26 giugno

 

Ruby, Sel chiede le dimissioni di Archi: "Il viceministro non è più credibile"

Sinistra ecologia e libertà chiede che il numero due della Farnesina lasci l'incarico dopo che ieri il tribunale di Milano al momento di condannare Berlusconi ha trasmesso gli atti alla procura, ritenendo che l'esponente del Pdl abbia reso falsa testimonianza nel corso del processo per prostituzione e concussione

Il viceministro degli Esteri Bruno Archi
ROMA - Dopo Josefa Idem potrebbe essere il parlamentare del Pdl Bruno Archi il prossimo membro del governo Letta costretto a rassegnare le dimissioni. Questo è almeno l'obiettivo di Sel, che ha chiesto oggi al viceministro degli Esteri che verrà presto iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza di farsi da parte.

"La gravissima condanna in primo grado che ha colpito Silvio Berlusconi ha una coda velenosa anche nel governo Letta", afferma il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà in commissione Esteri della Camera Arturo Scotto. "La richiesta della Corte di Milano di trasmettere gli atti alla Procura per falsa testimonianza anche per il viceministro agli Affari Esteri Bruno Archi segna uno spartiacque per la vita stessa dell'esecutivo", aggiunge. "La sua credibilità all'estero - sottolinea l'esponente di Sel - rischia di essere fortemente condizionata da questo incidente giudiziario. Credo che Archi debba lasciare immediatamente la Farnesina dando le dimissioni da viceministro".

Per quanto riguarda la parte giudiziaria della vicenda, i pm di Milano dovranno attendere le motivazioni della sentenza che ha visto la condanna di Berlusconi a sette anni di carcere (previste per settembre), per valutare la posizione dei 32 presunti falsi testimoni che
hanno deposto nel processo Ruby a carico dell'ex premier. La trasmissione dei verbali da parte dei giudici è ritenuto un passaggio 'automatico' verso l'iscrizione nel registro degli indagati dei 32 testi. Nella lista, oltre ad Archi, ex consigliere diplomatico di Berlusconi, ci sono alcune 'olgettine', il funzionario della Questura Giorgia Iafrate, Valentino Valentini, Licia Ronzulli e Carlo Rossella

 

18 giugno

 

I licenziati hanno superato il milione. L'Italia è il paese della disoccupazione

Siamo entrati in possesso dei dati che illustrano, per la prima volta, i danni provocati dalla crisi del lavoro. Nella fotografia nazionale spiccano in testa Sicilia, Puglia e Campania. Dal 2008 al primo trimestre di quest'anno in Italia si è passati da 23 milioni 405 mila occupati a 22 milioni 374 mila. Un dramma che si aggiunge a quello dei giovani che non trovano impiego: un totale di tre milioni

Di Eugenio Occorsio

ROMA - Il numero dei nuovi disoccupati creati dalla crisi ha superato il milione: per la precisione sono 1.031.151 le persone che hanno perso il lavoro fra il 2008 e il primo trimestre 2013. Si aggiungono ai due milioni di disoccupati "preesistenti" e quindi portano il totale a tre milioni di persone in cerca di lavoro nel nostro Paese. Sono gli ultimi dati dell'Istat, le estrapolazioni non ancora elaborate né pubblicate che Repubblica ha potuto vedere, a confermare questo dramma. In totale, se ancora nel 2008 lavoravano 23 milioni e 405mila italiani, questo numero si è ridotto nei primi mesi di quest'anno a 22 milioni 374mila. E, come si vede dai grafici che pubblichiamo, non c'è settore che si sia salvato, né l'industria manifatturiera, né il commercio, né tantomeno l'edilizia.

Ecco l'aspetto più drammatico della recessione che continua incessante a penalizzare il nostro paese ormai da oltre cinque anni, quello su cui sta concentrando i suoi sforzi il governo Letta. Che non perde occasione per insistere presso i suoi colleghi europei sull'assoluta urgenza degli interventi. Se ne è parlato nel vertice nel consiglio dei ministri del Lavoro europei a Roma la settimana scorsa, si cercherà di varare misure concrete a livello europeo nel vertice dei capi di governo a Bruxelles il 26 e 27 giugno. E sul piano nazionale è in pieno svolgimento il confronto fra il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, e i sindacati sul "pacchetto" di misure più urgenti, dagli sgravi sulle assunzioni alla caduta dei vincoli sull'apprendistato.

L'Italia è il paese più colpito dalla disoccupazione è arrivata al 12,8% nella media nazionale, ma se si va a vedere la fascia giovane, cioè dai 18 ai 24 anni, è già al di sopra del 40%. E al Sud la disoccupazione giovanile supera ormai il 50%. Un ragazzo su due nel Mezzogiorno non trova lavoro. I crolli, a leggere le cifre, sono devastanti: nella sola Campania gli occupati sono scesi da 1 milione e 680mila a un milione e 578mila: un crollo secco di oltre 100mila unità, pari quasi all'8%. In Puglia, la terra dell'Ilva (dove sono a rischio 20mila posti), la caduta è già stata, in poco più di quattro anni, di 108mila occupati: da 1 milione 286mila a un milione 178mila, ovvero quasi il 9%. Ma ovunque, anche al Nord, gli effetti della recessione sono drammatici: in Veneto sono andati persi 75mila posti, in Toscana 70mila, in Lombardia 60mila, in Piemonte ben 88mila.
Scendendo ancora più in dettaglio, i particolari sono agghiaccianti: nel settore delle costruzioni, tanto per fare un esempio, in Campania gli occupati sono scesi da 158mila a 97mila fra il 208 e il 2013. Nello stesso periodo in Sardegna, guardando stavolta al settore industriale in senso lato, cioè compreso sia il manifatturiero che l'edilizio, i lavoratori sono crollati da 131mila a 99mila. Quale miracolo dovrà mai avvenire per permettere di recuperare oltre 60mila dipendenti nell'edilizia in Campania o 32mila nell'industria in Sardegna? La Cgil è stata accusata di eccessivo pessimismo quando ha detto che serviranno 63 anni per raggiungere di nuovi i livelli pre-crisi, ma queste cifre le danno ampiamente ragione.

Le cronache restituiscono giornalmente dati da bollettino di guerra. Perfino nella sede del Pdl, il partito che doveva creare "un milione di posti di lavoro" e invece ha contribuito a bruciarne in egual misura, 200 dipendenti protestano perché saranno licenziati con la fine del finanziamento pubblico dei partiti. Le cifre in gioco sono ben peggiori, da un angolo all'altro della penisola. Alla fine della settimana scorsa al presidio organizzato a Milano da Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, le tre confederazioni degli edili, si è appreso che la crisi del settore in Lombardia è ancora più profonda di quanto dicano le cifre. "Oltre ai 50mila lavori persi l'indotto ha visto ridursi i dipendenti di circa 90.000 unità - puntualizza Battista Villa, segretario generale Filca Lombardia - senza disporre degli ammortizzatori sociali". A Taranto i dipendenti dell'Ilva continuano a lavorare con la spada di Damocle del fallimento del gruppo, che ora è affidato a un commissario con i proprietari sotto processo. E se l'Ilva chiude torna in discussione l'intero piano siderurgico nazionale e i lavoratori coinvolti diventano 40mila, senza contare la minaccia di un profondo ridimensionamento anche della Fiat di Melfi, che a Taranto compra l'acciaio. La stessa Fiat tra l'altro ancora deve gestire la reindustrializzazione di Termini Imerese, in Sicilia, dove 1300 operai hanno perso il posto e sono tuttora in cassa integrazione.

E che dire della Sardegna? L'Alcoa miracolosamente non ha chiuso, ma ora c'è il nuovo limite a novembre che torna a inquietare 900 dipendenti, e poco lontano c'è la Carbosulcis, dove come riferisce il segretario provinciale della Uiltec dell'Iglesiente, Mario Crò, "la Regione, in attesa di conoscere le decisioni Ue sulle misure a sostegno per garantire gli stipendi è costretta a ricorrere ai fondi per la messa in sicurezza della miniera". Le crisi si accavallano: nel Lazio, vicino Rieti, la multinazionale francese dell'elettronica Schneider minaccia di chiuder e la fabbrica lasciando a terra 181 dipendenti, e ad Anagni (Frosinone) l'indiana Videocon ha già abbandonato lo stabilimento licenziando tutti i 780 lavoratori e lasciando agli enti locali e al consorzio industriale della provincia l'immane compito di trovare una soluzione.

E poi mille crisi locali, fronteggiate con coraggio e disperazione: quelli che hanno portato le operaie della Mabro di Grosseto, fabbrica di abiti in agonia, a lavorare per mesi senza stipendio dormendo in mensa per paura di essere estromesse dalla proprietà, oppure gli operai specializzati di Casalbertone, periferia romana, a riconvertire a loro spese l'impianto un tempo prestigioso chiuso dalla Wagon Lits. Per non parlare della cintura torinese, dove un intero "pianeta" industriale, quello dell'indotto Fiat, è stato travolto dalla crisi dell'auto e dell'azienda-faro. Nomi gloriosi come la De Tomaso di Grugliasco, ex Pininfarina rischiano di essere cancellati dalla mappa dell'economia italiana.
È uno stillicidio senza fine: il tasso di disoccupazione in aprile, ultime stime ufficiali, ha raggiunto il 12,8%, il dato peggiore da quando vengono rese note le serie storiche, cioè dal 1977. Nel Sud si supera ormai il 20% di disoccupazione. Nell'ultimo anno si sono persi 475mila posti, portando il totale dall'inizio della crisi come si è visto ad oltre un milione, e il numero dei senza lavoro a ben più di 3 milioni. Fra i giovani (18-24 anni) il dato nazionale medio è sconcertante: 41,9% di disoccupati, il peggiore d'Europa alla pari con Spagna e Grecia.

La peggior situazione in assoluto è per le donne del Mezzogiorno: 56,1%, molto più della metà. E come sempre questi dati non tengono conto della massa di precari senza alcuna garanzia né certezza, di chi ha rinunciato a cercare un posto, degli "inattivi" che vanno avanti con piccoli lavoretti in nero, di chi stenta a sopravvivere con una miserrima pensione sociale, insomma di chi esce dalle statistiche per un motivo o per l'altro. In totale, calcola l'Ires della Cgil, l'"area della sofferenza" riguarda in Italia non meno di 9 milioni di persone. "Solo negli ultimi 12 mesi - ricorda Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Trentin della stessa Cgil - c'è stato un incremento del 10,3% in questa stima, pari a 818mila unità, e rispetto al quarto trimestre 2007 l'aumento è del 46,4% pari a 2,8 milioni". Le realtà locali sono allarmanti: "Nell'isola il fenomeno della povertà investe 400mila persone", dice per esempio Mario Medde, leader della Cisl sarda.

Altrettanto drammatiche le cifre sulla cassa integrazione. "Tra gennaio e aprile 2013 hanno chiesto aiuto alla sola cassa integrazione straordinaria oltre duemila aziende", spiega Giampiero Castano, un passato da sindacalista della Fiom, oggi capo dell'unità di crisi al ministero dello Sviluppo economico. I cassintegrati non figurano ancora ufficialmente come disoccupati, in qualsiasi delle tre categorie ricadano: la cassa ordinaria, quella attribuita nel caso di conclamate crisi di settore, quella straordinaria che riguarda i casi di ristrutturazione aziendale, e quella in deroga. È quest'ultima la categoria più a rischio perché, a differenza delle prime due, non è finanziata da un fondo rotatorio basato sui contributi delle stesse aziende e gestito dall'Inps (che risulta ancora oggi miracolosamente in attivo) ma deve essere continuamente rifinanziata dallo Stato: creata nel 2009 appunto per reagire alla crisi economica che stava piombando sul sistema Italia, la cassa in deroga è servita per sovvenzionare tutti i settori finora esclusi: le aziende con meno di 15 dipendenti, gli artigiani, i commercianti, i dipendenti del settore turistico e così via. Prima la finanziavano le regioni, da quest'anno direttamente lo Stato, e l'Inps funge anche in questo caso da ente erogatore: non senza polemiche perché proprio la settimana scorsa l'ente presieduto da Antonio Mastrapasqua si è lamentato che non può continuare ad anticipare allo Stato, come sta succedendo, importi sempre più cospicui.

Nel complesso, considerando le tre categorie e calcolando non tutti i cassintegrati sono a zero ore, cioè non lavorano per niente, ma più spesso lavorano meno ore e si alternano in modo da non restare più di tre mesi lontani dal posto di lavoro, la cassa integrazione interessa oggi circa 500mila lavoratori. Se si aggiungessero ai tre milioni di disoccupati le cifre sarebbero ancor più da brivido. Ci provò proprio nel 2009 la Banca d'Italia, osservando appunto che i cassintegrati sono da equiparare ai disoccupati e rifacendo i conti: uscì fuori che il tasso "vero" non era il 7,5% di allora ma si arrivava al 10%. Apriti cielo: gli allora ministri Giulio Tremonti (Tesoro) e Maurizio Sacconi (Lavoro) insorsero, accusando la Banca d'Italia di diffondere cifre inappropriate, e da allora di questi calcoli ufficialmente non se ne sono fatti più. Ma la sostanza resta.

Insomma la crisi del lavoro assume sempre più, ogni giorno che passa, i toni di un'emergenza nazionale. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, la ricorda con allarmante sistematicità. Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, l'ha posta in testa alle priorità nelle Considerazioni Finali lette il 31 maggio all'assemblea. Il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, all'assemblea degli industriali di una settimana prima aveva parlato di "situazione tragica". Il premier Enrico Letta assicura che proporrà ai partner europei un grande piano comune per l'occupazione al vertice annuale di fine giugno, ora che grazie alla chiusura della procedura per deficit eccessivo l'Italia può tornare a far sentire la sua voce. Nel frattempo, conferma il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, il governo è impegnato a utilizzare con il massimo risultato possibile i fondi europei che la chiusura stessa della procedura ha reso disponibili, e raccomanda di "usare i margini che si sono aperti, gli stessi che quest'anno vengono assorbiti dalla restituzione dei debiti alle imprese, per programmi di occupazione giovanile".

Ma quale diabolica coincidenza di fattori si è intrecciata per penalizzare così tanto il lavoro nel nostro Paese? Le cause vengono da lontano, ammonisce Gary Pisano , il docente di management ad Harvard che è considerato uno dei più prestigiosi studiosi del settore e ha fatto da consulente a Barack Obama per risolvere la disoccupazione in America. "Negli ultimi vent'anni in tutto il mondo - spiega Pisano - si è sottovalutata l'importanza della manifattura come fonte stabile e sicura di lavoro. Si è scelta la finanza o i servizi, dimenticando che solo dalle gloriose fabbriche, per quanto tecnologicamente evolute, viene l'apporto-lavoro più significativo di lungo periodo". Che una bella fetta delle colpe sia da attribuire alla finanza, "e alla sua illusione di poter diventare ricchi in fretta", lo pensa anche Fabrizio Pezzani, economista della Bocconi: "Anche fiscalmente, si è sempre più penalizzato il lavoro, sia dal punto di vista dell'impresa che da quello del dipendente, rispetto alle imposte su rendite e grandi patrimoni. Nel 1929 le imposte sul reddito erano il 22% e quelle sulla successione il 20%, oggi sono il 10% sul reddito e praticamente zero sulla successione".Proprio su una riformulazione del sistema fiscale si basano le speranze del governo italiano di ricavare i fondi per l'occupazione innanzitutto giovanile: finanziando per esempio periodi di apprendistato, riducendo il carico contributivo e fiscale per chi assume dipendenti minori di 25 anni, fornendo contributi speciali a tasso agevolato alle aziende che s'impegnano ad occupare giovani (o anche ad assumere tout court). Tutte misure urgentissime ma altrettanto insidiose: il pericolo, ha ammonito la settimana scorsa il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, è che gli esborsi pubblici necessari finiscano col far ripiombare l'Italia nella situazione di "deficit eccessivo", la procedura di cui si parlava prima, con la riapertura dell'istruttoria che è stata chiusa con grandissima fatica e forte entusiasmo pochissime settimane fa. E allora per l'Italia si riaprirebbe ancora una volta il baratro. Su questo sottilissimo crinale il governo e i sindacati sono costretti a camminare.

 

17 giugno

 

Asili nido, a Roma bandi al ribasso per i privati. Cgil: “Regalo di Alemanno”

Per arginare il problema delle infinite liste d’attesa nella scuola pre-materna del Comune di Roma, l’ex sindaco Gianni Alemanno si è affidato ai privati , affidando loro alcuni asili nido in concessione. Di anno in anno le liste sono aumentate al punto che a settembre solo un bambino romano su due riusciva ad entrare al nido. La questione andava risolta, tenendo bene a mente la necessita del Comune di abbattere i costi. E’ allora che l’ex-sindaco si e giocato la carta delle concessioni ai privati, indicando sul bando di gara per otto nidi una base d’asta pari a 480 euro al mese a bambino . Cifra irrisoria, se si pensa che secondo uno studio del Cnel la spesa minima mensile per bimbo dovrebbe essere di circa 600 euro . La cifra ha destato le perplessità di chi domanda come sia possibile mandare avanti l’attività – e magari ricavarne un profitto - con un budget che non ricopre neanche gli stipendi degli educatori . “E’ sufficiente essere dei bravi imprenditori – spiega Domenico Crea , amministratore di Esperia srl , che gia nel primo bando del 2010 si era aggiudicata la gestione di due asili. “Considerata la possibilita data dal Comune di utilizzare le scuole anche negli orari extra-scolastici” – continua Crea - ”per rientrare delle spese si organizzano corsi di ogni tipo, dagli incontri genitoriali a quelli di primo soccorso”. Secondo Crea, nel rispetto della qualita dell’insegnamento, questi servizi sono utili e consentono un notevole risparmio di soldi pubblici. “E allora perché questo tipo di pratica non la mette in atto il Comune di Roma?” A porre la domanda è Fabio Moscovini della FP Cgil Roma e Lazio , che aggiunge: “Visto che il Comune e perennemente in rosso, perche lasciare un potenziale guadagno per il pubblico alla gestione dei privati?” di Valeria Abate

Il fatto quotidiano

 

Natuzzi made in India

Ormai è un crollo verticale in tutti i settori. Anche i mobili si spostano in Brasile, India, Est Europa ed Estremo Oriente. L'azienda leader dell'arredamento delocalizza: 1.900 gli esuberi. Dopo tre anni di cig e più di 101 milioni di soldi pubblici va a casa il 70% degli operai. Il 28 la protesta a Bari

Gianmario Leone

La Natuzzi , la più grande azienda italiana nel settore dell'arredamento, pare sempre più intenzionata a delocalizzare la produzione all'estero. In attesa del piano industriale, la cui presentazione è stata rinviata a luglio, nell'ultimo incontro con i sindacati l'azienda ha comunicato 430 nuovi esuberi (che si sommano ai 1.470 attuali per arrivare alla cifra di 1.900 su 2.700 unità totali), con la cassa integrazione in scadenza il prossimo 28 ottobre. L'azienda, che secondo i sindacati ha assunto da diverso tempo un atteggiamento minaccioso nei confronti dei lavoratori, ha motivato la decisione con il calo di produttività registrato negli stabilimenti italiani.
Ma la realtà vissuta dai lavoratori è ben diversa. In attesa del Cda del gruppo convocato per oggi, è infatti scattata la mobilitazione nello stabilimento di Laterza, in provincia di Taranto, in cui vengono realizzati divani e complementi d'arredo. I circa 500 lavoratori del sito ionico, hanno indetto da mercoledì uno sciopero ad oltranza nei tre turni di lavoro «contro un atteggiamento padronale inaccettabile ed un piano industriale che punta unicamente alla salvaguardia della griffe aziendale e del made in Italy», che vuol scaricare sui lavoratori e sui sindacati «responsabilità ascrivibili al solo tentativo malcelato di delocalizzare» le stesse produzioni in Brasile, piuttosto che in India, in Cina e in Romania «con la conseguente soppressione degli attuali siti» pugliesi e lucani.
«È un gioco che abbiamo compreso benissimo, che denunciamo da tempo e che non condividiamo», sostengono compatte le segreterie di categoria regionali Filca Cisl, Fillea Cgil e Feneal Uil, dopo l'ultimo incontro avuto con l'azienda la settimana scorsa, presso la sede di Confindustria Bari, dove erano presenti anche delegazioni Rsu degli stabilimenti di Ginosa, Laterza, Matera e Santeramo. «L'azienda ha chiesto per lo stabilimento di Laterza - spiegano i sindacati - una cospicua riduzione operativa al netto del cosiddetto personale infungibile, a partire dal 17 luglio e fino al 12 agosto, in concomitanza con l'inizio del periodo feriale, con un incomprensibile abbassamento del livello produttivo al 25 per cento circa». I sindacati denunciano inoltre l'atteggiamento incomprensibile assunto dall'azienda negli ultimi tempi, che invece di assumere decisioni condivise in un momento di grave crisi, «confeziona atti unilaterali e non condivisi con segreterie e Rsu persino sul calendario del lavoro che riguarda tutti i dipendenti». La protesta dei lavoratori di Laterza è scattata all'indomani della consegna da parte della dirigenza di un piano di giornate lavorative che, secondo la Fillea Cgil, «di fatto riducono del 50% la presenza in fabbrica dei dipendenti. La Natuzzi, a fronte degli esuberi che annuncia sempre più cospicui, dovrebbe invece (...) mettere in atto un intervento di equità e giustizia nei confronti di tutti».
I sindacati ricordano inoltre come tre anni fa l'azienda sosteneva la necessità di ricorrere alla cassa integrazione per un numero cospicuo di dipendenti, quale condizione indispensabile per superare e risolvere definitivamente una sfavorevole congiuntura di mercato. Teoria non confermata dalle ultime dichiarazioni pubbliche dell'azienda «secondo cui il mercato del mobile imbottito andava e continua ad andare a gonfie vele e che il made in Italy, in questo settore, non ha rivali nel mondo». Il che è dimostrato dal fatturato realizzato dalla Natuzzi nel 2011, pari a 486,4 milioni di euro. Peraltro, appena lo scorso 8 febbraio a Roma venne siglato l'accordo di programma per rilanciare il settore del mobile imbottito, con un finanziamento di 101 milioni di euro così distribuito: 40 dal Mise e dalla Regione Puglia, e 21 dalla Regione Basilicata. Intanto, venerdì 28 giugno, si fermeranno tutti gli stabilimenti del gruppo perché i lavoratori porteranno la loro protesta a Bari, sotto la Prefettura.

 

La Russia non è un paese per gay

di Cecilia Tosi

Putin sta facendo votare una legge che vieta di parlare bene dell'omosessualità ai minori e proibisce i gay pride. Gran parte della popolazione è con lui. La scusa del carcere e le origini dell'omofobia.


[Un attivista gay fermato da un poliziotto a Mosca. Foto National Post , 2009]
L’11 giugno la Duma ha approvato una legge contro la propaganda gay. Il provvedimento deve ancora ottenere il placet della Camera alta ma, visto che in prima lettura è stato approvato all’unanimità, ha ottime probabilità di arrivare in porto senza scossoni.

La legge voluta dal Cremlino vieta ai cittadini russi di parlare positivamente dell’omosessualità con i minori e di organizzare manifestazioni di orgoglio gay. Mentre in Europa le coppie dello stesso sesso stanno combattendo (e vincendo) per ottenere il diritto di sposarsi e adottare bambini, la Russia rema all’indietro incurante e, anzi, fiera, di attirare le critiche di un Occidente che per Mosca rappresenta ancora una minaccia di corruzione morale.

Putin ha fatto la scelta giusta. Giusta per lui, ovviamente; il leader del Cremlino si è inventato una legge che raccoglie il consenso della stragrande maggioranza degli elettori e che mette in risalto le distanza tra il popolo russo e l’opposizione liberale che ha manifestato in piazza contro di lui negli ultimi due anni.

Navalny e company , i giovani leader del fronte che protesta contro i brogli del Cremlino , possono anche raccogliere la simpatia dei ceti colti delle metropoli russe parlando di lotta alla corruzione, ma se provano a lanciarsi in battaglie per i diritti civili devono dire addio al consenso.

Secondo un sondaggio Levada Center di quest’anno , la metà della popolazione russa ritiene che essere gay sia una brutta tendenza alla promiscuità, mentre meno del 15% lo ritiene un orientamento sessuale da rispettare.

Percentuali che negli anni vanno peggiorando , se si considera che nel 1995 - appena due anni dopo la depenalizzazione dell’omosessualità - quasi il 20% della popolazione era disposto a riconoscere uguali diritti a etero e gay. Alla domanda “pensa che vada soppressa ogni forma di propaganda o di difesa dell’omosessualità?", il 73% ha risposto sì.

Il sondaggio potrebbe anche essere stato manipolato, esagerato, strumentalizzato. Ma la realtà dei fatti in Russia è questa: nemmeno un deputato della Duma ha votato contro la legge antigay. Nessun politico in tutto il parlamento ammetterebbe mai di avere tendenze omosessuali.

Alla manifestazione di protesta organizzata il 9 giugno dalle organizzazioni lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), i gay che hanno provato a baciarsi in pubblico sono stati assaliti da gruppi di fanatici ortodossi e giovani putiniani: a finire in galera però sono stati gli attivisti per i diritti degli omosessuali.

In una società dove per 70 anni l’uguaglianza è stata imposta per legge, gli orientamenti sessuali “non tradizionali” erano e sono costantemente emarginati.

L’ostilità nei confronti degli omosessuali, in Russia, non si limita a eroderne i diritti.

Negli ultimi due mesi, due persone sospettate di essere gay sono state uccise. A Volgograd, durante la celebrazione del Giorno della Vittoria, un gruppo di simpatici guasconi ha cominciato a bere e a socializzare con un altro giovane, Vladislav Tornovoi, che tra i fumi dell’alcol ha rivelato tendenze omosessuali. Il gruppo di amici si è sentito oltraggiato e ha deciso di punirlo infilandogli più di una bottiglia di birra nel retto. Dopo gli abusi, l’hanno picchiato e ucciso.

Quando sono stati catturati, hanno usato l’omosessualità come attenuante : era gay, cos’altro potevamo fare? Neanche gli amici della vittima hanno avuto il coraggio di difendere il suo orientamento sessuale, anzi, si sono sentiti in dovere di dichiarare che a Vladislav piacevano le ragazze e che andava alle terme insieme agli altri maschi senza avere erezioni.

Dal sud della Russia, la cronaca ci porta nell’estremo Est, in Kamchatka, dove il 2 giugno un uomo di 39 anni, funzionario aeroportuale, è stato preso a calci e ucciso per il suo “orientamento sessuale non tradizionale”. Il suo cadavere è stato rinchiuso in un cofano e poi incendiato.

Le autorità russe, quando sono costrette a rispondere ai media occidentali, danno la colpa alla vita carceraria. Buona parte della popolazione russa - dicono - ha trascorso almeno un periodo della sua vita in prigione, un luogo dove è inevitabile imparare a discriminare e violentare gli omosessuali.

Se è vero che il carcere è un’esperienza largamente diffusa nella Federazione Russa e che le regole criminali nate nei gulag godono ancora di un grande rispetto - per non parlare dei mafiosi multimilionari che scorrazzano liberamente in tutto il paese - la tesi che l’omofobia venga inculcata tra le sbarre è opinabile.

Chi arriva in prigione ha già una pessima opinione degli omosessuali. Tra le sbarre, chi ha tendenze gay viene costretto a una vita da reietto, non deve neanche azzardarsi a guardare negli occhi gli altri carcerati e deve subire le violenze di tutti i compagni di prigionia. In galera, invece di odiarla, si impara a praticarla, l’omosessualità: buona parte dei presunti eterosessuali, infatti, si dedica a violentare i gay “passivi”, trincerandosi dietro a un ruolo “attivo” che, a loro parere, difende il loro onore.

Putin, invece, preferisce fare il "macho". Per mostrare i muscoli agli occidentali, oltre alla legge contro la propaganda gay, il presidente russo ha sostenuto le proteste contro tutti quei paesi che si permettono di approvare il matrimonio omosessuale.

Ieri, dopo aver bloccato le adozioni di bambini russi verso gli Stati Uniti , Putin ha minacciato di interrompere la collaborazione con gli Stati europei che consentono ai gay di metter su famiglia.

Il responsabile russo dell’Autorità per i diritti dell’infanzia gli ha passato la palla , chiedendo una moratoria per bloccare le adozioni verso Parigi e il presidente ha dichiarato che ci penserà, perché i matrimoni gay sono illegali e soprattutto “contrari ai valori tradizionali russi”.

 

14 giugno

Avellino, sequestrata la ex Isochimica: “Ex operai tutti in pericolo di vita”

La Procura ha messo i sigilli ai vecchi stabilimenti dell'azienda dismessa di Elio Graziano, chiusa dal 1990 dopo il crac: "L'area rappresenta un gravissimo pericolo per la salute e l'incolumità pubblica". I periti dei pm: "Per i lavoratori assenza totale dei dispositivi di protezione"

di Vincenzo Iurillo Avellino, sequestrata la ex Isochimica: “Ex operai tutti in pericolo di vita”

La fabbrica che mette i brividi nella Pianodardine di Avellino . La fabbrica della morte da amianto . Nove casi . Per ora. E altri 140 operai ammalati . Che tremano. Sono gli ex dipendenti di Isochimica , l’azienda dismessa di Elio Graziano , chiusa dal 1990 sotto il peso di un crac economico, che negli anni Ottanta ha lavorato alla coibentazione e scoibentazione di circa 2500 carrozze delle Ferrovie dello Stato . Ripulendole dall’amianto che poi veniva interrato ‘a mani nude’ in diversi punti dello stabilimento o impastato in cubi di cemento dimenticati da decenni alle intemperie.

Nei giorni scorsi la Procura di Avellino, con un provvedimento firmato dal procuratore capo Rosario Cantelmo e dai sostituti Elia Taddeo e Roberto Patscot , ha sequestrato con procedura d’urgenza le rovine dell’ex stabilimento perché – come riporta un decreto di sequestro lungo 126 pagine e notificato a 24 indagati – l’amianto abbandonato nell’area rappresenta ormai un gravissimo pericolo per la salute e l’incolumità pubblica. Le fibre possono in ogni momento liberarsi nell’aria, e raggiungere gli insediamenti abitativi che si affacciano sulla via di ingresso dell’opificio, e la scuola elementare a meno di cento metri in linea d’aria. Mentre a poco più di 200 metri c’è la stazione ferroviaria.

Tutti in pericolo, a cominciare dagli ex operai, che hanno lavorato, si legge in una consulenza medica dei professori Gualtiero Ricciardi e Umberto Moscato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, “ nell’assenza pressoché totale dei dispositivi di protezione individuale (quando presenti) e collettivi”. Con carenze clamorose nei sistemi di aspirazione, di abbattimento delle polveri, nelle strutture di decontaminazione. Terribili le conclusioni per i quasi 200 lavoratori che si sono avvicendati nello stabilimento: “E’ possibile affermare che per tutti i soggetti esposti sussiste pericolo di vita ”. Il rischio è quello di contrarre mesoteliomi pleurici o peritonali, o un cancro al polmone. “Non è possibile escludere – si afferma nella relazione – l’insorgenza di neoplasie correlabili ad esposizione ad amianto anche in altri organi od apparati diversi”.

La bonifica trascinata in venti anni di ritardi ed inerzie si è rivelata poco più di una farsa. Non si è riusciti nemmeno a stabilire il numero preciso dei cubi di calcestruzzo e amianto stoccati sul piazzate. Trecento, secondo una relazione del 2002. Ben 347, secondo un documento dell’Arpac di due anni dopo. Che diventano 489 in un censimento del 2007, poi 509 in una tabella riassuntiva e 525 nelle conclusioni. Addirittura 681 secondo il dato di un medico messo a verbale di una riunione al Comune di Avellino nel giugno 2010. La spiegazione è tra le righe del decreto di sequestro: una fitta vegetazione, sviluppatasi con l’incuria della fabbrica, avrebbe nascosto per anni alcune centinaia di cubi. Così come è stata dimenticata l’esatta ubicazione di uno dei quattro punti di interramento dell’amianto. Gli operai non la ricordano con precisione, forse occultata da un fabbricato costruito successivamente.

Tra i 24 indagati ci sono il titolare di Isochimica, il management dell’azienda, funzionari comunali, Asl e Arpac che hanno sottovalutato la situazione. E i componenti di una vecchia giunta comunale del 2005, capeggiata dal sindaco Giuseppe Galasso , di cui faceva parte anche il deputato Sel Giancarlo Giordano . Sono accusati di aver deliberato la sospensione della procedura di bonifica ‘in danno’, affidandola alla curatela fallimentare di Isochimica senza ottenere da loro una reale assicurazione su modi, tempi, procedure e, soprattutto, garanzie finanziarie dell’intervento. La Procura è convinta che quella delibera sia stata approvata per liberare l’amministrazione comunale dai problemi finanziari connessi all’obbligo di bonificare e mettere in sicurezza l’area, che ricadeva sull’ente pubblico in caso di inerzia dei privati. La questione è stata di fatto “scaricata” su una curatela fallimentare che, a sua volta, era anch’essa priva di mezzi e fondi per bonificare, anche perché il suo scopo era diverso: recuperare risorse per soddisfare i creditori. Così l’amianto è rimasto lì. All’aria aperta, nei cubi lasciati a marcire.

 

Sindrome dei Balcani, la storia infinita

Nicole Corritore

Il caso scoppia 12 anni fa: militari di ritorno dalle missioni si ammalano o muoiono di cancro. Responsabili sarebbero i bombardamenti Nato con proiettili all'uranio impoverito. 307 i militari morti e oltre 3.700 i malati

Nel 2001 scoppia il caso Sindrome nei Balcani, con l'emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Due paesi bombardati dalla Nato, nel 1995 e nel 1999, con proiettili all'uranio impoverito (DU). Da allora è una battaglia: tra chi nega l'esistenza di una correlazione tra esposizione al DU e malattia, e chi sostiene il contrario con numeri di morti e malati alla mano e sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa.
L'uranio impoverito (Depleted Uranium) deriva da materiale di scarto delle centrali nucleari e viene usato per fini bellici per il suo alto peso specifico e la sua capacità di perforazione. Quando un proiettile al DU colpisce un bunker o un carro armato, vi entra senza incontrare resistenza e alla sua esplosione ad altissima temperatura rilascia nell'ambiente nano-particelle di metalli pesanti. Ad oggi, viene confermato dalla ricerca scientifica che questi proiettili sono pericolosi sia per la radioattività emanata sia per la polvere tossica che rilasciano nell'ambiente. Una neverending story anche per i cittadini di Bosnia, Serbia e Kosovo: nonostante il battage mediatico, poco si è fatto per analizzare in maniera approfondita le conseguenze di quei bombardamenti.

Battaglia giuridica e politica
Una sentenza dello scorso 18 marzo, emessa dalla Corte dei Conti della Regione Lazio, accoglie il ricorso di un militare ammalatosi di tumore, al quale il ministero della Difesa aveva rigettato la richiesta di pensione privilegiata. Il ministero ha rifiutato la richiesta in base al parere negativo del Comitato di verifica per le cause di servizio che ha definito la malattia del militare di tipo ereditario e non dipendente dal servizio svolto nei Balcani. Dalla sentenza della Corte laziale emergono invece due fatti: la diagnosi del Comitato è errata e la malattia è correlata alle condizioni ambientali in cui è stato prestato il servizio in Kosovo.
Il Caporal Maggiore dell'esercito italiano, recita il testo della sentenza, «aveva soggiornato presso la base militare italiana vicino a Pec/Peja e aveva svolto attività di piantonamento (...), in ambiente esterno sottoposto a intemperie e devastato dai bombardamenti» e «altri servizi». Al rientro dal Kosovo viene ricoverato a Milano, poi messo in congedo illimitato e ricoverato in altro centro clinico: gli viene riscontrata una linfadenopatia in diverse parti del corpo e un adenocarcinoma intestinale.
Diverse perizie medico legali nominate nella sentenza, attestano che nei tessuti neoplasici del militare sono state trovate molte nano-particelle «estranee al tessuto biologico, che quindi testimoniano un'esposizione a contaminazione ambientale». Tra le numerose sentenze vinte dall'avvocato Tartaglia, legale dell'Osservatorio Militare, questa è la prima che mette in correlazione la malattia ai pasti consumati nelle cucine delle mense sottoufficiali.
«Dagli atti risulta che tutti gli alimenti distribuiti alla mensa e allo spaccio della base ove prestava servizio il ricorrente, compresa l'acqua utilizzata sia per l'alimentazione sia per l'igiene personale, erano oggetto di approvvigionamento in loco, e che era stato consentito ai militari di acquistare autonomamente carne macellata e verdure coltivate in loco» e dunque «quei luoghi dichiaratamente inquinati da DU e dalle sue micro polveri sono da porsi in rapporto etiologico con l'insorgenza della neoplasia». Un dato certo è che la zona del Kosovo posta sotto protezione del contingente italiano è quella che nel 1999 fu più bombardata (fonte Nato/Kfor ): 50 siti per un totale di 17.237 proiettili.

Manifestazione a Montecitorio
«Sono 307 i militari morti e oltre 3.700 i malati, per quanto riguarda i dati di cui siamo in possesso» ha dichiarato Domenico Leggiero - portavoce dell'Osservatorio Militare - a Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc). Il 9 maggio, Leggiero ha incontrato un gruppo di deputati e senatori del Movimento 5 Stelle e il 3 giugno è stato il turno dell'incontro della delegazione formata da Leggiero, familiari di militari deceduti e militari ammalati con Domenico Rossi, indicato da Scelta Civica quale parlamentare di riferimento per la questione uranio impoverito. «Per la prima volta - dice Leggiero - abbiamo avuto incontri ufficiali con forze politiche che hanno deciso di affrontare a fondo la questione e proposto una strategia per chiarire definitivamente il nesso tra le malattie e il DU, oltre a lavorare su normative apposite per l'assistenza sanitaria ed economica dei malati».
L'intento degli incontri è anche risollevare l'attenzione sulla Sindrome dei Balcani che, secondo i dati dell'Osservatorio, continua a mietere vittime. Per questo, il 5 giugno, davanti a Montecitorio, hanno manifestato quasi duecento persone tra militari ed ex-militari ammalati, familiari e rappresentanti di associazioni. Racconta Leggiero a Obc: «Un pomeriggio intenso. Abbiamo proiettato video del Pentagono, fatto conoscere al pubblico le sentenze e distribuito documenti sul tema DU, resi pubblici in tutto il mondo eccetto che in Italia». Aggiunge che non hanno ancora ottenuto l'incontro richiesto con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e non hanno ottenuto risposta da Pd, Pdl e Fratelli d'Italia. Ma Scelta Civica e 5 Stelle hanno assicurato che si terrà presto una seduta ad hoc in Commissione difesa. Presenti il deputato Domenico Rossi che ha ribadito l'impegno «per sciogliere i nodi fondamentali di questa vicenda», e Matteo Dell'Osso del M5S, della Commissione affari sociali, che ha incontrato alcune vittime del DU o loro familiari .
Concludeva in maniera netta il comunicato stampa dell'iniziativa: «I loro diritti sono affidati alla magistratura e sono 17 le sentenze di condanna per l'amministrazione della Difesa in vari ordini di giudizio. Tar, tribunali civili, corte dei conti di varie zone d'Italia indicano l'uranio come colpevole delle malattie dei militari e condannano l'amministrazione perché sapeva e aveva taciuto i pericoli». I militari, ma anche civili che hanno operato nei Balcani, si sono rivolti agli avvocati per non aver ottenuto dallo stato il riconoscimento della causa di servizio e gli indennizzi per i quali era stato istituito un fondo di 30 milioni con la finanziaria del 2008. Come emerge dalla relazione finale della terza Commissione d'inchiesta sul DU, approvata il 9 gennaio, ad oggi sono pochissime le domande prese in esame e accolte.

DU che appare e scompare
Hadzici, località a 27 km da Sarajevo, è uno dei siti bosniaci maggiormente bombardati dalla Nato con proiettili al DU nell'estate del 1995. Con la fine della guerra, circa 5.000 abitanti, tutti serbo-bosniaci, sfollano nella cittadina di Bratunac che gli accordi di pace di Dayton attribuiscono alla Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina.
Agli inizi degli anni duemila la primaria dell'ospedale di Bratunac, Slavica Jovanovic, aveva rilevato un allarmante numero di morti per tumore tra i cittadini provenienti da Hadzici. «Era stata inascoltata, aveva denunciato che in città i morti per tumore tra gli sfollati di Hadzici erano quattro volte superiore al resto della popolazione» ha dichiarato all'agenzia tedesca Deutsche Welle, Jelina Ðurkovic. La Ðurkovic, che nel 2005 presiedeva la Commissione di indagine governativa della Bosnia Erzegovina sulle conseguenze dei proiettili al DU, sottolinea che nel rapporto della Commissione erano stati inseriti i dati sulle conseguenze del DU e il dettaglio delle azioni da perseguire per risolvere alla radice il problema, ma nulla è stato messo in atto.
Riguardo agli sfollati di Hadzici è intervenuto sulla Deutsche Welle il vicesindaco di Bratunac: «Sono circa 800 i morti per tumore, in base ai dati che abbiamo ricevuto dalle autorità ospedaliere ed ecclesiastiche dove viene registrata la causa del decesso». Di diverso avviso Irena Jokic, a capo del Servizio di medicina sociale dell'Istituto sanitario della Federazione della Bosnia Erzegovina, intervistata da Dnevni List: «Nel 2008 abbiamo analizzato i dati sanitari degli abitanti di Hadzici. Non abbiamo rilevato un aumento significativo di malattie neoplasiche rispetto alla media nazionale». Aggiunge che l'analisi è stata ripetuta nel 2010 e conclude che non è possibile asserire con certezza il nesso tra affezioni tumorali ed esposizione all'inquinamento da proiettili DU ma aggiunge che se con la fine della guerra si fossero avviate ricerche accurate, oggi avremmo la risposta alla domanda.
Anche Beco Pehlivanovic, professore ordinario di Fisica dell'Università di Bihac, ha parlato del problema del territorio contaminato. Sulle pagine del Dnevni Avaz dello scorso 27 maggio ha dichiarato: «Purtroppo non è mai stata fatta un'analisi accurata, perché mancano fondi e attrezzature». E ha aggiunto che sono stati ritrovati di recente resti al DU in territori non inclusi nelle liste Nato. Un problema che si trascinerà nel tempo: «I resti di queste munizioni sono tossici e con un'emivita, cioè tempo di dimezzamento, di circa 4.5 miliardi di anni» ha concluso.

Montagne di scorie
Anche in Serbia il tema degli alti quantitativi di scorie raccolte negli interventi di bonifica dei terreni bombardati nel 1999 è stato al centro dell'attenzione dei media quest'anno. Sono emerse denunce delle associazioni di ex-militari dell'esercito serbo che si trovavano nei pressi dei siti bombardati, di alti numeri di mortalità tra i reduci. Alcuni media, come il quotidiano Politika, informano sull'andamento dei procedimenti giudiziari avviati dai militari italiani.
Il 29 marzo sul media online Srbija Media viene pubblicata la lista delle località bombardate nel 1999 e poi bonificate, rese note dal generale in pensione Slobodan Petkovic.
La mappatura dei luoghi contaminati era stata fatta, subito dopo il conflitto, dall'esercito serbo in collaborazione con altre istituzioni del paese, come l'Istituto di scienze nucleari Vinca di Belgrado. Il direttore dell'ente nazionale di stoccaggio JP Nuklearni objekti, Jagos Raicevic, spiega i motivi: «All'inizio la Nato ci mandò mappe sbagliate, non so se per volontà o meno. Alcuni dei siti da loro segnalati non erano stati toccati dai bombardamenti, e abbiamo trovato proiettili al DU in luoghi che non risultavano nella lista».
Il generale Petkovic racconta che quei territori sono stati ripuliti, i resti di proiettili radioattivi sono stati stoccati e le decine di tonnellate di terra contaminata sotterrate in luoghi posti sotto sorveglianza. Un "cimitero" di DU che allarma: «I resti dei proiettili sono stati inseriti in sacchi e container appositi, poi messi nel deposito di materiale radioattivo dell'Istituto Vinca». Nei sotterranei del palazzo numero 4 a soli 12 chilometri da Belgrado. Risale solo alla fine del 2011 lo spostamento delle scorie in luogo più sicuro, un deposito costruito in base a standard europei, definito dala serba Radio B92 il più grande deposito di materiale radioattivo d'Europa. Slobodan Cikaric - presidente dell'Associazione nazionale contro il cancro - conclude allarmato, sulle pagine di SMedia: «E' materiale che ha bisogno di miliardi di anni per divenire inerte. In caso di terremoto, alluvione o incendio... siamo a poca distanza dalla capitale, abitata da due milioni di abitanti!».
Ad aprile l'attenzione dei media viene attratta anche da altri due aspetti: il dato nazionale sui malati di tumore e l'alto numero di reduci che, secondo alcune associazioni, si sarebbero ammalati a causa dell'esposizione al DU. Il quotidiano serbo Blic del 14 aprile ha aperto con i dati dell'Istituto per la Salute pubblica Batut: nell'ultimo decennio i malati di leucemia e linfoma sono aumentati del 110%, il numero dei morti per le stesse affezioni è salito del 180%. Sullo stesso giornale Cikaric aggiunge: «Tra il 2010 e il 2011 c'è stato un aumento di tumori solidi del 20%». E prevede un aumento nel prossimo anno: «Il tempo di latenza delle affezioni cancerogene solide da uranio impoverito è di 15 anni, e di 8 per le leucemie e i linfomi. E questi ultimi hanno avuto un picco nel 2006».
Il 2 maggio, il quotidiano Vecernje Novosti apre con il titolo «L'uranio della Nato uccide i veterani». La denuncia è di Dusan Nikolic, presidente dell'associazione degli ex-militari della città di Leskovac: «Solo negli ultimi tre mesi, nella nostra municipalità sono morti più di cento reduci, per lo più militari che hanno operato in Kosovo. Il 95% è morto di cancro». Nikolic spiega che ha scoperto i dati grazie alle denunce dei familiari degli ex-militari deceduti, i quali si sono rivolti all'associazione per cercare di ottenere il riconoscimento della causa di servizio. Secondo Predrag Ivanovic, presidente dell'Unione delle vittime militari di guerra, la situazione dei reduci di Leskovac è stata pompata per interessi interni all'associazione che li rappresenta. Sebbene dichiari, al quotidiano Vesti del 4 maggio, che il problema esiste: «Anche le nostre informazioni indicano che è in crescita il numero dei malati di cancro tra coloro che hanno partecipato al conflitto. Ma purtroppo non abbiamo un numero nazionale esatto, perché ancora oggi nessuno sta facendo una specifica raccolta dei dati».
In sintesi, un panorama di cui non si vede ancora l'orizzonte. Né per i militari italiani - e le centinaia di civili volontari delle organizzazioni umanitarie - né per i cittadini di Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo.

Immigrati, i costi del rifiuto



La politica del “rispediamoli tutti a casa” ha un costo salato: 1 miliardo e 600 milioni in dieci anni, tra controlli alle frontiere, Cie, rimpatri e burocrazia. E non funziona, dati alla mano. Un Rapporto di Lunaria sui “costi disumani”

I diritti umani non hanno prezzo, e non è con calcoli economici che potremo salvarli. Però qualche conto può aiutare, soprattutto in tempi di austerity e spending review, per sostenere le ragioni che si oppongono alle “politiche del rifiuto”. È quel che ha fatto Lunaria, con un rapporto che, anno dopo anno e spesa dopo spesa, fa i conti in tasca alle politiche di contrasto all'immigrazione irregolare. Arrivando in poco più di un decennio a una cifra considerevole: 1 miliardo e seicento milioni di euro, la gran parte dei quali a carico delle casse nazionali. Numeri che vanno confrontati poi con quelli degli immigrati respinti e rimpatriati, quelli dei regolarizzati e quelli (stimati) dei “senza documenti”: per verificare, dati alla mano, l'inefficacia di tale spesa. E dunque il fallimento di politiche dell'immigrazione basate su un impianto tutto repressivo.

Il Rapporto, presentato e discusso il 30 maggio a Roma ( www.lunaria.org/2013/05/07/costi-disumani/), ripercorre i capitoli principali di una spesa pubblica che è tra le più invocate (in nome della sicurezza) ma tra le meno controllate. Se un sindaco apre le liste per l'assegnazione delle case popolari ai cittadini stranieri si scatenano polemiche infinite, e le politiche di inclusione sono tacciate di buonismo o – nel migliore dei casi – viste come un lusso; ma pochi sono andati a guardare tra gli sprechi e i costi delle politiche di esclusione. Politiche che fanno capo a molteplici centri di spesa e vari fondi, nazionali, comunitari e cofinanziati. I ricercatori di Lunaria sono andati dunque a spulciarli uno per uno. C'è il Fondo Europeo per le frontiere esterne, i cui stanziamenti vanno soprattutto a beneficio dei controlli costieri (dalla sorveglianza all'acquisto di materiali ai sistemi tecnologici, al coordinamento delle informazioni: 331 milioni di euro, dal 2007 al 2012); un Pon (Programma Operativo Nazionale) specificamente dedicato alla sicurezza del Mezzogiorno (111 milioni di euro dal 2000 al 2006, per Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia: anche qui, si parla di supporto alle attività delle forze dell'ordine per cercare e identificare i migranti); il Fondo europeo per i rimpatri, che finanzia i programmi per rispedire in patria i migranti catturati (circa 61 milioni di euro, 2008-2012); un bel pacchetto di stanziamenti per la Cooperazione con i paesi di origine (151 milioni, anni 2005-2012). E poi c'è il grosso della spesa, quella per i Centri di identificazione ed espulsione e altre strutture simili. Strutture carcerarie, di fatto; sorvegliate dalle forze dell'ordine, da cui non ci si può allontanare. E nelle quali si può stare fino a 18 mesi (inizialmente era stato fissato un massimo di 30 giorni). Vanno pagate le strutture, il personale, il vitto, la manutenzione, la sorveglianza... Il tutto è costato, finora, 143,8 milioni di euro all'anno. Il conto complessivo si può vedere nella tabella: 1 miliardo 668 milioni, di cui 281 a carico delle risorse comunitarie e il resto della spesa pubblica nazionale. Ed è una stima per difetto, dato che di alcune spese non è stato possibile ottenere una rendicontazione precisa.

A fronte di tutto ciò, c'è la sostanziale inefficacia delle politiche di contrasto, di tutto l'apparato del rifiuto che va dalle coste agli invivibili Cie. Dal '98 al 2012, si legge nel Rapporto, meno della metà delle 169.126 persone transitate nei Cie sono state effettivamente rimpatriate: 78.081, il 46,2% del totale. Mentre gli enormi flussi di emersione dall'immigrazione irregolare, in occasione delle varie sanatorie, mostrano che ben più grande è la dimensione dell'immigrazione: dal 1986 al 2009, i provvedimenti di emersione hanno portato alla regolarizzazione di 1.661.291 persone, tutti migranti regolarizzati in seguito al loro arrivo in Italia. Di contro, ci sono i numeri – non piccoli, ma assai minori – di quanti sono stati rintracciati dalle autorità di pubblica sicurezza in posizione irregolare, prima di poter usufruire di una sanatoria o nei periodi di attesa tra una sanatoria e l'altra: 540.389 persone, dal 2005 al 2011, il 60,3% delle quali non hanno obbedito all'ordine di allontanamento. Con tutta evidenza, non basta pensare a una “spending review” (come pure è stato fatto, abbassando la quota di rimborso per migrante/mese nei Cie nelle gare d'appalto, e peggiorando le condizioni di vita nei Centri). Bisogna riflettere su tutto l'impianto delle politiche dell'immigrazione, e di quella legge che porta il nome di due politici che in parlamento non ci sono più (Umberto Bossi e Gianfranco Fini). Confrontando i costi delle politiche del rifiuto con quelli delle politiche di inclusione: i quali saranno oggetto di un prossimo rapporto, già messo in cantiere da Lunaria.

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07 giugno

Banche, pronto soccorso Tronchetti Provera. Per gli amici i soldi non mancano mai

In piena stretta del credito alle imprese, Intesa Sanpaolo e Unicredit si svenano per liquidare lo scomodo Malacalza da Camfin. Stanziati 230 milioni di euro

di Giorgio Meletti |

È una storia noiosa e opaca. Ma l’intervento con cui ieri Unicredit e Intesa , le due maggiori banche italiane, hanno stanziato 230 milioni per diventare azioniste di una società con 15 dipendenti, la Camfin , va studiato. Solo così si potrà capire come i condottieri della finanza stiano spingendo l’economia nel burrone. Marco Tronchetti Provera è un mago delle cosiddette scatole cinesi . Tutti credono che sia padrone della Pirelli , invece ne controlla solo il 26 per cento, sufficiente al controllo grazie ad alleati come Mediobanca , Assicurazioni Generali, Fonsai (ex Ligresti oggi Unipol), Benetton.

Quel 26 per cento è custodito dentro la Camfin, una scatola quotata in Borsa, che ha solo 15 dipendenti, appunto, perché la sua unica attività è il possesso delle azioni Pirelli , che valgono poco più di un miliardo di euro. Tronchetti della Camfin ha solo il 42 per cento, e non ce l’ha tutto, perché è custodito in un’ulteriore società, la Gpi , di cui ha il 57 per cento, che tiene in un’ultima società che ha il 71 per cento della Gpi, la Mtp partecipazioni. Calcolando la demoltiplicazione delle quote si vede che Tronchetti realmente ha un 4 per cento abbondante di Pirelli, pari a un investimento di circa 200 milioni . Con i quali comanda anche se gli altri azionisti mettono oltre 4 miliardi di euro. Magia delle scatole cinesi.

Camfin è malmessa. Ha quasi 400 milioni di debiti, e Unicredit e Intesa sono le più esposte. Poi c’è la controllata Prelios (ex Pirelli Real Estate) che ha oltre 500 milioni di debiti, e anche lì Unicredit e Intesa sono inguaiate. Quando una società è indebitata e non sa come uscirne (Camfin a fronte di 380 miliardi di debito ha avuto nel 2012 come unica entrata 33 milioni di dividendo Pirelli) in un Paese normale si fa l’ aumento di capitale . Ciò che pensava l’industriale siderurgico Vittorio Malacalza (dotato di un miliardo di liquidità) che tre anni fa, quando Tronchetti non aveva i soldi per una certa operazione, lo soccorse diventando socio della Gpi e della Camfin. Il kamasutra di quote azionarie era tale per cui al primo bisogno di mezzi freschi – essendo Tronchetti in bolletta o renitente allo scucire euri, non si sa – Malacalza contava di estrarre il libretto degli assegni e sfilargli tutto.

Nel 2012 i nodi sono venuti al pettine, con tanto di avvocati e di veline ai giornali amici. Profilandosi la contesa, le azioni hanno cominciato a volare, quasi triplicando di prezzo nell’ultimo anno. Malacalza vuole l’aumento di capitale, Tronchetti vuole fare debiti. Anche le banche vogliono i debiti, sennò che ci stanno a fare? Dovendo scegliere tra uno che le voleva ripagare e uno specialista del debito, hanno scelto il secondo e lo hanno soccorso. Ieri il gran finale. Siccome il controllo di Tronchetti sulla Pirelli è un dogma del sistema di potere finanziario, Tommaso Cucchiani di Intesa Sanpaolo e Federico Ghizzoni di Unicredit hanno messo sirena e lampeggiante e fatto tutti contenti. Perché i soldi per tenere in vita le imprese e i posti di lavoro, come è noto, le banche non li hanno. Quelli per fare contenti gli amici invece non finiscono mai.

Intesa e Unicredit hanno chiamato il Fondo Clessidra di Claudio Sposito (ex Fininvest), quello a cui Mediobanca (di cui Unicredit è primo azionista) e Intesa, come azionisti di Telecom, volevano fortissimamente consegnare La7, e combinato l’affare. Malacalza, che aveva dato a Tronchetti 88 milioni per diventarne socio, ne avrà indietro 160, con un guadagno dell’ 88 per cento . Per sdebitarsi del trattamento sontuoso compra il 7 per cento di Pirelli da Allianz e Fonsai, due soci stufi di Tronchetti e da tempo in cerca di un compratore gradito al “sistema”. Unicredit e Intesa, già creditori disperati, diventeranno anche azionisti di Camfin. Non solo, finanzieranno anche un’offerta pubblica di acquisto (Opa) su tutte le azioni per togliere la società dalla Borsa.

Ed ecco il capolavoro finale: Clessidra ci mette 150 milioni, Intesa e Unicredit 115 a testa, ma a fronte di questa spesa di 380 milioni totali è stato messo nero su bianco che Tronchetti continuerà a comandare lui, da solo. Il presidente di Intesa Giovanni Bazoli e l’ex presidente di Mediobanca Cesare Geronzi , profeti di questa sorte di bisca magniloquente, chiamerebbero il soccorso a Tronchetti “ operazione di sistema ”, come tutte le volte che le banche sono corse a salvare i debitori (se sono amici o amici degli amici), e ne sono anche diventate socie, per condividere fraternamente il dolore. In Pirelli, Prelios e Camfin come in Rcs , in Fonsai (ex Ligresti ora Unipol) come in Risanamento , in Ntv (il treno Italo di Montezemolo) come nella Carlo Tassara dell’amico più amico, Romain Zaleski .

La lista potrebbe continuare, ma c’è un ultimo dato da registrare: in Borsa negli ultimi due giorni i furbetti bene informati hanno fatto, come si dice in gergo finanziario, carne di porco. Martedì sera il titolo Camfin aveva chiuso a 85 centesimi. Ieri mattina ha perso di colpo il 7 per cento perché gli amici degli amici hanno saputo che l’Opa sarebbe stata al prezzo di 80 centesimi. Quando il titolo è planato a 80 centesimi le autorità lo hanno sospeso , solo un attimo prima che uscisse il comunicato con i dati dell’operazione. Gestione a dir poco geniale. La Consob stavolta non può far finta di niente e sta già indagando.

Da Il Fatto Quotidiano

 

Un doppio fallimento

Alessandro Leogrande

A inquinare la storia recente di Taranto, facendo piombare la città in una disgregazione da cui per ora non si intravede alcuna via d'uscita, ci sono due fallimenti. Innanzitutto c'è il fallimento della privatizzazione del grande centro siderurgico dell'Italsider, la grande «svendita» del 1994 da cui nasce il modello-Riva. Negli ultimi due decenni l'Ilva è stato una straordinario laboratorio del lavoro post-moderno, capace di mescolare e amalgamare tra loro il liberismo all'italiana e il ritorno alle fabbriche degli anni cinquanta del secolo scorso. L'immane disastro ambientale (che non nasce certo con la privatizzazione, ma si acuisce decisamente negli ultimi due decenni, senza che venga adeguatamente arrestato) è in fondo la manifestazione esterna dei rapporti di forza instauratasi all'interno della nuova fabbrica. Frequenti infortuni e morti sul lavoro, ricorso eccessivo allo straordinario, tassi di sindacalizzazione che scendono in picchiata, mancati interventi di manutenzione e di ammodernamento degli impianti, un lavoro insicuro che torna a essere «fatica», per quanto associato da ingenti masse giovanili all'unica forma di «posto sicuro» in una delle principali lande italiane del non-lavoro. Questa è stata l'Ilva per Taranto.
Ora che la fabbrica-laboratorio sembra andare alla deriva, gioverà ricordare che, al di là della «soluzione» commissariamento decisa a Roma, è proprio alla necessaria trasformazione di quei rapporti interni che bisogna guardare per superare questo singolare stadio di alienazione post-moderna in cui è precipitata una vasta e frammentata comunità operaia. Una comunità vittima, negli ultimi due decenni, della sapiente costruzione - da parte della dirigenza aziendale - di un rapporto diretto vertici-dipendenti, che ha progressivamente indebolito (al di là dei propri errori) le rappresentanze sindacali.
Gioverà anche ricordare (in un'epoca in cui trionfa l'ambiguo slogan «destra e sinistra per me pari sono») che Taranto, negli stessi anni in cui si erigeva il modello-Riva, è stata uno dei principali laboratori della peggiore destra del Mezzogiorno. Dapprima con il trionfo a furor di popolo del telepredicatore-fascista-razzista-colluso con la mafia Giancarlo Cito; in seguito con la deflagrazione (a opera della giunta berlusconiana, successiva a quelle citiane) del più grave crack finanziario che la storia dei nostri enti locali ricordi: 900 milioni di euro di buco di bilancio, un dissesto da cui la città non si è ancora pienamente ripresa.
Questi fatti non sono accaduti settanta o ottanta anni fa, sono accaduti negli ultimi quindici anni. Tale laboratorio politico dello sfascio pubblico non era affatto un'oasi impazzita e slegata dal resto del mondo: da una parte ha avuto solidi legami, protettivi o di scambio, con i vertici nazionali del centrodestra; dall'altra i suoi luogotenenti si sono accucciati, senza muovere un solo dito, all'ombra del colosso siderurgico.
Tuttavia le due facce del fallimento di cui stiamo parlando (privatizzazione all'italiana da una parte; detriti politici della seconda repubblica dall'altra) non sono un caso a sé stante. Sono, a loro volta, la diretta conseguenza di un altro fallimento: l'implosione della prima repubblica e dell'intervento straordinario nel Sud. Il modello-Riva e il modello-Cito sono la risposta scomposta al crollo simultaneo, e consustanziale, delle partecipazioni statali e del pentapartito. Più in profondità, sono la risposta peggiore che potesse esserci alla crisi del meridionalismo novecentesco, e all'esaurirsi delle sue leve di intervento.
Non era affatto sbagliato l'intervento straordinario nella sua fase iniziale, né l'idea di far crescere l'industria siderurgica in un luogo del Sud, come Taranto, già sede di altre esperienze manifatturiere e in quel momento - fine anni cinquanta - attraversata sa una violenta crisi di disoccupazione. È stato mortale il suo dilatarsi (specie in presenza di un ceto borghese e imprenditoriale locale apatico, incapace, lazzarone, melmoso, micromunicipale, che non poteva costruire di certo una valida alternativa all'intervento statale). È stato mortale il suo dilatarsi oltre ogni logica di impresa (anche pubblica), con la produzione di una valanga debiti.
Ci sono due fallimenti, dunque, alle spalle del disastro ambientale e delle relazioni di lavoro deteriorate: quello pubblico degli anni ottanta; quello privato dei novanta-duemila. Il plumbeo punto di passaggio dall'uno all'altro è il biennio 1992-94. E anche per questo Taranto è, da molto tempo ormai, uno specchio deformato della irrisolta crisi italiana.
Giova ricordare tutto questo nel momento in cui si approva il commissariamento. Certo, separare i destini della fabbrica e della città-fabbrica da quelli di una dirigenza aziendale sotto inchiesta per reati gravissimi e incapace, allo stato attuale, di applicare persino le misure preliminari incluse nell'Aia (autorizzazione integrata ambientale) risulta essere un'operazione necessaria. Eppure bisognerà tenere a mente alcune cose.
a) Stiamo camminando lungo un crinale strettissimo. Da una parte dobbiamo superare il fallimento della privatizzazione. Dall'altra dobbiamo evitare di ricadere nel fallimento precedente. L'unico modo per farlo è quello di elaborare (culturalmente e politicamente, non solo tecnicamente) una nuova idea di pubblico, di intervento e indirizzo pubblico per il XXI secolo.
b) Nessun commissariamento sarà mai efficace se non verrà inserito all'interno di una rinnovata politica industriale, per il Sud e per l'Italia. Qui non si tratta di mettere in campo l'ennesimo salvataggio in extremis, ma di ripensare - in un momento estremo - ciò che per vent'anni è stato messo in un angolo: la programmazione economica e industriale di un intero paese (deindustrializzato e in recessione) all'interno di uno scenario europeo sempre più complesso.
c) Occorre uscire, ancora una volta, dalle fauci di una contrapposizione al ribasso. Non si può accusare chi solleva la drammatica questione ambientale di favorire la deindustrializzazione e la disoccupazione. Allo stesso tempo, non si può accusare chi vuole difendere i posti di lavoro. Si può uscire da questa lotta tra «opposti estremismi» (entrambi i quali ruotano intorno al mito premoderno della immodificabilità del lavoro di fabbrica) chiedendo, pretendendo e realizzando la trasformazione radicale degli impianti, la trasformazione radicale dei rapporti di lavoro interni alla fabbrica, la trasformazione radicale del rapporto tra fabbrica e città (non due entità separate, bensì strettamente intrecciate tra loro). Per quanto difficile da raggiungere, in questo momento non v'è altra soluzione.
d) Come esigere la restituzione del maltolto da parte della dirigenza Ilva? È questa la domanda a cui sembra difficile dare una risposta, più che a ogni altra cosa. Da una parte il sequestro di 8,1 miliardi richiesto dalla magistratura jonica è solo preventivo. Qualora i soldi venissero effettivamente raccolti, non potrebbero essere utilizzati in alcun modo fino alla fine del processo per disastro ambientale, che si preannuncia lunghissimo. Dall'altra, le dimissioni dell'intera dirigenza Ilva è l'ennesima conferma del desiderio di disimpegnarsi di fronte alle proprie responsabilità e alla gravissima crisi già causata dal proprio operato.
La soluzione necessaria, il commissariamento, deciso ieri dal Consiglio dei ministri, rischia paradossalmente di congelare questo stato di cose, facendo ricadere sulla collettività i costi dei mancati interventi di Riva. Viceversa (iter giudiziario a parte), la mancata applicazione delle norme preliminari dell'Aia dimostra come sia molto difficile, per usare un eufemismo, coinvolgere i Riva in un percorso di cambiamento virtuoso.
E allora come ottenere che essi reinvestano una parte dei loro profitti per uscire da quel disastro di cui si sono dimostrati responsabili (non gli unici ovviamente, ma tra i principali decisamente)? È ancora possibile, nel momento in cui si decide il commissariamento, e mettendo per un attimo da parte l'azione della magistratura, riflettere su azioni di sequestro da parte dell'autorità politica? In fondo la stessa legge 231 evoca un esproprio del genere, anche se non ne definisce le modalità.
Il solo porre tali domande dimostra quanto siano radicali le questioni poste dal caso-Taranto. Non si sta parlando «solo» di inquinamento. Non si sta parlando «solo» di come salvare il lavoro generato da quello che ormai è il più grande insediamento industriale del paese. Si sta parlando anche della sua trasformazione. E si sta parlando, in buona sostanza, di come ripensare il rapporto tra pubblico, privato, impresa, lavoro, città, classi, quartieri in questa Italia sventrata. In questo scorcio di XXI secolo.

 

Austerità, la lotta di classe dei ricchi

Roberto Ciccarelli

Presentato a Roma l'undicesimo «Rapporto sui diritti globali»: aumentano le disuguaglianze sociali, mentre è in corso la battaglia finale contro il modello sociale europeo del Welfare. Un bollettino di guerra: 1.700 milioni di disoccupati in più dal 2008, aumenta la povertà e i più precari sono i giovani e le donne

Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell'austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l'economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell'undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell'austerità nell'Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l'alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie. Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un'enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell'economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi. Senza contare che l'occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l'11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un'idea della povertà dilagante nel nostro paese.
Questo processo è destinato a durare a lungo. L'Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l'impegno a ridurre il debito sovrano dall'attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all'anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d'interesse irrisorio dell'1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale. Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.
La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall'inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell'Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l'abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent'anni fa. Da allora continua a pretendere l'applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell'austerità. L'obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l'utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.

 

05 giugno

La politica israeliana soffoca la Gerusalemme palestinese

Tassazione e prezzi alle stelle costringono i negozianti palestinesi a lasciare la Città Vecchia. Mentre Muro, colonie e demolizioni aggrediscono i quartieri a Est.

di Jillian Kestler-D'Amours - IPS

Gerusalemme, 31 maggio 2013, Nena News - Spesse serrature chiudono le porte di ingresso dei negozi, ora coperti di graffici e polvere per la chiusura prolungata. Solo una manciata di clienti passa lungo la strada poco illuminata, a volte fermandosi a controllare la qualità di frutta e verdura o a ordinare carne nelle macellerie quasi vuote.

"Tutti i negozi sono chiusi, io sono l'unico a tenere aperto. Questo era il posto migliore - dice il 64enne Mustafa Sunocret, mentre vende verdure fuori dal suo piccolo negozio nel mercato vicino alla casa di famiglia, nel quartiere musulman della Città Vecchia di Gerusalemme. Tra le sciarpe colorate, i vestiti e i tappeti, le ceramiche e i souvenir religiosi che riempiono i negozi, i commerciani palestinesi lottano per mantenere vivi i loro affari.

Di fronte al peggioramento del suo stato di salute, Sunocret dice che non può lavorare fuori dalla Città Vecchia, anche se i costi di mantenimento del suo negozio - acqua, elettricità, tasse comunali - lo strangolano.

"Nessuna possibilità"
"Ho solo questo negozio. Non ho altre possibilità. Sono stanco". Abed Ajloni, il proprietario di un negozio di antichità nella Città Vecchia, deve al Comune di Gerusalemme 250mila shekel (circa 50mila euro) di tasse. Dice che ogni giorno gli esattori vengono nella Città Vecchia, accompagnati dalla polizia israeliana e dai soldati, per fare pressioni sulla gente.

"Mi sembra che vengano ancora ad occupare la città, con i soldati e i poliziotti - dice Ajloni, che possiede questo negozio da 35 anni - Ma dove posso andare? Cosa posso fare? Tutta la mia vita è trascorsa qui". E aggiunge: "Gerusalemme appartiene a noi, o a chi altro? Chi è il responsabile di Gerusalemme? Chi?". Israele ha occupato Gerusalemme Est e la Città Vecchia nel 1967. Nel luglio 1980 è stata approvata una legge che stabilisce che "Gerusalemme, completa e unita, è la capitale di Israele". Ma l'annessione israeliana di Gerusalemme Est e la conseguente applicazione della legge israeliana sull'intera città non è riconosciuta a livello internazionale. Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è territorio occupato - insieme a Cisgiordania, Gaza e Alture del Golan Siriano - e i residente palestinesi della città sono protetti dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Isolamento
Gerusalemme è stato storicamente il centro economico, politico e culturale della vita dell'intera popolazione palestinese. Ma dopo decenni a languire sotto le politiche israeliane che hanno isolato la città dal resto della Cisgiordania e hanno negato investimenti e servizi comunali, Gerusalemme Est è finita in uno stato di povertà e abbandono.

"Dopo 45 anni di occupazione, la Gerusalemme araba soffre di schizofrenia politica e culturale, connessa ma allo stesso tempo separata da Ramallah e la Cisgiordania a Est, e Israele e Gerusalemme Ovest a Ovest", ha recentemente riportato l'International Crisis Group. Le restrizioni israeliane nella pianificazione urbana e nella costruzione, la demolizione di case, la mancanza di investimenti nell'educazione e nel lavoro, la costruzione del Muro interno ai quartieri palestinesi e la creazione di un sistema di permessi per entrare a Gerusalemme hanno insieme contribuito all'isolamento della città. Molti gruppi politici palestinesi sono stati banditi dalla città e tra il 2000 e il 2009 Israele ha chiuso 26 organizzazioni, compresi il quartiere generale dell'OLP, l'Orient House e la Camera di Commercio di Gerusalemme.

Prezzi più alti
Le politiche israeliane hanno anche innalzato i prezzi dei beni di base e dei servizi e costretto molti commercianti palestinesi a chiudere i loro negozi e a spostarsi a Ramallah o in altri quartieri palestinesi dall'altro lato del Muro. Molti palestinesi di Gerusalemme preferiscono fare spese a Gerusalemme Ovest o in Cisgiordania, dove i prezzi sono più bassi.

Se i palestinesi rappresentano il 39% della popolazione della città, circa l'80% dei residenti a Gerusalemme Est (l'85% dei minori) vivono sotto la soglia di povertà. "Come si può sviluppare un'economia se non controlli le risorse? Come puoi crearla se non controlli i confini?", si chiede Zakaria Odeh, direttore della Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem", parlando della frammentazione, dei checkpoint, delle chiusure.

"Senza libertà di movimento per le persone e i prodotti, come puoi sviluppare un'economia? Non si può parlare di economia indipendente a Gerusalemme e in Cisgiordania, e nemmeno in tutta la Palestina, senza una soluzione politica. Non abbiamo un'economia palestinese, abbiamo solo attività economiche".

Il Muro israeliano in Cisgiordania, secondo un nuovo rapporto della Conferenza delle Nazioni Uniter per il Commercio e lo Sviluppo, ha provocato una perdita diretta di oltre un miliardo di dollari ai palestinesi di Gerusalemme e continua a provocare la perdita di 200 milioni di dollari l'anno. Il severo controllo israeliano sulla strada Gerusalemme-Gerico - la storica via di collegamento tra Gerusalemme e il resto della Cisgiordania e del Medio Oriente - ha anche contribuito al crollo economico della città.

Prima della Prima Intifada, alla fine degli anni Ottanta, Gerusalemme Est contribuiva al PIL dei Territori Occupati con circa il 14-15%. Nel 2000 questo valore era inferiore all'8% e nel 2010 solo al 7%. "La separazione economica ha portato ad una contrazione dell'economia di Gerusalemme Est, al suo distaccamento da quella del resto dei Territori e al graduale reindirizzamento della forza lavoro verso il mercato israeliano", aggiunge il rapporto ONU.

Qualche decennio fa, Israele adottò una politica volta a mantenere il cosiddetto "equilibrio demografico" a Gerusalemme e tentò di limitare la popolazione palestinese della città sotto il 26,5%. Per farlo Israele ha costruito numerose colonie israeliane dentro e intorno a Gerusalemme e modificato i confini municipali per includere i quartieri ebraici e escludere quelli palestinesi. Oggi si stima che 90mila palestinesi con la residenza a Gerusalemme vivano dall'altro alto del Muro israeliano e debbano attraversare ogni giorno i checkpoint per raggiungere la città per andare a scuola, in ospedale, al lavoro.

"Israele usa ogni mezzo per cacciare i palestinesi, a volte palesemente, a volte no - spiega Ziad al-Hammouri, direttore del Jerusalem Center for Social and Economic Rights - Almeno il 25% dei mille negozi palestinesi in Città Vecchia è stato chiuso negli ultimi anni a causa di tasse troppo alte e di mancanza di clienti. La tassazione è uno strumento invisibile, pericoloso come la revoca della carta d'identità e la demolizione delle case

 

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