle zone con alti valori del metallo pesante si concentra nel corpo. Dunque le conseguenze del lungo periodo di deroghe - iniziato nel 2001 e terminato solo una settimana fa - rischiano di essere pesanti per la salute. L'arsenico inorganico - ovvero quello contenuto nelle acque - è oggi considerato dai principali istituti di ricerca un cancerogeno di classe 1 , ovvero una sicura concausa per lo sviluppo dei tumori.

 

 

3 gennaio

Un miliardo in fumo in sei mesi. Ecco la socializzazione delle perdite finanziarie

Secondo le stime dell'Adusbef, negli ultimi dieci anni i risparmiatori hanno lasciato per strada qualcosa come 52 miliardi di euro di perdite, più di 46mila euro a testa per più di un milione di persone, un miliardo solo nei primi sei mesi del 2012. Ma il conto è al ribasso, perché tiene in considerazione solo i crac finiti in un'aula di un tribunale. Senza contare, quindi, le fregature del tutto legali

di Costanza Iotti

Oltre un miliardo di euro. E’ il totale dei risparmi degli italiani andati in fumo soltanto nei primi sei mesi del 2012. E non per tasse, rincari o riduzione della busta paga causa cassa integrazione, ma per la malafinanza. Del resto la cosiddetta socializzazione delle perdite, contraltare della privatizzazione degli utili ora di gran moda nell’Europa della crisi che taglia il welfare a piene mani per tappare i buchi, è sempre stata di casa dove scorrono i soldi dei risparmiatori. Per dare un’idea delle cifre in gioco, secondo le stime dell’ Adusbef i crac finanziari dal 2001 ai giorni nostri sono costati complessivamente 52 miliardi di euro che sono stati scuciti dalle tasche di 1,121 milioni di comuni cittadini, per una spesa media unitaria di 46.387 euro . E il calcolo è parziale, perché tiene conto solo dei casi finiti in Tribunale, ma infinite sono le vie, anche quelle legali, per privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Tanto più in Borsa, dove i risparmiatori meno avvezzi ai giochi di prestigio sono soprannominati il parco buoi , ma dove chi decide di giocare si assume il rischio d’impresa. Senza contare i costi dell’intervento pubblico, delle perdite di posti di lavoro e delle conseguenza per il territorio. Anche per l’anno che ci buttiamo alle spalle, quindi, ce n’è per tutti i generi e tipi.

I GRANDI CLASSICI DEL CRAC. Con un costo stimato, sempre dall’Adusbef, in 860 milioni di euro il primo e 160 milioni il secondo, sono stati i casi Deiulemar e Banca Network a fare la parte del leone nella prima metà dell’anno coinvolgendo oltre 42mila risparmiatori. Per il crac della compagnia di navigazione di Torre del Greco delle famiglie Della Gatta, Iuliano e Lembo è stato disposto il giudizio immediato con la prima udienza in calendario per il prossimo 11 marzo. Ma sarà lunga sdipanare la matassa di una vicenda che ha dell’incredibile, dove i milioni raccolti presso i risparmiatori, ma anche vip locali e capiclan, non venivano messi a bilancio e depositati direttamente sui conti correnti personali del capostipite degli armatori, senza alcun controllo alla faccia delle normative sull’antiriciclaggio.

“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha commentato qualcuno. Che dire invece della vicenda di Banca Network Investimenti , Bni, il cui slogan era “Una banca efficiente. Sempre al tuo fianco”, salvo poi lasciare a piedi 69 dipendenti e 28mila correntisti che quest’estate si sono visti congelare i conti da un giorno con l’altro in attesa dell’intervento del Fondo di tutela dei depositi? Per non parlare della sorte degli obbligazionisti che avevano finanziato con oltre 32 milioni di euro la Sopaf dei fratelli Magnoni che aveva in mano la maggioranza della banca e che a sua volta è crollata in autunno sotto il peso di oltre 100 milioni di debiti. Ma che grazie alla riforma del diritto fallimentare in tema di concordati preventivi introdotta dal governo Monti con il decreto Sviluppo, viaggia ancora tra le tutele del concordato e il fallimento.

A secco, quindi, creditori e, ancor di più, i piccoli azionisti che soltanto nell’ultimo anno di scambi, in Borsa hanno assistito al tracollo del titolo che ha bruciato l’ 84% del suo valore. Proprio mentre il socio di maggioranza, Giorgio Magnoni fratello del più noto Ruggero, ex presidente di Lehman Brothers per l’Italia, “faceva affari d’oro nell’immobiliare sull’asse tra il Lussemburgo e la Germania”, come riportato dal quotidiano Mf lo scorso 12 dicembre. Immancabili, quindi, gli accertamenti in corso da parte della magistratura sulla vicenda Sopaf, come su quella di Banca Network che include gli investimenti in titoli rischiosi da parte dell’istituto A partire da quelli targati Lehman Brothers.

PRODOTTI BANCARI FINITI IN CLASS ACTION. Ma i soldi dei risparmiatori non finiscono solo nelle azioni delle società quotate in Borsa. Ci sono sia i prodotti finanziari più o meno strutturati, sia i banali conti correnti. Un’area piuttosto vasta e delicata, quindi, che quest’anno ha registrato il via della prima class action nei confronti di un gruppo bancario, Intesa SanPaolo . Oggetto del contendere, che potrebbe riguardare fino a 400mila clienti dell’istituto, alcune spese di conto che sono state introdotte dalla banca in sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009 e giudicate illegittime da Altroconsumo , che ha promosso l’azione collettiva partita a settembre. Il termine per l’adesione è il prossimo 21 gennaio, mentre l’appuntamento in Tribunale a Torino per il conteggio finale delle adesioni è fissato per marzo.

In attesa degli esiti della più ampia inchiesta della magistratura sulla gestione della Banca Popolare di Milano di Massimo Ponzellini , si sta invece chiudendo con una conciliazione da almeno 40 milioni di euro la triste vicenda del convertendo allegro della Bpm, il bond ad alto rischio da 170 milioni di euro che era stato venduto nel 2009 senza la necessaria informazione a 15mila clienti della banca milanese oggi nelle mani di Andrea Bonomi . L’intesa, però, non porterà a grandi risultati per i consumatori secondo l’Aduc, unica associazione che non l’ha firmata commentando che “questi tavoli di conciliazione si risolvono in una buffonata a danno dei risparmiatori ed a vantaggio in primo luogo della Banca (che paga una piccola frazione di quello che dovrebbe sborsare), secondariamente delle associazioni che vi partecipano”.

MANCATI INCASSI. Notevole, poi, la lista delle fregature assolutamente legali. Come le uscite dal listino a prezzi convenientissimi per l’azionista di maggioranza, ma piuttosto deludenti per il piccolo investitore costretto giocoforza ad aderire alle Offerte pubbliche di acquisto (Opa) perché in minoranza. E’ il caso, per esempio, di Benetton , con la famiglia di Ponzano Veneto che a febbraio ha approfittato dei prezzi da saldo per ritirare dal mercato la società dei maglioncini a un controvalore di circa 270 milioni di euro pari a 4,6 euro per azione. Somma che secondo il Sole 24 Ore equivale pro quota a meno del solo valore degli immobili della società.

“Sempre meglio che niente”, commenta chi invece è rimasto a bocca asciutta. In caso di cambio di controllo di una società quotata, per offrire a tutti i soggetti coinvolti la stessa possibilità di guadagno, la normativa prevede infatti l’obbligo del lancio di un’Opa allo stesso prezzo per tutti gli azionisti. Legge che però si può aggirare. In prima istanza fermandosi alla soglia 29,99% del capitale, basta che non ci sia un accordo segreto con altri azionisti per avere comunque la maggioranza nelle assemblee dove si prendono le decisioni importanti senza pagare il dazio ai soci di minoranza. E’ proprio su questa ipotesi che sta indagando la Procura di Milano a proposito della vittoria del gruppo Salini sul rivale Gavio all’assemblea di Impregilo dello scorso luglio, che peraltro è stata dichiarata regolare dal Tribunale, anche se sulla sentenza pende un ricorso in appello. La questione non è da poco, anche perché tra la ragnatela di interessi che gravitano intorno alla società di costruzioni c’è l’appalto per il Ponte sullo Stretto di Messina con annesse penali da mezzo miliardo a carico dello Stato.

Ancor più delicato, coi tempi che corrono, il tema delle esenzioni dall’Opa nei casi accertati di salvataggio delle società in crisi. Come quello del gruppo Premafin-Fondiaria Sai che fu dei Ligresti che ha tenuto banco per tutto l’anno. E anche qui la Procura indaga, tra il resto, sull’ipotesi dell’esistenza di accordi irregolari nell’ambito dell’esenzione dal lancio dell’Opa concessa dalla Consob a Unipol , a patto che dal piano orchestrato da Mediobanca venissero cancellati i vantaggi previsti per la famiglia Ligresti, dato che avrebbero premiato l’azionista uscente e per di più responsabile del dissesto, lasciando a bocca asciutta gli altri investitori. Le clausole sono state cancellate, ma a fine luglio gli stessi Ligresti hanno fatto saltar fuori un ipotetico accordo segreto da 45 milioni con l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che nella faccenda, in quanto creditore miliardario sia verso i Ligresti che verso Unipol, aveva tutti gli interessi a che l’operazione andasse a buon fine.

GRUPPI E CREDITI DA SALVARE. Ma quella del papello Nagel-Ligresti è sola una delle tappe della vicenda Ligresti al vaglio degli inquirenti tra Milano e Torino. Come è ancora tutta da giocare la partita entrata nel vivo nel 2012 sul salvataggio dei grandi gruppi quotati con una buona dose di debiti che non fanno dormire sonni tranquilli né ai banchieri, né ai grandi azionisti. E talvolta neppure allo Stato. Si va dall’immane debito dell’editrice del Corriere della Sera , Rcs , che coinvolge tutto quel che resta del gotha della finanza italiana che sul tema continua a prendere tempo, al buco del Monte dei Paschi di Siena , passando per Parmalat e Telecom Italia , a proposito della quale perfino un manager pubblico come Franco Bassanini si è appena unito al coro della richiesta di un incentivo statale, per aiutare la società soffocata da 30 miliardi di debiti frutto di una privatizzazione “sbagliata” ad aprire la rete agli altri operatori.

Quel che è certo, intanto, è che nel caso Unipol-FonSai i risparmiatori, inclusi quelli che avevano investito sulla compagnia delle Coop, oltre che con l’Opa mancata possono già fare i conti con l’evaporazione di investimenti per una somma complessiva compresa tra 300 e 400 milioni di euro. In quello del Monte dei Paschi, i soldi, 3,9 miliardi più altri 550 milioni potenziali per gli interessi, arrivano direttamente dal contribuente via ministero del Tesoro. Mentre su Parmalat pagano innanzitutto i dipendenti, che con la prevista chiusura di tre stabilimenti rischiano il posto di lavoro. Intanto l’azionista francese Lactalis si è premurato di vendere a Collecchio una sua società americana, portandosi a casa metà del tesoretto da 1,5 miliardi raccolto da Enrico Bondi con le azioni legali contro le banche per il crac di Calisto Tanzi , che era custodito nelle casse del gruppo. E che così ha finito col servire anche ad alleggerire i debiti dei francesi verso Mediobanca, che a Lactalis nel 2011 aveva prestato 410 milioni proprio per l’acquisto di Parmalat. Anche qui la magistrature è al lavoro, l’ipotesi a carico dei vertici della società è di appropriazione indebita. Ma è difficile che si arrivi a un punto prima di una decisione definitiva sulle sorti del centinaio di dipendenti italiani a rischio.

 

2013, altro che i Maya

Dopo che siamo sopravvissuti - lo scorso 21 dicembre - alla annunciata fine del mondo, non ci resta ora che cercare di prevedere - con ragionamenti prudenti ma più cartesiani - il nostro futuro immediato. Basandoci sui principi della geopolitica, una disciplina che permette di comprendere il gioco complessivo delle potenze e di valutare i principali rischi e pericoli. Per anticipare, come su una scacchiera, le mosse di ogni potenziale avversario.
Se guardiamo, in questo inizio d'anno, una mappa del pianeta, immediatamente notiamo vari punti con luci rosse accese. Quattro di essi presentano alti livelli di rischio: Europa, America latina, Medio Oriente e Asia.
Nell'Unione europea, l'anno 2013 sarà il peggiore dall'inizio della crisi. L'austerità come unico credo e i colpi di scure sullo stato sociale continueranno, perché questo esige la Germania che, per la prima volta nella storia, domina l'Europa e la dirige con mano di ferro. Berlino non accetterà alcuna modifica fino alle elezioni del 22 settembre, in cui il Cancelliere Angela Merkel potrebbe essere eletta per un terzo mandato.
In Spagna, le tensioni politiche aumenteranno man mano che la Generalitat de Cataluña andrà precisando i termini della consultazione sul futuro di questa Comunità Autonoma. Processo che, da Euskadi, i nazionalisti baschi seguiranno con grande interesse. Per quanto riguarda la situazione economica, già pessima, dipenderà da ciò che accade... in Italia alle prossime elezioni (in febbraio). E dalle reazioni dei mercati ad una eventuale vittoria del conservatore Mario Monti (che ha il sostegno di Berlino e del Vaticano) o del candidato di centrosinistra Pier Luigi Bersani, in una posizione migliore nei sondaggi. Inoltre dipenderà dalle condizioni (certamente brutali) che Bruxelles esigerà per l'aiuto che Mariano Rajoy finirà per chiedere. Per non parlare delle proteste continuano a diffondersi come la benzina e che finirà per venire a contatto con un fiammifero acceso... Esplosioni potranno verificarsi in una qualsiasi delle società del Sud Europa (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) esasperate dalle bastonature sociali permanenti. L'Unione europea non uscirà dal tunnel nel 2013, e tutto potrebbe peggiorare se, in più,i mercati decidessero di attaccare (come neoliberisti li stanno incoraggiando a fare) con la Francia del molto moderato socialista François Hollande.
Anche in America latina l'anno 2013 è pieno di sfide. In primo luogo in Venezuela, paese che dal 1999 svolge un ruolo chiave nei cambiamenti progressisti in tutto il subcontinente. La ricaduta inaspettata nella malattia del presidente Hugo Chávez - rieletto lo scorso 7 ottobre - crea incertezza. Anche se il presidente si sta riprendendo dalla sua nuova operazione per il cancro, non possono essere escluse nuove elezioni presidenziali nel mese di febbraio. Nominato da Chávez, il candidato della rivoluzione bolivariana sarebbe il vicepresidente attuale (equivalente al primo ministro) Nicolas Maduro, un leader molto forte, con tutte le qualità, umane e politiche, necessarie per imporsi.
Ci saranno anche le elezioni del 17 febbraio in Ecuador: la rielezione del presidente Rafael Correa, un altro importante leader latinoamericano, non è in dubbio. Elezioni importanti, il 10 novembre, anche in Honduras, dove, il 28 giugno 2009, è stato spodestato Manuel Zelaya. Il suo successore, Porfirio Lobo, non può correre per un secondo mandato consecutivo.In cambio,il Tribunal Supremo Electoral ha autorizzato la registrazione del Partido Libertad y Refundación (Libre), guidato dall'ex presidente Zelaya, che presenta, come candidata, sua moglie ed ex first lady Xiomara Castro. Altrettanto importanti le elezioni in Cile, il 17 novembre. Qui, l'impopolarità attuale del presidente conservatore Sebastián Piñera offre possibilità di vittoria alla socialista Michelle Bachelet.
L'attenzione internazionale sarà inoltre concentrata su Cuba. Per due ragioni. Perché continuano i colloqui, all'Avana, tra il governo colombiano e i ribelli delle Farc: si cerca di porre fine all'ultimo conflitto armato in America latina. E perché decisioni si aspettano da Washington. Nelle elezioni degli Stati Uniti del 6 novembre scorso, Barack Obama ha vinto in Florida: ha ottenuto il 75% dei voti ispanici e - molto importante - il 53% del voto cubano. Risultati che danno il presidente, nel suo ultimo mandato, un ampio margine di manovra per avvicinarsi alla fine del blocco economico e commerciale dell'isola.
Dove niente sembra muoversi è, ancora una volta, nel Vicino Oriente. Lì si trova l'attuale focolaio di pericolo del mondo. Le rivolte della "primavera araba" sono riuscite a rovesciare vari dittatori locali: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia. Ma le elezioni libere hanno permesso che i partiti islamisti di ispirazione reazionaria (i Fratelli musulmani) conquistassero il potere. Ora vogliono, come stiamo vedendo in Egitto, conservarlo a tutti i costi. Per lo sgomento della popolazione laica che, essendo statala prima a ribellarsi, rifiuta di accettare questa nuova forma di autoritarismo. Identico problema in Tunisia.
Dopo aver seguito con interesse le esplosioni di libertà nella primavera del 2011 in questa regione, le società europee si stanno di nuovo disinteressando di ciò che accade. Pare troppo complicato. Un esempio: la inestricabile guerra civile in Siria. Dove ciò che è chiaro è che le grandi potenze occidentali (Stati Uniti, Regno Unito, Francia), alleate con Arabia Saudita, Qatar e Turchia, hanno deciso di appoggiare (con soldi, armi e istruttori) l'insurrezione islamista sunnita. Che, sui diversi fronti, continua a guadagnare terreno. Quanto a lungo resisterà il governo di Bashar El Assad? Il suo destino sembra segnato. Russia e Cina, i suoi alleati diplomatici, non daranno il via libera, alle Nazioni Unite, a un attacco della Nato come in Libia nel 2011. Ma sia Mosca che Pechino ritengono che la situazione del regime di Damasco è militarmente irreversibile, e hanno cominciato a negoziare con Washington una soluzione al conflitto che preservi i loro interessi.
Di fronte all' "asse sciita" (Hezbollah libanese, Siria, Iran), Gli Stati uniti hanno costituito in questa regione un ampio "asse sunnita" (da Turchia e Arabia Saudita fino al Marocco passando per Il Cairo, Tripoli e Tunisi). Obiettivo: rovesciare Bashar El Assad, e quindi privare Teheran del suo principale alleato regionale, prima della prossima primavera. Perché? Perché si svolgono, il 14 giugno, le elezioni presidenziali in Iran. Alle quali Mahmoud Ahmadinejad, l'attuale presidente, non può presentarsi perché la Costituzione non consente più di due mandati. Vale a dire che, per i prossimi sei mesi, l'Iran si troverà immerso in una violenta contesa elettorale tra i sostenitori di una linea dura nei confronti di Washington e quelli che difendono il cammino del negoziato.
Di fronte a questa situazione di sicura incertezza nel governo dell'Iran, Israele in cambio starà preparando un eventuale attacco alle strutture nucleari iraniane. Nello stato ebraico, in effetti, le elezioni generali del 22 gennaio vedranno probabilmente la vittoria della coalizione ultraconservatrice, che rafforzerà il primo ministro Benjamin Netanyahu, sostenitore di un bombardamento dell'Iran il più presto possibile.
Questo attacco non può avere luogo senza la partecipazione militare statunitense. Lo accetterà Washington? È poco probabile. Barack Obama, che si insedierà il 21 gennaio, si sente più sicuro dopo la sua rielezione. Sa che la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica statunitense non desidera più guerre. Il fronte dell'Afghanistan resta aperto. Quello della Siria anche. E un altro potrebbe aprirsi nel nord del Mali. Il nuovo Segretario di Stato, John Kerry, avrà il delicato compito di calmare l'alleato israeliano.
Nel frattempo, Obama guarda verso l'Asia, area prioritaria da quando Washington ha deciso il riorientamento strategico della sua politica estera. Gli Stati Uniti cercano di frenare l'espansione della Cina circondandola con basi militari e appoggiandosi nel contempo sui suoi partner tradizionali: Giappone, Sud Corea, Taiwan. Significativamente, il primo viaggio di Barack Obama dopo la sua rielezione, il 6 novembre, è stato in Birmania, Cambogia e Thailandia, tre stati della Associazione delle Nazioni del sudest asiatico (Asean). Un'organizzazione che riunisce gli alleati di Washington nella regione e la maggior parte dei cui membri hanno problemi di confini marittimi con Pechino.
I mari della Cina sono diventati le aree di maggiore potenziale di conflitto armato dell'area Asia-Pacifico. Le tensioni tra Pechino e Tokyo, per quanto riguarda la sovranità delle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), potrebbero aggravarsi dopo la vittoria elettorale, il 16 dicembre, del Partito liberaldemocratico (Ldp), il cui leader e nuovo primo ministro Shinzo Abe, è un "falco" nazionalista conosciuto per le sue critiche alla Cina. Anche la disputa con il Vietnam sulla proprietà delle isole Spratly sta aumentando pericolosamente di tono. Soprattutto dopo che le autorità vietnamite hanno ufficialmente posto lo scorso giugno l'arcipelago sotto la loro sovranità.
La Cina sta modernizzando a tutta velocità la sua marina. Il 25 settembre scorso ha varato la sua prima portaerei, la Liaoning, con l'intenzione di intimidire i suoi vicini. Pechino sopporta sempre meno la presenza militare degli Stati Uniti in Asia. Tra i due giganti si sta creando una pericolosa "sfiducia strategica" che, senza dubbio, segnerà la politica internazionale del secolo XXI.

 

Negli ambulatori del Parlamento 60 camici bianchi a 2 milioni di euro all’anno

Con una nuova delibera datata 18 dicembre, Palazzo Madama punta a rafforzare ulteriormente il presidio di cardiologi e infermieri interni: aperte le selezioni per altri cinque cardiologi e altrettanti tra anestesisti e rianimatori

di Thomas Mackinson

La via crucis del ri-candidato si fa più stretta e incerta che mai. Una corsa al cardiopalma, roba da rimanerci secchi. Sarà per questo che il presidente del Senato, Renato Schifani ha deciso di rafforzare il presidio di cardiologi e infermieri presso l’Ambulatorio di Palazzo Madama . Sotto l’albero di Natale, il 18 dicembre, è arrivata una delibera dell’ufficio di presidenza che apre ufficialmente le selezioni per cinque specialisti in cardiologia e cinque in anestesia e rianimazione. Non tirocinanti di primo pelo ma laureati con almeno 105/110 ed esperienza professionale minima di cinque anni per i medici e di quattro per gli infermieri.

Quello del Senato , del resto, è un ambulatorio di tutto rispetto: aperto tutto l’anno, 24 ore su 24, gratuito e a uso esclusivo degli inquilini del palazzo. E lì per legge da ben 27 anni: in origine, spiegano da Palazzo Madama, doveva garantire ai senatori non residenti a Roma l’assistenza sanitaria dei loro colleghi della Capitale, ma col tempo il mini-ambulatorio è diventato maxi. La platea dei pazienti si è infatti allargata a deputati, ex parlamentari , dipendenti del Senato e dei gruppi, mentre il personale conta oggi un medico e quattro infermieri in pianta stabile, più altri 26 camici bianchi retribuiti a prestazione per assicurare i turni h24. E così sono lievitati i anche i costi: nel 2011, ultimo dato disponibile, sono arrivati a 650mila euro. Non è difficile crederlo, visto che per quasi trent’anni il presidio è stato aperto anche quando il palazzo era semideserto e gli inquilini in vacanza, nei week end, perfino a Natale e ad agosto.

Solo qualche mese fa il Consiglio di Presidenza ha deciso di chiuderlo dalle 13 di sabato alle 8 del lunedì, durante i festivi infrasettimanali e nei giorni di ferie con un risparmio di circa 240mila euro. Ma niente panico. Quando l’ambulatorio è chiuso l’assistenza medica è assicurata da una società esterna ( Medical Care ) a un costo di 20 mila euro l’anno. A Palazzo Madama spiegano che non sono soldi buttati perché nel presidio medico si lavora a pieno regime: in un anno si effettuano 13mila prestazioni, più 700 soccorsi, in maggioranza di tipo cardiologico. Un dato sorprendente se rapportato al numero dei senatori e alla platea dei potenziali marcatori di visita. In un giorno di normale attività parlamentare al Senato, infatti, entrano più o meno 2.500 persone. Forse lavorare in Parlamento è più usurante di quanto si pensi e questo potrebbe spiegare anche quei 7,7 milioni di euro chiesti da senatori (e parenti) per prestazioni sanitarie integrative.

I deputati non sono da meno. I servizi sanitari d’emergenza alla Camera sono assicurati da un ambulatorio con personale medico-infermieristico rinforzato da un servizio distaccato dall’ Asl di Roma e da una convenzione diretta con il Policlinico Gemelli . Un presidio che conta su una trentina di camici bianchi tra interni ed esterni che costa 1,4 milioni di euro l’anno. La convenzione per i presidi di palazzo Montecitorio e dei palazzi Marini, in corso dal 2007, conta quattro medici dirigenti e due unità di personale infermieristico che prestano servizio per 36 ore la settimana. Tutti ben retribuiti. Un medico alla Camera costa 60 euro lordi l’ora che diventano 90 dopo le 22, il sabato e nei giorni festivi.

A fine anno il camice bianco a Montecitorio porta a casa 90-100 mila euro. E sono in quattro. Gli infermieri, prendono 44 mila euro l’anno più maggiorazioni e sono in due. Ma vanno poi aggiunti i turnisti esterni e i 435mila euro per la convenzione con il Policlinico. Il conto finale è così salato da spiazzare gli stessi beneficiari del servizio (che in teoria dovrebbero godere di ottima salute, visti i 10 milioni di rimborsi sanitari dello scorso anno). Rita Bernardini (Pd), ad esempio, il 12 ottobre scorso ha chiesto al Collegio dei Questori di optare per uno dei due servizi. Il parere è stato accolto e protocollato ma non si sa se sortirà qualche effetto. L’emergenza sanitaria in Parlamento, a quanto pare, continua.

 

Anni precedenti

> Anno 2012

> Anno 2011

> Anno 2010

> Anno 2009

> Anno 2008

> Anno 2007

> Anno 2006

> Anno 2005

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE