Istat: "Nel 2012 crescita
dei prezzi doppia rispetto a salari: mai così male dal '95″
L'istituto di statistica comunica i dati sulle
retribuzioni contrattuali orarie nella media dell'anno appena concluso aumentate
dell'1,5 per cento rispetto al 2011: "Si tratta della crescita media annua più
bassa dal 1983". L'inflazione li doppia: +3 per cento. Il divario tra le due
voci è il maggiore dal 1995. Confindustria: "Toccato il fondo, ora possibile
rimbalzo"
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 28 gennaio 2013
Prezzi sempre più alti, stipendi sempre più bassi. Nella serie Istat sulle
retribuzioni contrattuali orarie per l'intera economia, che riporta i valori
medi annui dal 1983, non si era mai registrato un livello così basso. Infatti il
2012 segna un incremento inferiore anche a quello del già 'nero' 2011, quando
l'indice era salito dell'1,8%, il minimo dal 1999.
Tornando al 2012, parlando del dato più basso dal 1983, ovvero da 29 anni quindi
del record assoluto negativo, si deve tenere conto delle condizioni molto
differenti che caratterizzavano gli anni Ottanta, con un'inflazione molto più
alta visto che c'era ancora la lira.
Nella media del 2012 la forbice tra l' aumento delle retribuzioni contrattuali
orarie (+1,5%) e l' inflazione (+3,0%), su base annua, è stata di 1,5 punti
percentuali. Quindi la crescita dei prezzi è stata doppia rispetto a quella dei
salari . Si tratta del divario maggiore, a sfavore delle retribuzioni, dal 1995.
Le retribuzioni contrattuali orarie a dicembre restano quasi ferme rispetto a
novembre, salendo solo dello 0,1%, mentre crescono dell'1,7% su base annua (dal
+1,6% del mese precedente). Il dato tendenziale, il più alto dall'ottobre 2011
(terzo aumento consecutivo), nonostante la frenata dei prezzi, rimane sotto il
livello d'inflazione (+2,3%), ma il divario si restringe a 0,6 punti percentuali
(il gap era di 0,9 punti a novembre).
Inoltre, a dicembre risultano in attesa di rinnovo 32 accordi contrattuali , di
cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione, relativi a circa 3,7 milioni
di dipendenti (intorno ai 3 milioni nel pubblico impiego). La quota di
dipendenti che aspettano il rinnovo è pari al 28,4% nel totale dell'economia. A
riguardo l'Istituto ricorda che a partire dal 2010 tutti i contratti della
pubblica amministrazione sono scaduti.
L'economia italiana "sta toccando il fondo della dura recessione , la seconda in
cinque anni. Si delineano i presupposti di un rimbalzo che può dare avvio alla
ripresa", commenta nella Confindustria nel rapporto "Congiuntura flash". "La
sfiducia ha infatti compresso la domanda interna ben oltre quanto giustificato
dalla situazione oggettiva dei bilanci familiari e aziendali - si legge
nell'analisi mensile - gli acquisti di beni durevoli sono scesi molto più del
reddito reale disponibile, gli investimenti sono ai minimi storici in rapporto
al Pil e le scorte sono bassissime".
Secondo il Centro studi di viale dell'Astronomia , infatti, la sfiducia ha
compresso la domanda interna "ben oltre quanto giustificato dalla situazione
oggettiva dei bilanci familiari e aziendali": gli acquisti di beni durevoli sono
scesi molto più del reddito reale disponibile , gli investimenti sono ai minimi
storici in rapporto al Pil e le scorte sono bassissime. Contemporaneamente, si
legge ancora, vengono meno o si allentano le tre cause del regresso: credit
crunch, iper-restrizione dei bilanci pubblici e frenata della domanda globale.
A giudizio di Confindustria, però "basilare per la ripartenza è che si sollevi
la cappa di paura creata dalla situazione politica interna; perciò - ribadisce
l'organizzazione - è cruciale che l'esito delle imminenti elezioni dia al Paese
una maggioranza solida, che abbia come priorità le riforme e la crescita,
fornendo così un quadro chiaro che infonda fiducia nel futuro e orienti
favorevolmente verso la spesa le decisioni di consumatori e imprenditori.
Rimarranno deboli le costruzioni, per le quali vanno prese misure specifiche".
Tra gli elementi positivi, Confindustria elenca il fatto che nel sistema globale
l' incertezza politica si sia "quasi dissolta", i "continui segnali di
progresso, alcuni perfino nell'Eurozona" grazie all'azione della Bce ("che
rimane però timida sui tassi"), la Cina che è ripartita, il risveglio
dell'edilizia residenziale negli Stati Uniti, le materie prime, specie il
petrolio, "che fiutano il riavvio mondiale".
Femminicidio:
il silenzio delle liste
Oggi Donika Xhafa, una donna albanese di 47 anni,
è stata trovata morta in mezzo alla starda uccisa dall'ex convivente, Raffaele
Vorraro, 59 anni, a Vercelli dove lei viveva con i figli dopo la separazione.
Sembra che l'uomo si fosse recato da lei per una riconciliazione ma per farlo
era andato con una pistola in tasca, arma usata per uccidere la donna con 4
colpi: "l'uomo le avrebbe sparato un primo colpo dalla sua auto, poi sarebbe
sceso per finirla con altre 3 colpi" ( Quotidiano.net). Donika Xhafa è la sesta
vittima di femminicidio in Italia dall'inizio dell'anno, e arriva alle pagine
della cronaca dopo un anno di insistenti richieste di intervento della società
civile nei confronti del governo Monti e dopo mesi di dibattito sul femminicidio
nei media. E se anche oggi è triste vedere ancora sui giornali parlare di
"raptus" e di "gelosia", ancora più inquetante è il silenzio di questa campagna
elettorale di fronte a un fenomeno che continua come se "nulla fosse", anche
dopo che Amnesty International ha presentato a tutti i leader delle coalizioni
politiche che si presentano alle elezioni del 24 e 25 febbraio, il suo decalogo
sui diritti umani introducendo esplicitamente il punto su "il femminicidio e la
violenza contro le donne". Di fronte a un attacco evidente, frontale, massiccio
sui diritti delle donne, nessun partito si è alzato dicendo: questo lo metto nel
mio programma. Ma bisogna fare delle distinzioni: se Vendola ha almeno firmato
la Convenzione nazionale "No More!" contro la violenza maschile sulle donne
pochi giorni prima delle primarie, e Bersani ha appoggiato il ddl per il
contrasto al femmincidio su cui ha lavorato Anna Serafini, nel movimento di
Ingroia c'è un silenzio assordante su questi temi, un silenzio non
giustificabile per un movimento che si pone a sinistra e che vorrebbe partire
dalla società civile. Una dimenticanza, in una campagna elettorale che arriva
dopo un anno molto faticoso per le donne, ingiustificata. La violenza domestica,
che non è uno scherzo per la quantità di donne e bambini che coinvolge (l'85%
della violenza in Italia è violenza domestica e ci sono circa 400 mila bambini
che assistono alla violenza in famiglia), è il terreno su cui si sviluppa il 70%
dei femmincidi in Italia, in situazioni in cui le donne il più delle volte si
trovano in una prigione da cui non riescono a uscire. Su questo, prima della
campagna elettorale, si sono consumati fiumi di inchiostro ma quello che il
governo Monti ha fatto praticamente - a parte far firmare all'Italia la
Convenzione europea di Istanbul e fare un ddl per una ratifica futura - è nulla,
o meglio ha detto "faremo" (forse) ma non ha risposto agli appelli che
chiedevano politiche immediate, con la conseguenza che le donne sono continuate
a essere uccise per mano dei propri partner. Ora, per esempio, sarei curiosa di
sapere come le diverse forze politiche in corsa per le elezioni, intendendono
prendersi carico di questo problema, e come penserebbero di "vestire" la
Convenzione di Istanbul, perché se anche adesso tutti sono d'accordo per la
ratifica, in realtà bisogna vedere come il parlamento italiano intende rendere
effettive le indicazioni di Istanbul. E alla luce del dibattito al Senato nel
settembre scorso sulla firma della Convenzione europea, dove alcune forze
politiche di centro destra (Udc e Lega) facevano notare il pericolo di mettere
in discussione il concetto di famiglia (si è parlato addirittura di
incostituzionalità di alcuni punti della Convenzione), mi sembra evidente che
ogni intesa con questi signori, soprattutto se hanno stretti rapporti con il
Vaticano, sia molto pericolosa per le donne. E questo bisogna dirlo prendendo
posizione pubblica.
Le
forze politiche dovrebbero chiarirci come la pensano, e come intendono aiutare
le donne che, nel tentativo di uscire da un incubo, cercano aiuto, denunciano,
si separano da un marito violento e invece di trovare tutela e protezione dalle
istituzioni, o vengono uccise (come la donna di oggi) o si ritrovano non credute
in tribunale, o vengono implicate loro stesse in responsabilità che non hanno
sulla violenza che subiscono e, nel caso siano presenti minori, con il rischio
di sottrazione anche dei figli. Mi preme chiarire ai leader che si presentano,
che un Paese che ha ratificato varie convenzioni internazionali a protezione dei
minori, vuole una risposta chiara al perché qui, in Italia, sono in aumento casi
in cui - anche in presenza di un procedimento penale per violenza fisica,
sessuale, psicologica, stalking, ecc. - un giudice può decidere di togliere il
bambino dal contesto in cui vive per metterlo in casa-famiglia, o collocarlo
addirittura presso il genitore che il minore rifiuta, in base alla diagnosi,
fatta da psicologi o psichiatri nei tribunali attraverso le Ctu (consulenze
tescniche d'ufficio) di una malattia che non esiste, ovvero la sindrome di
alienazione parentale (Pas). Bambini sottratti con la forza o con l'inganno,
perché le istituzioni devono "tutelare" il diritto a una bigenitorialità che non
può essere costruita "resettando" il cervello dei bambini. Dopo il caso di
Padova, che ha fatto scalpore per i modi in cui il minore è stato prelevato a
scuola il cui video trasmesso a "Chi l'ha visto" ha fatto il giro del mondo,
sulla questione non si è più aperto bocca e tutto è stato messo nel cassetto.
Eppure in Italia i bambini che transitano nelle case famiglia - per varie
ragioni tra cui anche i contrasti sull'affido - sono circa 30.000, con un costo
di circa 3mila al mese a bambino. Un trauma che si aggiunge al trauma e che può
avere effetti devastanti sul minore che viene strappato dal suo contesto: casa,
scuola, affetti, amici, tutto, per essere appunto "resettato" in un ambiente
"neutro".
L'anno scorso la Commissione giustizia al Senato, grazie all'impegno di alcuni
senatori e senatrici dell'Idv e del Pd - e soprattutto grazie alla senatrice
Silvia Della Monica - è stato bloccato il disegno di legge (ddl 957) sulla
modifica dell'affido condiviso dei minori che avrebbe sdoganato definivamente la
Pas introducendola nella legge: una malattia che lo stesso ministero della
salute ha diffidato dal riconoscere e che non è mai stata riconosciuta in
maniera ufficiale in alcun modo. Malgrado ciò il partito democratico non ha
voluto ripresentare in queste liste Silvia Della Monica (Pd), mentre Rivoluzione
Civile ha collocato Sara Vatteroni (Idv), che si occupa sia di Pas che di minori
che di violenza contro le donne, al 23° posto (Camera) nella lista Toscana,
mentre Frida Alberti (Idv), per cui vale lo stesso discorso di Vatteroni, è
stata messa al 6° posto in Liguria per il Senato: donne con competenze
specifiche e importanti che quasi sicuramente non passeranno.
C'è però chi alla questione ci tiene eccome, perché la Pas si è intrufolata nei
tribunali italiani grazie alla lobby pro-Pas (che ora chiamano alienazione
parentale ma che ha gli stessi effetti devastanti nei tribunali), schieramento
di avvocati, psicologi, pscichiatri, esperti vari che coinvolgono padri in fase
di separazioni problematiche. Senza nulla togliere ai padri separati in
difficoltà economica e/o con problemi di relazione con le ex partner in presenza
di figli minori (che sicuramente vanno aiutati come e quanto le mamme), questo
gruppo rappresenta un tesoretto di voti su cui qualcuno già ha messo gli occhi,
nella prospettiva di riattivare il ddl 957 sulle modifiche dell'affido condiviso
ora fermo al Senato (mentre un altro disegno è alla Camera). Ed è così che Casa
Pound Italia, che partecipa alle prossime elezioni, ha messo nel suo programma:
"Sostegno ai padri separati e ridefinizione delle norme sull'affidamento della
prole e sull'assegnazione degli alimenti in caso di separazione coniugale",
mentre Fratelli d'Italia - che sostengono Francesco Storace nella corsa verso la
presidenza della Regione - hanno fatto di questi temi la loro bandiera
assecondando molte delle istanze contenute nel ddl 957 che modificherebbe
l'affido condiviso con gravi effetti su donne e minori. E se anche il Movimento
5 stelle ha cominciato a interloquire con queste istanze, Bruno Volpe - il
direttore di Pontifex da cui prese infelice spunto il prete di Lerici per dire
che le donne il femminicidio se lo vanno a cercare - ha parole di conforto
dichiarando che da una parte pensa "ai tanti padri separati che dormono per
strada ridotti in miseria" e dall'altra pensa "ai tanti bimbi abortiti, molti
più delle donne uccise". Giorni fa Casini (schierato con Monti e Fini) ha detto
da Vespa che pensa "ai padri separati che dormono in macchina e fanno la fila
alle mense della Caritas", mentre Matteo Salvini (Lega alleata con Pdl) da
Santoro ha ricordato il finanziamento di 500 mila euro della Regione Veneto
pensato in particolare per i padri separati. Aiuti importanti che non tengono
conto che di fronte ai tanti padri separati ridotti in miseria, esiste una
maggioranza di madri separate in povertà che nessuno aiuta e che non cercano
sponsor politici. Secondo l'Istat il 12,7% delle persone che si rivolgono alla
Caritas sono separate o divorziate, e di queste il 66,5% sono donne mentre il
33,5% sono uomini. Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento Istat, ha
affermato tempo fa che "certamente esistono padri in gravi condizioni, ma i dati
Istat ci dicono che sono le donne sole e con figli separate/divorziate le
persone a maggior rischio di povertà e non lo afferma solo l'Istat ma anche
altre ricerche". Per l'Istat tra gli uomini separati l'1,6% è povero di contro a
un 3,5% di separate in povertà, dato che in presenza di figli minori sale al
15,4% per le donne.
Vorremmo che lo schieramento "di sinistra" si pronunciasse su questi temi, e non
solo sul femminicidio o sulla Pas, ma sul grave attacco riguardo i diritti delle
donne e dei minori, perché il voto delle donne non è affatto scontato.
di Luisa Betti
28 gennaio
Cronache dall'Italia in
crisi: "Così siamo diventati poveri"
Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro al mese. L’ascensore
sociale è tornato indietro di 27 anni. La crisi economica ha massacrato la
classe media che si ritrova così a fare i conti con le bollette ammucchiate sul
frigo, l’assillo dell’affitto da pagare, la retta dei bambini a scuola. Ecco
alcune semplici storie di chi per farcela compra il pane del giorno prima o
divide la casa con altre famiglie. Vite di laureati che fanno i baristi e di
mariti mandati sul lastrico dal divorzio di CONCITA DE GREGORIO
I
NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo
neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie
che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La
commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha
l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre.
Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che
discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che
parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma
quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille
euro. La media delle famiglie italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno,
dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale
per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo.
C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che
genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione.
Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una
famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la
quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà relativa.
Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che
separarsi è diventato un lusso da ricchi,
che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli
alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi,
come queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza diffusa
comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in
scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800
euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato
assolutamente normale.
Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal
malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un
destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del
Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come
spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che
manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale
dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza
libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono
chiacchiere.
LA CASSIERA
"Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza"
"Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca solo
quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime sono rimasta
l'ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi meno un giorno, poi
cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti danno due euro, ti "formano",
poi ti mandano a casa e avanti un'altra. Così se ne va la giovinezza e poi dopo
a quarant'anni dove lo trovi un impiego? Sì, qui nel nostro "super" facciamo gli
sconti last minute. Non li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il
formaggio, o il latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino
all'80 per cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che
vada a male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano
tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi pensionati.
Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro, la busta di plastica
da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli anziani, ma i pensionati che
vedo io hanno anche meno di sessant'anni. A 58 anni non sei vecchio, ma se da un
giorno all'altro i duemila euro di stipendio diventano 900 di pensione e se hai
ancora i figli a casa... Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare
la carne che scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben
vestiti, poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più
in monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i punti
della spesa si possono devolvere all'istituto di quartiere per il materiale
scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?"
L'OPERATRICE DI CALL CENTER
"Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese"
"Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con me. Ho
cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata, tre anni fa. Il
mio ex marito non è in condizione di darci niente. Prendo, come tutti, 80
centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da quanto lavoro. Se sono in
salute, se ci metto gli straordinari posso arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di
affitto, più un centinaio di bollette varie. Con i 300 euro che restavano a
vivere in due non ce la facevamo. Come me le altre, che al call center siamo
soprattutto donne, e tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere
insieme, un paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre
donne, una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli.
Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A turno
laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una ha il figlio
con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo anche una serata
libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una tv, un computer. Dividiamo
tutto, per orari e per giorni. È una specie di comune anni Settanta: solo che
allora lo facevamo per scelta, ora per necessità. Mio padre era impiegato, mia
madre maestra. Hanno laureato tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia
laurea ho dovuto nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il
lavoro. Mia figlia dice che l'università non serve, non so più cosa risponderle.
Da ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no, a
votare non ci vado più".
IL PANETTIERE
"Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c'è la fila per comprarlo"
"Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: "Il pane di ieri a metà prezzo". Ho
raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare le suscettibilità di
nessuno. Sa com'è: siamo tutti benestanti fino a prova contraria, il paese è
piccolo, la gente parla, la dignità non ha prezzo. Però vedo che lo chiedono in
tanti, il pane di ieri. Mi chiamo Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il
commerciante, qui a Sulmona. Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno
"Profumo di pane", che è anche una pasticceria. Un'attività di medie dimensioni:
tre punti vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove
dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si vendevano tutti
i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il pane da noi siamo abituati
a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno spreco che non ci possiamo più
permettere. Mia madre faceva il pane con le patate che durava venti giorni.
Allora ho pensato: ma perché abbiamo smesso di fare così? Se avessimo fatto
attenzione, in passato, se fossimo stati più sobri... Io le vedo le persone a
negozio, la conosco Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell'Aquila,
abbiamo passato tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i
figli che sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo
i conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri, l'impresa. È
buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è sacro. Non si butta.
Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per giustificarsi: sa, ci devo
fare le polpette, i ripieni. Che importa se non è vero".
L'IMPRENDITRICE FALLITA
"Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l'azienda non c'è più"
"Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le ingiunzioni
di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per rimetterci in piedi ci
voleva un po' di tempo, un po' di liquidità, soprattutto avevamo bisogno di non
essere in mora coi pagamenti. C'è una legge per i casi come il nostro, ho
controllato. Ma non è successo niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni
continuavano ad arrivare. 200 mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi?
Papà si è sparato. L'azienda non c'è più. E lo sa poi cos'è che lo ha rovinato?
L'amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti, consegnati, con
la mano d'opera e i materiali pagati: e i pagamenti delle municipalizzate, delle
Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a dodici mesi. E se protesti è peggio,
perché poi non lavori più. Ma come fai ad aspettare e intanto pagare i
contributi ai dipendenti? Da dove li prendi i soldi? E se ritardi la stessa
amministrazione pubblica che non ti paga i lavori ti nega la patente di
legalità, non ti dà le carte che ti servono per accedere ai crediti bancari. E
così muori, perché poi ci sarebbe da parlare dell'usura bancaria, l'usura legale
che ti strozza e ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono
stanca e non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo
pensato di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo,
il polmone produttivo d'Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo Flavia,
lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel'ho detto. Tanto qui da noi lo sanno
tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei solo sparire".
IL SEPARATO
"Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità"
"Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono tutti a
intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: "Le case dei padri separati",
scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse storie, tutte uguali. Cosa c'è
di interessante? Non è normale? E poi perché tutti ora? Sono anni che va così e
nessuno si è mai occupato di come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si
separa, deve pagare gli alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che
viva? Con 300 euro al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì,
va bene, scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza
dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana ogni
due. La casa l'ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo nello stesso
letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima, quando giravo per i
divani letto degli altri, era peggio. Sono diplomato: grafico. Lavoro in una
ditta, faccio il materiale pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo
lavoro, ma è un miracolo se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo
sono andato in depressione. Dopo l'apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma
come è possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare la
tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è schifezza per
addormentarsi. La macchina l'ho venduta, mio figlio a scuola lo accompagno coi
mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo alla fermata prima della scuola. Non
bisognerebbe separarsi mai. Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l'ho
fatta, e ora pago".
IL LAUREATO
"Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese"
"Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala Consilina,
una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori operai. Ho due
fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato niente. Ho visto i miei
lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola c'era la torta e il vino dolce,
d'estate si andava in vacanza al mare, stavamo bene, noi figli abbiamo studiato
tutti. Certo che i miei hanno fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me
che mi hanno mandato a Roma e mi hanno pagato i libri, l'affitto della stanza, i
biglietti del treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora:
Giurisprudenza, con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa.
Una festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che bellezza
Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io non lo faccio
l'avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno, come si dice da me.
Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello che faccio è lavorare in un
pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la notte: entro alle sette e stacco alle
tre del mattino, e prendo 400 euro al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio
io entra un altro. Ho una ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei
essere contento, ho avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho
un'angoscia dentro che mi porta via. Io l'avvocato non lo faccio ma al paese mio
non lo sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po', non salite, aspettate
che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la terza
media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?".
Noi li espelliamo loro li picchiano
Human Rights Watch denuncia lo scandalo dei migranti minorenni arrivati nei
nostri porti e ricacciati in Grecia, dove sono maltrattati e malmenati. Senza
che nessuno dica niente. La testimonianza dei ragazzi dall'inferno
di LUCA FAZIO
Se
qualche anima bella non ha il coraggio di guardare la scena dei cani che
sbranano uno schiavo «negro» nell'ultimo film di Tarantino ambientato
nell'America razzista di 160 anni fa, può consolarsi immaginando la scena
raccontata da un ragazzino afghano scoperto in un camion nel porto di Patrasso
(Grecia, settembre 2011). Si chiama Assad H. Non è un film. «Uno mi ha storto la
mano dietro la schiena e l'altro ha lasciato la catena con cui teneva il cane e
ha detto qualcosa al cane, che mi ha attaccato. Mentre l'altro ufficiale mi
teneva. Ho pianto, i commandos mi hanno portato dietro i binari in modo che
nessuno potesse vedermi, e mi hanno lasciato lì».
Anche Sadaat S, afghano, 16 anni, diverse volte ha provato a saltare su un
camion per raggiungere l'Italia via mare. E ci riproverà ancora. «Molte volte
cerco di andarmene, ma loro mi catturano. Mi hanno fatto male. Mi hanno messo in
prigione. Cerco di salire dentro un camion. Non ho soldi per un trafficante.
Alcuni dei miei amici hanno fatto la traversata... in un camion frigorifero con
cibo e carne. Sono morti». Ahmed S., anche lui minorenne, lo scorso maggio era
anche riuscito ad arrivare in Italia, ma lo hanno rispedito indietro. Sempre
Patrasso. «Quando ci prendono vogliono la nostra Sim e allora me la sono
nascosta bene in tasca. Così mi hanno fatto male, in tutti i modi, calci, pugni,
su tutto il corpo. Questo è successo il giorno dopo il mio ritorno dall'Italia.
Ero andato al porto per provarci di nuovo... Ora non ho i documenti con me. Ho
paura della polizia, perché mi farà del male. Ci catturano all'interno del porto
e se non c'è nessuno lì, ci fanno del male, del male sul serio».
Ogni anno migliaia di persone cercano di raggiungere l'Italia nascondendosi
sulle navi che attraversano l'Adriatico, un numero superiore ai migranti che
sbarcano o muoiono nel mare di Lampedusa. Sono di più, ma fanno meno notizia, e
probabilmente molti ce la fanno. Tra i protagonisti di queste storie di
ordinaria immigrazione ci sono anche bambini e adolescenti che scappano dalle
guerre. Poi ci sono «i cattivi», le autorità greche: la Grecia, come ha
certificato anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha un sistema di asilo
che non funziona caratterizzato da condizioni inumane e degradanti di
detenzione, con una lunga teoria di violenze xenofobe già documentate. Infine,
ci sono i «complici», cioé noi, le autorità italiane, che in violazione di tutte
le leggi del diritto internazionale rispediscono in Grecia quasi tutti i
richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste. Bambini soli compresi. Senza
controlli e senza tanti complimenti, anche se le leggi italiane proibiscono
l'allontanamento immediato e senza riscontri di bambini migranti.
Non era ragionevole immaginarsi procedure diverse, ma adesso questa violazione
di un diritto umano è documentata da un rapporto presentato da Human Rights
Watch intitolato Restituiti al mittente: le riconsegne sommarie dall'Italia alla
Grecia dei minori stranieri non accompagnati e degli adulti richiedenti asilo.
L'associazione ne ha incontrari tredici. Si comporta così la polizia di
frontiera dei porti di Ancona, Bari, Brindisi e Venezia, facendo finta di
ignorare le condizioni spaventose che i migranti incontreranno in Grecia.
L'associazione ha intervistato 29 persone, tra bambini e adulti, 20 dei quali
«rispediti al mittente» nel 2012, durante il governo di Mario Monti, quello che
aveva restituito la credibilità internazionale all'Italia.
Dopo aver rischiato la morte per soffocamento, o lesioni permanenti,
nascondendosi nei camion o nelle intercapedini tra una merce e l'altra, i
migranti «rispediti» solitamente vengono affidati ai comandanti dei traghetti
commerciali e trascorrono altre ore di navigazione rinchiusi in celle
improvvisate o nelle sale macchine, a volte ammanettati, nutriti alla meno
peggio. Per legge, invece, il governo italiano dovrebbe disporre accertamenti
per tutti coloro che affermano di essere minorenni, ma solo uno dei ragazzi
intercettati da Human Right Watch ha detto di essere stato sottoposto a un
controllo. Una radiografia al polso. «La maggior parte di quelli che abbiamo
incontrato - spiega Alice Farmer - sono ragazzi afghani in fuga dai pericoli,
dal conflitto e dalla povertà. L'Italia deve comportarsi responsabilmente verso
questi bambini e garantirgli tutele adeguate a cui hanno diritto». Quasi inutile
aggiungere, invece, che il diritto di asilo viene palesemente calpestato, per
tutti, adulti compresi: nei porti le domande di asilo sostanzialmente non
vengono prese in considerazione. La polizia di frontiera di Bari, per esempio,
su 900 stranieri scoperti tra il gennaio 2011 e il giugno 2012 (più di 50 al
mese) ha concesso solo 12 permessi. Quasi nessuno può testimoniare cosa avviene
quando si scatena la caccia all'uomo nei porti italiani. Le ong sotto contratto
per offrire servizi ai migranti scoperti di solito non possono nemmeno
avvicinarsi. Significa che quasi nessuno viene informato sul suo diritto di
presentare domanda di asilo. Non ci sono interpreti e molti sono costretti ad
esprimersi a gesti davanti ai poliziotti.
Secondo Human Right Watch, la Corte europea dei diritti umani presto dovrebbe
emettere una sentenza di condanna contro l'Italia proprio per i respingimenti
verso la Grecia. Si tratta di un caso specifico che risale al 2009, quando
Maroni era ministro degli Interni. Trentacinque persone, tra cui dieci bambini,
sostengono che quel procedimento di espulsione fosse in violazione del loro
diritto alla vita e alla protezione contro la tortura e i maltrattamenti. Ieri
proprio il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils
Muiznieks, ha ammonito l'Italia a non respingere i migranti in Grecia. «La Corte
di Strasburgo - ha aggiunto - nel 2011 ha già condannato uno stato, il Belgio,
per il rinvio automatico di un migrante che chiedeva asilo in Grecia, dato che
il sistema di asilo di questo paese è fortemente deficitario. L'Italia deve fare
la sua parte per assicurare che le richieste di asilo fatte dai migranti siano
attentamente esaminate», perché «i respingimenti automatici sono incompatibili
con la protezione dei diritti umani».
23 gennaio
«Bisogna presentar liste pulite,
perciò vi prego di restare fuori
-dice il Cavalier, udite, udite !-
Ce lo richiedono gli elettori !».
Seguono attacchi di epatite,
crescono dappertutto malumori,
scelte discusse e maldigerite,
tutti diventano contestatori !
Vorrebbero riccorrer in appello
ed hanno presentato già l’istanza,
gridano al complotto, al tranello:
«Tradito il principio d’uguaglianza !».
Il Cavaliere, nell’ora cruciale,
risponde : « Io sono … più uguale !».
In Sicilia gli impresentabili Pdl rimangono al loro posto. Lascia solo
Dell’Utri
Se in Campania l’esclusione di
Nicola Cosentino dalle liste per le prossime elezioni politiche ha causato
un vero e proprio terremoto nel Popolo della libertà, sull'Isola il partito
di Silvio Berlusconi non ha riservato grosse sorprese. Così,se da una parte
rinuncia il senatore palermitano, dall'altra restano in pole position D'Alì,
Schifani, Caputo, Romano e Minardo
di Giuseppe Pipitone
Nessuna
fuga e tutti al proprio posto, inclusi gli “impresentabili”. Se in Campania
l’esclusione di Nicola Cosentino dalle liste per le prossime elezioni
politiche ha causato un vero e proprio terremoto nel Pdl , a metà tra la
farsa e la tragedia, in Sicilia il partito di Silvio Berlusconi non ha
riservato grosse sorprese. Nelle liste presentate dal Pdl sull’Isola,
infatti, sono inclusi tutti gli esponenti del partito del predellino che
nelle scorse settimane avevano rischiato di rimanere fuori dalla corsa per
un seggio in Parlamento.
In forse fino all’ultimo era il senatore Antonio D’Alì , attualmente
imputato con il rito abbreviato per concorso esterno in associazione mafiosa
. D’Alì è un fedelissimo di Berlusconi: a Palazzo Madama dal 1994, è stato
sottosegretario all’Interno fino al 2006. Dopo anni d’indagini, nell’ottobre
scorso è iniziato il processo che lo vede accusato di concorso esterno a
Cosa Nostra: secondo la procura di Palermo il senatore ha intrattenuto
rapporti con i Messina Denaro, storica famiglia mafiosa trapanese. Don
Ciccio Messina Denaro , capostipite del clan, era stato campiere proprio
nelle terre della famiglia D’Alì, mentre secondo alcuni collaboratori di
giustizia lo stesso Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante di Cosa
Nostra , si sarebbe adoperato attivamente per fare votare il senatore alle
elezioni del 1994. D’Alì ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento, ma quel
processo per mafia rischiava di far depennare il suo nome dalle liste per il
Senato. Berlusconi però non poteva permettersi di escludere l’esponente
principale del suo partito a Trapani, storica roccaforte di Forza Italia
prima e del Pdl poi. D’Alì è quindi stato inserito in sesta posizione nella
lista per il Senato.
A guidare i candidati siciliani per Palazzo Madama sarà lo stesso Berlusconi,
dietro di lui l’attuale presidente del Senato Renato Schifani , recentemente
archiviato dalla procura di Palermo che lo indagava per concorso esterno a
Cosa Nostra . All’ottavo posto nella lista del Pdl al Senato anche Antonio
Scavone , braccio destro di Raffaele Lombardo : già condannato a 400mila
euro di risarcimento dalla corte dei conti per la gestione della Asp 3 di
Catania , Scavone è accusato di abuso d’ufficio per aver affidato senza gara
un appalto da due milioni di euro a Melchiorre Fidelbo , marito di Anna
Finocchiaro . Candidato al Senato, ma con la lista Fratelli d’Italia, è
invece il deputato regionale del Pdl Salvino Caputo , condannato in appello
a un anno e cinque mesi per tentato abuso d’ufficio .
E se, il 20 gennaio, il senatore Marcello Dell’Utri , l’amico di una vita di
Berlusconi, annunciava il ritiro della sua candidatura (“non mi serve più”,
diceva a Il Fatto Quotidiano), trova posto nelle liste del Pdl per la Camera
dei Deputati, anche l’ex ministro dell’agricoltura Saverio Romano . Al
leader del Cantiere Popolare è stata garantita la seconda posizione in
Sicilia Occidentale, subito dietro Angelino Alfano : l’elezione del
fedelissimo di Totò Cuffaro è dunque blindata. Romano è stato di recente
assolto per concorso esterno in associazione mafiosa , nel processo che in
primo grado è stato celebrato con il rito abbreviato. Di recente la Procura
di Palermo per lui ha chiesto l’archiviazione anche per un’altra indagine
che vede Romano indagato per corruzione : avrebbe ricevuto 50mila euro da
Gianni Lapis , storico tributarista di Vito Ciancimino , per inserire in
finanziaria una norma a favore della Gas spa , l’azienda energetica che
avrebbe fatto capo all’ex sindaco mafioso di Palermo e a Bernardo Provenzano
.
Confermato tra i candidati alla Camera, ma in Sicilia Orientale, anche Nino
Minardo , condannato nel 2011 in primo grado con il rito abbreviato ad un
anno di reclusione per abuso d’ufficio . Minardo è il giovane rampollo di
una dinastia di petrolieri con la passione per la politica: suo zio
Riccardo, già deputato nazionale e regionale con il Movimento per
l’Autonomia, è stato arrestato nell’aprile del 2011 per associazione a
delinquere, truffa aggravata e malversazione ai danni dello Stato proprio
mentre sedeva all’Assemblea regionale Siciliana. Si affida a candidature
familiari anche Gianpiero Samorì che nei suoi Moderati in Rivoluzione
candida i fratelli Ruggirello : Paolo, deputato regionale proveniente dal
Movimento per l’Autonomia è numero due alla Camera, mentre Bice, già
candidata alle regionali del 2006 con il Ccd, è numero 2 al senato. Sono i
figli di Giuseppe Ruggirello, banchiere trapanese proprietario negli anni
’70 della Banca Industriale, storico sponsor del leader socialista Bartolo
Pellegrino , vice presidente della Regione Sicilia governata da Cuffaro,
arrestato per mafia nel 2007 mentre al telefono chiamava i carabinieri
“sbirri e infami” e poi assolto in via definitiva.
Curiosa invece la seconda piazza al Senato che la lista Monti per l’Italia
ha riservato allo “sconosciuto” Rosario Sidoti . L’ex consigliere
provinciale del piccolissimo comune messinese di Montagnareale ha infatti
superato a sorpresa nomi di peso come quello del senatore uscente Benedetto
Adragna , che per seguire Monti ha lasciato il Pd, e quello di Antonino
Recca , rettore dell’Università di Catania, piazzandosi dietro soltanto al
capolista Pierferdinando Casini, e dunque in posizione utilissima per
l’elezione. Sidoti però è indicato come uomo di fiducia dell’ex tesoriere
dell’Udc Pippo Naro , già condannato in via definitiva a sei mesi per abuso
d’ufficio e sotto processo per le tangenti Enav: il partito di Casini ha
dunque preferito non riproporlo. Almeno non in prima persona.
La crisi fa arretrare l’Italia di 27 anni “Reddito pro capite come nel 1986”
Nel 2012 nel mondo persi 4 milioni
di posti di lavoro
L’analisi
di Rete Imprese Italia:negli ultimi 12 mesi hanno chiuso
100 mila aziende
Il reddito disponibile degli italiani scivola ancora e nel 2013 tornerà ai
livelli di 27 anni fa. Secondo un’analisi di Rete Imprese Italia il dato è
sceso a meno di 17mila euro: 16.955 euro contro i 17.337 euro dello scorso
anno. Nel 2007, anno di inizio della crisi, il dato era a 19.515 euro.
Redditi
Il reddito disponibile reale pro capite è calato nel 2012 del 4,8% a 17.337
euro: il dato emerge da un’analisi di Rete Imprese Italia che prevede un
ulteriore calo, a 16.955 euro, nel 2013. Questa previsione, ha spiegato
Mariano Bella di Rete Imprese Italia, determina su questo fronte «un salto
indietro al 1986».
Imprese
Sale a quota 100mila il conto delle imprese `morte´ nel 2012 rispetto al
2011. Lo afferma Rete Imprese Italia in un’analisi presentata oggi. Il saldo
tra mortalità e natalità delle aziende artigiane e di servizi di mercato più
manifatturiere e costruzioni porta la somma a 100mila aziende «scomparse».
Consumi
Consumi ancora in calo nel 2013 dopo un 2012 che ha segnato -4,4% dei
consumi reali procapite. Lo afferma Rete Imprese Italia stimando una
flessione dell’1,4% per l’anno in corso, con un balzo indietro di 15 anni:
15.695 euro i consumi procapite nel 2013 rispetto a 15.753 del 1998.
18 gennaio
Casini, difensor della famiglia,
la sua se l’è tutta candidata:
il genero, marito della figlia
ed un nipote dell’altra cognata.
E non si ferma a questa pariglia,
ci mette dentro tutta la nidiata
per allestir un’intera squadriglia
ed affrontare l’ardita crociata !
La coerenza di Pierferdinando
è diventata quasi proverbiale:
per prender voti si va ammogliando
e fa la campagna elettorale!
Della famiglia ha un senso raro
e si sposò persino con…. Cuffaro !
vox
La metamorfosi di Berlusconi:
“Ora fa il simpatico e il voto ci guadagna”
Secondo il critico letterario Marco Belpoliti, il Cavaliere "è un attore, non un
presidente" e gesti come quello di pulire la sedia di Travaglio a Servizio
Pubblico servono per rafforzare la propria immagine di "venditore". Un copione
che potrebbe avere conseguenze sulle urne
di Beatrice Borromeo
“Mi tassa il piffero?” ha chiesto il Cavaliere a Ilaria D’Amico che lo
intervistava, poche ore prima di incontrare Antonio Ingroia nei corridoi de La7
salutandolo col gesto delle manette, in perfetto gangnam style , o di dare in
testa a un cronista dell’ Espresso un cartellone di polistirolo. “È il perfetto
Vitellone felliniano, goliardico, infantile. Soprattutto simpatico. E sa una
cosa? Funziona”, dice il critico letterario Marco Belpoliti , che sul sito
doppiozero.com ha anche analizzato lo sketch numero uno di B., quello della
sedia.
Professore, cos’ha pensato quando ha visto Berlusconi che spolverava il suo
sgabello a Servizio Pubblico, dopo che lì s’era seduto Travaglio?
Era una scena da commedia all’italiana, da Sordi al cinepanettone. Era un gesto
che voleva sdrammatizzare la sua lettera a Marco Travaglio, accattivare il
pubblico e far ridere. Infatti, per la prima volta dall’inizio della
trasmissione, aveva quel suo sorriso pienamente soddisfatto in volto. Poi c’è
anche il fattore mania.
In che senso?
Da bravo venditore, Berlusconi è fissato con l’igiene, con l’alito fresco, con
l’aspetto fisico, con la pulizia. Lui ha purificato quella sedia dalla presenza
del nemico, estraendo il fazzoletto in maniera meccanica, sapendo di averlo in
tasca pronto per l’uso.
Mossa studiata?
Poco importa, perché lui è un Totò per davvero. Attinge dal cabaret: è un
attore, non un presidente. Se lo immagina Monti fare una cosa simile? Piuttosto,
mi ricorda gli sberloni ai passeggeri del treno in partenza di Amici Miei .
Sembrano lontani i tempi del Berlusconi spregiudicato e aggressivo, che
chiamava Gad Lerner per insultarlo e difendere la Minetti. È il Caimano
cangiante che si adatta alla campagna elettorale?
Ricordiamo che l’ex premier nasce come intrattenitore sulle navi da crociera,
però è evidente che essere antipatici prima delle elezioni non serva. Questo
anche perché Berlusconi non è un politico, e non ha nulla da perdere: dubito che
la simpatia sia sufficiente, ma certo male non fa.
Crede che basti almeno a farlo percepire come innocuo?
Le risate riescono a far dimenticare molte nefandezze. E lui, che vive solo
l’attimo e ha completamente cancellato o riscritto il passato, conosce bene
questa regola.
Si dice che durante l’ultimo anno abbia meticolosamente studiato l’approccio
di Beppe Grillo, preparando la strategia perfetta per il ritorno.
Di certo Grillo è il suo vero competitor: pagherei per vedere un faccia a faccia
tra i due. Dice che qualcuno gli scrive le battute? Dubito che ce ne sia
bisogno.
Magari c’è chi gli consiglia di farle.
Ma lui è così, e lo era anche prima di questa campagna elettorale: ricordate il
cucù alla Merkel e le corna nella foto del vertice Ue? Il che non significa che
sia se stesso. È solo una delle parti che recita.
Se continua a recitarla bene potremmo avere sorprese alle urne?
Ha presente la celebre frase “una risata vi seppellira”? Ecco, sta provando a
seppellirci.
Bike-sharing
Roma, il flop: un milione e 600mila euro buttati e bici rubate
Paola Mentuccia
Le isole del bike sharing a Roma sono abbandonate. Ormai i cittadini si sono
assuefatti al degrado e al mancato servizio della ‘bici condivisa’ . Un flop
milionario per il Comune e centinaia di biciclette sparite. Il servizio è
partito nel 2008 durante gli ultimi mesi della giunta del sindaco Walter
Veltroni , affidato alla multinazionale spagnola Cemusa, incaricata della
gestione e manutenzione delle stazioni in cambio di preziosi spazi pubblicitari
in città. Il risultato di utenza era positivo: 3000 abbonamenti in sei mesi .
Sempre nel 2008, si insedia il sindaco Gianni Alemanno (Pdl) e il contratto con
la ditta viene revocato perché le imprese di pubblicità romane si oppongono
all’ingresso di una ditta concorrente. Il bike sharing viene quindi affidato
all’azienda per la mobilità Atac e presto abbandonato. “A causa di un debole
sistema di sicurezza, un controllo inesistente – racconta Massimiliano Tonelli
del blog ‘bike-sharing Roma’ - il parco bici in poco tempo è stato depredato dai
ladri: oltre 450 biciclette al costo di circa 200 euro ciascuna. La spesa
pubblica complessiva – continua – è stata di circa un milione e 600 mila euro
per un servizio, ad oggi, inesistente” di Paola Mentuccia
16 gennaio
Lo scambio tra Michele e
Silvio
NORMA RANGERI
Uno spettacolo televisvo vecchio e triste che peserà sul risultato del 24
febbraio perché gli elettori, specialmente gli indecisi, si formano un'opinione
politica attraverso la televisione. La controprova è la flessione dei consensi a
Grillo (da qualche settimana fuori dalla tv). E tre ore in prima serata sono un
inestimabile tesoro, un capitale che frutterà con gli interessi. Silvio
Berlusconi ha di che essere soddisfatto, perché è lui, il leader bollito, che,
alla fine del confronto con Michele Santoro, ha vinto la partita, politica e
mediatica, incassando e restituendo colpi e sorrisi.
Una platea di nove milioni di telespettatori il Cavaliere la sognava. Tanti,
tutti insieme non li aveva mai conquistati. Solo nel faccia a faccia con Prodi
gli era capitato di trovarsi di fronte a qualcosa di simile (dodici milioni di
italiani), ma da allora è passata un'era politica. La marcia forzata e solitaria
davanti alle telecamere gli stava dando qualche soddisfazione, i sondaggi
registravano un certo successo, il cono d'ombra cominciava a illuminarsi. Ma il
colpo grosso, quello che davvero avrebbe restituito un certo rango alla sua
campagna elettorale continuava solo a sognarlo. Poi il miracolo, l'invito tanto
atteso nello studio di Cinecittà, di fronte allo storico nemico mediatico.
Ma davvero Santoro gli offriva questa meravigliosa, straordinaria occasione?
Possibile che, pur sapendo che il vecchio leader non aveva nulla da perdere, lo
avrebbe accolto come l'ospite d'onore di Servizio Pubblico, dentro un format
pietrificato, fatto di servizi e ritorni in studio, di protagonismi scontati, di
narcisismi allo specchio? Ma certo che sì, chi meglio dei duellanti poteva
capire il valore di questo do ut des virtuale? La7 incassava uno stratosferico
risultato di audience, Santoro un record personale. A Berlusconi un auditorium
che nemmeno i suoi miliardi avrebbero potuto comprare. E così è stato.
Un parte del pubblico, più maschile che femminile, nella maggior parte del
centronord, con un alta permanenza temporale davanti al piccolo schermo, ha
rivissuto un incubo, proprio come se il tempo si fosse fermato. Alla fine, dopo
un fuoco d'artificio finale sparato da Marco Travaglio, e il siparietto di una
simil-rissa con Santoro, le luci si sono spente con una stretta di mano. E un
retrogusto amaro. Per aver consentito al vecchio nemico di giocare bene la sua
partita.
Solo un faccia a faccia avrebbe potuto sciogliere la maschera. Se non con
Bersani almeno con l'ex moglie, Veronica Lario. L'unica, non a caso, che è
riuscita a mandarlo ko in tribunale. Pretendere di farlo in un talk-show è stato
un errore, con l'informazione vittima illustre.
Da domani, rinfrancato dall'elisir delle telecamere, Berlusconi potrà sviluppare
lo schema di gioco della partita delle urne. Che, prima di tutto, consiste nella
riconquista di una larga parte dello zoccolo berlusconiano, impresa possibile
solo tornando al centro della scena, dalla quale Monti prima e le primarie dopo,
lo avevano escluso.
Dal welfare al warfare, così
si indebita lo Stato. Comprando armi
L'acquisto di armamenti avviene in sordina. Si
sfoglia un depliant e si sceglie il modello aereo o elicottero, siluro o sistema
di puntamento. Tutto è presentato con il codice rosso dell'emergenza, il voto
del Parlamento è solo consultivo
di Daniele Martini
Dal
welfare al warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con
un’accelerazione recente, l’Italia da paese che impegna le sue forze per la
protezione sociale e il benessere ( welfare ), sta diventando uno Stato che si
indebita per le armi ( warfare ). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate
decisioniste , con un sistema che tra il serio e il faceto nell’ambiente è
chiamato il “depliant” , come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di
viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei
supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi,
l’Italia ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini
, la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di
euro all’anno , a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile
quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico.
SOLDATO DEL FUTURO, MA QUANTO MI COSTI?
L’elenco delle spese è impressionante. In prima fila ci sono i soliti F-35 , i
cacciabombardieri della Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec , cioè il
soldato robotizzato del futuro (vedi foto). Per entrambi l’Italia ha già preso
impegni e speso quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva.
Entrambi implicano un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di
euro ciascuno di spese vive , cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare
gli annessi e connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla
sostituzione di componenti.
Per gli F-35, per esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia
addirittura più costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse
anche tre. In pratica con gli F-35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe
mettere sul piatto una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra
i 25 e i 40 miliardi di euro . Gli Stati maggiori sostengono, però, che una
quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro
italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista italiana difesa , molto
vicina agli ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il
raddoppio dello stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica)
sostenendo che sarebbe stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle
forze armate americane. Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in
proposito ha precisato ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti
sono programmati per essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto.
Con Forza Nec ci sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le
pressioni della “lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti,
anche nel rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari : un
tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’esercito e ai programmi
interforze. L’esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un
equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone,
necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e
quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio della
testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con Francia,
Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di quasi 4
miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh 101 un
altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000, costruiti
insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al 2018,
l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767 rifornitori
un altro miliardo.
Per Forza Nec il soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo
stesso, forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa
tornare indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato
firmato un contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati
(ancora Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane:
Galileo, Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering,
Impresa soldato futuro . Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per
i costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco
Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è
in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa
si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come
dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90
milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto
si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di compravendita di armi
comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe.
DUE “FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE
Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare
e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per
l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come
Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre
Finmeccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti
israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa
oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto questo
mamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè una nota
generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali ricadute
produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece decisivo
per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra il 10 per
cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e ammannito a
opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si trattasse di
roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la stessa scelta
concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani: “I clienti
possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”.
IL PARLAMENTO DICE NO ALL’ACQUISTO? SI COMPRA LO STESSO
Il Parlamento italiano con le armi può pronunciarsi liberamente, a patto che
dica sì, se dice no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il
voto ha valore solo consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano
stabilite con questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che
qualsiasi paese non può fare a meno di spendere per difendersi, così come del
resto è previsto anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque
quelle spese vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa
degli stati maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il
ministro è un militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo
Di Paola, cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro
le cose potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu,
deputato Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da
parte degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un
po’ più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante.
10 gennaio
Infortuni
sul lavoro: la strage silenziosa. E la vita di un giovane vale duemila euro
I numeri ufficiali degli incidente (mortali e
non) sono in calo. Ma, in parte, dipende dalla crisi e, in parte, secondo fonti
diverse dall'Inail, da una serie di sottovalutazioni del problema. Tra fatalismo
e tentativi di prevenzione, l'Italia resta in testa alle classifiche europee per
le morti e al terzo posto per numero di incidenti. E il registro previsto dalla
legge non parte mai. Messi sotto accusa dalla Ue dopo la denuncia di un
lavoratore toscano
ROMA - "Se gli infortuni nel settore edile
diminuiscono, è perché si lavora meno. Non sono infortuni che dipendono da
tecnologie particolari, per i quali si possono produrre processi di
apprendimento... la caduta dall'alto, per esempio è un fenomeno abbastanza
primitivo". Chi parla è il presidente dell'Inail, Massimo De Felice. Dalle sue
parole "l'ineluttabile fatalità" sembra essere ancora una componente
imprescindibile quando si parla di sicurezza sul lavoro (in questo caso
nell'ambito dell'edilizia). Eppure ai progetti di prevenzione nella costruzione
di edifici l'Inail ha destinato il maggior importo di finanziamenti alle
imprese, nel 2011, con circa 23 milioni di incentivi assegnati sui 205 totali
(155 l'importo nel bando per il 2012).
Fatalità e prevenzione. Stesso settore: cambio di scena. Michele Russo è
un sindacalista gambizzato dalla camorra. Attualmente fa parte del Cpt (Comitato
paritetico territoriale) di Caserta, un organo che opera grazie a un accordo tra
costruttori e organizzazioni sindacali per la prevenzione nei luoghi di lavoro.
Il suo territorio, da trent'anni, è compreso tra il Nord della Campania e l'agro
aversano: una zona tradizionalmente ad alta densità di imprese edili. Le persone
che prova a tutelare sono i 'favricatori'. "Gente per lo più analfabeta" -
racconta, "che però ha costruito l'alta velocità". Le prime volte che visitava
un cantiere lo scambiavano per un camorrista: "Avevo il codino e la prima
reazione immediata era la paura. Poi pensavano che fossi dell'ispettorato e
avevano ancora più timore. Quando capivano che non ero neppure quello, la
felicità massima. Non teniamo tempo da perdere... lasciateci in pace, mi
dicevano. Eppure siamo riusciti a farci aprire cantieri dove non vanno neanche
gli ispettori del lavoro". Oggi, però, di grandi cantieri neanche l'ombra: "Non
saprei dove portarvi", ammette. La crisi economica morde, con ricadute pesanti
anche sul versante della sicurezza. "Se negli ultimi dieci anni qualche
miglioramento c'era stato, adesso stiamo tornando indietro. Chi lavora nei
cantieri fa cose che aveva imparato a non fare, perché è troppo grande il
rischio di essere mandati a casa".
La distanza tra De Felice e Russo, lo iato tra fatalismo e prevenzione, incarna
la prima contraddizione in cui ci imbattiamo nel nostro viaggio tra infortuni e
morti da lavoro. Una strage per taluni ancora 'inevitabile' e troppo spesso
silenziosa. La fotografia dell'ultimo rapporto Inail (relativo al 2011): 725mila
infortuni denunciati, (-6,6% rispetto al 2010, -5% al netto dell'effetto perdita
quantità di lavoro), 920 casi mortali (680 sul luogo di lavoro e 240 in itinere,
complessivamente -5,4% rispetto al 2010, -4% tenendo conto della contrazione
occupazionale), 46.558 malattie professionali (+9,6%). Cosa resta fuori? Sempre
secondo le stime dell'istituto i circa i 165mila infortuni 'invisibili' derivati
da lavoro nero. Il 90% degli infortuni denunciati rientra nella gestione
Industria e servizi, il 6% in Agricoltura, il 4% riguarda lavoratori statali.
Per quanto riguarda i casi mortali 115 sono avvenuti nell'agricoltura, 425
nell'industria (tra cui 195 nelle costruzioni), 380 nei servizi. Le cause più
ricorrenti: caduta dall'alto (33%), caduta di gravi (27%), variazione di marcia
del veicolo (13%). Altra notazione: il 60% del fenomeno infortunistico si
concentra al Nord, con Lombardia, Emilia Romagna e Veneto che da sole sommano il
42% dei casi.
Primato europeo. Tentiamo con cautela un raffronto europeo (la materia è
spesso gestita diversamente, soprattutto per quando riguarda gli infortuni in
itinere, cioè accaduti nel viaggio verso il posto di lavoro). Secondo
statistiche Eurostat (aggiornate a dicembre 2012) considerando le attività del
Nace-R2 (una sorta di 'paniere' delle 13 attività economiche comuni ai paesi
della Ue) l'Italia tra il 2008 e il 2010 è stato per valori assoluti il Paese
con più morti sul lavoro (718 vittime nell'ultimo anno considerato, contro le
567 della Germania, le 550 della Francia, le 338 della Spagna e le 172 della
Gran Bretagna). Situazione leggermente migliore per gli infortuni con Germania e
Spagna, che precedono il nostro Paese, in valori assoluti.
La guerra dei dati. Anche in Italia, accanto ai dati ufficiali dell'Inail,
altre voci provano a raccontare una realtà differente. Carlo Soricelli è un
operaio metalmeccanico in pensione, che vive a Casalecchio di Reno (alle porte
di Bologna). Dal 2008 cura l'Osservatorio indipendente di Bologna morti sul
lavoro. "Lo faccio da solo, mi danno una mano i miei figli e qualche altro
volontario". I suoi dati si discostano sensibilmente da quelli dell'ente
pubblico: nel 2011, secondo Soricelli, ci sono stati più di 1170 vittime (+11,6%
rispetto al 2010), e anche per il 2012 il valore si manterrebbe costante, con
una stima di 1180. Ecco perché non nasconde le sue critiche su quelli che sono
ritenuti le statistiche più autorevoli del settore. "L'Inail non tiene conto dei
lavoratori che non hanno nessuna assicurazione e muoiono in nero" - spiega l'ex
operaio - "senza dimenticare le vittime nei nostri corpi militari o delle forze
dell'ordine e la difficoltà di classificare tutte le morti che avvengono sulle
strade". Nonostante da tempo sia diventato un punto di riferimento della
materia, il suo Osservatorio non trova sponde istituzionali: "I politici non mi
rispondono", rivela.
Risarcimenti: una vita vale poco. Altre polemiche si sono accese attorno
alle prestazioni erogate dall'Inail ai familiari di due vittime sul lavoro di
quest'ultimo anno: Matteo Armellini, morto a marzo, a Reggio Calabria, sotto il
palco di Laura Pausini e Nicola Cavicchi, che ha perso la vita nel crollo di un
capannone nel sisma dell'Emilia. Alle loro famiglie l'istituto ha versato
soltanto un assegno funerario di 1936,80. "C'è una legge", spiega il presidente
dell'Inail Massimo De Felice, "E l'Inail non può non applicarla, non ha gradi di
libertà". La norma in questione è il Testo Unico 1124/65. L'art. 85 disciplina,
infatti, anche le rendite ai superstiti (che si aggiungono ai 560mila invalidi
titolari di rendita per infortunio e ai 150mila per malattie professionali).
Punto controverso: la legge in questione non prevede indennizzi in caso di
vittime che non abbiano mogli e figli e non partecipino al mantenimento dei
genitori. Una norma che ignora, contrariamente a quanto succede nei principali
paesi europei, la convivenza more uxorio e penalizza i lavoratori più giovani.
Visto che le loro condizioni, infatti, per salari e contratti sono spesso
peggiorate rispetto ai loro genitori, mentre il meccanismo di calcolo della
rendita è rimasto immutato. Marco Bazzoni, un operaio metalmeccanico
(responsabile sindacale della sicurezza nell'azienda dove lavora in provincia di
Firenze), ha lanciato una petizione per la revisione del TU. "Valutare la vita
di un lavoratore meno di duemila euro è un'elemosina", spiega. La sua iniziativa
è stata recepita da una proposta di legge (n.5523) di alcuni deputati del Pd,
che rischia però, di non fare molta strada, vista anche la fine della
legislatura. Non è l'unico fronte su cui è attivo l'operaio toscano. Nel 2009,
grazie a una sua petizione, Bazzoni ha sollecitato l'apertura di una procedura
d'infrazione ai danni dell'Italia per le modifiche apportate dall'allora governo
Berlusconi, con il dlgs 106/2009, al Testo Unico del 2008. Due i punti sotto
accusa."Hanno stravolto l'impianto della legge con la deresponsabilizzazione del
datore di lavoro" - attacca Bazzoni -, "e la proroga del documento di
valutazioni dei rischi per le nuove aziende". Il 21 novembre l'Ue ha inviato un
parere motivato all'Italia, che ha due mesi di tempo per evitare pesanti
sanzioni
Il mondo misconosciuto delle malattie. La situazione non appare più
nitida per le malattie professionali. I dati, a riguardo, indicano un aumento
ininterrotto negli ultimi anni (+9,6% nel 2011). E l'Inail stima che i quasi 300
decessi indennizzati relativi al 2011 siano destinati nel lungo periodo ad
attestarsi attorno alle 1000 unità (705 nel 2009 e 623 nel 2010). I tumori
professionali rappresentano la prima causa di morte (oltre il 90%) per malattia
tra i lavoratori: 1200 denunce all'anno più le ulteriori 2000 denunce per
patologie tumorali legate all'amianto (e secondo l'Istituto Superiore di Sanità
il picco di mortalità per l'esposizione all'asbesto arriverà tra il 2015 e il
2020). Un dato di cui la stessa Inail ammette la probabile sottostima. In forte
crescita anche le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee che costituiscono
il 66% del totale delle denunce. Resta comunque la percezione di muoversi tra
confini ignoti agli stessi addetti ai lavori. Come conferma Vincenzo Di Nucci
presidente dell'Aitep (Associazione italiana tecnici della prevenzione): "E' un
mondo misconosciuto con una grande zona grigia. Se l'infortunio è un fenomeno
che ha un qui e ora, l'esposizione a un agente di rischio può durare anche tutta
la vita lavorativa così ricostruire l'inizio del processo diventa molto
complicato. Gli epidemiologi ci dicono che sul totale dei morti all'anno per
tumore in Italia è possibile stabilire un range tra il 4 e il 10% dovuto a
un'esposizione avvenuta sul posto di lavoro".
Il registro che non c'è. De Felice, nominato ai vertici dell'Istituto dal
ministro Fornero a maggio 2012 depotenzia così le polemiche sui dati: "Riteniamo
che l'Inail debba essere un fornitore ufficiale, quindi non debba né rispondere
a richieste né entrare in dibattiti troppo animati, deve fissare un calendario
per la diffusione dei dati e una chiave di lettura, una sorta di Istat, col
vantaggio che noi non dobbiamo raccoglierli ex novo". Quello che è fuori di
dubbio è che la difficoltà di avere dati omogenei tra tutti operatori del
settore è nota da tempo. Per questo tra le novità introdotte dal TU 81/2008 una
delle più attese, prevista dall'art.8, riguardava il SINP (Sistema informativo
nazionale prevenzione), un flusso di dati comune tra tutti gli operatori del
settore (tra gli altri Ministero del Lavoro, della Salute, delle Regioni e delle
Province di Trento e Bolzano, Inail, ex Ipsema e Ispesl). Una sorta di database,
gestito dall'Inail, costantemente aggiornato con tutte le statistiche relative
al fenomeno. A più di 4 anni dall'emanazione del Testo unico il SINP, però, non
è ancora partito. "Ne abbiamo sollecitato l'attivazione agli ultimi due ministri
del lavoro" - spiega Oreste Tofani presidente della Commissione Parlamentare
d'Inchiesta sugli infortuni sul Lavoro - "Ci dicono che è tutto è a posto, però
non parte". "Abbiamo avuto un lungo periodo di confronto con il Garante,
trattandosi di dati personali" - risponde Giuseppe Piegari, il responsabile
Coordinamento vigilanza tecnica del Ministero del Lavoro -,"i ritardi sono
dovuti alla delicatezza della materia, e ci sono state anche osservazioni del
Consiglio di Stato, ma siamo in dirittura d'arrivo". Al momento in cui si
scrive, tuttavia, non è ancora possibile sapere con certezza quando entrerà in
funzione il Sinp.
Lazio, acqua all'arsenico:
"Popolazione contaminata oltre la soglia di rischio"
Studio dell'Istituto superiore di sanità su un
campione di 269 volontari: l'analisi delle unghie mostra una concentrazione
media del metallo cancerogeno tre volte superiore ai limiti. E' il risultato di
una "emergenza" che va avanti da anni tra Latina, Viterbo e i Castelli romani.
Il 31 dicembre è scaduto il termine imposto dall'Ue, ma la situazione non è
cambiata
di Andrea Palladino
E' un'emergenza senza fine quella dell' arsenico
nelle acque di tre province del Lazio , con migliaia di persone obbligate a
vivere senza acqua potabile, costrette a usare le taniche anche solo per
cucinare. Migliaia le persone coinvolte nei Castelli romani , a sud della
capitale, a Latina e in buona parte della provincia di Viterbo. Una popolazione
che - secondo un recentissimo studio dell' Istituto superiore di sanità - ha
accumulato nel proprio corpo alte concentrazioni di arsenico, anche grazie al
sistema delle deroghe, che ha permesso ai gestori degli acquedotti di agire al
di fuori dei limiti di legge . Il 31 dicembre è scaduto il termine ultimo
stabilito dalla Commissione europea per la normalizzazione della situazione, ma
senza esito: in moltissime città dai rubinetti continua ad uscire acqua non
potabile.
La ricerca dell'Iss è partita nel 2011 subito dopo il diniego da parte della
commissione europea di una deroga che innalzasse i limiti di legge di cinque
volte, presentata due anni fa dalla giunta regionale del Lazio. Nell'ottobre del
2010 Bruxelles decise di non autorizzare quel provvedimento, che prorogava una
deroga iniziata subito dopo l'entrata in vigore delle norme europee sulla
qualità delle acque potabili, accolta dall'Italia nel 2001.
Il Reparto di tossicologia alimentare e veterinaria del Dipartimento di sanità
pubblica dell'Istituto superiore di sanità ha avviato - subito dopo l'ultimatum
della commissione europea - il biomonitoraggio di 269 volontari, tutti residenti
nelle zone con acqua ad alto contenuto di arsenico. Lo scopo dello studio era di
capire come la sostanza si accumulasse nel corpo, fattore chiave per stimare il
possibile pericolo per la salute. Il primo risultato è stato divulgato in una
newsletter del dipartimento di sanità pubblica e mostra dati poco rassicuranti.
La concentrazione dell'arsenico nelle unghie della popolazione monitorata, ad
esempio, raggiunge picchi di molto superiori alla norma (ovvero ai tassi
normalmente presenti nella popolazione residente in zona non contaminata):
"Nelle aree oggetto di studio, la concentrazione media e mediana di arsenico
nelle unghie è risultata pari rispettivamente a 252 ng/g e 188 ng/g (valori di
riferimento: 88 ng/g e 83 ng/g, ndr), con un valore massimo di 5107 ng/g . Per
oltre la metà dei soggetti, l'esposizione a lungo termine stimata mediante tale
biomarcatore è risultata superiore a quella massima misurata per la popolazione
di controllo", si legge nello studio.
Superiore ai valori di legge è anche il contenuto medio di arsenico riscontrato
nell'acqua utilizzata per cucinare dal campione della popolazione monitorato:
"La concentrazione media di arsenico nell'acqua utilizzata per la cottura e
preparazione degli alimenti è pari a 16,6 μg/L (mediana 14,7 μg/L), con un
intervallo di valori pari a 0,2-65,2 μg/L. Il 70% e 36% dei campioni presenta
concentrazioni superiori rispettivamente a 10 μg/L e 20 μg/L . Pertanto, l'acqua
utilizzata per la preparazione degli alimenti può dare un contributo
significativo all'esposizione complessiva".
E' la prova che l'arsenico assunto attraverso la cottura dei cibi con acqua
contaminata o bevendo dal rubinetto nelle zone con alti valori del metallo
pesante si concentra nel corpo. Dunque le conseguenze del lungo periodo di
deroghe - iniziato nel 2001 e terminato solo una settimana fa - rischiano di
essere pesanti per la salute. L'arsenico inorganico - ovvero quello contenuto
nelle acque - è oggi considerato dai principali istituti di ricerca un
cancerogeno di classe 1 , ovvero una sicura concausa per lo sviluppo dei tumori.
3 gennaio
Un miliardo in fumo in sei
mesi. Ecco la socializzazione delle perdite finanziarie
Secondo le stime dell'Adusbef, negli ultimi
dieci anni i risparmiatori hanno lasciato per strada qualcosa come 52 miliardi
di euro di perdite, più di 46mila euro a testa per più di un milione di persone,
un miliardo solo nei primi sei mesi del 2012. Ma il conto è al ribasso, perché
tiene in considerazione solo i crac finiti in un'aula di un tribunale. Senza
contare, quindi, le fregature del tutto legali
di Costanza Iotti
Oltre un miliardo di euro. E’ il totale dei risparmi degli italiani andati in
fumo soltanto nei primi sei mesi del 2012. E non per tasse, rincari o riduzione
della busta paga causa cassa integrazione, ma per la malafinanza. Del resto la
cosiddetta socializzazione delle perdite, contraltare della privatizzazione
degli utili ora di gran moda nell’Europa della crisi che taglia il welfare a
piene mani per tappare i buchi, è sempre stata di casa dove scorrono i soldi dei
risparmiatori. Per dare un’idea delle cifre in gioco, secondo le stime dell’
Adusbef i crac finanziari dal 2001 ai giorni nostri sono costati
complessivamente 52 miliardi di euro che sono stati scuciti dalle tasche di
1,121 milioni di comuni cittadini, per una spesa media unitaria di 46.387 euro .
E il calcolo è parziale, perché tiene conto solo dei casi finiti in Tribunale,
ma infinite sono le vie, anche quelle legali, per privatizzare gli utili e
socializzare le perdite. Tanto più in Borsa, dove i risparmiatori meno avvezzi
ai giochi di prestigio sono soprannominati il parco buoi , ma dove chi decide di
giocare si assume il rischio d’impresa. Senza contare i costi dell’intervento
pubblico, delle perdite di posti di lavoro e delle conseguenza per il
territorio. Anche per l’anno che ci buttiamo alle spalle, quindi, ce n’è per
tutti i generi e tipi.
I GRANDI CLASSICI DEL CRAC. Con un costo stimato, sempre dall’Adusbef, in 860
milioni di euro il primo e 160 milioni il secondo, sono stati i casi Deiulemar e
Banca Network a fare la parte del leone nella prima metà dell’anno coinvolgendo
oltre 42mila risparmiatori. Per il crac della compagnia di navigazione di Torre
del Greco delle famiglie Della Gatta, Iuliano e Lembo è stato disposto il
giudizio immediato con la prima udienza in calendario per il prossimo 11 marzo.
Ma sarà lunga sdipanare la matassa di una vicenda che ha dell’incredibile, dove
i milioni raccolti presso i risparmiatori, ma anche vip locali e capiclan, non
venivano messi a bilancio e depositati direttamente sui conti correnti personali
del capostipite degli armatori, senza alcun controllo alla faccia delle
normative sull’antiriciclaggio.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha commentato qualcuno. Che dire
invece della vicenda di Banca Network Investimenti , Bni, il cui slogan era “Una
banca efficiente. Sempre al tuo fianco”, salvo poi lasciare a piedi 69
dipendenti e 28mila correntisti che quest’estate si sono visti congelare i conti
da un giorno con l’altro in attesa dell’intervento del Fondo di tutela dei
depositi? Per non parlare della sorte degli obbligazionisti che avevano
finanziato con oltre 32 milioni di euro la Sopaf dei fratelli Magnoni che aveva
in mano la maggioranza della banca e che a sua volta è crollata in autunno sotto
il peso di oltre 100 milioni di debiti. Ma che grazie alla riforma del diritto
fallimentare in tema di concordati preventivi introdotta dal governo Monti con
il decreto Sviluppo, viaggia ancora tra le tutele del concordato e il
fallimento.
A secco, quindi, creditori e, ancor di più, i piccoli azionisti che soltanto
nell’ultimo anno di scambi, in Borsa hanno assistito al tracollo del titolo che
ha bruciato l’ 84% del suo valore. Proprio mentre il socio di maggioranza,
Giorgio Magnoni fratello del più noto Ruggero, ex presidente di Lehman Brothers
per l’Italia, “faceva affari d’oro nell’immobiliare sull’asse tra il Lussemburgo
e la Germania”, come riportato dal quotidiano Mf lo scorso 12 dicembre.
Immancabili, quindi, gli accertamenti in corso da parte della magistratura sulla
vicenda Sopaf, come su quella di Banca Network che include gli investimenti in
titoli rischiosi da parte dell’istituto A partire da quelli targati Lehman
Brothers.
PRODOTTI BANCARI FINITI IN CLASS ACTION. Ma i soldi dei risparmiatori non
finiscono solo nelle azioni delle società quotate in Borsa. Ci sono sia i
prodotti finanziari più o meno strutturati, sia i banali conti correnti. Un’area
piuttosto vasta e delicata, quindi, che quest’anno ha registrato il via della
prima class action nei confronti di un gruppo bancario, Intesa SanPaolo .
Oggetto del contendere, che potrebbe riguardare fino a 400mila clienti
dell’istituto, alcune spese di conto che sono state introdotte dalla banca in
sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009 e
giudicate illegittime da Altroconsumo , che ha promosso l’azione collettiva
partita a settembre. Il termine per l’adesione è il prossimo 21 gennaio, mentre
l’appuntamento in Tribunale a Torino per il conteggio finale delle adesioni è
fissato per marzo.
In attesa degli esiti della più ampia inchiesta della magistratura sulla
gestione della Banca Popolare di Milano di Massimo Ponzellini , si sta invece
chiudendo con una conciliazione da almeno 40 milioni di euro la triste vicenda
del convertendo allegro della Bpm, il bond ad alto rischio da 170 milioni di
euro che era stato venduto nel 2009 senza la necessaria informazione a 15mila
clienti della banca milanese oggi nelle mani di Andrea Bonomi . L’intesa, però,
non porterà a grandi risultati per i consumatori secondo l’Aduc, unica
associazione che non l’ha firmata commentando che “questi tavoli di
conciliazione si risolvono in una buffonata a danno dei risparmiatori ed a
vantaggio in primo luogo della Banca (che paga una piccola frazione di quello
che dovrebbe sborsare), secondariamente delle associazioni che vi partecipano”.
MANCATI INCASSI. Notevole, poi, la lista delle fregature assolutamente legali.
Come le uscite dal listino a prezzi convenientissimi per l’azionista di
maggioranza, ma piuttosto deludenti per il piccolo investitore costretto
giocoforza ad aderire alle Offerte pubbliche di acquisto (Opa) perché in
minoranza. E’ il caso, per esempio, di Benetton , con la famiglia di Ponzano
Veneto che a febbraio ha approfittato dei prezzi da saldo per ritirare dal
mercato la società dei maglioncini a un controvalore di circa 270 milioni di
euro pari a 4,6 euro per azione. Somma che secondo il Sole 24 Ore equivale pro
quota a meno del solo valore degli immobili della società.
“Sempre meglio che niente”, commenta chi invece è rimasto a bocca asciutta. In
caso di cambio di controllo di una società quotata, per offrire a tutti i
soggetti coinvolti la stessa possibilità di guadagno, la normativa prevede
infatti l’obbligo del lancio di un’Opa allo stesso prezzo per tutti gli
azionisti. Legge che però si può aggirare. In prima istanza fermandosi alla
soglia 29,99% del capitale, basta che non ci sia un accordo segreto con altri
azionisti per avere comunque la maggioranza nelle assemblee dove si prendono le
decisioni importanti senza pagare il dazio ai soci di minoranza. E’ proprio su
questa ipotesi che sta indagando la Procura di Milano a proposito della vittoria
del gruppo Salini sul rivale Gavio all’assemblea di Impregilo dello scorso
luglio, che peraltro è stata dichiarata regolare dal Tribunale, anche se sulla
sentenza pende un ricorso in appello. La questione non è da poco, anche perché
tra la ragnatela di interessi che gravitano intorno alla società di costruzioni
c’è l’appalto per il Ponte sullo Stretto di Messina con annesse penali da mezzo
miliardo a carico dello Stato.
Ancor più delicato, coi tempi che corrono, il tema delle esenzioni dall’Opa nei
casi accertati di salvataggio delle società in crisi. Come quello del gruppo
Premafin-Fondiaria Sai che fu dei Ligresti che ha tenuto banco per tutto l’anno.
E anche qui la Procura indaga, tra il resto, sull’ipotesi dell’esistenza di
accordi irregolari nell’ambito dell’esenzione dal lancio dell’Opa concessa dalla
Consob a Unipol , a patto che dal piano orchestrato da Mediobanca venissero
cancellati i vantaggi previsti per la famiglia Ligresti, dato che avrebbero
premiato l’azionista uscente e per di più responsabile del dissesto, lasciando a
bocca asciutta gli altri investitori. Le clausole sono state cancellate, ma a
fine luglio gli stessi Ligresti hanno fatto saltar fuori un ipotetico accordo
segreto da 45 milioni con l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel,
che nella faccenda, in quanto creditore miliardario sia verso i Ligresti che
verso Unipol, aveva tutti gli interessi a che l’operazione andasse a buon fine.
GRUPPI E CREDITI DA SALVARE. Ma quella del papello Nagel-Ligresti è sola una
delle tappe della vicenda Ligresti al vaglio degli inquirenti tra Milano e
Torino. Come è ancora tutta da giocare la partita entrata nel vivo nel 2012 sul
salvataggio dei grandi gruppi quotati con una buona dose di debiti che non fanno
dormire sonni tranquilli né ai banchieri, né ai grandi azionisti. E talvolta
neppure allo Stato. Si va dall’immane debito dell’editrice del Corriere della
Sera , Rcs , che coinvolge tutto quel che resta del gotha della finanza italiana
che sul tema continua a prendere tempo, al buco del Monte dei Paschi di Siena ,
passando per Parmalat e Telecom Italia , a proposito della quale perfino un
manager pubblico come Franco Bassanini si è appena unito al coro della richiesta
di un incentivo statale, per aiutare la società soffocata da 30 miliardi di
debiti frutto di una privatizzazione “sbagliata” ad aprire la rete agli altri
operatori.
Quel che è certo, intanto, è che nel caso Unipol-FonSai i risparmiatori, inclusi
quelli che avevano investito sulla compagnia delle Coop, oltre che con l’Opa
mancata possono già fare i conti con l’evaporazione di investimenti per una
somma complessiva compresa tra 300 e 400 milioni di euro. In quello del Monte
dei Paschi, i soldi, 3,9 miliardi più altri 550 milioni potenziali per gli
interessi, arrivano direttamente dal contribuente via ministero del Tesoro.
Mentre su Parmalat pagano innanzitutto i dipendenti, che con la prevista
chiusura di tre stabilimenti rischiano il posto di lavoro. Intanto l’azionista
francese Lactalis si è premurato di vendere a Collecchio una sua società
americana, portandosi a casa metà del tesoretto da 1,5 miliardi raccolto da
Enrico Bondi con le azioni legali contro le banche per il crac di Calisto Tanzi
, che era custodito nelle casse del gruppo. E che così ha finito col servire
anche ad alleggerire i debiti dei francesi verso Mediobanca, che a Lactalis nel
2011 aveva prestato 410 milioni proprio per l’acquisto di Parmalat. Anche qui la
magistrature è al lavoro, l’ipotesi a carico dei vertici della società è di
appropriazione indebita. Ma è difficile che si arrivi a un punto prima di una
decisione definitiva sulle sorti del centinaio di dipendenti italiani a rischio.
2013, altro
che i Maya
Dopo che siamo sopravvissuti - lo scorso 21
dicembre - alla annunciata fine del mondo, non ci resta ora che cercare di
prevedere - con ragionamenti prudenti ma più cartesiani - il nostro futuro
immediato. Basandoci sui principi della geopolitica, una disciplina che permette
di comprendere il gioco complessivo delle potenze e di valutare i principali
rischi e pericoli. Per anticipare, come su una scacchiera, le mosse di ogni
potenziale avversario.
Se guardiamo, in questo inizio d'anno, una mappa del pianeta, immediatamente
notiamo vari punti con luci rosse accese. Quattro di essi presentano alti
livelli di rischio: Europa, America latina, Medio Oriente e Asia.
Nell'Unione europea, l'anno 2013 sarà il peggiore dall'inizio della crisi.
L'austerità come unico credo e i colpi di scure sullo stato sociale
continueranno, perché questo esige la Germania che, per la prima volta nella
storia, domina l'Europa e la dirige con mano di ferro. Berlino non accetterà
alcuna modifica fino alle elezioni del 22 settembre, in cui il Cancelliere
Angela Merkel potrebbe essere eletta per un terzo mandato.
In Spagna, le tensioni politiche aumenteranno man mano che la Generalitat de
Cataluña andrà precisando i termini della consultazione sul futuro di questa
Comunità Autonoma. Processo che, da Euskadi, i nazionalisti baschi seguiranno
con grande interesse. Per quanto riguarda la situazione economica, già pessima,
dipenderà da ciò che accade... in Italia alle prossime elezioni (in febbraio). E
dalle reazioni dei mercati ad una eventuale vittoria del conservatore Mario
Monti (che ha il sostegno di Berlino e del Vaticano) o del candidato di
centrosinistra Pier Luigi Bersani, in una posizione migliore nei sondaggi.
Inoltre dipenderà dalle condizioni (certamente brutali) che Bruxelles esigerà
per l'aiuto che Mariano Rajoy finirà per chiedere. Per non parlare delle
proteste continuano a diffondersi come la benzina e che finirà per venire a
contatto con un fiammifero acceso... Esplosioni potranno verificarsi in una
qualsiasi delle società del Sud Europa (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna)
esasperate dalle bastonature sociali permanenti. L'Unione europea non uscirà dal
tunnel nel 2013, e tutto potrebbe peggiorare se, in più,i mercati decidessero di
attaccare (come neoliberisti li stanno incoraggiando a fare) con la Francia del
molto moderato socialista François Hollande.
Anche in America latina l'anno 2013 è pieno di sfide. In primo luogo in
Venezuela, paese che dal 1999 svolge un ruolo chiave nei cambiamenti
progressisti in tutto il subcontinente. La ricaduta inaspettata nella malattia
del presidente Hugo Chávez - rieletto lo scorso 7 ottobre - crea incertezza.
Anche se il presidente si sta riprendendo dalla sua nuova operazione per il
cancro, non possono essere escluse nuove elezioni presidenziali nel mese di
febbraio. Nominato da Chávez, il candidato della rivoluzione bolivariana sarebbe
il vicepresidente attuale (equivalente al primo ministro) Nicolas Maduro, un
leader molto forte, con tutte le qualità, umane e politiche, necessarie per
imporsi.
Ci saranno anche le elezioni del 17 febbraio in Ecuador: la rielezione del
presidente Rafael Correa, un altro importante leader latinoamericano, non è in
dubbio. Elezioni importanti, il 10 novembre, anche in Honduras, dove, il 28
giugno 2009, è stato spodestato Manuel Zelaya. Il suo successore, Porfirio Lobo,
non può correre per un secondo mandato consecutivo.In cambio,il Tribunal Supremo
Electoral ha autorizzato la registrazione del Partido Libertad y Refundación
(Libre), guidato dall'ex presidente Zelaya, che presenta, come candidata, sua
moglie ed ex first lady Xiomara Castro. Altrettanto importanti le elezioni in
Cile, il 17 novembre. Qui, l'impopolarità attuale del presidente conservatore
Sebastián Piñera offre possibilità di vittoria alla socialista Michelle Bachelet.
L'attenzione internazionale sarà inoltre concentrata su Cuba. Per due ragioni.
Perché continuano i colloqui, all'Avana, tra il governo colombiano e i ribelli
delle Farc: si cerca di porre fine all'ultimo conflitto armato in America
latina. E perché decisioni si aspettano da Washington. Nelle elezioni degli
Stati Uniti del 6 novembre scorso, Barack Obama ha vinto in Florida: ha ottenuto
il 75% dei voti ispanici e - molto importante - il 53% del voto cubano.
Risultati che danno il presidente, nel suo ultimo mandato, un ampio margine di
manovra per avvicinarsi alla fine del blocco economico e commerciale dell'isola.
Dove niente sembra muoversi è, ancora una volta, nel Vicino Oriente. Lì si trova
l'attuale focolaio di pericolo del mondo. Le rivolte della "primavera araba"
sono riuscite a rovesciare vari dittatori locali: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in
Egitto, Gheddafi in Libia. Ma le elezioni libere hanno permesso che i partiti
islamisti di ispirazione reazionaria (i Fratelli musulmani) conquistassero il
potere. Ora vogliono, come stiamo vedendo in Egitto, conservarlo a tutti i
costi. Per lo sgomento della popolazione laica che, essendo statala prima a
ribellarsi, rifiuta di accettare questa nuova forma di autoritarismo. Identico
problema in Tunisia.
Dopo aver seguito con interesse le esplosioni di libertà nella primavera del
2011 in questa regione, le società europee si stanno di nuovo disinteressando di
ciò che accade. Pare troppo complicato. Un esempio: la inestricabile guerra
civile in Siria. Dove ciò che è chiaro è che le grandi potenze occidentali
(Stati Uniti, Regno Unito, Francia), alleate con Arabia Saudita, Qatar e
Turchia, hanno deciso di appoggiare (con soldi, armi e istruttori)
l'insurrezione islamista sunnita. Che, sui diversi fronti, continua a guadagnare
terreno. Quanto a lungo resisterà il governo di Bashar El Assad? Il suo destino
sembra segnato. Russia e Cina, i suoi alleati diplomatici, non daranno il via
libera, alle Nazioni Unite, a un attacco della Nato come in Libia nel 2011. Ma
sia Mosca che Pechino ritengono che la situazione del regime di Damasco è
militarmente irreversibile, e hanno cominciato a negoziare con Washington una
soluzione al conflitto che preservi i loro interessi.
Di fronte all' "asse sciita" (Hezbollah libanese, Siria, Iran), Gli Stati uniti
hanno costituito in questa regione un ampio "asse sunnita" (da Turchia e Arabia
Saudita fino al Marocco passando per Il Cairo, Tripoli e Tunisi). Obiettivo:
rovesciare Bashar El Assad, e quindi privare Teheran del suo principale alleato
regionale, prima della prossima primavera. Perché? Perché si svolgono, il 14
giugno, le elezioni presidenziali in Iran. Alle quali Mahmoud Ahmadinejad,
l'attuale presidente, non può presentarsi perché la Costituzione non consente
più di due mandati. Vale a dire che, per i prossimi sei mesi, l'Iran si troverà
immerso in una violenta contesa elettorale tra i sostenitori di una linea dura
nei confronti di Washington e quelli che difendono il cammino del negoziato.
Di fronte a questa situazione di sicura incertezza nel governo dell'Iran,
Israele in cambio starà preparando un eventuale attacco alle strutture nucleari
iraniane. Nello stato ebraico, in effetti, le elezioni generali del 22 gennaio
vedranno probabilmente la vittoria della coalizione ultraconservatrice, che
rafforzerà il primo ministro Benjamin Netanyahu, sostenitore di un bombardamento
dell'Iran il più presto possibile.
Questo attacco non può avere luogo senza la partecipazione militare
statunitense. Lo accetterà Washington? È poco probabile. Barack Obama, che si
insedierà il 21 gennaio, si sente più sicuro dopo la sua rielezione. Sa che la
stragrande maggioranza dell'opinione pubblica statunitense non desidera più
guerre. Il fronte dell'Afghanistan resta aperto. Quello della Siria anche. E un
altro potrebbe aprirsi nel nord del Mali. Il nuovo Segretario di Stato, John
Kerry, avrà il delicato compito di calmare l'alleato israeliano.
Nel frattempo, Obama guarda verso l'Asia, area prioritaria da quando Washington
ha deciso il riorientamento strategico della sua politica estera. Gli Stati
Uniti cercano di frenare l'espansione della Cina circondandola con basi militari
e appoggiandosi nel contempo sui suoi partner tradizionali: Giappone, Sud Corea,
Taiwan. Significativamente, il primo viaggio di Barack Obama dopo la sua
rielezione, il 6 novembre, è stato in Birmania, Cambogia e Thailandia, tre stati
della Associazione delle Nazioni del sudest asiatico (Asean). Un'organizzazione
che riunisce gli alleati di Washington nella regione e la maggior parte dei cui
membri hanno problemi di confini marittimi con Pechino.
I mari della Cina sono diventati le aree di maggiore potenziale di conflitto
armato dell'area Asia-Pacifico. Le tensioni tra Pechino e Tokyo, per quanto
riguarda la sovranità delle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), potrebbero
aggravarsi dopo la vittoria elettorale, il 16 dicembre, del Partito
liberaldemocratico (Ldp), il cui leader e nuovo primo ministro Shinzo Abe, è un
"falco" nazionalista conosciuto per le sue critiche alla Cina. Anche la disputa
con il Vietnam sulla proprietà delle isole Spratly sta aumentando
pericolosamente di tono. Soprattutto dopo che le autorità vietnamite hanno
ufficialmente posto lo scorso giugno l'arcipelago sotto la loro sovranità.
La Cina sta modernizzando a tutta velocità la sua marina. Il 25 settembre scorso
ha varato la sua prima portaerei, la Liaoning, con l'intenzione di intimidire i
suoi vicini. Pechino sopporta sempre meno la presenza militare degli Stati Uniti
in Asia. Tra i due giganti si sta creando una pericolosa "sfiducia strategica"
che, senza dubbio, segnerà la politica internazionale del secolo XXI.
Negli
ambulatori del Parlamento 60 camici bianchi a 2 milioni di euro all’anno
Con una nuova delibera datata
18 dicembre, Palazzo Madama punta a rafforzare ulteriormente il presidio di
cardiologi e infermieri interni: aperte le selezioni per altri cinque cardiologi
e altrettanti tra anestesisti e rianimatori
di Thomas Mackinson
La
via crucis del ri-candidato si fa più stretta e incerta che mai. Una corsa al
cardiopalma, roba da rimanerci secchi. Sarà per questo che il presidente del
Senato, Renato Schifani ha deciso di rafforzare il presidio di cardiologi e
infermieri presso l’Ambulatorio di Palazzo Madama . Sotto l’albero di Natale, il
18 dicembre, è arrivata una delibera dell’ufficio di presidenza che apre
ufficialmente le selezioni per cinque specialisti in cardiologia e cinque in
anestesia e rianimazione. Non tirocinanti di primo pelo ma laureati con almeno
105/110 ed esperienza professionale minima di cinque anni per i medici e di
quattro per gli infermieri.
Quello del Senato , del resto, è un ambulatorio di tutto rispetto: aperto tutto
l’anno, 24 ore su 24, gratuito e a uso esclusivo degli inquilini del palazzo. E
lì per legge da ben 27 anni: in origine, spiegano da Palazzo Madama, doveva
garantire ai senatori non residenti a Roma l’assistenza sanitaria dei loro
colleghi della Capitale, ma col tempo il mini-ambulatorio è diventato maxi. La
platea dei pazienti si è infatti allargata a deputati, ex parlamentari ,
dipendenti del Senato e dei gruppi, mentre il personale conta oggi un medico e
quattro infermieri in pianta stabile, più altri 26 camici bianchi retribuiti a
prestazione per assicurare i turni h24. E così sono lievitati i anche i costi:
nel 2011, ultimo dato disponibile, sono arrivati a 650mila euro. Non è difficile
crederlo, visto che per quasi trent’anni il presidio è stato aperto anche quando
il palazzo era semideserto e gli inquilini in vacanza, nei week end, perfino a
Natale e ad agosto.
Solo qualche mese fa il Consiglio di Presidenza ha deciso di chiuderlo dalle 13
di sabato alle 8 del lunedì, durante i festivi infrasettimanali e nei giorni di
ferie con un risparmio di circa 240mila euro. Ma niente panico. Quando
l’ambulatorio è chiuso l’assistenza medica è assicurata da una società esterna (
Medical Care ) a un costo di 20 mila euro l’anno. A Palazzo Madama spiegano che
non sono soldi buttati perché nel presidio medico si lavora a pieno regime: in
un anno si effettuano 13mila prestazioni, più 700 soccorsi, in maggioranza di
tipo cardiologico. Un dato sorprendente se rapportato al numero dei senatori e
alla platea dei potenziali marcatori di visita. In un giorno di normale attività
parlamentare al Senato, infatti, entrano più o meno 2.500 persone. Forse
lavorare in Parlamento è più usurante di quanto si pensi e questo potrebbe
spiegare anche quei 7,7 milioni di euro chiesti da senatori (e parenti) per
prestazioni sanitarie integrative.
I deputati non sono da meno. I servizi sanitari d’emergenza alla Camera sono
assicurati da un ambulatorio con personale medico-infermieristico rinforzato da
un servizio distaccato dall’ Asl di Roma e da una convenzione diretta con il
Policlinico Gemelli . Un presidio che conta su una trentina di camici bianchi
tra interni ed esterni che costa 1,4 milioni di euro l’anno. La convenzione per
i presidi di palazzo Montecitorio e dei palazzi Marini, in corso dal 2007, conta
quattro medici dirigenti e due unità di personale infermieristico che prestano
servizio per 36 ore la settimana. Tutti ben retribuiti. Un medico alla Camera
costa 60 euro lordi l’ora che diventano 90 dopo le 22, il sabato e nei giorni
festivi.
A fine anno il camice bianco a Montecitorio porta a casa 90-100 mila euro. E
sono in quattro. Gli infermieri, prendono 44 mila euro l’anno più maggiorazioni
e sono in due. Ma vanno poi aggiunti i turnisti esterni e i 435mila euro per la
convenzione con il Policlinico. Il conto finale è così salato da spiazzare gli
stessi beneficiari del servizio (che in teoria dovrebbero godere di ottima
salute, visti i 10 milioni di rimborsi sanitari dello scorso anno). Rita
Bernardini (Pd), ad esempio, il 12 ottobre scorso ha chiesto al Collegio dei
Questori di optare per uno dei due servizi. Il parere è stato accolto e
protocollato ma non si sa se sortirà qualche effetto. L’emergenza sanitaria in
Parlamento, a quanto pare, continua.