Racconta Lorenzo Foschi, antifascista di Albano: «Qui c'è un certo Boccacci,
Maurizio Boccacci, che è di Albano, e qualche anno fa ha fatto addirittura una
manifestazione nazionale della Fiamma Tricolore: settantotto persone in giro per
il corso in una città militarizzata dalla sera prima alla nottata dopo... Io mi
ricordo, andai in piazza, cominciò 'sto corteo, li contai: erano settantotto, e
c'erano cinquemila persone venute lì per protestare, sulle scalette della
sezione, sulle vie laterali che scendono verso il corso - tutta la cittadinanza,
saranno state mille persone».
Prosegue il racconto: «Come comincia il passaggio del corteo cominciamo a
cantare Bella ciao. Un fragoroso coro di Bella ciao. Un individuo si stacca dal
corteo, si mette sotto la sezione e ci fa il segno che ci tagliava la gola.
(...) Abbiamo aiutato il servizio d'ordine a tenere ferma la gente, perché se no
succedeva un casino (...)».
Bella Ciao ad Albano l'hanno cantata anche davanti alla bara di Priebke e anche
adesso sono tornati a scontrarsi con le provocazioni nazifasciste. L'antica
cintura rossa dei Castelli Romani ha visto passare molta acqua sotto i ponti dal
tempo delle grandi lotte bracciantili, della Resistenza, delle occupazioni delle
terre. L'espansione di Roma ha in parte diluito le roccheforti rosse facendone
propaggini della metropoli ma non ha cancellato tutto.
Quelli che sono andati in strada erano, certo, i discendenti della lotta
partigiana e dei suoi protagonisti indimenticabili - Severino Spaccatrosi,
Salvatore Capogrossi, Alberto Cavaglion.... Era, oggi come allora, il senso
comune profondo della città che si ribellava. Raccontavano allora altri
compagni: «Dalla finestra, un paio di signore hanno cominciato a urlare
"fascisti di merda", e molti padri di famiglia con i figli si sono uniti al
presidio antifa, urlando slogan contro la Fiamma e contro il sindaco (di destra,
ndr)».
È successo di nuovo; ma non erano lì per il passato o per la memoria: erano lì
per il presente, per la politica e per la dignità di tutti.
Strano paese il nostro. Risponde con uno schieramento militare alla morte di
massa nel Mediterraneo, insulta la ministra Kyenge, butta l'acido sui bambini
Rom, erige monumenti al criminale di guerra Rodolfo Graziani, e poi si prodiga
in cerimonie e alate parole sulla memoria - che peraltro incidono poco: basta
sentire la radio in questi giorni per accorgerci di quanti distolgono lo sguardo
dal massacro delle Ardeatine per ripetere i soliti falsi racconti antipartigiani
su via Rasella.
Abbiamo orrore dell'antisemitismo, facciamo leggi contro il negazionismo, e poi
sentiamo un presunto prete cristiano affermare che Priebke «è l'unico innocente
dietro le sbarre» mentendo tre volte, perché Priebke non è innocente, perché
dietro le sbarre non c'è stato mai e perché di innocenti in galera l'Italia è
piena. La protesta di Albano è stata una ventata improvvisa di verità. Li
dobbiamo solo ringraziare.
17 ottobre
L'unica grandiosa sepoltura
è quella dei crimini nazisti
Pochi i condannati, quasi tutti rimandati alle
loro case. Kappler "evaso" dal carcere militare del Celio, Reder graziato,
Priebke per 50 anni libero in Argentina. La Germania li protegge, l'Italia fa
finta di niente. Malgrado quella confessione agghiacciante: «Un colpo
all'inizio, un altro alla fine»
Franco Giustolisi*
L'Italia è stata sempre di manica larga, a dir
poco, con i nazisti (e figurarsi con i fascisti, assolti senza processo). La
prima grandiosa sepoltura dei crimini commessi tra il '43 e il '45, avviene
nell'immediato dopoguerra: 695 fascicoli di stragi, in 415 dei quali già si
conoscevano i nomi degli assassini, risale all'immediato dopoguerra. «L'armadio
della vergogna», come lo definii, rimarrà chiuso per 50 anni. Ma qualcosa sfugge
anche al più assoluto e oculato silenzio. È il caso degli assassini di Rodi le
cui imprese potrebbero ben figurare in un libro degli orrori. Il comandante di
quella piazza conquistata dai nazisti, subito dopo l'8 settembre, il generale di
fanteria Otto Wagener, verrà condannato a 15 anni di reclusione, a pene minori i
suoi otto sottoposti. Ma, incredibilmente, protetti dal silenzio più assoluto,
se ne potranno tornare subito dopo il processo, alle loro case. Non si conoscono
date, nelle carte dell'armadio non figurano. Il provvedimento di grazia è
firmato da Luigi Einaudi, presidente della Repubblica dal '48 al '55, presidente
del Consiglio è Alcide De Gasperi, lo stesso cui si deve la sepoltura dei
fascicoli dei massacri nazifascisti. Al di là dei nostri confini c'è la Germania
guidata da Konrad Adenauer: lui insiste col suo omologo italiano, sono ambedue
cristiani più o meno democratici, e alla fine la frittata è fatta.
Ed ecco la seconda: Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante
della Gestapo a Roma, ergastolo per la strage delle Ardeatine, fugge
dall'ospedale militare del Celio dove è ricoverato. È il 15 agosto 1977. Ed è
fuggito, raccontano le cronache, punteggiate da imbarazzanti interrogativi, in
una valigia portata a mano dalla moglie. Nessuno ci ha mai creduto.
Passiamo al maggiore Walter Reder, il «monco maledetto», come lo chiamavano. A
lui si debbono migliaia di vittime, 980 a Marzabotto, oltre 500 a Fivizzano.
Crudele e cinico: ordinava polli e vino in quest'ultima località mentre i suoi
scherani ammazzavano la moglie e i figli dell'oste, insieme a tanti altri
innocenti. È un totenkopf i cui componenti si erano fatti le ossa a Dachau e
altri lager. Condannato all'ergastolo a Bologna, nel 1951. Ma arrivò la grazia
anche per lui. Gli fu concessa dal governo Craxi nel 1985, malgrado le proteste
degli abitanti delle zone da lui colpite. Tornato nella sua Austria, ebbe la
spudoratezza di dire: «La grazia? L'ha chiesta il mio avvocato». Nel 2011 viene
estradato dal Canada Michael Seifert, SS, ucraino. Di delitti gliene furono
imputati 18 nei lager di Bolzano, più quelli commessi in un altro lager, Fossoli,
dove le vittime furono 72. Si divertiva a torturare e finire i prigionieri con
pezzi di vetro. Ma è anche carico di anni, dopo pochi mesi nel carcere di Santa
Maria Capua Vetere, tirerà le cuoia.
Erich Priebke, uno degli assassini delle Fosse Ardeatine e componente del
comando di via Tasso, dove si torturava sino alla morte, ha goduto, invece,
degli arresti domiciliari, con frequenti uscite, tuttavia, per godersi la città
di Roma che lui contribuì ad insanguinare. Fu catturato dagli alleati a fine
guerra e confessò i suoi delitti con la stessa impersonalità di un notaio che
registra un passaggio di proprietà. Ecco le sue parole. La data è dell'8 agosto
1946. Il testo integrale dice così: «Sono stato avvisato di non essere obbligato
a dire alcunché, a meno che io non voglia farlo, e che ogni cosa che dirò sarà
messa per iscritto e tenuta in evidenza. Nel gennaio 1941 fui assegnato allo
Stato maggiore del Tenente colonnello Kappler, in via Tasso, a Roma. Il mio
lavoro consisteva nel far da collegamento tra i servizi di polizia tedeschi ed
italiani. Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 mi trovavo nel mio ufficio di via
Tasso quando appresi che un certo numero di soldati tedeschi era stato ucciso in
un attentato dinamitardo, in via Rasella, a Roma. Ritengo che il Tenente
colonnello Kappler e il capitano Schutz, avendo appreso dell'incidente, avevano
lasciato gli uffici per recarsi sul posto. Io rimasi temporaneamente al Comando,
in via Tasso. Quella sera il Tenente colonnello Kappler tornò presto in ufficio
e chiamò tutti gli ufficiali e i soldati. Ci parlò dell'incidente dicendoci che
ci sarebbe stata una rappresaglia contro gli italiani nel rapporto di un tedesco
contro dieci italiani. Io ritengo che quest'ordine fosse stato dato dal Generale
Kesserling (condannato a morte, poi all'ergastolo, poi a niente, ndr). Ci fu
detto di effettuare una ricerca in tutti i registri dell'Ufficio al fine di
rintracciare tutte le persone condannate a morte dai tribunali tedeschi per
reati contro le truppe tedesche, al fine di ucciderle. Tutta la notte cercammo
tra i registri, ma non riuscimmo a trovare un numero sufficiente a raggiungere
un numero richiesto per l'esecuzione. Non essendo riusciti nell'intento, facemmo
un'ulteriore ricerca nei registri per vedere se ci fossero persone non ancora
processate, ma che erano state arrestate per essere o coinvolte in offese contro
truppe tedesche, o trovate in possesso di armi da fuoco ed esplosivi, o alla
testa di movimenti clandestini. I loro nomi vennero aggiunti all'elenco. Non
riuscimmo, tuttavia, a trovare persone sufficienti, per cui, credo, che venne
chiesto al Questore Caruso (condannato a morte e fucilato, ndr) di fornire
persone sufficienti a costituire il numero di trecentoventi. Il giorno seguente,
verso le ore 10,00, Kappler chiamò di nuovo tutti noi ufficiali, dicendoci che
il Comandante del reggimento di Polizia, i cui soldati erano stati uccisi, si
rifiutava di mettere in pratica l'esecuzione capitale, e che i soldati del
Quartier generale in via Tasso dovevano essere gli esecutori. Ci disse che
questa era cosa orribile da fare e che tutti gli ufficiali per mostrar ai
soldati che avevano il sostegno degli ufficiali, avrebbero dovuto sparare un
colpo all'inizio e un altro alla fine. Verso mezzogiorno del 24 marzo 1944,
circa ottanta, novanta soldati dei Reparti III e IV andarono alle Cave Ardeatine.
All'arrivo vidi i prigionieri nella cava. Tutti avevano le mani legate dietro la
schiena, e quando i loro nomi venivano chiamati si incamminavano all'interno
della cava in gruppi di cinque. Erano presenti dieci o dodici ufficiali, tra i
quali Kappler, i capitani Schutz, Clemens, Wetjen e Koehler, i Maggiori
Domizlaff e Hass, i Tenenti Tunath e Kahrau, e altri del reparto III. Io entrai
con il secondo o terzo plotone e uccisi un uomo con un mitra italiano. Verso la
fine uccisi un uomo con lo stesso mitra. Le esecuzioni terminarono la sera,
quando stava calando l'oscurità. Nel corso della serata arrivarono alcuni
genieri tedeschi e dopo l'esecuzione le cave furono fatte saltare. Non so se fu
Kappler, Maeltzer o Kesserling a ordinare di far esplodere le cave. In quel
periodo a Roma c'era uno stato d'emergenza, sebbene non fu pubblicata alcuna
dichiarazione sull'effetto, poiché quasi ogni notte c'erano azioni contro le
truppe tedesche».
Priebke si è fatto mezzo secolo di libertà, prima di essere estradato
dall'Argentina. Non risulta che abbia mai avuto una parola di rimpianto. A
questo brevissimo elenco, vanno aggiunti i 31 ergastolani rei delle stragi di
Marzabotto, Stazzema, Fivizzano ecc.. Non sono fuggiaschi, non sono evasi, non
sono latitanti. Sono tranquilli e liberi: la Germania li protegge, l'Italia fa
finta di niente.
*Autore del libro L'armadio della Vergogna
16 ottobre
1. ASPENIO LETTA HA FATTO IL SUO BRAVO COMPITINO
COL FIDO SACCOMANNI, E ADESSO SPERA DI GALLEGGIARE FINO AL 2015. LA LEGGE DI
STABILITÀ IMPOSTA DALL’EUROPA PROMETTE (TENETEVI FORTE) UN CALO DELLA PRESSIONE
FISCALE DI 1% NEL TRIENNIO
2. SE NE SIETE CAPACI, TROVATE SUI GIORNALONI
QUALI SONO LE PREVISIONI DI CRESCITA DEL PIL FORMULATE DAL GOVERNINO DI LARGHE
ATTESE. TROVERETE SOLO MANCE DI FACCIATA A IMPRESE E DIPENDENTI E SOLITE
MARCHETTE A BANCHE E ASSICURAZIONI
3. LA GRANDE PARACULATA DEMOCRISTIANA È STATA LA
“FUGA DI NOTIZIE” DELLA VIGILIA SU PRESUNTI TAGLI MILIARDARI ALLA SANITÀ, CHE
POI INVECE SONO EROICAMENTE RIENTRATI
4. MENTRE KAKY ELKANN “RIUNISCE I BIG DEI MEDIA IN
RCS" LA QUOTA DI MERCATO FIAT IN EUROPA CALA AL 5,5% DAL 6% DELL’ANNO SCORSO. A
FARE LE AUTO NON SEMBRA ESSERE TROPPO CAPACE, MA SUI GIORNALI MAGARI CI STUPIRÀ
CON GLI EFFETTI SPECIALI
15 ottobre
Tra ozono e polveri sottili,
viviamo in città irrespirabili
Allarma il rapporto dell'agenzia europea per
l'ambiente sulla qualità dell'aria nelle città del vecchio continente: una
persona su 4 costretta a respirare inquinanti oltre i limtiti fissati dall'Ue, 9
su 10 oltre i valori suggeriti dall'OMS. E si continua a morire
ANTONIO CIANCIULLO
ROMA - Nelle città europee 1 persona su 4 è
costretta a respirare un'aria con una quantità di inquinanti che supera i limiti
fissati dalla Ue. E 9 persone su 10 sono costrette a respirare un'aria che
supera i valori suggeriti dall'Organizzazione mondiale di sanità. Sono numeri
che rendono inutili gli aggettivi. E' una condanna senza appello alla gestione
della mobilità urbana - principale responsabile dell'inquinamento in molte delle
città - quella che viene all'Agenzia europea per l'ambiente con il rapporto Air
quality in Europe 2013 reso noto questa mattina.
A voler essere ottimisti si può sottolineare che il trend di alcuni inquinanti
(ad esempio l'anidride solforosa collegata soprattutto alla cattiva qualità dei
riscaldamenti) è in miglioramento, ma la situazione generale è di una gravità
che non giustifica le scelte che in molti paesi (Italia inclusa) continuano a
premiare la macchina e a rendere difficile la vita a chi opta per soluzione
alternative (trasporto pubblico, bici, piedi, car sharing). Le PM 2,5 cioè le
polveri ultrasottili considerate l'inquinante più insidioso, sono sopra i limiti
suggeriti dall'Oms in una percentuale che varia dal 91 al 96% dei casi. Le
concentrazioni di ozono di bassa quota, quello pericoloso, superano le
indicazioni Oms nel 97-98% dei casi.
E' una situazione che, oltre a produrre effetti negativi sulla stabilità del
clima, provoca un danno diretto alla salute. Il particolato penetra, attraverso
gli alveoli polmonari, nel sangue modificandone, tra gli altri effetti, la
viscosità. E mentre la frazione relativamente più grande delle polveri sottili
provoca bronchiti, mal di gola e crisi asmatiche, le più piccole (le PM 2,5)
producono un incremento della mortalità da malattie cardiovascolari e da tumori.
Proprio nel luglio scorso è arrivata la prima importante conferma della stretta
relazione fra inquinamento atmosferico e tumori del polmone. Sulla rivista
Lancet Oncology sono stati pubblicati i risultati di una ricerca condotta su
oltre 300 mila persone residenti in 9 paesi europei. E' stato misurato in
particolare l'inquinamento da polveri sottili tossiche nell'aria dovute in gran
parte alle emissioni di motori a scoppio, impianti di riscaldamento, attività
industriali. Per ogni incremento di 10 microgrammi di Pm 10 per metro cubo, il
rischio di tumore al polmone aumenta di circa il 22%. E si sale al 51% per una
particolare tipologia di tumore, l'adenocarcinoma, l'unico che si sviluppa in un
significativo numero di non fumatori.
Il tumore del polmone rappresenta la prima causa di morte nei Paesi
industrializzati. Solo in Italia nel 2010 si sono registrati 31.051 nuovi casi.
La ricerca mostra che più alta è la concentrazione di inquinanti nell'aria
maggiore è il rischio di sviluppare un tumore al polmone. Inoltre dalla
misurazione delle polveri sottili, l'Italia è risultata essere tra i paesi
europei più inquinati.
La falsa coscienza
dell’Italia sull’immigrazione e la Bossi-Fini
di Massimo Nicolazzi
Tutta l'ipocrisia del nostro dibattito
sull'immigrazione, fra respingimenti (verso dove?), sanzioni (meglio le carceri
d'Italia o le pallottole di Siria?), accoglienza (come?), sensi di colpa
postumi. Tanto qui non vuole rimanere nessuno.
Lampedusa. Fu la legge Bossi-Fini . Facciamo finta
che il reato di immigrazione clandestina ci sia tutto dentro (in realtà, la
Bossi-Fini elevava a reato solo il rientro del già espulso; e la formulazione
attuale risale invece alla 94/2009, presidente Berlusconi, guardasigilli Alfano;
ma transeat ). La tesi della “colpa” della Bossi-Fini equivale a dire che più
reprimi e più li attiri e ne arrivano. Come dire che è bastato elevare
l'immigrazione clandestina da illecito amministrativo a reato penale perchè
Lampedusa si riempisse. Vi pare il caso?
Una piccola concessione alla ragione . Arrivano, e su carrette a incipiente
disastro, non “grazie a”, ma “nonostante” la Bossi-Fini. L’esperienza di quella
legge e dei suoi inasprimenti successivi impartisce un solo e semplice
insegnamento: l’indifferenza dell’immigrazione clandestina alla sanzione e alla
sua escalation.
Qualunque sanzione prometta qui la civiltà occidentale (nel nostro caso non è
neanche galera, ma giusto ammenda da 5 mila a 10 mila euro; e se anche fosse
galera sarebbe lo stesso) è comunque - e di molto - più sopportabile di quel che
il migrante si lascia alle spalle. Meglio il rischio della galera in Italia che
la certezza della bomba e della fame in Siria. Fuor di moralità e moralismo, la
repressione è inutile semplicemente perchè è inefficace.
Oggi più di ieri . Perchè la qualità della disperazione è cambiata e si è
approfondita: ieri demografia e fame e lavoro; oggi dal Kurdistan alla Siria
alla Libia ad altrove anche bombe e pallottole e persino chimica e guerra
civile. E tu pensi di fermare la transumanza della disperazione col reato di
emigrazione clandestina? In realtà neanche ti riesce di dar pensiero allo
scafista; che per lui forse la sanzione qualcosa potrebbe deterrere, ma per
questo dovresti attrezzarti a prenderlo, chiuderlo e buttare via la chiave.
La disperazione. Insieme ai barconi ha affondato anche i miti della falsa
coscienza. Il respingimento, anzitutto. Ma dove lo respingi se non ha più un
posto dove andare? E come pretendi che non ci riprovi, insomma che non trasformi
un respingimento in un rimbalzo? E poi “aiutarli a casa loro”. Bellissimo, se
avessero ancora una casa loro. Tradotto in siriano, oggi significa scegliere tra
potenziare l’accoglienza nei campi profughi in Giordania o potenziarla a
Lampedusa. E scusali se preferiscono Lampedusa.
Già, Lampedusa. Non ci arrivano perchè attirati dalla Bossi-Fini; o perchè
innamorati del Bel Paese; o perchè qui c'è lavoro e futuro. Niente di politico.
Cartografia allo stato puro. Lampedusa è un lembo di Ue raggiungibile in
barcone; Amburgo meno. La Libia è costa dove puoi persino costruire i barconi
sulla spiaggia; l’Algeria un po’ meno. Puoi legiferare, blaterare, strafare: o
togli Lampedusa dalla carta geografica o continueranno a fare rotta lì.
Qui la coscienza, magari distratta dalla Bossi-Fini , si fa giusto falsa; e
coscientemente tale. La prassi è quasi in forma di eugenetica mediterranea. Lei
se non sta nelle quote e non ha un lavoro non può entrare. E quindi non La posso
fare legittimamente viaggiare. Però se arriva con mezzi suoi, nuoto o carretta o
pedalò, insomma veda Lei, io che sono umanitario non posso che aiutarla. La
sovraffollo in un centro di accoglienza; magari se mi chiede asilo politico ci
do un occhio, che di sicuro nell’ambasciata di da dove viene non ci è riuscito
ad entrare; e magari sul respingimento Le faccio trovare un’autorità più
flessibile di quella istituzionalmente preposta alle signore kazache. Fino a
quando navigava (?) Lei era un alieno senza diritti. Ma adesso è sbarcato. Vivo.
Anzi, sopravvissuto. L’adattamento darwiniano alla traversata del Mediterraneo
Le dà titolo di partecipazione all’umanità sofferente. Magari Le sarà negata la
cittadinanza. Non certo la pietas .
Qualità della disperazione e inefficacia della sanzione . E la falsa coscienza
umanitaria a farvi da ponte. Il “respingimento” come mimesi dell’incapacità di
una politica (e forse, in termini di consenso, anche della sua impossibilità).
Dell’incapacità di riconoscere che se la sanzione occidentale è inefficace
allora l’alternativa è secca: o li affondi prima che sbarchino o li accogli.
Se li affondi ti tocca militarizzare la frontiera , American style . Se li
accogli devi però anche garantirgli un viaggio ragionevolmente sicuro, e non
giusto la selezione della specie per annegamento.
Non so cosa voglia dire “chiedere scusa” per il naufragio di Lampedusa. A meno
che non voglia dire che da domani li facciamo viaggiare sicuri. Perchè il
binomio respingimento-barcone è indissolubile; e se è di questo che stiamo
chiedendo scusa dobbiamo tirarne le conseguenze. Tutto il resto è tartufismo.
Poi per carità ci vuole gradualità e regole e procedure . Però davanti alla
nuova disperazione non c’è via di mezzo tra la politica dell’accogliere e la
politica del respingere. E fuor di scuse sarebbe bene capire meglio la direzione
di marcia. Anche la direzione europea, che se i nostri ultrà ascoltassero le
voci dei profughi gli verrebbe forse e per paradosso da rasserenarsi.
Raro trovarne uno che voglia star qui . Lampedusa te la confermano essere un
accidente cartografico. Vogliono Germania, e Svezia, e Francia, e altro. Hanno
rischiato la vita sperando di ascoltare una proposta di lavoro, e non un
dibattito sull’imu. Chiedono di potersi spargere e riallocare da Lampedusa a
dentro l’Europa. “Soluzione europea” è anche eufemismo per dire che non è il
nostro mercato del lavoro di oggi che li può accogliere o almeno attirare.
Finirà che manterremo abbastanza falsa coscienza da non spiegargli che l’Europa
in questo è giusto stato d’animo; e da continuare a respingerli.
Consiglieri regionali, fondi
e 'spese pazze': pecore, penne e le (proprie) tasse sui rifiuti
In 16 Regioni inchieste per peculato, truffa e concussione sui rimborsi dei
gruppi nei 'parlamentini'. Ma indulto e amnistia potrebbero rappresentare un
colpo di spugna normativo, caso Fiorito in primis. A deputati e senatori il
compito di decidere quali reati condonare. Nel 2013, intanto, sforbiciate sui
fondi: da 47 milioni di euro a 9 milioni.
La mappa delle indagini di MICHELA SCACCHIOLI
Sono finiti sotto inchiesta per peculato, truffa e concussione. Un'indagine che
- da nord a sud - si è allargata a macchia d'olio su un 'esercito' di
consiglieri regionali. Un pentolone di 'spese folli' che la magistratura ha
iniziato a scoperchiare più di un anno fa ma che ora rischia di esplodere in un
nulla di fatto in virtù dell'indulto e dell'amnistia. Caso Fiorito in primis
(l'ex capogruppo del Pdl in Lazio è già stato condannato in primo grado). Nei
giorni scorsi il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha invocato provvedimenti
di clemenza per scongiurare il sovraffollamento nelle carceri: ma sarà compito
di deputati e senatori (serve l'accordo dei due terzi del parlamento) 'perimetrare'
tali misure e decidere quali reati infilare sotto l'ombrello del condono (della
pena) e dell'oblìo (dei reati).
Il dibattito imperversa sulle sorti di Silvio Berlusconi, condannato in
Cassazione per evasione fiscale, e sulle ripercussioni reali di tali misure. I
dubbi, però, ora investono anche lo scandalo sui rimborsi spese dei gruppi
consiliari regionali, e serpeggia il timore che la gestione 'allegra' di tali
fondi possa chiudersi con colpo di spugna normativo. Ci si aspetta il braccio di
ferro in aula visto che sarà compito di deputati e senatori fare sì che reati
considerati di particolare 'allarme sociale' rimangano fuori dalla cornice. Di
sicuro c'è che, accanto alle inchieste penali, a spulciare scontrini, fatture e
ricevute di dubbia provenienza ci si è messa ovunque la Corte dei conti: ai
giudici contabili rimarrà comunque la facoltà di sanzionare coloro che saranno
ritenuti colpevoli, e di obbligarli alla restituzione del maltolto laddove ci
sarà chi deciderà di costituirsi parte civile.
Il denaro a disposizione dei 'parlamentini'. Spalmati lungo tutta Italia, nel
2011 i soldi pubblici a disposizione dei consiglieri regionali eletti sono stati
ben 47 milioni di euro. Rimborsi extra destinati ai gruppi, s'intende, che sono
andati ad affiancarsi al lauto compenso percepito mensilmente. Ma complici le
inchieste giudiziarie che hanno aperto uno squarcio inquietante sulla gestione
'allegra' del denaro versato dai contribuenti e destinato - sulla carta - al
funzionamento dei singoli parlamentini, la mannaia normativa ha tentato di
ridimensionare la portata dello scandalo sulle 'spese pazze' e di calmierare
l'ammontare dei rimborsi elargiti a uso e consumo dei singoli gruppi consiliari.
Nell'elenco degli acquisti effettuati negli anni passati col denaro di
rappresentanza, infatti, è finito davvero di tutto: dai profumi alle penne
d'oro, dalla lap dance alle pecore, passando per il buffet a base di cornetti,
paste secche e latte di mandorla offerto, dopo un funerale, ai parenti del caro
estinto. Ma c'è stato perfino chi ha usato quei soldi per saldare la propria
tassa sui rifiuti. A pagare, in realtà, i cittadini.
E così, dalla Calabria al Piemonte, la sforbiciata imposta dalla nuova legge
varata alla fine dello scorso anno dal governo Monti ha sottratto 37,3 milioni
di euro dalle tasche delle singole assemblee legislative. Di fatto, una riforma
del finanziamento pubblico ai gruppi politici, dettata da Roma ai territori.
Peccato che si sia deciso di 'chiudere la stalla' quando ormai i buoi erano
scappati. Tuttavia, a partire dal 1° gennaio 2013 i fondi a disposizione sono,
complessivamente, poco più di 9 milioni. Il calcolo è presto fatto: 5mila euro
per ciascun consigliere più 0,05 euro per abitante di ogni regione
Da sinistra a destra, dentro allo scandalo ci sono finiti tutti. Ma se dal punto
di vista mediatico la stretta sui costi è stata anche un modo per provare a
contenere l'indignazione popolare generata negli anni dai diffusi sentimenti
anti casta e riesplosa furiosa dinanzi a vicende come il 'caso Fiorito', sul
fronte giudiziario le singole procure sono ampiamente al lavoro.
Dopo le segnalazioni legate a presunte irregolarità riscontrate negli anni
passati e inviate dalla Corte dei conti ai tribunali, 16 Regioni su 20 sono
finite, una dietro l'altra, nel mirino della magistratura. Che in queste ore
continua ad analizzare le note spese dei gruppi consiliari accusati, a seconda
dei casi, di peculato, di truffa e/o di concussione. Il quadro a oggi è
complesso e variegato, a partire dalle teste già saltate. In Sardegna, Umbria e
Basilicata alcuni politici sono finiti a processo, mentre in Friuli Venezia
Giulia talune posizioni sono appena state archiviate. Altrove sarebbe in
dirittura d'arrivo l'avviso di conclusione delle indagini. Accade anche che gli
indagati fossero già stati rieletti nell'attuale legislatura: sulla base della
legge Severino, i consigli voteranno la sospensione (ma non la decadenza) dalla
carica qualora arrivassero condanne di primo grado.
E’ Ior quel che luccica.
Dietro il crac del gigante sanitario “Casa Divina Provvidenza” c'è uno strano
conto alla "Banca di Dio”
I giudici fallimentari hanno scoperto maxi
parcelle ad alcuni professionisti e uscite mal documentate - Seguendo il denaro,
si arriva così a un conto allo Ior sul quale moltissimi soldi hanno fatto
“scalo” per poi rientrare, in parte con lo scudo fiscale, di nuovo in Italia -
La suora con 27 mln di euro sul conto…
Giuliano Foschini per "La Repubblica"
Tra la Puglia e la Basilicata ci sono 1.500 persone che rischiano un posto di
lavoro. Mentre sul conto corrente di una suora ultrasettantenne, dopo un
passaggio da un deposito dello Ior, ci sono 27 milioni di euro che, sospetta ora
la magistratura, probabilmente non dovevano essere lì. Ma sarebbero dovuti
servire per salvare i lavoratori e le loro famiglie.
La
storia è quella della Casa divina provvidenza, un gigante della sanità
convenzionata da queste parti con strutture a Foggia, Bisceglie e Potenza. Dopo
anni di casse integrazioni e ammortizzatori sociali vari finanziati dallo Stato,
nonostante i milioni di euro che ogni anno arrivavano da Puglia e Basilicata per
l'attività assistenziale svolta, la Cdp dopo anni di crisi non ha potuto fare
altro che certificare un buco di bilancio da mezzo miliardo di euro e portare i
libri in tribunale.
L'amministrazione ha chiesto di accedere a un concordato preventivo per salvare
continuità aziendale e posti di lavoro Ma la questione, dalla giustizia
fallimentare, ora si è spostata anche a quella penale.
Analizzando la richiesta del nuovo management dell'ente (il nuovo dg si chiama
Giuseppe De Bari, indagato nell'inchiesta del porto di Molfetta), i giudici
fallimentari hanno scoperto conti strani, con un'azienda che intascava tanto e
spendeva tantissimo. Da qui la decisione di inviare la documentazione alla
procura di Trani.
Il procuratore Carlo Maria Capristo, l'aggiunto Francesco Giannella e il pm
Silvia Curione cominciano gli accertamenti e si imbattono in una serie di strane
transazioni: maxi parcelle ad alcuni professionisti (450mila euro, i due legali
sono ora indagati insieme con la madre generale, suor Marcella Cesa) e
soprattutto uscite mal documentate. Seguendo il denaro, si arriva così a un
conto corrente dello Ior sul quale questi soldi transitano per poi rientrare, in
parte con lo scudo fiscale, di nuovo in Italia.
Non però sui conti correnti della Casa divina Provvidenza ma su quelli di un
altro ente, Casa di Procura, amministrato da una suora settantenne, Assunta
Puzzello. I magistrati chiedono e ottengono il sequestro di quei 27 milioni,
nonostante i legali della suora sostengano che la Casa di Procura non sia un
ente fittizio e quei soldi non siano il frutto di una struttura finanziaria
parallela che serviva a nascondere i soldi dai creditori come invece sospetta la
procura. "Quel denaro - insiste la religiosa - arriva dagli accantonamenti
dell'attività sanitaria assistenziale svolta dalle suore". Sono vecchie pensioni
e contributi mai pagati, dice.
I magistrati però non ne sono affatto convinti. Tanto che si apprestano a
chiedere una rogatoria alla Città del vaticano per capire qualcosa in più su
quel conto Ior. Forti anche di una vecchia lettera, appena acquisita agli atti
dell'inchiesta, nella quale l'allora vice presidente dell'ente, il commendatore
Lorenzo Leone (deceduto negli anni scorsi), scrive al Vaticano parlando di una
situazione di benessere della struttura e di una dote di 60 miliardi delle
vecchie lire nella disponibilità delle Ancelle della Divina Provvidenza
(l'equivalente dei 27 milioni di euro sequestrati ora). Siamo negli anni ‘90,
poco prima delle richieste di aiuto alle casse pubbliche da parte della Casa che
intascava comunque milioni di euro dalla sanità pubblica pugliese e lucana per
il lavoro svolto.
Leone non è uno qualsiasi in Vaticano: vicinissimo a padre Donato De Bonis,
braccio destro di Marcinkus, ha disponibilità su una serie di conti correnti
nelle banche del Vaticano. Compreso uno dalla denominazione "Suore Ancelle della
Divina Provvidenza-Bisceglie".
In attesa di sciogliere alcuni di questi nodi, la Procura si è opposta al
concordato preventivo dell'ente, chiedendone il fallimento. L'udienza decisiva
si terrà il 5 novembre.
8 ottobre
Premio Nobel dell'ipocrisia
Alessandro Dal Lago
Per quello che è successo a Lampedusa non ci sono
aggettivi. Ma le cose che si sentono in queste ore fanno venire la nausea. Non
parlo della Lega, che come sempre merita solo silenzio. Parlo di quell'onda di
untuosità, ipocrisia e smemoratezza che ci sta sommergendo. Come se l'Italia,
l'Europa e l'Occidente volessero passare una mano di calce su una realtà di cui
sono responsabili, ma che non ammetterebbero mai, perché in tal caso non
potrebbero che auto-accusarsi.
Che significa proporre Lampedusa per il Premio Nobel per la pace, come Alfano
sulla scia di Berlusconi? Con tutta l'ammirazione che possiamo provare per i
singoli cittadini che si tuffano in mare per salvare i migranti, come è avvenuto
tante volte in questi anni, in Sicilia o in Puglia, è evidente che la proposta
di Alfano mira a una bella auto-assoluzione dell'Italia e, indirettamente, dei
suoi brillanti governi.
Si dice che alcuni pescherecci abbiano ignorato l'incendio che ha preceduto
l'affondamento del battello. E perché? Perché una norma del Testo unico
sull'immigrazione prevede il sequestro delle barche che soccorrono i migranti,
in quanto si renderebbero responsabili del «favoreggiamento» dell'immigrazione
clandestina. Una norma ignobile, disumana, che espone i pescatori al rischio di
perdere imbarcazione e lavoro (e che va a eterna vergogna di chi l'ha
concepita).
Ora, chi sono i responsabili? I pescatori o chi ha inventato le norme sui
respingimenti, cioè Bossi, Fini e i loro consiglieri? Per fortuna, Fini è
scomparso nel nulla e Bossi giù di lì. Ma con che faccia quelli del Pdl
blaterano di premi Nobel e vergogna, dopo che hanno varato loro, anni fa, la
Bossi-Fini?
Ma non sono i soli a dar priva di amnesia. Quello di Lampedusa è il terzo caso
di naufragio con strage di massa nel Mediterraneo. Il primo avvenne a fine
dicembre 1996, quando una carretta maltese si scontrò con la nave Yohan, da cui
stava trasbordando dei migranti, e colò a picco portando con sé quasi trecento
esseri umani. Ci vollero anni perché la verità, raccontata all'inizio solo da
questo giornale, emergesse. L'anno dopo, la Kater i Rades affondò con
un'ottantina di persone, perché entrata in collisione con la corvetta italiana
Sibilla, che stava procedendo a una manovra di dissuasione, cioè stava impedendo
alla nave albanese di proseguire verso l'Italia con il suo carico di profughi. I
due capitani, quello albanese e il comandante italiano, furono condannati a
pochi anni di prigione. Ma nessuno si è mai sognato di chiamare in causa chi
aveva organizzato l'operazione «Bandiere bianche», che aveva lo scopo di tener
lontano gli albanesi dai nostri "sacri confini", per usare una nota espressione
di Beppe Grillo. E chi c'era al governo allora, se non Romano Prodi e un buon
numero di esponenti dell'attuale Pd?
Ed eccoci all'ecatombe dell'altro ieri. Qualcuno ci spiegherà prima o poi come è
possibile che un barcone con centinaia di persone a bordo traversi il Canale di
Sicilia, e arrivi fino a poche centinaia di metri da Lampedusa, in una zona di
mare sorvegliata da radar, satelliti e battelli militari di ogni tipo, senza che
nessuno, tranne uno o due barche da diporto, se ne accorga. Con tutta la
paranoia pubblica e ufficiale che circonda la sorveglianza dei nostri confini,
il fatto è inspiegabile. E temiamo che resterà tale.
Ma la questione essenziale è che, finché migranti e profughi saranno costretti
alle ventura in mare, questi naufragi si ripeteranno. Ma non perché non funziona
Frontex, ma esattamente perché c'è Frontex. Questa bella trovata della
burocrazia europea non ha il compito di proteggere i migranti, ma, esattamente,
di tenerli lontani - e cioè di rafforzare la clandestinità a cui i migranti sono
costretti e che ne ha portato 20.000 ad annegare nel Canale di Sicilia e nel
resto del Mediterraneo. È un circuito infernale. Leggi come la Turco-Napolitano
e la Bossi-Fini hanno sempre avuto lo scopo di impedire l'accesso legale dei
migranti in Europa, con i respingimenti, le norme draconiane sul favoreggiamento
e i Cpt o Cie. Chi ha di fronte a sé la prospettiva della morte in guerra o per
fame non può che tentare la via del mare. È vero che scafisti e canaglie d'ogni
genere li traghettano a pagamento verso l'Europa. Ma smettiamo di considerare
responsabili solo loro. Il gangsterismo americano degli anni Venti fu un effetto
del proibizionismo e non viceversa.
Se vogliamo che queste stragi finiscano permettiamo ai profughi e migrati di
trovare una possibilità da noi. Facciamoli entrare legalmente. Non sono milioni,
come blaterano i paranoici e i leghisti. Sono centinaia di migliaia di esseri
che ci chiamano. E noi, i civili europei, siamo cinquecento milioni di sordi.
Sul palco del lavoro, la
battaglia degli stagisti
La battaglia contro la pratica degli stage
gratuiti fa breccia anche negli Stati uniti. E il sito ProPublica lancia una
campagna per documentare le storie di questa "economia emergente"
“ Chiara ha ventiquattro anni. Ogni mattina si sveglia alle sei meno un quarto,
esce e fa un'ora di strada per arrivare in ufficio. Alle sei di sera si rimette
in viaggio e riattraversa la città; cena, si fa la doccia e si mette a letto,
perché il giorno dopo la sveglia suonerà di nuovo prima dell’alba”.
Una quotidianità come tante quella di Chiara. Originaria di Chieti, una laurea
in comunicazione pubblicitaria conseguita con il massimo dei voti a Perugia, la
ricerca di un lavoro e finalmente, dopo un “colloquio” andato a buon fine, il
trasferimento a Roma in qualità di junior account per un'azienda attiva nel
settore food & beverage. Il suo compito è quello di fare da interfaccia tra
l'azienda e chi compra le campagne pubblicitarie, trovare e seguire i potenziali
investitori, preparare preventivi e proposte. Ufficialmente però Chiara non sta
lavorando. È solo in stage. Teoricamente in formazione dunque anche se nessuno,
racconta, le fa da guida.
Una storia simile a quella di Matteo (nome di fantasia) che come Chiara racconta
la sua esperienza a Eleonora Voltolina, direttrice responsabile e animatrice de
Repubblica degli stagisti , blog nato nel 2007 e dal 2009 testata giornalistica
che dà voce a coloro che, seguendo l'etimologia della parola inglese, dovrebbero
essere gli esordienti del mondo del lavoro.
“ Ho cominciato uno stage, in un ente territoriale di cui preferisco non
specificare il nome, dopo essermi laureato, accettando perchè ritenevo l'offerta
formativa interessante. Adesso sono tre mesi che svolgo lo stage e nessuna delle
attività formative di cui parlai col tutor al colloquio mi è stata assegnata. In
pratica mi ritrovo qui spesso senza fare niente e in alternativa svolgo mansioni
abbastanza frustranti che non richiedono particolari abilità o che siano
formative. In più, ciliegina sulla torta, il mio tutor l'ho visto solo due
volte! Ma io secondo voi come mi devo comportare? Lo stage dura altri tre mesi
ma a me sembra di stare qui a perdere tempo. In più mi pagano zero. All'inizio
avevo accettato di non percepire niente perchè ritenevo comunque l'offerta
formativa importante. Adesso, appurato che questo stage si sta rivelando una
vera delusione e visto anche l'assenteismo del tutor, posso fare valere qualche
specie di mio diritto per ottenere almeno un minimo di rimborso spese anche se
nel contratto di tirocinio che ho firmato non era previsto?”
Difficile dire persino quanti sono gli stagisti in Italia. L'unica indagine
statisticamente rappresentativa è quella realizzata ogni anno dalle Camere di
Commercio (il rapporto Unioncamere – Excelsior) che quantifica, ma i dati sono
riferiti al 2011, in circa 300 mila il numero degli stagisti nelle imprese
private. A questi, la Repubblica degli stagisti , aggiunge circa 150-200 mila
stagisti negli enti pubblici e altri 70 mila nelle associazioni non profit. In
totale, mezzo milione di più o meno giovani che affidano all'esperienza del
tirocinio formativo la possibilità di ingresso nel mondo del lavoro. In più
della metà dei casi senza neppure un rimborso spese. Troppo spesso, come
denunciano in tanti sui vari blog in rete, senza nemmeno un percorso formativo
adeguato. E comunque con risultati non proprio brillanti visto che, sempre
secondo la rilevazione di Unioncamere del 2012, appena il 10 percento di loro
viene assunto al termine dello stage.
Dimenticati dalle statistiche ufficiali, ignorati dalla politica, sfruttati il
più delle volte dalle imprese. Qualcosa si è mosso il 24 gennaio scorso, quando
la Conferenza Stato Regioni, recependo le indicazioni della riforma del lavoro
targata Fornero, ha emanato le “Linee guida in materia di tirocini”. Un elenco
di requisiti minimi - che introduce per la prima volta un compenso obbligatorio
minimo di 300 euro al mese – privo però di valore normativo. Spettava poi alle
singole Regioni, che hanno la competenza in materia di formazione, tradurle in
dettato di legge. Termine massimo, sei mesi. Sono scaduti il 26 luglio scorso, e
ad oggi mancano ancora all'appello le leggi di diverse Regioni: la Sardegna, il
Friuli e soprattutto la Lombardia, regione quest'ultima che da sola vanta la
presenza di 90 mila stagisti italiani. “Le cose stanno cambiando è vero, ma ci
sono ancora molti limiti”, sostiene Eleonora Voltolina. Sopra a tutto il fatto
che le nuove norme valgono solo per i cosiddetti stage extracurricolari, quelli
svolti cioè al di fuori del percorso formativo accademico, che sono però solo la
metà del numero totale. Con il rischio quindi che chi vuole continuare ad
abusare dei tirocini si dirotti su quelli curricolari, la cui regolamentazione
spetta non alle Regioni ma direttamente al ministero dell'Istruzione.
Non si può dire d'altro canto che sia il pubblico a dare il buon esempio. Una
settimana fa, l'impennata di visite non previste – oltre 67 mila - sul sito
ministeriale Clicklavoro ha letteralmente messo ko il server. In palio c'erano 3
mila tirocini, a 500 euro lordi al mese, all'interno di un progetto formativo,
curato da Italia Lavoro e finanziato con 10 milioni di euro a carico del Fondo
di rotazione del ministero del Lavoro, destinato a giovani laureati delle
regioni del Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia), dove più alta è la
percentuale di Neet, di giovani cioè non inseriti cioè all'interno di percorsi
formativi né lavorativi. Tremila posti disponibili, scadenza al 31 dicembre, 67
mila tentativi di accesso in un giorno, 300 utenti al secondo nel momento di
massimo affollamento. Una grande opportunità, scrive l'agenzia ministeriale
Italia Lavoro sul suo sito, ma per chi? “Per i giovani certo, ma anche, senza
ipocrisie, per le imprese visto che, come spiega Italia Lavoro sul suo sito, non
è previsto nessun tipo di vincolo per la successiva stabilizzazione e la
copertura delle spese viene assicurata integralmente dallo Stato,
deresponsabilizzando in questo modo le aziende ospitanti”, sostiene Eleonora
Voltolina. Tanto è vero che, a pochi giorni dall'apertura del bando, già
fioccano le denunce. La Cgil siciliana solleva persino il dubbio che “dietro ai
problemi tecnici si nasconda una realtà non trasparente con aziende che hanno
scelto i propri stagisti senza passare dalla selezione”. Mentre nei blog in rete
impazzano le denunce sulle offerte di tirocinio: in molti casi si tratterebbe di
annunci per la ricerca di commessi di supermercato, ma allora, è la domanda, che
senso ha avere messo tra i requisiti obbligatori una laurea in lettere,
geologia, biologia o giurisprudenza?
L'anno scorso uno studio comparativo europeo, condotto dal centro di ricerca
britannico Ies insieme al nostro Irs e al tedesco Bibb ha fornito un primo
quadro dello status quo su scala comunitaria. Dall'inizio della crisi economica,
il numero di stage è cresciuto vistosamente in tutti i paesi europei e in
diretto rapporto a disoccupazione e precarietà, inizialmente per fornire una via
di accesso meno rigida al mondo del lavoro, poi come escamotage per pagare meno
- o non pagare affatto - il lavoro dei giovani. Secondo una ricerca dello
European Youth Forum Survey, realizzata nel 2011 su un campione di 4 mila
questionari , circa la metà degli stage in Europa non vengono retribuiti e nel
45 percento dei casi la somma corrisposta non è sufficiente a garantire neppure
le spese di sostentamento per la vita di tutti i giorni. Inutile dire che, nel
quadro normativo europeo, l'Italia si colloca agli ultimi posti della
classifica. Anche se, puntualizza l'indagine, la presenza di un quadro normativo
di per sè non garantisce la qualità del tirocinio: servono un'applicazione
rigorosa, e quindi sanzioni per chi viola le norme, e un monitoraggio costante.
Negli ultimi due anni in tutta Europa sono nate campagne e associazioni, come
Intern Aware nel Regno unito, Génération Précaire in Francia, che si battono
contro la pratica degli stage gratuiti. Nei giorni scorsi, in Inghilterra - dove
già nel 2010 aveva fatto scalpore la presa di posizione dei legali del governo
che avevano dichiarato potenzialmente illegali 10 mila stage nella pubblica
amministrazione perchè in violazione della legge sul salario minimo, e dove poco
meno di due mesi fa ha suscitato indignazione la morte del 21enne tedesco Moritz
Erhardt tirocinante nella City di Londra presso Bank of America, deceduto dopo
ben 72 ore di lavoro - è stato lo stesso primo ministro David Cameron a invitare
pubblicamente i giovani stagisti a segnalare i casi di sfruttamento, annunciando
l'istituzione di un numero verde del governo a cui tutti si potranno rivolgere
per denunciare o avere informazioni sui loro diritti garantiti dalla legge.
Ma la battaglia contro gli stage non retribuiti ha fatto breccia anche
Oltreoceano, dove da giugno scorso fioccano cause e class action contro imprese
e multinazionali. Tutto è iniziato l'11 giugno quando un giudice della Corte
federale di New York ha dichiarato la nota compagnia di distribuzione Fox
Searchlight Pictures colpevole di avere violato la legge sul salario minimo, non
pagando nel 2010 due stagisti sul set del film “Black Swan”. “La società ha
beneficiato del lavoro gratuito – ha scritto il giudice nella sentenza –
laddove, diversamente, avrebbe dovuto assumere dipendenti regolarmente
stipendiati”. Due giorni dopo la sentenza, il 13 giugno, uno stagista del
magazine W e uno del New Yorker hanno denunciato la multinazionale Condé Nast
per essere stati pagati, durante il periodo di tirocinio, meno di 1 dollaro
l'ora. Il 17 giugno è arrivata una causa contro la Warner Music Group.
Un sondaggio della National Association of Colleges and employers ha dimostrato
che, statisticamente, sono gli stage retribuiti a garantire più possibilità di
un impiego al termine del tirocinio, e anche che gli stagisti pagati, quando
entrano nel mercato del lavoro, beneficiano di stipendi decisamente più alti. A
luglio scorso il sito di giornalismo investigativo ProPublica ha lanciato una
campagna di raccolta fondi per ingaggiare una giovane studentessa di giornalismo
e mandarla in giro per gli Stati uniti a documentare “l'economia emergente degli
stage”. La campagna è stata un successo e ora tutti possono seguire sui social
network l'itinerario di questo speciale viaggio investigativo (#ProjectIntern).
Non solo, sempre da luglio, una pagina del sito (http://projects.propublica.org/graphics/intern-suits)
è specificamente dedicata alla raccolta di tutte le cause e class action
istruite contro la pratica degli stage gratuiti. “Interns resist working free”,
titolava qualche giorno fa un servizio speciale del New York Times.
Una strada, quella di cause e class action che, come auspica il New York Times ,
potrebbe prendere piede anche nel nostro paese? “Per ora non si tratta che di
casi sporadici”, spiegano dalla Repubblica degli stagisti . È vero che nelle
linee guida varate a gennaio si parla per la prima volta anche di sanzioni, ma è
altrettanto vero che ogni Regione sarà libera di scegliere se e in quale misura
introdurle. Nella bozza della legge Lombarda, per dire, non sono previste
sanzioni. “Ci sarà un diritto a macchia di leopardo”, stigmatizza Eleonora
Voltolina. Con il paradosso che gli ispettori del lavoro, che dipendono dal
ministero, si troveranno a operare diversamente a seconda del luogo di lavoro.
Un'assurdità.
Fonte : www.sbilanciamoci.info
4 ottobre
Mare
monstrum – le vittime della strage annegano una seconda volta nell’ipocrisia
dell’europa che tratta lampedusa come se fosse provincia romana e non
l’avamposto di un continente - arrivederci alla prossima strage
Tutti sanno che l’unica soluzione consiste nel pattugliare le coste africane
e mettere in salvo quei poveri cristi prima che le bagnarole affondino – L’Onu:
“Colpa dei governi che hanno puntato sulle politiche di repressione: se non
cambieranno atteggiamento, le stragi continueranno…
Massimo Gramellini per "La Stampa"
Quanta
ipocrisia sulle facce dei potenti listate a lutto, mentre le vittime della
strage annegano una seconda volta nella retorica. Quanto cinismo tra i leghisti
che considerano una soluzione respingere i disgraziati, affinché si rassegnino a
morire a casa propria: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Intanto in tv va in scena il rito della commozione a reti unificate, la ricerca
del caso umano, l'intervista all'eroe da esibire nei talk show per far
dimenticare le radici di questo dramma, più ampio nelle dimensioni ma identico
ai tanti altri che ci sono scivolati addosso senza lasciare traccia, a parte uno
spruzzo di lacrime.
Finché i disperati in fuga dalla violenza e dalla miseria marcivano a spese
nostre nei lager di Gheddafi, nessuno si interessava alla loro sorte. Adesso che
le gabbie si sono aperte e le bagnarole dei banditi hanno ripreso il largo, si
piangono i morti e si continuano a ignorare i vivi.
L'Europa, che fa la morale all'Italia per lo sfondamento di un parametro
economico o la dimensione non regolamentare di una zucchina, tratta Lampedusa
come se fosse una provincia romana anziché l'avamposto di un continente. Tutti
sanno che l'unica soluzione consiste nel pattugliare le coste africane e mettere
in salvo quei poveri cristi prima che le bagnarole affondino, invece di fingersi
ogni volta sorpresi per il loro arrivo. Ma iniziative simili richiedono un cuore
e una testa, non solo un apparato lacrimatorio da sepolcri imbiancati.
Richiedono una visione politica, che nell'Europa dei paurosi sembra avere fatto
naufragio.
3 ottobre
F35, a giugno votato lo stop
al programma. Ma l’Italia li compra ancora
Venerdì scorso, 27 settembre, è stato
completato l'ordine definitivo dei primi sei cacciabombardieri del sesto e
settimo lotto, per i quali erano già stati presi impegni e versato gli anticipi.
E lo stesso accadrà nei prossimi mesi e nel 2014 per altri sette aerei
dell'ottavo e nono lotto, per i quali erano già stati pagati anticipi per 60
milioni di euro
di Enrico Piovesana
La mozione di maggioranza sugli F35 approvata a
fine giugno dopo un duro scontro in aula, doveva sospendere il programma fino
alla conclusione, a fine anno, dell’indagine conoscitiva parlamentare sui
sistemi d’arma, tutt’ora in corso. Invece, come confermano al fattoquotidiano.it
due esperti in materia sentiti dalla commissione Difesa proprio nell’ambito di
questa indagine, non c’è stata proprio nessuna sospensione.
Lo dimostra il fatto che venerdì scorso, 27 settembre, l’Italia ha completato l’
ordine definitivo dei primi sei cacciabombardieri F35 del sesto e settimo lotto,
per i quali aveva già preso impegni e versato gli anticipi previsti dalla
complessa rateizzazione contrattualistica del programma Joint Strike Fighter . E
lo stesso accadrà nei prossimi mesi e nel 2014 per altri sette F35 dell’ottavo e
nono lotto, per i quali erano già stati pagati anticipi per 60 milioni di euro.
“Quest’ultimo contatto è la dimostrazione di come, al di là della buona fede dei
parlamentari, la sospensione prevista dalla mozione non ha fermato le
acquisizioni italiane nell’ambito del programma JSF, che semplicemente
proseguono secondo la tempistica stabilita”, spiega Gianandrea Gaiani ,
direttore di Analisidifesa.it, sentito dalla commissione d’indagine all’inizio
di agosto. “La Difesa è andata avanti con il programma infischiandosene
dell’indagine conoscitiva, ben sapendo che non avrebbero sospeso un bel niente
perché non potevano bloccare le quattordici acquisizioni già avviate per i lotti
6,7, 8 e 9. Al massimo potranno essere impedite le acquisizioni per i lotti
successivi sui ancora non è stato preso alcun impegno contrattuale, ma i tredici
aerei che abbiamo comprato e che stiamo comprando ce li terremo, salvo
rivenderli ‘a chilometro zero’ a paesi terzi appena usciranno dalla fabbrica di
Cameri “.
“Oggi spiegherò proprio questo ai parlamentari della commissione Difesa, ovvero
che la moratoria del programma JSF è di fatto inesistente”, dice Francesco
Vignarca, direttore della Rete Disarmo, prima di entrare a Montecitorio per la
sua audizione. “I complessi meccanismi contrattuali del programma F-35 rendono
velleitaria ogni pretesa di sospensione, come dimostra il contratto di venerdì
scorso. Un contratto che tra l’altro prevede per questi sei velivoli, che sono
nostri, una partecipazione industriale italiana solo al 5 per cento, ben al di
sotto del 20 per cento propagandato dalla Difesa, che continua a favoleggiare su
ritorni industriali ed economici inesistenti”.
D’altronde lo stesso amministratore delegato di Finmeccanica, Alessandro Pansa ,
durante la sua audizione in commissione di pochi giorni fa aveva
diplomaticamente espresso il suo scarsissimo entusiasmo per il programma: con
gli F35, ha detto Pansa, “siamo esecutori intelligenti di scelte altrui. Non è
con la fornitura di parti d’aerei di grandi dimensioni che Finmeccanica
costruisce il suo futuro di operatore tecnologico d’avanguardia “.
Ma al ministero della Difesa non sento ragioni e proseguono dritti sulla strada
dell’F35, incuranti delle mozioni e delle indagini parlamentari e sordi agli
autorevoli pareri negativi di dirigenti industriali e perfino del Pentagono ,
che ancora ieri è tornato a denunciare in un rapporto le gravissime pecche
tecniche e quindi economiche di questo aereo.
L'operetta Telecom
Improvvisamente ci si ricorda della golden
share, la possibilità per lo stato di tenere l'azienda di telecomunicazioni in
mani italiane. Ma i giochi ormai sono fatti e migliaia di posti di lavoro sono a
rischio
Solo qualche giorno fa (finalmente) il caso di
Telecom Italia era balzato in cima all'agenda delle priorità. Rimasta in sonno
per anni, la storia dell'ex più importante azienda italiana del settore era
tornata all'improvviso di attualità. Arrivata l'ora X della conclusione del
patto di Telco, la finanziaria di comando, Telefonica ha dato il via alla
conquista. «Non passi lo straniero!», il coro levatosi da palazzo Chigi e
dintorni, da ministeri competenti per materia ma fino ad allora distratti. Non
parliamo, per non inflazionare nelle critiche, dell'Agcom. Ed ecco rispolverata
dalle cantine, cui il liberismo imperante l'aveva relegata, la scimitarra della
«golden share», l'«azione d'oro» di cui lo stato potrebbe avvalersi per tutelare
la sovranità nazionale. Gentili e smemorati commentatori all'unisono: la rete
non si tocca... Eppoi, infine, l'urlo disperato di qualche esponente del
comitato per i servizi rimasto curiosamente silente nelle settimane passate,
quando veniva fuori che lo spionaggio sulle vite private è globale e
generalizzato: la rete di Telecom è una struttura «sensibile» e perderne il
controllo mette a rischio la sicurezza. Già. Sono anni che si dibatte attorno
alla contraddizione «libertà-privacy» e anche Telecom è stata attraversata da
simili tensioni, tutt'altro che commendevoli.
Passati alcuni (pochi) giorni il silenzio è di nuovo calato. Forse perché
Telefonica è tornata ai suoi fasti iberici? O perché il governo -prima della
crisi in corso- ha realmente approvato il regolamento attuativo della «golden
share»? O perché la rete sta (ri)diventando una prerogativa pubblica? Niente di
tutto questo. Si è letto di qualche conversazione telefonica tra Enrico Letta e
lo spagnolo Alierta, ma è un po' poco.
La verità sembra essere più cruda e più cinica. Il governo e il sistema politico
possono ormai fare ben poco. In sostanza chi doveva decidere ha già deciso. Il
ritorno di Massimo Sarmi a capo della società suona come garanzia. Non sarà un
caso che per la seconda volta, alla vigilia di un terremoto societario
discutibile, deve fare le valigie Franco Bernabé, reo di essere (hitchcockianamente)
«l'uomo che sapeva troppo», forse troppo indipendente per i gusti dell'epoca.
Del resto, il presidente prossimo alle dimissioni ha inviato una lettera alle
commissioni industria e lavori pubblici del senato piuttosto netta in merito
all' assenza di una strategia politica. Vero, perché nella società
dell'informazione una cosa come Telecom è politica-politica, di importanza
probabilmente maggiore dei sospiri dei berluscones in rotta. Intendiamoci, se la
crisi è a questo punto nessuno è senza colpa. Tuttavia, a conclusione del
dramma, comincia l'operetta. Tutto questo caos per sostituire -difetti a parte-
Bernabé?
È bene cominciare un tormentone: Telecom non deve difendere il tricolore per la
Patria, bensì perché la questione ci porta per mano nel cuore della
post-modernità e nei nuovi meccanismi del potere, che si fanno un baffo dei
pastoncini politichesi.
La conclamata «italianità» non si misura nelle percentuali proprietarie ma nella
consapevolezza che stiamo parlando del tessuto nervoso dell'epoca digitale. E
allora, si ritorni a discutere del futuro della rete che, se tornasse davvero in
mano pubblica, diverrebbe il centro dell'universo cross-mediale. Sarebbe forse
l'occasione per mettere un po' d'ordine democratico nell'inquinata storia delle
frequenze, altro effetto collaterale dell'irrisolto conflitto di interessi.
Altrimenti, Telecom si trasformerà in una media azienda commerciale e la rete si
ridurrà alla parte prelibata di uno spezzatino. E quante migliaia di posti di
lavoro ci sono in ballo, cari signori della guerra?
2 ottobre
1. LARGO AI GIOVANI (E AI GIOVANARDI)! UN
GRUPPO DI EX RAGAZZI CRESCIUTI NELLA DC, GUIDATO DA LETTA E ALFANO, SFANCULA IL
CAINANO CON UN TRADIMENTO SPETTACOLARE
2. CON MEZZO PARTITO CHE GLI VOLTA LE SPALLE, IL CAVALIERE CONDANNATO RISCHIA DI
TROVARSI TOTALMENTE ISOLATO, AVVIATO AGLI ARRESTI DOMICILIARI, CONDANNATO ALLA
PERDITA DELLA COPERTURA GIUDIZIARIA RAPPRESENTATA DAL SEGGIO SENATORIALE E NON
PIÙ RICANDIDABILE SE NON SOTTO LE MENTITE SPOGLIE DELLA FIGLIA MARINA
3. OGGI CI SARÀ LA CONTA DEL SUO DISASTRO, E PROBABILMENTE PASSERÀ IL RESTO DEI
SUOI ANNI A DIFENDERE IL PROPRIO PATRIMONIO (POLITICO E FINANZIARIO) DA UNA
PLETORA DI ASPIRANTI EREDITIERI. MENTRE I FIGLI QUARANTENNI DELLA VECCHIA DC
FANNO FELICEMENTE ROTTA VERSO IL PPE DI FRAU MERKEL, LA PRIMA CHE LO HA PRESO A
SCHIAFFI
Crisi,
crolla fatturato pmi romane. Cna: da gennaio - 40,8 per cento
I dati dell'indagine condotta dalla Confederazione Nazionale dell'Artigianato
e della Piccola e Media Impresa. Gli imprenditori della capitale sono pessimisti
sulle prospettive per il futuro: per il 40 per cento nel 2013 chiuderanno 3
aziende su dieci - Crisi, crolla fatturato pmi romane Cna: da gennaio - 40,8 per
cento
La
crisi morde le Piccole e medie imprese romane. Secondo un'indagine condotta
dalla Cna e presentata nella sede di via del Commercio, l'indicatore della
produzione nel I semestre dell'anno per le imprese della provincia di Roma
registra un saldo pari al -31,7%, del -32,3% per gli ordini, del -40,8% per il
fatturato e del -42,6% per l'utile lordo. Unico fattore con il segno positivo
per la provincia di Roma è quello relativo all'export, che segna un +22,3%. Dato
condizionato però dal settore farmaceutico. Sul fronte investimenti, nel I
semestre dell'anno appena il 19% delle imprese della provincia ha dichiarato di
aver investito e appena il 15,7% prevede di farlo entro la fine dell'anno. "Mi
auguro nel 2014 di tornare alla regolarità dei pagamenti, altrimenti parlare di
politiche di sviluppo non ha senso", ha detto il governatore del lazio, Nicola
Zingaretti, intervenuto all'assemblea elettiva della Cna di Roma e del Lazio.
Per il 16,3% delle imprese romane il soddisfacimento degli adempimenti
burocratici assorbe in media una quota compresa tra il 10% ed il 15% e per il
15%, tra il 20% ed il 25% del lavoro totale. Il 17,5% si dice costretto a
dedicare tre mesi l'anno al soddisfacimento degli adempimenti burocratici. Senza
contare i costi: per il 14,5% gli adempimenti burocratici assorbono una quota
del fatturato inferiore al 5%mentre per il 16,2% la burocrazia necessita di
oltre il 25% del fatturato totale dell'azienda, sempre secondo l'indagine della
Cna. In particolare, per un'impresa su due è la tassazione sul reddito (Irpef,
Ires ed Irap) il fardello che incide di più sulla crescita dell'impresa stessa,
mentre per un terzo circa delle imprese a pesare di più sono i contributi sul
lavoro. La tassazione locale e quella sugli immobili strumentali d'impresa, l'Imu,
è meno rilevante per la maggior parte delle imprese intervistate. Molti, secondo
quanto emerge dall'indagine della Cna, concordano sulla necessità di diminuire
l'Iva e fissare un tetto massimo di prelievo fiscale che non superi un livello
posto tra il 30% ed il 40% del reddito prodotto con la consapevolezza che tutti
debbano pagare le tasse e che lo Stato debba agire per raggiungere tal fine.
Gli imprenditori romani sono generalmente pessimisti sulle prospettive per il
futuro. Per il 21,4% delle imprese del Lazio, tre su dieci chiuderanno nel corso
del 2013, mentre per il 18,6% la fine corsa segnerà il destino di cinque imprese
su dieci. Il 4,1% del campione è catastrofista, prevedendo una chiusura
generalizzata: dieci imprese su dieci. In linea di massima, a livello di
fiducia, le imprese della provincia di Roma sono leggermente più pessimiste sul
futuro (47,7%) rispetto alla media del totale delle imprese del Lazio (43,6%). A
pesare sulla crisi è ancora il problema della stretta sul credito. Secondo
l'indagine della Cna, circa quindici imprese su cento che un anno e mezzo fa
avevano un prestito, oggi non ce l'hanno più: nella prima parte dell'anno, il
29,3% delle Pmi ha dovuto far fronte a una riduzione, richiesta di rientro e a
una revoca. Il credito è sceso costantemente: a fine 2011 aveva credito il 56,8%
delle Pmi del territorio, nel 2012 il 49,6%, a inizio 2013 si sfiorava quota 47%
(47,3%). E le Pmi che il credito ce l'hanno, fanno sempre più fatica a
rimborsarlo: il rapporto tra sofferenze e impieghi è stato a giugno del 13,6%,
più o meno in linea con la media nazionale.
Le pratiche di Cassa integrazione guadagni trattate a Roma e provincia dall'Area
relazioni sindacali contrattualistica e contenziosi della Cna sono aumentate dal
2009 ad oggi dell'86%. L'assemblea elettiva della Cna di Roma ha confermato
Erino Colombi alla carica di presidente per i prossimi quattro anni. Colombi è
al secondo mandato consecutivo alla guida della Confederazione nazionale
dell'artigianato, piccola e media impresa di Roma.
Il presidente della Regione Lazio ha, invece, ricordato agli artigiani il lavoro
fatto dalla Regione per restituire entro gennaio alle imprese oltre 8,3 milioni
di debiti pregressi da parte della Pa e ha spiegato che "abbiamo un bilancio
regionale che gestisce l'esistente e che ci impedisce di iscrivere le spese
dovute. Quindi quelli dei pagamenti alle imprese non sono ritardi ma sono soldi
che proprio non possiamo iscrivere al bilancio". Quanto ai fondi richiesti dal
Comune di Roma per il trasporto pubblico, il governatore ha spiegato che "non è
che non diamo i soldi perché siamo cattivi, ma perché non ci stanno. Una parte
importante delle spese dovute deve restare fuori dal bilancio, come i fondi per
l'accademia di Santa Cecilia che ieri abbiamo scoperto mancare". Nella nostra
Regione, ha concluso Zingaretti, "l'unica forma di investimento vero che avremo
a disposizione sono i fondi europei".