L'Italia sul baratro del 3% di deficit e da
quest'anno l'eurogruppo ha il potere di obbligare un paese a cambiare la
finanziaria. Altro che la Costituzione non si tocca: siamo davvero solo su
Google Maps! Da quando non battiamo più moneta, la sovranità è solo una
sceneggiata. A novembre Merkel e compagnia preparano l’esame e saranno sorci
verdi…
Federico Fubini per Corriere della Sera
Con
due aste attese oggi per piazzare sul mercato fino a sei miliardi di Btp,
Fabrizio Saccomanni certe soglie non le perde mai di vista. Il ministro
dell'Economia sa bene che non può. Sono mesi, da prima che il suo governo
s'insediasse, che il bilancio dello Stato viaggia ai limiti della linea di
galleggiamento concordata con Bruxelles.
La minima disattenzione potrebbe portarlo sotto e, benché non sia tipo da
distrarsi, Saccomanni da qui a fine anno deve comunque fare i conti con una
serie di interrogativi tutt'altro che facili.
Che il governo abbia preso tempo per abrogare la tassa sulla prima casa -
malgrado l'«impegno politico» - si spiega certamente con questa rete di dubbi.
Il vincolo è noto e ieri il premier Enrico Letta l'ha confermato: dopo aver
riportato il deficit entro il 3% del Pil nel 2012, l'Italia deve restare a tutti
i costi fuori dalla procedura europea di deficit eccessivo.
Tornare in violazione, con un disavanzo sopra il 3%, sarebbe una sconfitta per
il Paese e lo priverebbe di preziosi investimenti. Il problema è come riuscirci:
ciò che si sa dell'andamento di questi mesi rende l'obiettivo tutt'altro che
scontato, se non ci sarà attenzione a ogni euro in entrata e uscita, e magari
anche un intervento correttivo degli andamenti.
Non esiste un quadro attuale dei conti. L'ultimo aggiornamento interno fatto al
Tesoro è di luglio e segnalava già allora il rischio, a meno di contromisure, di
un lieve superamento dei limiti. Ma la sfida per Saccomanni era partita già in
giugno, quando fu chiaro che l'andamento dell'economia sarebbe stato peggiore di
quanto previsto dal Tesoro.
l Documento di economia e finanza del 10 aprile prevedeva un deficit di bilancio
al 2,9% sulla base di un calo del Pil dell'1,3%. È qui che sorge il primo
dilemma, perché la contrazione del prodotto sarà peggiore, probabilmente intorno
all'1,7% o 1,8%. Per effetto delle maggiori spese e delle minori entrate dello
Stato dovute alla recessione, il deficit dovrebbe dunque aumentare di circa tre
o quattro miliardi: almeno lo 0,2% del Pil in più; se così fosse, sarebbe già
sopra il 3% a causa del calo più rapido del Pil.
L'impatto potrebbe non essere gravissimo, perché il Tesoro e la Banca d'Italia
segnalano da mesi che il flusso delle entrate fiscali è buono. Ma, senza dati
resi pubblici da parte della Ragioneria dello Stato, non è chiaro cosa ciò
significhi: probabile che il gettito non sia maggiore del previsto, solo
discreto in rapporto al peso della recessione.
Si aggiungono poi spese forse inevitabili, eppure non messe in conto quando in
aprile il Tesoro aveva previsto un disavanzo già quasi al 3%. C'è la riconferma
e poi l'assunzione di decine di migliaia di precari della Pubblica
amministrazione. Ci sono 500 milioni per continuare a versare l'assegno di cassa
integrazione ai dipendenti di migliaia di piccole e medie imprese in crisi. Ci
sono altre centinaia di milioni - pochi sembrano sapere esattamente quante - per
le missioni militari italiane all'estero. E ieri è arrivato anche un intervento
per altri 6.500 esodati, i lavoratori che hanno lasciato il posto ma non hanno
ancora diritto alla pensione a causa della riforma Fornero.
Difficile misurare l'effetto di queste spese, ma senz'altro spingeranno il
deficit ancora al rialzo. Si capisce dunque che il Tesoro abbia cercato di
tutelarsi con piccoli aumenti fiscali qua e là, per esempio sulle sigarette
elettroniche: circa 500 milioni in tutto. Qualcosa sarà poi forse possibile
risparmiare anche sugli interessi sul debito pubblico, ma non molto perché i
rendimenti dei titoli di Stato non sono mai rimasti bassi a lungo (anche oggi, i
Btp decennali pagano il 4,4%).
Ciò lascia il governo in equilibrio precario sulla linea del 3% di fronte agli
impegni più grossi: evitare l'aumento dal primo luglio scorso dell'aliquota Iva
dal 21% al 22% e togliere la tassa sulla prima casa. Per ora il ritocco dell'Iva
è stato solo "congelato": le mancate entrate che erano già in bilancio per i
mesi estivi sono state compensate con un aumento, a volte oltre il 100%, degli
acconti Irpef (imposta sui redditi delle persone) e Ires (delle imprese).
Questa soluzione del Tesoro ha tamponato il problema sul 2013 ma lo ha spostato
all'anno prossimo, perché anticipa a subito tasse messe in conto per il 2014. In
sostanza, un ammanco di entrate di quest'anno è stato coperto anticipando un
flusso di gettito che avrebbe dovuto coprire altre spese il prossimo.
Simile l'effetto dell'eliminazione della prima rata Imu. Parte della
compensazione viene dai pagamenti Iva sui dieci miliardi in più di arretrati
alle imprese che il governo pagherà verso fine anno. In origine, quei versamenti
erano previsti per il 2014: ciò significa che quei flussi di cassa verranno meno
allora, quand'erano attesi.
Insomma, il bilancio dell'anno prossimo parte con un doppio handicap. Quanto
all'abolizione completa dell'Imu per 2013, se ne saprà di più solo in ottobre
con la presentazione della Legge di Stabilità. Certo avrebbe un sapore amaro, se
confermato, il forte sconto a fronte del pagamento immediato delle multe a
carico dei gestori di slot-machine.
Sarebbe di fatto una sanatoria nei confronti di uno dei settori dell'economia
più infiltrati dalle mafie.
Possibile che il Tesoro non abbia molta scelta, in cerca com'è di coperture.
Anche perché da quest'anno la Commissione europea e l'Eurogruppo hanno il potere
di esprimere - a novembre - un parere preventivo e di fatto obbligare un Paese a
cambiare la Finanziaria se non la ritengono in linea con gli impegni. È una
regola nuova di zecca: molti, a Berlino e a Bruxelles, vorranno far vedere che
funziona.
Lavoro, per Cgil oltre 9 mln
di persone in difficoltà
Per la prima volta dall'inizio della crisi sono
oltre 9 milioni le persone che nel primo trimestre del 2013 vivono situazioni di
sofferenza e disagio occupazionale - cioè disoccupate, scoraggiate,
cassintegrate, precarie e con contratti part time involontari -, in crescita del
10% su anno.
E' quanto certifica il periodico rapporto di ricerca dell'associazione Bruno
Trentin-Isf-Ires della Cgil.
"L'area della sofferenza e quella del disagio occupazionale hanno
complessivamente superato, per la prima volta dall'inizio della crisi, i 9
milioni di persone in età da lavoro, per la precisione 9 milioni e 117 mila", si
legge nel rapporto secondo cui "solo negli ultimi 12 mesi dell'anno si è
registrato un incremento complessivo del 10,1% (equivalente a +835.000 unità),
mentre rispetto al primo trimestre 2007 l'aumento è del 60,9% (+ 3 milioni e
450mila persone)".
Obama e la Siria
1. SONO ANNI CHE IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI
NON FA CHE RIPETERE CHE LA PRIMA MINACCIA DA COMBATTERE È IL TERRORISMO. MA
DICHIARANDO GUERRA AL REGIME DI ASSAD, OBAMA COMBATTERÀ AL FIANCO DI AL-QAEDA,
FEROCE OPPOSITORE DI ASSAD
2. ROBERT FISK, INVIATO DELL’’’INDEPENDENT’’,
IRONIZZA: “PERCHÉ IL PENTAGONO NON CHIEDE UN AIUTO AD AL-QAEDA? POTREBBE FORNIRE
UN SACCO DI INFORMAZIONI UTILI ALLA CIA”
3. FISK AGGIUNGE: “I PRECEDENTI MILITARI FRA USA E
SIRIA NON SONO PER NULLA CONFORTANTI: NEL 1983 GLI AMERICANI AVEVANO INTENZIONE
DI BOMBARDARE DELLE BASI MISSILISTICHE SIRIANE, PROPRIO COME OGGI. LA CONTRAEREA
DI DAMASCO RISPOSE (GRAZIE ALLE ARMI FORNITE DALLA RUSSIA): IL CONFLITTO SI
CONCLUSE CON DUE AEREI STATUNITENSI ABBATTUTI, UN SOLDATO UCCISO E UN ALTRO
FATTO PRIGIONIERO”
«Mai più morti sotto i
palchi»
Intervista a Paola Armellini, madre di Matteo,
deceduto allestendo un palco di Laura Pausini. Una petizione per i diritti degli
operai dello spettacolo live ha raccolto 50 mila firme
Roberto Ciccarelli
«Io resto in attesa. Sono ferma al 5 marzo 2012
quando mio figlio Matteo è morto schiacciato da una struttura che pesava
tonnellate al Palacalafiore di Reggio Calabria, mentre si stava allestendo il
palco per un concerto di Laura Pausini». Da quel giorno Paola Armellini chiede
nuove leggi per tutelare gli operai dello spettacolo costretti a svolgere un
lavoro in condizioni di scarsa sicurezza. Sul sito change.org, ha lanciato la
petizione «Sicurezza per gli operai degli spettacoli live: mai più morti sotto i
palchi!» che ha raccolto più di 50 mila firme in una manciata di giorni.
L'appello è rivolto alle massime cariche dello Stato e al ministro del lavoro
Enrico Giovannini.
Quali sono le proposte principali dell'appello?
In primo luogo la definizione di una normativa contrattuale specifica per chi
lavora nello spettacolo live. C'è poi l'obbligo della copertura assicurativa a
carico del committente o del datore di lavoro. E la verifica dell'idoneità delle
location che accolgono le mega strutture dei concerti. L'anno scorso il Prefetto
di Roma aveva preso posizione: i progetti devono essere presentati in tempi
utili per essere controllati. Oggi non se ne parla più.
Perché lo spettacolo dal vivo è un sistema a scatole cinesi?
Questo mondo funziona sul sistema degli appalti e dei subappalti. Al vertice c'è
una produzione che appalta il lavoro a cooperative o società. Queste ultime
subappaltano ad una rete di fornitori. Le società di produzione, i promoter, i
service e le cooperative di gestione dei tour oggi formano una rete talmente
complessa che il vertice della piramide spesso non sa cosa fa la base. E
viceversa. Per questa ragione chiediamo l'introduzione dell'obbligo di prendere
i nominativi di chi sta sul cantiere.
Che cosa s'intende per «gigantismo» in questo mondo?
Quello dei concerti è un business milionario. Il mercato della musica è forse
l'unico in attivo oggi, impone ritmi frenetici e palchi sempre più grandi e
tecnologici. Oltre al guadagno, questo gigantismo porta al risparmio sulla
sicurezza dei lavoratori. Visto che la sicurezza costa, si preferisce
risparmiare sulla manodopera. Io non dico che bisogna fermare tutto, ma che
bisogna controllare i turni e distendere i tempi affrettati della
programmazione.
Che cosa intende per «sicurezza»?
In questo settore la sicurezza è particolare. Talvolta incrocia quella
dell'edilizia, ma la normativa dev'essere più specifica. Il lavoro degli operai
dello spettacolo, molti dei quali operano in altezza, dev'essere considerato un
lavoro ad alto rischio. Bisogna regolare i turni e non renderli illimitati com'è
accaduto a Matteo che il giorno prima di Reggio Calabria era ad Ancona.. La
sicurezza non è data solo dai guanti o dal caschetto. È un sistema molto più
complesso: bisogna dare più mezzi all'ispettorato del lavoro, permettere alle
Asl di intervenire 24 ore su 24. La sicurezza è data anche dal controllo sulla
qualità del materiale e delle strutture. Basta una vita avvitata male come nel
meccano e tutto può crollare. La sicurezza è anche un fatto culturale e
interessa chi lavora in prima persona. Ma parliamoci chiaro: c'è la paura di
perdere il posto e questo fa sì che tutto resti sempre uguale.
Quale potrebbe essere il contributo degli artisti?
Si dice sempre che i cantanti non c'entrano niente con i crolli dei palchi.
Certo loro non si occupano degli operai, ma qualcuno dovrà occuparsi del sistema
dove lavorano anche loro. Come genitrice io gli chiederei: avete figli? Ogni
vittima è un figlio, sia sul lavoro sia in guerra. Se i cantanti danno valore
alla vita, non possono continuare a scegliere le mega-strutture come se fossero
un bel vestito da comprare solo perché è stupendo.
La petizione ha ricevuto risposte fino ad oggi?
No. Sono parecchio avanti con gli anni, ma finché avrò vita continuerò questa
battaglia. Ripartirò ogni mattina perché non c'è più Matteo. E non lo faccio
perché sono una madre addolorata, ma per le ingiustizie che sono seguite dopo la
sua morte. Non voglio oboli, ma voglio la giustizia che spetta ai cittadini del
mondo. Matteo era uno di questi e lui avrebbe voluto tutto questo.
Milano, operai tornano dalle
ferie e scoprono di aver perso il lavoro
Il caso della Hydronic Lift a Pero dopo due
vicende analoghe a Modena e Forlì. La Fiom-Cgil: "Uno sport in voga fra gli
imprenditori in questa estate del 2013". L'azienda: "E' solo una
riorganizzazione interna"
Milano, operai tornano dalle ferie e scoprono di aver perso il lavoro
Nuova
puntata di quello che secondo la Fiom-Cgil si sta trasformando in un vero e
proprio "sport in voga fra gli imprenditori in questa estate del 2013". Si
tratta della improvvisa chiusura della Hydronic Lift a Pero (Milano), che
produce componenti idraulici per ascensori, che segue le già note vicende della
Firem di Modena e della Dometic di Forlì. Secondo la Fiom-Cgil si tratta
dell'ennesimo caso in cui "la chiusura per ferie si trasforma in chiusura
definitiva, senza alcun preavviso e approfittando dell'assenza dei lavoratori".
"Lo scorso 2 agosto la fabbrica chiude per ferie - si legge in una nota - e i 30
operai a fine giornata si salutano dandosi appuntamento a lunedì 26 agosto per
la ripresa del lavoro.". "Certo - prosegue il comunicato - che non potevano
immaginare di ricevere nella settimana di Ferragosto una lettera (inviata
venerdì 9 agosto) con cui l'azienda li informava di aver avviato una procedura
di cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività. E soprattutto
non potevano immaginare di ritrovarsi davanti a un cancello chiuso con catena e
lucchetto".
"Pare - conclude il comunicato - che lo sport in voga tra gli imprenditori in
questa estate del 2013 sia trasformare la chiusura per ferie in chiusura
definitiva, senza alcun preavviso e approfittando dell'assenza dei lavoratori:
quando si dice 'capitani coraggiosi". Di fronte a quella che il sindacato
definisce come una vigliaccata", i dipendenti hanno deciso di attuare un
presidio davanti alla loro azienda chiusa. Un portavoce dell'azienda spiega che
"il sito di Pero è chiuso per una riorganizzazione interna aziendale", mentre
"altri siti sono aperti", senza però volerne specificare l'ubicazione. Dalla
pagina Internet risulta che l'azienda dispone anche di uno stabilimento a Mc
Kinney in Texas.
Mps usa e getta. Avvisate
Draghi e Latarantola che la Federal Reserve americana indagaba sul derivato "Santorini"
e avvertì Bankitalia già nell'aprile 2012!
Il segreto di Pulcinella, quello del
derivato-assassino - Il 13 aprile 2012 la sede di New York di Mps avvertì Siena
che la Fed aveva chiesto la documentazione relativa “alle operazioni poste in
essere tra Deutsche Bank Ag, con Bmps o Santorini Investment” - Fu informata
Bankitalia…
Gianluca Paolucci per "La Stampa"
Gli affari tra Mps e Deutsche Bank finiscono nel
mirino anche delle autorità americane. E ci finiscono ben prima dello scoppio
della vicenda che ha rischiato di affondare la banca senese. Al centro del caso,
il famigerato veicolo Santorini. Gli accertamenti delle autorità statunitensi
riguardano solo le attività dell'istituto tedesco e non quelle della banca
italiana.
La richiesta È il 13 aprile del 2012 quando sull'email di Fabrizio Viola, arrivato da tre
mesi a Siena come direttore generale e ancora non nominato amministratore
delegato, arriva un messaggio «urgente» di Renato Bassi, a capo dell'ufficio di
New York di Mps. Nel messaggio, il manager informa i vertici dell'istituto di
aver ricevuto una richiesta di informazioni da parte della Fed indirizzata alla
capogruppo italiana.
La banca centrale Usa chiede a Montepaschi la «documentazione a far tempo dal 1
gennaio 2007» relativa alle operazioni poste in essere tra «Deutsche Bank Ag con
Bmps o Santorini Investment limited partnership». Tra le altre cose le autorità
Usa chiedono di conoscere relativa alle operazioni poste in essere tra «Deutsche
Bank Ag con Bmps o Santorini Investment limited partnership».
Inoltre, chiede la documentazione relativa alle procedure contabili relative
alle operazioni e gli organigrammi e le strutture di controllo coinvolte nelle
operazioni. Il «cuore» del problema insomma, che esploderà, per Montepaschi,
solo nel gennaio di quest'anno. Ma che Deutsche Bank ha già ben presente.
Testimoni Alcuni «whistleblower», ex dipendenti della filiale Usa della banca tedesca,
stanno raccontando alle autorità Usa i dettagli di una serie di operazioni dai
profili quantomeno scivolosi. Uno di questi, Eric Ben-Artzi, che si occupava
della gestione dei rischi della banca tedesca, ha raccontato agli investigatori
della Sec che la banca tedesca avrebbe occultato, durante la crisi finanziaria,
perdite su prodotti derivati fino a 12 miliardi grazie alle proprie pratiche
contabili.
«Le accuse di irregolarità contabili, che risalgono ad oltre tre anni fa - fa
sapere la banca tedesca - e furono già rese note nel giugno 2011, sono state
oggetto di un'analisi attenta e approfondita, e sono completamente prive di
fondamento. Abbiamo collaborato pienamente alle indagini di Sec su questa
vicenda e continueremo a farlo».
Il Libor Non è la sola indagine che in Usa coinvolge l'istituto tedesco. In
particolare, la Fed - così come la Fsa britannica - sta indagando sulle
manipolazioni del Libor, il tasso interbancario utilizzato come base di calcolo
per i prestiti tra istituti. Santorini era un veicolo creato nel 2003 con Db per
«mettere in sicurezza» la partecipazione della banca in Intesa, tramite un
derivato strutturato dalla banca tedesca. Nel 2008 il veicolo viene
ristrutturato sempre con Db.
Santorini diventerà, di fatto, una scommessa a lungo termine sui titoli di Stato
italiani e una complessa struttura di opzioni digitali (prodotti particolarmente
complessi che dovrebbero in teoria rendere neutri per entrambe le parti le
fluttuazioni del sottostante) sui tassi d'interesse della zona euro.
Il calcolo dei saldi veniva fatto utilizzando anche indici prodotti dalla stessa
Db e parametri di mercato come appunto il Libor. Ma fissando essa stessa una
parte dei parametri e essendo in grado di influenzarne altri, il gioco
sembrerebbe truccato, spiega un analista che ha visionato parte della
documentazione.
La ragione per Mps di prendere un simile rischio era chiara: secondo quanto
emerso dalle indagini, l'operazione sarebbe servita alla banca toscana ad
occultare le perdite pregresse. Contro Deutsche, Mps ha avviato una causa civile
per risarcimento dei danni.
Anche in questo caso Db rigetta le accuse: «L'operazione è stata soggetta ai
rigorosi processi interni di approvazione e ha ricevuto la necessaria
autorizzazione di Mps. Deutsche Bank si difenderà vigorosamente contro le
richieste di risarcimento danni relative a questa operazione, ritenendole
assolutamente infondate».
I tedeschi Nel giugno di quest'anno la Reuters ha riferito della visita di alcuni
rappresentanti della Bundesbank a New York per discutere con degli ex dipendenti
di Deutsche Bank e con la Sec. Sui contenuti dei colloqui non sono stati diffusi
dettagli né dalla Sec, né dai tedeschi.
L'indagine delle autorità statunitensi, secondo quanto ricostruito, è ancora in
corso. Contatti sarebbero stati avviati anche tra le autorità Usa e la procura
di Siena, che indaga sulle vicende della passata gestione di Mps. Anche se fonti
investigative non hanno voluto commentare la circostanza. Un portavoce della Fed
fa sapere che l'istituto non rilascia dichiarazioni sulle proprie indagini.
I funzionari della Fed che si presentano nella filiale di New York di Mps per
consegnare le richieste informano dell'indagine anche Bankitalia, che farà da
tramite nella trasmissione dei documenti.
Le perdite sopportate da Mps per l'operazione saranno rese note nei dettagli al
mercato solo dopo lo scoppio dello scandalo. Per Viola, quel 13 aprile, inizierà
quello che si rivelerà un vero e proprio incubo per la banca più antica del
mondo.
7 agosto
Sindaco Marino, serve più
coraggio
di Vezio De Lucia
La grande partecipazione dell’altra notte è stata una magnifica conferma che
la Roma popolare e democratica è d’accordo con il Progetto Fori. Allora,
coraggio, andiamo avanti: la parziale pedonalizzazione non basta.
Mi pare che Ignazio Marino sia partito bene. È stata soprattutto la grande
partecipazione di cittadini romani alla notte della via dei Fori, nonostante
miserevoli tentativi di boicottaggio, a confermare la bontà dell'iniziativa. Non
mi riferisco alla, molto parziale, pedonalizzazione, ma all'idea di collocare
l'archeologia al centro della vita moderna. E qui occorre qualche precisazione.
Il Progetto Fori, quello autentico, quello che volevano Antonio Cederna, Luigi
Petroselli, Adriano La Regina, prevedeva l'eliminazione della via dei Fori per
portare alla luce il complesso archeologico più importante del mondo: i Fori di
Cesare, di Augusto, di Nerva, di Traiano che, insieme a basiliche e altri
edifici, formavano il centro direzionale dell'impero romano.
Nell'attuale rilancio del Progetto l'eliminazione della via dei Fori sembra
rimossa. Mi pare che nessuno dei protagonisti istituzionali, a cominciare dal
sindaco, ne parli esplicitamente e sembra che l'obiettivo sia solo la
pedonalizzazione integrale da piazza Venezia al Colosseo. Ma così non può
essere, il Progetto Fori non può essere la folla che passeggia lungo la strada
voluta da Benito Mussolini.
Serve una breve ricostruzione storica. Negli anni Trenta del secolo scorso,
nell'area da piazza Venezia al Colosseo fu perpetrato il più vasto e grave degli
sventramenti fascisti perché Roma avesse al suo centro una strada adatta alle
grandi parate militari, in uno scenario che doveva celebrare la continuità fra
l'impero romano e il regime di Mussolini. Fu scelto un tracciato «dritto come la
spada di un legionario» e i lavori furono condotti a ritmo di record
(dall'ottobre 1931 all'ottobre 1932). Fu raso al suolo un grande quartiere di
impianto cinquecentesco e furono ridotte in polvere almeno cinque chiese, lo
splendido giardino di Palazzo Rivaldi, case e palazzi per oltre cinquemila vani
e gli abitanti furono deportati in borgata.
Appena tornati alla luce, i resti dei fori furono subito sepolti sotto la nuova
via dell'Impero (così fu chiamata all'inizio l'attuale via dei Fori imperiali).
Da allora, il più importante complesso archeologico del mondo è spaccato in due
da un incongruo nastro d'asfalto.
Si deve a Leonardo Benevolo il primo studio che mise in discussione quella
strada: nel libro Roma da ieri a domani, del 1971, propose per il centro storico
della capitale di conservare gli edifici antichi, di demolire invece molti di
quelli costruiti dopo l'Unità, e di sostituire con spazi verdi gran parte delle
strade formate a seguito degli sventramenti post unitari. Sette anni dopo, nel
dicembre del 1978, il soprintendente archeologico Adriano La Regina riprese il
tema, denunciando le drammatiche condizioni dei monumenti corrosi
dall'inquinamento, e introdusse allora, per la prima volta, una diretta
connessione fra destino dell'area archeologica e assetto urbanistico della parte
centrale della città.
La cronaca dei primi passi della proposta e dell'interesse che riscosse in
Italia e all'estero è stata raccontata da Italo Insolera e Francesco Perego nel
libro Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma dove sono raccolti i
documenti, le testimonianze e le immagini fondamentali della vicenda dal 1870 al
1983. Per Insolera e Perego l'operazione Fori propone «una sintesi ambiziosa
quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo
circonda: l'«antico» non è più inteso come «monumento», né come quinta
evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente
equiparabile ad altre parti storiche - medievali, rinascimentali, barocche - che
la città non ha mai smesso di usare».
Il sindaco Giulio Carlo Argan, gli assessori Vittoria Calzolari e Renato
Nicolini si schierano subito con La Regina e la sua proposta di realizzare un
grande parco archeologico dai Fori fino all'Appia Antica, allontanando il
traffico automobilistico, «uno degli elementi più deturpanti della città». Ma a
imporre l'archeologia e il Progetto Fori al centro del dibattito politico e
culturale fu l'elezione a sindaco di Luigi Petroselli (il 27 settembre 1979),
quando Argan si dimise. L'idea-obiettivo che guidò l'azione di Petroselli era di
accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città
riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell'antica Roma non
fosse patrimonio solo degli studiosi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello
più sfavorito. Sospinto dall'entusiasmo di Petroselli, il recupero dei Fori
diventò l'insegna del rinnovamento della capitale, mobilitò le migliori energie,
raccolse un consenso vastissimo, dalle autorità di governo alla grande
intellettualità internazionale, dagli abitanti delle borgate che si stavano
risanando a coloro che partecipavano all'Estate romana di Renato Nicolini.
L'esordio di Petroselli sui problemi dell'archeologia fu la decisione di
smantellare via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal
Foro romano. Subito dopo il Comune deliberò l'eliminazione del piazzale che
separava il Colosseo dall'arco di Costantino e dal resto del complesso
Foro-Palatino. Si ricostituì così l'unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la
continuità dell'antica via Sacra. L'elaborazione del progetto fu accompagnata
dall'esperienza delle domeniche pedonali divia dei Fori cominciata senza grande
clamore il primo febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con
crescente partecipazione popolare, nello stessa clima festoso dell'Estate
romana. (E l'altra notte sono tornati alla memoria brandelli commoventi di
quella stagione).
Mi pare importante ricordare che a favore del Progetto Fori si schierò subito
«Il Messaggero», diretto da Vittorio Emiliani. Il quotidiano diventò un
protagonista dell'operazione, lo stesso quotidiano che oggi dà la linea alla
destra. Allora all'opposizione stava solo «Il Tempo», che all'avvicinarsi delle
elezioni del maggio 1981 cominciò a insinuare che la chiusura di via dei Fori
fosse suggerita più da odio al fascismo che dall'esigenza di risolvere problemi
archeologici o urbanistici.
Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione,
Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto
Fori e l'immaginazione al potere, e cominciò la crisi della città pubblica,
sostituita dall'urbanistica contrattata, drammaticamente incollata alla
concretezza degli affari. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di
opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, e anche
importanti intellettuali (tra gli altri, Federico Zeri, Cesare Brandi, Luca
Canali) ne presero le distanze. I tempi si prolungarono all'infinito. Il parco
archeologico centrale a mano a mano perse attendibilità, fu spostato nel novero
delle cose molto difficili, poi impossibili, infine svanì nel nulla.
Nel 1993, dopo la sconfitta del 1985, la sinistra tornò in Campidoglio con
Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001). Poteva essere la grande occasione
per riprendere le idee di Petroselli. Ma la svolta non ci fu. Anzi Rutelli si
dichiarò contrario all'eliminazione della via dei Fori. Una strada che intanto -
a seguito dei provvedimenti dell'assessore Walter Tocci per la drastica
riduzione del traffico di attraversamento e per l'inserimento della via nella
zona a traffico limitato - ha finito con l'assumere un aspetto insensato per
l'esubero dello spazio impegnato dalla viabilità. Nel 1996, ripresero comunque
gli scavi ai lati della via dei Fori, ma non ci si preoccupò di dar loro un
disegno compiuto. Venne anche ripetuta l'esperienza delle domeniche pedonali, ma
la chiusura definitiva della strada alle automobili fu rinviata alle calende
greche.
Un autorevole stop al Progetto Fori è stato imposto nel 2001 con un decreto di
vincolo monumentale che congela lo stato di fatto dalla via dei Fori e dintorni
fino alle terme di Caracalla. La sistemazione voluta da Mussolini è presentata
come «un'immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della
Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel
bene e nel male, raggiunto». Un vincolo posto con un decreto ministeriale si
rimuove con un altro decreto ministeriale. Ma non è questo il problema. Il
problema è che il vincolo sulla via dei Fori è evidentemente un prezzo pagato
alla cultura della destra nostalgica. Una cultura, soprattutto a Roma, non
certamente minoritaria, e attiva nelle articolazioni della società. Non mi pare
che serva adesso uno scontro ideologico, serve invece un'azione culturale
diffusa e convincente, che faccia leva sull'assoluta modernità del progetto
Fori. Nel senso che non si tratta di un'(impossibile) operazione antistorica di
ripristino dell'assetto spaziale precedente agli anni del fascismo ma, al
contrario, di partire dalla sistemazione degli anni Trenta per realizzare, nel
migliore dei modi, un nuovo e autentico rapporto con i più famosi resti
dell'impero romano, considerando l'archeologia una componente vitale della città
contemporanea, ecologica e pedonale.
Tutto ciò impone un lavoro, non facile e forse non breve, che coinvolga le
università, le scuole di ogni ordine e grado, la stampa, le istituzioni
scientifiche di altri paesi presenti a Roma, eccetera. Un lavoro che soprattutto
mobiliti i cittadini romani per farli partecipare da protagonisti alla
costruzione della nuova immagine della capitale. La grande partecipazione
dell'altra notte è stata una magnifica conferma che la Roma democratica e
popolare, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini,
è d'accordo con il Progetto Fori. Allora, coraggio, andiamo avanti. Non credo
che ci sia un problema di risorse finanziarie, serve in primo luogo l'impegno
delle persone giuste, cominciando da due amministratori che da sempre sono stati
a favore del Progetto: l'archeologo Rita Paris e l'assessore all'urbanistica
Giovanni Caudo.
Il cervello batte sempre il
supercomputer: per replicare un secondo servono 40 minuti
L'esperimento giapponese ha simulato una piccola parte del funzionamento
della rete neurale della mente umana, l'uno per cento. Per ampliare la
simulazione a tutto il cervello, sarebbero servite circa 36 ore. Ma la prossima
generazione di macchine si avvicinerà di più.
LA MENTE batte anche i calcolatori più potenti: anche per il supercomputer
Fujitsu K, starle dietro è una fatica. Un esperimento del Riken e dell'istituto
di tecnologia di Okinawa ha verificato come per replicare un secondo
dell'attività neurale del cervello umano, il supercomputer K ha impiegato
quaranta minuti. Di fatto simulando una piccola parte del funzionamento della
rete neurale del cervello, l'un per cento. Per ampliare la simulazione a tutto
il cervello, sarebbero servite circa 36 ore.
La
mente umana conta 200 miliardi di neuroni, connessi da oltre 10 mila miliardi di
sinapsi. Per ricrearne l'attività, il Fujitsu K ha utilizzato 82.944 processori
e 1 petabyte di memoria. Ma il "fallimento" del Supercomputer K è in realtà
l'unità di misura della potenza delle macchine che verranno. Entro i prossimi
dieci anni, spiega il capo ricercatore Markus Diesmann, arriveranno computer in
grado di superare completamente questa generazione di grandi calcolatori". E
quindi nel prossimo decennio il cervello umano diventerà più facilmente
replicabile per quelle macchineche oggi ancora arrancano.
Ma oltre alla mera capacità di calcolo oltre i petaflop, c'è ancora da capire
come il cervello funzioni davvero, per replicarne i meccanismi in digitale. Il
traguardo della replica della mente umana attraverso la tecnologia è quindi
ancora lontano. A meno di un'accelerazione improvvisa che sparigli le carte
della ricerca, la mente sarà ancora per un po' più abile delle CPU. Ma per
quanto davvero, non lo sa nessuno.
1 agosto
"In Qatar ho prospettive di
crescita. E voi giovani perché rimanete in Italia?"
Luca, 29 anni, è country manager a Doha per una
multinazionale di business intelligence. È partito dalla provincia di Cosenza.
"Mia madre era un'impiegata, mio padre un operatore socio-sanitario. Se fossi
rimasto, non avrei fatto molta strada"
di Marco Quarantelli
Quando le porte scorrevoli si aprono, bisogna
montare in carrozza senza stare a pensarci troppo. Per Luca il treno buono è
arrivato nel 2008 e lui è stato veloce a salire. Perché tra Sant’Agata d’Esaro,
provincia di Cosenza, e Doha non ci sono solo 5mila chilometri e qualche grado
di latitudine, c’è uno stargate che separa due dimensioni: quella italiana dei
trentenni spauriti della Generazione 1.000 euro e l’universo in espansione degli
Emirati in cui un ragazzo di 27 anni diventa dirigente di una multinazionale.
“Non sono figlio di ricchi o di politici – racconta Luca Spinelli, 29 anni,
ingegnere elettronico sul curriculum, country manager in Qatar per una grande
azienda spagnola - se non me ne fossi andato, non avrei avuto le stesse
possibilità”.
Luca ha fatto funzionare il business e l’azienda lo ha promosso. Ma al di là
dello stipendio, per lui è questione di prospettiva: “Sono giovane e qui mi
stanno dando la possibilità di crescere”. Bisogna avere naso e fortuna per
sceglierseli, i treni. Quello di Luca è passato per caso. “All’epoca non pensavo
di andarmene via. Stavo finendo l’università a Cosenza – racconta – quando è
morta mia madre e ho deciso di lasciare la Calabria. A Roma ho iniziato la
specialistica in ingegneria biomedica, poi ho trovato lavoro in una
multinazionale che fornisce servizi alle grandi aziende. Avevo un contratto, ma
non volevo fermarmi, volevo sentire di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno.
Lì si stava bene, ma tutto questo non era possibile”. I curriculum seminati in
giro cominciano a dare i primi frutti: “Nel 2008 mi chiama la multinazionale per
cui lavoro e decido di accettare: per prima cosa mi spediscono 6 mesi a
Barcellona ad imparare l’inglese e lo spagnolo”. E la vita cambia: “Mi hanno
subito offerto progetti all’estero, con la possibilità di lavorare in tutta
Europa. E soprattutto di farlo con prospettive di crescita che in Italia sono
inimmaginabili”. Ora Luca fa quello che si chiama business intelligence:
“Insegniamo alle aziende ad usare i loro dati per prevedere il futuro: decidere
quando e quanto assumere, come gestire le risorse umane, quando fare
determinanti investimenti”.
Nell’azienda è arrivato da soldato semplice: “Dopo avermi testato in Europa, la
società mi ha offerto di andare a lavorare in Qatar per espanderci sul mercato.
Ho cominciato a vivere tra Doha e Dubai e i risultati sono arrivati. Così il
board ha deciso di premiarmi: ora sono country manager per il Qatar e coordino
un gruppo di 9 persone”. Un ragionamento lineare oltreconfine, un miraggio per
chi ogni giorno affronta il deserto di un’Italia che sui giovani non punta
perché poco capace di pensare in prospettiva: “Lì da voi le logiche sono sempre
le stesse, le conoscenze contano molto, una ‘buona parola’ è sempre richiesta.
Mia madre era un’impiegata, mio padre è un operatore socio-sanitario, non
potevano nemmeno permettersi di farmi studiare in università troppo costose. Se
fossi rimasto, non avrei fatto molta strada”.
Nessun rancore, con l’Italia amici come prima: “Vivo in pace, so di non poter
strafare ma ora posso anche aiutare la mia famiglia”. Luca ha una sorella.
Neanche lei è riuscita a restare. “Si è laureata in Scienze della nutrizione con
110 e lode, dopo il tirocinio ha cominciato a mandare in giro il curriculum: per
mesi le hanno offerto solo stage e lavori non retribuiti. Così se n’è andata a
Londra: il primo anno è stato difficile, ora ha trovato un posto e sta bene. Non
vuole tornare. Io le do una mano, ora che posso”. Aspirazioni comuni a chi è
rimasto, in un contesto lontano anni luce dalle certezze nostrane: “Io vivo
senza articolo 18: so che domani mattina possono licenziarmi senza preavviso, ma
se sei qualificato qui il lavoro lo trovi. Per questo sono tranquillo”.
Dai duemila abitanti di Sant’Agata allo skyline di Doha, la nostalgia non va
via: “Ma tornare no, non ci penso proprio. O trovo un’azienda che mi offre la
stessa posizione che ho qui, o tornerò quando sarò vecchio: il mio piano
pensione è in Italia, i risparmi li mando lì”. Lì, in paese, sono rimasti gli
affetti e i ricordi: “Tutte le estati ci torno a spendere i miei soldi, mi piace
pensare di riuscire a far girare un po’ l’economia. Da Doha seguo quello che
succede, come le elezioni del sindaco, partecipo ai dibattiti politici via
Facebook, tifo la mia squadra di calcio: abbiamo vinto due campionati, ora siamo
in prima categoria”. Ma l’incanto non cancella la realtà di un paese per il
quale i giovani sono solo numeri nelle statistiche sulla disoccupazione: “Ogni
volta che parlo con i miei coetanei rimasti in Italia, non riesco a non fare la
stessa domanda: ma dove lo trovate il coraggio per restare?”.
Sogin, centrale di Saluggia:
nelle vasche danneggiate anche plutonio
Secondo l'Arpat all'interno dei contenitori non
c'erano solo americio e stronzio. L'impianto è sorvegliato speciale da due anni,
mentre alcuni mesi fa dagli impianti era fuoriuscito liquido radioattivo
di Luca Teolato
Nella vasca di stoccaggio dell’impianto nucleare
Eurex di Saluggia (Vercelli), dove qualche mese fa sono state riscontrate due
fessure dalle quali fuoriusciva liquido radioattivo oltre all’americio e allo
stronzio, è presente anche il plutonio. Sono i risultati delle ultime analisi
eseguite dall’Arpa Piemonte, di concerto con la Sogin, sui sedimenti contenuti
nella vasca. Una situazione non proprio rassicurante per i cittadini dei comuni
limitrofi e l’ennesima tegola che si abbatte sulla Sogin, la società di Stato
incaricata della bonifica ambientale dei siti nucleari italiani e della gestione
e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. L’impianto di Saluggia è un
sorvegliato speciale da circa due anni, quando si è scoperto che i liquidi
presenti nella vasca di stoccaggio in questione non potevano essere scaricati
nella vicina Dora Baltea poiché il livello di radioattività delle acque
contenute superava determinati livelli stabiliti dall’Ispra.
Ora l’Arpa certifica drammaticamente tale rischio, evidenziando che i sedimenti
presenti nel WP719 (la vasca di stoccaggio) “per la loro composizione e le
concentrazioni riscontrate dovranno essere gestiti come rifiuti radioattivi” si
legge nelle considerazioni conclusive dell’agenzia regionale per la protezione
ambientale. Considerazioni che preoccupano molto i residenti della zona. “E’
dunque evidente purtroppo – commenta Paola Olivero, consigliere del Comune di
Saluggia – come l’aver segnalato la cosa mesi fa fosse tutt’altro che un inutile
allarmismo. Fino ad oggi si è cercato di minimizzare sull’ipotesi che
all’origine dell’anomalia, dichiarata dalle autorità competenti, si possa essere
verificato un incidente. Certo è che l’anomalia ha portato quella vasca ad
essere utilizzata per uno scopo non previsto, ovvero contenere del materiale
nucleare che dovrà essere rimosso con un preciso piano operativo approvato dall’Ispra.
Di fatto la vasca parrebbe essere stata utilizzata come un deposito a cielo
aperto, benché i fatti abbiano dimostrato che non aveva le caratteristiche
idonee a svolgere tale funzione”. Preoccupa, e non poco, anche la collocazione
della vasca in questione, posizionata in un’area a forte edificazione e transito
di mezzi pesanti, che provocano forti vibrazioni, trovandosi nei pressi del
cantiere dove stanno costruendo un nuovo deposito nucleare. La vasca inoltre si
trova lungo il corso del fiume, in prossimità dei pozzi dell’acquedotto del
Monferrato che serve oltre cento comuni.
“Inoltre – rimarca la Olivero – in un documento del 16 aprile 2013, Sogin
afferma che durante lo svuotamento della piscina Eurex, nel WP719 fu trasferito
un quantitativo di radioattività ‘non più trascurabile’. Nello stesso documento
Sogin afferma che il contenuto radiologico del WP719 era comunque noto. Dunque,
ci chiediamo se Sogin scrisse una frase di circostanza per tranquillizzare la
popolazione oppure se sapesse fin dal 2008 che era presente anche del plutonio
nella vasca. Non insinuo nulla, sarebbe invece importante fare chiarezza”.
Al fattoquotidiano.it, all’indomani della scoperta delle due fessure, Davide
Galli, il responsabile disattivazione impianti e centrali del nord Italia per la
Sogin, aveva rilasciato dichiarazioni tranquillizzanti: “Facendo dei lavori di
scavo – spiegò nell’aprile scorso – si sono aperte queste due fessurazioni, e si
è visto un trasudamento che ha bagnato il terreno circostante. Ci sono deboli
segni di contaminazione ed il fenomeno è circoscritto. Ora dobbiamo svuotare la
vasca e poi pulire il fondo. L’evento che comunque si è verificato è
assolutamente irrilevante”. Una situazione delicata tanto che il responsabile
per la Sogin del sito Eurex di Saluggia, Michele Gili, sarebbe stato richiamato
urgentemente dalle ferie. Inoltre, secondo alcune fonti, è in corso, sotto il
diretto controllo di Ispra, una nuova campagna di prelievi dal centro della
vasca, per accertare la presenza o meno di zone molto più radioattive di quelle
già individuate. Forse la situazione non è poi così tranquilla.
Eurodeputati, un assegno da
1,8 miliardi: rimborsi, indennità e super-stipendi
I 766 membri dell'assemblea Ue guadagnano dieci
volte più del cittadino medio dell'Unione. Prendono circa 214 mila euro al netto
delle diarie e delle spese per uffici e portaborse. Nelle loro tasche va più di
1 milione a legislatura, pari a 45 anni di lavoro di un elettore italiano
di VALENTINA CONTE
QUANDO si dice il distacco dei cittadini dalla
politica. Prendete gli onorevoli di Strasburgo e poi la busta paga media
dell'europeo tipo. Ebbene un eurodeputato guadagna quasi dieci volte tanto, tra
stipendio base, diarie, bonus, indennità giornaliere e di trasferta. Ovvero,
213.924 euro contro i 21.844 del travet, in un anno. L'879% in più. Abissale.
Senza pensare che con una sola legislatura, il fortunato politico eletto in
Europa si porta a casa un milione e 69 mila euro (lordi). Un traguardo che
quell'impiegato medio raggiunge solo dopo 55 anni di lavoro. Un italiano con 45.
Un inglese 40. Un tedesco 39. Ma a un bulgaro non basta un secolo di sacrifici,
108 anni. A un polacco, più di una vita, 78 anni.
E questo perché il terribile spread tra il cedolino dell'onorevole (dal 2009
uguale per tutti, 17.827 euro al mese) e quello del cittadino che lo ha mandato
sugli scranni di Strasburgo è tanto più ampio quanto più povero o in difficoltà
è il singolo paese. Non meraviglia dunque che nella classifica stilata ad hoc -
forse unica nel suo genere - dalla giornalista Anette Krönig e da un gruppo di
statistici per il portale tedesco al servizio dei consumatori (preisvergleich.
de), Bulgaria, Romania, Lituania, Lettonia, Polonia siano nelle prime cinque
posizioni. Un eurodeputato bulgaro, per dire, incassa il 2.051% in più del suo
elettore. Quello rumeno, il 1.861%. E così via. Con divari pazzeschi. Su 27
paesi, l'Italia è circa a metà classifica, sedicesima dopo la Spagna. Un nostro
rappresentante in Alsazia mette al sicuro, ogni mese, il 795% extra di chi ce
l'ha mandato. La Francia è diciottesima. La Germania ventiduesima.
Così quel distacco cittadino-politica si fa abisso. E non di soli ideali e
passioni parliamo qui. Ma di denari sonanti che pesano tantissimo in tempi di
crisi come questi. Negli anni di purghe e ricette dolorose imposte da Bruxelles
ai paesi con i conti in disordine non un gesto, un esempio, un taglio è venuto
da quegli scranni d'oro di Strasburgo. Anzi, a dirla tutta, lo spread (non solo
tra Btp e Bund) volava. Ai 17.827 euro mensili intascati dall'eurodeputato anche
per viaggi, gettoni di presenza, appartamenti, occorre addizionare i 21.209 euro
a sua disposizione ogni mese per gli uffici (almeno due, di cui uno in patria) e
il personale (negli Stati Uniti si arriva a 80 mila euro mensili per queste
spese). Questo significa quasi mezzo milione di euro di entrate all'anno
(468.432 euro). Ovvero 2,3 milioni nel quinquennio. Moltiplicato per tutti gli
eurodeputati (oggi 766) fanno quasi 1,8 miliardi pagati dalle tasse di 500
milioni di cittadini europei che il prossimo anno saranno chiamati proprio a
rinnovare quel Parlamento. Non proprio bruscolini.
E pensare che prima del 2009 i guadagni erano in ordine sparso, con l'obiettiva
disparità tra parlamentari ricchi dei paesi forti e onorevoli poveri delle
"periferie" del continente. Quattro anni fa si decise di livellare, scegliendo
lo stipendio più alto. Indovinate quale? Quello di italiani e tedeschi. Da
allora, vita da nababbi, zero spending review, poca se non nulla trasparenza,
sacrifici lontani, come le Patrie che diligentemente li hanno eletti e che con
troppa pigrizia non chiedono mai conto di come, quei denari, vengano poi spesi.
Se poi agli eurodeputati aggiungiamo i parlamentari nazionali, arriviamo a 8.185
super fortunati che (ci) costano quasi 4 miliardi. Ivi compresi i 240 litri di
benzina gratuiti al mese per ciascun onorevole maltese.