Le
banchette di provincia peggio di Mps: magagne, manette e mazzette per la
popolare di Spoleto
L'arresto di Giovannino Antonini, storico
padre-padrone della Popolare di Spoleto, fa tornare a galla una storiaccia della
“sana provincia” italica - Corruzione in atti giudiziari, litigate a colpi di
insulti, ispezioni di Bankitalia e interventi a gamba tesa della politica: così
è affondata la banca...
Giorgio Meletti per il "Fatto quotidiano"
"Traditore,
pezzo di merda, vattene affanculo bastardo, hai rotto i coglioni". Scene di alta
finanza nel ducato di Spoleto. Dove le brezze culturali del Festival dei Due
Mondi si mescolano ai miasmi della locale Banca Popolare. Le acclamazioni sopra
riportate se l'è prese un anno e mezzo fa Danilo Solfaroli che tentava
inutilmente di condurre i lavori assembleari della cooperativa Spoleto Crediti e
Servizi (Scs), 17 mila soci, che possiede il 51 per cento della banca.
Solfaroli è uscito dalla sala ed è andato direttamente alla procura della
Repubblica ad accusare Giovannino Antonini, storico padre-padrone della
Popolare, dei vari reati commessi con il golpe assembleare. Antonini due giorni
fa è stato arrestato per la corruzione in atti giudiziari del giudice del Tar
del Lazio Franco Angelo Maria De Bernardi: 50 mila euro per l'aiutino necessario
a ottenere l'annullamento del commissariamento della banca e della Scs.
La storia è buona per corsi universitari in varie materie: diritto penale,
amministrativo e commerciale, nonché scienze bancarie. Ma è soprattutto
esemplare del circuito perverso tra piccole banche e potentati locali: partiti
di destra e di sinistra, mafiette imprenditoriali, massonerie varie.
Quando la greppia scappa dalle mani rapaci dei furbetti del quartierino o della
contrada si grida al nemico esterno. Sul nobile esempio di chi ha inneggiato
alla torinesità del gigante Imi-San-paolo e alla padanità della Popolare di
Milano, c'è chi difende la senesità del Monte dei Paschi e la marchigianità
della Banca delle Marche, o la spoletinità della nostra Popolare.
Breve riassunto delle disgrazie di Spoleto. Tre anni fa sono partite le
ispezioni della Banca d'Italia, mentre la Legacoop, come da obbligo di legge, è
andata a ficcare il naso nella cooperativa Scs. Nel 2011 Giovannino Antonini, al
vertice della banca per un decennio durante il quale rivendica di averla fatta
crescere impetuosamente, viene estromesso, ma lui prontamente si fa eleggere
presidente della holding, la Scs. Il tentativo di alcuni soci di sfiduciarlo
nell'assemblea da cui siamo partiti - descritta dalla testata locale
tuttoggi.info come una rissa tra scaricatori di porto - fallisce.
All'inizio del 2013 il Monte dei Paschi (che della Spoleto ha il 26 per cento)
in base ai patti parasociali con Ss chiede ad Antonini di riprendersi le azioni
della banca, ma quello non se ne dà per inteso, anche perché la cooperativa non
ha i soldi (si parla di 100 milioni) per adempiere all'obbligo contrattuale.
Negli stessi giorni arriva alla presidenza Alberto Brandani, una vita nel potere
Montepaschi, ma anche consigliere Fs, membro del comitato di vigilanza Anas e
via poltroneggiando. Nel 1993 fu arrestato con l'accusa di concussione per una
storia di finanziamenti Mps, e gli inquirenti gli trovarono in casa una
valigetta con 106 milioni di lire in contanti. Lui disse che li teneva lì come
riserva per le eventuali esigenze della famiglia (in effetti non si sa mai).
Cinque anni dopo fu assolto, ma adesso ha ancora qualche problema (falso in
bilancio, abuso d'ufficio e peculato) che non osta all'attività di manager
pubblico stante la fiduciosa attesa di nuovi proscioglimenti. Brandani è in
quota Udc, Antonini è in quota Pdl (provenienza An).
La presidenza Brandani dura pochi giorni. Il 12 febbraio scorso il ministro
dell'Economia Vittorio Grilli commissaria la banca e la cooperativa che la
controlla. Apriti cielo. Mentre Antonini si precipita a cercare un giudice del
Tar da corrompere per ottenere l'annullamento, Fabrizio Cicchitto del Pdl tuona
contro Grilli, lo accusa di flirtare con il Pd che punta alla Spoleto, visto che
una grossa Coop, la Centroitalia, partecipa alla cordata Clitumnus per rilevare
la banca.
MPS LINGRESSO DI ROCCA SALIMBENI SEDE DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA
Il senatore Augusto Minzolini presenta un'interrogazione basata sulla lettura di
tre articoli del Giornale, in cui ipotizza che il procuratore capo di Spoleto,
Gianfranco Riggio, sia imparentato con l'avvocato d'affari Francesco Carbonetti,
animatore di Clitumnus, e che "non si potrebbe escludere il sospetto" che le
inchieste su Antonini siano finalizzate a favorire la scalata del parente.
Antonini è stato infine arrestato dalla procura di Roma, mentre Riggio si è
limitato a chiedere il rinvio a giudizio per: associazione a delinquere,
appropriazione indebita, ostacolo alle autorità di vigilanza, intermediazione
usuraria, bancarotta fraudolenta e altri reati minori.
In più Antonini è indagato, per la famosa assemblea-rissa, per ingiurie,
minacce, falso ideologico e comportamenti fraudolenti vari. Tanto per dire, si
legge negli atti d'accusa che Alberto e Francesco Antonini (figli) "procedevano
al ritiro delle dazioni monetarie corrisposte di volta in volta favoriti
provvedendo al loro versamento sui conti correnti del padre". Le belle banche
della sana provincia italiana.
23 luglio
“Dignità”: oggi è questa
la parola-chiave
Intervista a Stefano Rodotà su La Repubblica
«Perché mi applaudono nelle piazze e nei
teatri? In questi anni ho continuato a parlare di eguaglianza, lavoro,
solidarietà, dignità. Sì, ho detto delle cose di sinistra, che nel grande
silenzio della politica ufficiale hanno provocato un investimento simbolico
inaspettato. Una reazione che naturalmente lusinga, ma mi crea anche qualche
imbarazzo». Il nuovo papa della sinistra «altra» — quella dei diritti, dei beni
comuni, della Costituzione e della rete — ci riceve in una stanzetta della
Fondazione Basso, a pochi passi dai palazzi della politica che ha sempre
frequentato da irregolare. Ottant’anni compiuti di recente, giurista insigne con
esperienza internazionale, Stefano Rodotà ha una biografia che racconta un pezzo
importante di sinistra eterodossa. Una storia lunga che dice moltissimo
sull’oggi, sulle partite vinte e su quelle perdute.
In molti, anche tra i suoi antichi compagni di battaglia, sostengono che la
distinzione tra destra e sinistra non ha più senso.
«È una vecchia storia, che risale ai tempi di Laboratorio politico, la rivista
che nei primi anni Ottanta facevamo con Tronti, Asor Rosa e Cacciari. Non ero
d’accordo allora, e oggi mi arrabbio ancora di più. Cosa vuol dire che non c’è
più distinzione? Vuol dire che dobbiamo essere i fautori della pacificazione? La
distinzione esiste, ed è marcata: sia sul piano storico che su quello teorico.
Chi non la vuole vedere mi suscita una profonda diffidenza politica». Proviamo a indicare qualche punto essenziale di distinzione.
«Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a
homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il
mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di
alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere
vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della
triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in
solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una
pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri
vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle
quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità». Una parola molto presente nella tradizione cattolica.
«In parte viene da lì. E qui ho dovuto rivedere alcuni miei giudizi giovanili
insofferenti al personalismo cattolico, che lasciò una forte traccia sulla
Costituzione. Ma la dignità è anche legata al tema del lavoro. C’è un passaggio
essenziale della Carta, l’articolo 36, che stabilisce che la retribuzione deve
garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La
nostra Costituzione, insieme a quella tedesca, rappresentò l’unica vera novità
del costituzionalismo del dopoguerra. Noi con il lavoro, i tedeschi con
l’inviolabilità della dignità umana, principio reso necessario dai crimini del
nazismo». Le uniche due novità provenivano dai paesi sconfitti?
«Sì, Italia e Germania avvertivano più degli altri il bisogno di uscire da un
mondo tragico per rifondarne uno radicalmente diverso ». In fase costituente, il giurista Costantino Mortati tentò di introdurre una
distinzione tra diritti civili e diritti sociali, tra quelli che non hanno un
costo e quelli vincolati alle risorse dello Stato, quindi garantendo a priori i
primi e impegnando lo Stato a trovare le risorse per i secondi, ma senza
assicurarne il pieno godimento. Poi prevarrà un’altra interpretazione, che
include i diversi diritti in un’unica categoria. Interpretazione che alcuni oggi
vorrebbero rivedere.
«Due obiezioni essenziali. Primo: il ritenere questi diritti indivisibili non è
un principio sovversivo, ma viene sancito anche dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. Secondo: esso vale come vincolo nella
ripartizione delle risorse. Dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro mi costringe a tenerne conto quando distribuisco le voci di bilancio. Lo
so che la salute costa, ma quando l’articolo 32 mi dice che è un diritto
fondamentale, la politica non può prescinderne. E venendo alla formazione, se la
scuola pubblica è un obbligo per lo Stato, finché io non ne ho soddisfatto tutti
i bisogni, alla scuola privata non do niente. Troppo brutale?». No, molto chiaro.
«È evidente che il welfare va rivisto sulla base delle risorse, ma chi agita la
bandiera dei “diritti che costano” mi sembra voglia liberarsi dell’ingombrante
necessità di discutere di politiche redistributive. Spesso sono gli stessi che
dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra». Lei cominciò nelle file radicali.
«No, in realtà esordii nell’Unione goliardica italiana, che era il movimento
giovanile universitario. Lì è cominciata la mia storiella da cane sciolto.
Lettore del Mondo ma insofferente alle chiusure anticomuniste di Pannunzio.
Compagno di viaggio dei radicali, ma allergico all’autoritarismo di Pannella.
Poi molto vicino al Psi guidato da De Martino, ma pronto a litigare con un
arrogantissimo Craxi divenuto vicesegretario. Infine nella Sinistra
Indipendente, che però era irregolare di suo. Non sono mai stato intrinseco a
nessun partito. L’unico mio punto fermo sono stati i diritti». La «storiella da cane sciolto» ha a che fare con la mancata elezione a
presidente ella Repubblica?
«Forse sì, ed è per questo che non ci ho mai creduto. A un certo punto ho
avvertito la necessità di metterci la faccia per impedire quello che poi è
successo: le larghe intese e la pacificazione nazionale».
L’hanno accusata da sinistra di aver dato una sponda ai grillini.
«Semplicemente puerile. Era stato Bersani a cercare per primo l’intesa con loro,
e allora mi apparve la cosa giusta». Ma i Cinquestelle sono di sinistra?
«Non è facile rispondere. Dentro il movimento ho trovato dei contenuti che si
possono riferire a una cultura di sinistra: diritti, ambiente, beni comuni. Ma
quando s’è trattato di dare uno sbocco parlamentare a queste idee è arrivato
l’alt di Grillo». Che è tra quelli che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra.
«Appunto. Non è di sinistra. Ma ha saputo intercettare un desiderio di
cambiamento diffuso nella società civile. L’ha interpretato sul piano della
protesta, però non ha saputo dargli una traduzione politica, con l’effetto di
sterilizzarlo ». Perché il Pd non l’ha sostenuta nelle elezioni presidenziali?
«È un partito dall’identità debole, gli è parso troppo arrischiato affidarsi a
una personalità fuori dalle righe. Sì, capisco che la scelta di fare una
trattativa con i grillini avrebbe richiesto un po’ di azzardo. Ma il cambiamento
richiede coraggio. E la sinistra è cambiamento». Nessun risentimento?
«No, il mio giudizio è esclusivamente politico: hanno sbagliato nel rinunciare
alla strada del cambiamento. E hanno sbagliato nel silurare Prodi. Quando seppi
che Romano era il nuovo candidato del Pd, feci subito una dichiarazione pubblica
in cui mi dicevo pronto al passo indietro. Sul treno per Reggio Emilia mi chiamò
lui dal Mali. “Come mi dispiace Stefano, noi così amici e ora contrapposti”.
Quando gli dissi del mio passo indietro, lui mi ringraziò per avergli tolto un
peso». Che effetto le fa essere acclamato in piazza come il nuovo papa rosso?
«Sono un po’ imbarazzato, e non so come uscirne. Naturalmente sono grato a tutte
queste persone. Però il problema della sinistra non può stare sulle mie spalle.
Dalle manifestazioni sulle leggi-bavaglio a quelle delle donne, dalle piazze
studentesche al referendum sull’acqua, esiste un’altra sinistra che la politica
istituzionale si ostina a non vedere. Intorno a questo mondo è possibile
costruire».
SIMONETTA FIORI
22 luglio
Come usiamo i fondi europei?
Per buffet, inutili seminari e feste della tarantella
Gli eventi per i quali vengono spesi i soldi di Bruxelles sono delle boiate
pazzesche: il seminario “Le città siciliane motore dello sviluppo regionale” (11
mila €), la manifestazione “Tarantella power” di Catanzaro (più di 40 mila €) e
“Spartaco e l’antica Roma” a Giungano in Campania (75 mila €)…
Luigi Offeddu per il "Corriere della Sera"
Quella volta, il 27 e il 28 novembre 2008, la Regione Sicilia voleva discutere
di come venivano impiegati i finanziamenti del Fesr, il Fondo europeo per lo
sviluppo regionale, in arrivo da Bruxelles. Perciò si riunì il Comitato di
sorveglianza, nella magnifica sala Alessi del Palazzo d'Orleans a Palermo. E per
il ristoro di tutti, venne garantito anche - così lo definirono i verbali - un
«Servizio di Welcome Coffee/Lunch buffet», di colazione e pranzo. Pagato, per
metà, proprio con i soldi dell'Unione Europea di cui si discuteva: 2.544 euro,
su un costo totale di 5.088 euro (lo Stato italiano sborsò 1780 euro, la Regione
Sicilia 763).
Fra
le pieghe dei fondi europei, spesso così preziosi e importanti per tanti Paesi,
vi sono molte altre storie simili, alcune degne di Totò. Il 4 marzo 2010, si
tiene nel Teatro Pirandello di Agrigento un seminario sul tema «Le città
siciliane motore dello sviluppo regionale».
Appuntamento rapido: comincia verso le 16, finisce prima di cena. Fra gli ospiti
c'è l'allora presidente della Regione Raffaele Lombardo, di cui Tele-Video
Agrigento descrive «la carovana di auto blu». Il seminario di poche ore è
giudicato così importante da giustificare uno stanziamento pubblico di 23.040
euro: di questi, quasi la metà - 11.520 - sono fondi europei, 8.064 dello Stato
italiano, 3.456 della Regione.
La manifestazione «Tarantella Power», a Catanzaro, merita due stanziamenti da
45.776,83 euro nel 2010 e nel 2011 (anche se per il primo non risultano
«pagamenti certificati») e uno da 43.643,52 euro nel 2009 (stessa situazione,
pagamenti latitanti). «Luoghi di magia, magia nei luoghi» è invece la
manifestazione di Crotone che nel 2012 merita in tutto 306.767,40 euro, con
pagamenti pubblici di 153.383,70, ma alla fine «pagamenti certificati» da «0,00
euro».
Nella valanga dei documenti, una certa nebulosità è fisiologica. Così si spiega,
forse, perché l'edizione 2011 della manifestazione «Spartaco e l'antica Roma» a
Giungano in Campania, costo totale 150 mila euro, risulti cofinanziata da 75.000
euro di Bruxelles secondo il sito ufficiale dei fondi Ue, e da 95.640 secondo il
sito del nostro governo, dipartimento delle politiche europee.
Differenza da 20 mila euro, non è poco ma una spiegazione tecnica ci sarà di
sicuro. Ma poi, la manifestazione su Spartaco c'è stata davvero, nel 2011? Certo
che sì, come paiono testimoniare tanti video sul Web. Ma il sito del nostro
governo sembra scettico: «inizio previsto» della manifestazione 1/6/11, "inizio
effettivo non disponibile"; fine prevista 30/9/11, "fine effettiva non
disponibile".
Ci sono anche stanziamenti basati sugli affetti. Per esempio, «Dalida fra
cultura e arte», promossa dalla «Associazione Jolanda Gigliotti in arte Dalida»,
è la manifestazione che nel 2010- 2011 ha fatto arrivare 26.638 euro all'anno a
Serrastretta, 3249 abitanti (Catanzaro). La cantante era nata al Cairo, dove
aveva vissuto una giovinezza felice, ed è morta a Parigi nel 1987. Ma i suoi
genitori, emigrati in Egitto, erano originari di Serrastretta: e così è nata la
manifestazione.
Cultura o spazatura? Mentre
i monumenti italiani vanno in rovina, ci permettiamo il lusso di buttare 2
miliardi di fondi europei
Dal 2007 a oggi l’Europa ha messo a disposizione dell’Italia oltre 2 mld €
per la cultura e il turismo - La maggior parte dei soldi sono andati buttati in
fiere inutili e truffe varie o lasciati lì inutilizzati: presto scadranno i
termini temporali e li perderemo - Intanto Pompei si sbriciola...
Francesca Sironi per "Espresso.Repubblica.it"
Il fango ha invaso Sibari sei mesi fa. E' bastata la pioggia a far saltare gli
argini del fiume Crati. In poche ore la prima colonia fondata dagli achei in
Calabria ventisette secoli fa è diventata una palude: templi, teatri e palazzi
che furono lo splendore della Magna Grecia si sono trasformati in un lago scuro.
Subito a Bruxelles un'eurodeputata italiana ha chiesto piccata cosa intendesse
fare l'Europa per soccorrere la nostra meraviglia. La risposta è stata secca:
potete domandare gli aiuti per le catastrofi, ha suggerito il commissario agli
Affari regionali Johannes Hahn, oppure cominciare a usare le centinaia di
milioni di euro che da sei anni la Ue ha messo a disposizione del patrimonio
culturale calabrese. Un tesoro dimenticato, che poteva salvare Sibari e mettere
al sicuro tanti altri monumenti. Ma del quale è stato usato, secondo l'ultimo
rapporto regionale, soltanto il 16 per cento.
Quello che è accaduto a Sibari è lo specchio di una débâcle nazionale, dove Sud
e Nord sono unite dalla stessa inefficienza. In un Paese divorato dalla crisi,
nessuno riesce a sfruttare l'opportunità offerta da Bruxelles e a spendere i
fondi destinati allo sviluppo regionale, soldi che l'Europa garantisce a fronte
di un impegno economico italiano.
Dal 2007 a oggi sono stati così messi sul piatto oltre due miliardi di euro per
cultura e turismo: una miniera d'oro con cui si potrebbero restaurare migliaia
di monumenti, chiese, musei, e renderli visitabili da carovane di turisti di
tutto il mondo. Invece lasciamo che gioielli come Pompei si sbriciolino o
capolavori come i bronzi di Riace restino praticamente inaccessibili. In sette
anni infatti l'Italia è riuscita a spendere solo il 50 per cento di queste
risorse.
E il tempo concesso dall'Europa ormai è agli sgoccioli: se entro il dicembre
2015 non avremo completato tutti i progetti e terminato i lavori perderemo
l'ultimo miliardo che resta. Saranno soldi buttati via. Non solo. I fondi
utilizzati finora sono stati bruciati troppo spesso in una fiera delle vanità.
Un proliferare di sagre portate in giro per il mondo, allestimenti faraonici
rimasti sulla carta, minuscoli interventi riproposti da vent'anni senza nessun
risultato. Senza dimenticare le frodi vere e proprie, come l'imprenditore
siciliano che ha intascato un milione e mezzo dalla Ue per un fantomatico museo
del gioiello che non è stato mai realizzato.
Occasione mancata. I finanziamenti garantiti all'Italia per rilanciare lo
sviluppo, dal 2007 ad oggi, sono un pacchetto di oltre 60 miliardi di euro.
"Fondi strutturali" destinati a progetti strategici per il territorio e pagati
con risorse nostrane insieme a quelle della Ue. E alla cultura le nostre
istituzioni hanno destinato solo le briciole. Nel Lazio, ad esempio, la giunta
di Renata Polverini ha azzerato l'unico piano per i beni artistici del
territorio.
Il programma, aveva l'obiettivo di portare i turisti verso la provincia: la
villa di Adriano a Tivoli, le tombe affrescate di Cerveteri, la necropoli di
Vulci, la maestosa abbazia di Fossanova. Erano previsti 35 milioni di euro per
restaurare e valorizzare. Tutto cancellato, per dirottare i soldi sulla
"Promozione dell'efficienza energetica": ai monumenti sono rimasti cinque
milioni.
Così sono stati annullati anche i minimi fondi necessari per aprire al pubblico
la tomba Bartoccini di Tarquinia, un sepolcro etrusco dove si tenevano in
segreto i riti dei Templari: un luogo che potrebbe attrarre appassionati da ogni
continente. Niente da fare, le priorità degli amministratori sono altre. E basta
scorrere la mappa per accorgersi che il Lazio non è il solo a non credere nelle
sue bellezze.
Il record è del Friuli Venezia Giulia, dove alla cultura è stato destinato poco
più di un milione europeo. Ai resti di Aquileia, la capitale romana del Nord-Est
e "madre" di Venezia, non è andato un centesimo: «Abbiamo difficoltà anche solo
a garantire la manutenzione programmata», denuncia Paola Ventura, la direttrice
del museo archeologico della città, che avrebbe usato volentieri i fondi europei
per nuovi scavi (la metropoli antica è ancora in gran parte sepolta) e per
scongiurare il rischio, frequente, di crolli.
Amnesia pompeiana. Il caso più eclatante resta però quello di Pompei. Per cinque
anni nessuno ha pensato di sfruttare l'appoggio finanziario di Bruxelles per
l'area archeologica più visitata e minacciata d'Italia. Non un progetto, una
proposta, niente. Solo tre richieste di finanziamento per una rassegna estiva
("Le lune di Pompei") che tra l'altro non è mai riuscita a ottenere un doblone
dalla Ue.
E' dovuto arrivare nel 2012 Fabrizio Barca, ministro per la Coesione
territoriale nel governo Monti, perché agli scavi vesuviani fosse data la
priorità. E i restauri ora sono finalmente partiti, grazie a 105 milioni di euro
strappati al programma europeo in cui il nostro Paese ha dato il peggio di sé.
Si tratta del piano per gli "Attrattori culturali", una super strategia da oltre
un miliardo di euro che secondo i commissari Ue avrebbe rilanciato l'economia
del Sud grazie a cultura e turismo.
Ebbene
nel 2011, a cinque anni dalla partenza del progetto, non era stato speso neppure
un centesimo. Una negligenza che non ci è stata perdonata: la prima multa è
arrivata quell'anno, la seconda nel 2012, per un totale di quasi 50 milioni che
abbiamo dovuto restituire a Bruxelles. Ancora oggi il 92 per cento del piano
resta bloccato. Perché?
Dal 2007 al 2012 le quattro regioni coinvolte (Campania, Puglia, Calabria e
Sicilia) si sono contese i finanziamenti senza decidere nulla, con sette enti
intermedi che fra controllo, gestione e proposte hanno paralizzato ogni cosa.
Gli unici soldi impegnati in qualche modo sono stati 160 milioni. Ma sotto la
voce "turismo" è stato infilato di tutto: odontoiatri, estetiste, sale da slot
machine, bar e palestre alla periferia di Napoli. Risultato? La commissione
europea ha fermato i rimborsi.
Missione impossibile. La gestione del piano, sei mesi fa, è stata commissariata
da Roma: al Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica un pool di
esperti sta esaminando una per una le domande. A loro tocca anche la missione
impossibile di spendere entro il 2015 i fondi che restano e non perdere i 550
milioni stanziati dalla Ue.
I meccanismi europei prevedono che per ogni iniziativa sovvenzionata ci siano
anche contributi italiani. E il ministero sta dirottando le quote nazionali
verso altri usi: 200 milioni sono stati destinati agli asili e 130 accantonati
per futuri progetti culturali. Il budget per il rilancio dei tesori meridionali
si è così ridotto, da un miliardo, a 681 milioni. Manovre di "ingegneria
finanziaria" per convincere Bruxelles che stiamo onorando i patti in tempo.
Musica stonata. Con l'avvicinarsi della scadenza per i fondi europei in tutte le
regioni è partita la corsa all'oro. In Sicilia c'è da spendere ancora l'88 per
cento dei 716 milioni di euro stanziati per cultura e turismo con il contributo
della Ue. I progetti sono 265, ma solo 84 riguardano effettivamente il settore.
Tutti gli altri servono per mostre, feste paesane, convegni, gare (come la "Millegiri",
corsa automobilistica costata oltre un milione) o concerti da portare in giro
per il mondo, da Istanbul a Pechino, da Miami a Bergamo. Non mancano kolossal
come il "Circuito del Mito", cento concerti all'anno in giro per l'isola,
costati in tre estati 18 milioni di euro.
Nel settembre del 2012 la Procura di Palermo ha aperto un'inchiesta per
verificare la regolarità con cui è stata spesa questa montagna di denaro. Anche
al Nord la musica non cambia: a Como la Guardia di Finanza ha sequestrato 384
mila euro a due associazioni culturali. Il loro festival, "Musica sacra sul
confine: autori e luoghi dell'Insubria" sarebbe stato pagato con fondi europei
in base a fatture gonfiate.
E non è andata bene neanche a Napoli, che nel 2010 ha dovuto restituire alla Ue
i 720 mila euro spesi per uno show di Elton John. Severo il giudizio dell'eurocommissario
Hahn: «Si tratta di un intervento effimero che non rientra nel nostro programma,
rivolto a investimenti a lungo termine». Come dargli torto.
L'Ue pretende che i fondi europei creino crescita e occupazione. Invece quando
non finiscono in sagre o rassegne canterine, questi soldi vengono spesso spesi
per costruire cattedrali nel deserto, piccole o grandi. Mostre di passaggio,
restauri di castelli che nessuno può visitare, ristrutturazioni di musei senza
personale che li tenga aperti, cantieri eterni che non vengono mai completati.
«Quello che manca è una strategia nazionale», commenta Franco Milella, esperto
di sviluppo locale, che ha aiutato la Puglia a diventare un esempio unico in
Italia, per aver investito i fondi a sua disposizione sui beni culturali: «Ho
visto centinaia di comuni riproporre ogni volta lo stesso progetto, lo stesso
piccolo restauro già decotto da anni. E' ovvio che l'Europa ci boccia».
E anche quando si parla di eccellenze, come la Venaria Reale di Torino (300
milioni di euro in 15 anni per il restauro, di cui 60 dalla Ue), resta alto il
rischio di operazioni che non hanno ricadute per il territorio: «Noi che abbiamo
amministrato in tempi di vacche grasse abbiamo lasciato una grande eredità di
palazzi restaurati», commenta Gianni Oliva, assessore alla Cultura di Torino dal
2005 al 2010: «Ma anche un deficit nella valorizzazione.
E oggi per gestire tutta questa eredità bisogna spesso indebitarsi». Uno dei
pochissimi casi positivi che l'Italia può vantare a Bruxelles è Pisa. I 40
milioni di euro (24 dalla Ue) destinati alla cultura sono stati investiti per
rinnovare la città nel suo complesso: tredici ettari di verde pubblico, la
Cittadella Galileiana, il recupero dell'Arsenale, la nuova pavimentazione in
pietra che ha sostituto il cemento in piazza dei Cavalieri, quella della Scuola
Normale.
Cuccagna per pochi. L'Europa ha creato anche un albero della cuccagna: fondi a
cui accede direttamente chiunque abbia una buona idea. Comuni, fondazioni,
associazioni, privati: tutti possono chiederli. Dal 2007 ad oggi Bruxelles ha
finanziato in questo modo quasi duemila progetti culturali per oltre 400
milioni. Su questo fronte andiamo meglio: siamo quinti in Europa, con quasi 30
milioni assegnati al nostro Paese. Ma la Francia ne ha vinti più di 50; il
Belgio 44 e la Germania 36. Anche se l'Italia ospita il più grande patrimonio
storico-artistico del continente.
«La gestione è complessa e molti nostri enti non hanno le competenze
necessarie», commenta Nerio Laroni, presidente della Commissione per gli affari
comunitari della Regione Veneto: «Penso anche a gioielli come l'Arena di Verona
o la Fenice di Venezia: non sanno seguire queste operazioni». Per dare una mano
ad agganciare i fondi la giunta veneta si è detta pronta ad offrire consulenza e
supporto. Anche perché dal 2014 partirà un nuovo programma "Europa Creativa",
con un budget di un miliardo di euro.
Sfida decisiva. Oltre alla corsa contro il tempo per svuotare in pochi mesi la
cassaforte dei contributi europei, in questi giorni si gioca un'altra partita.
Quella sul futuro. A Bruxelles si stanno decidendo gli interventi che serviranno
al Paese dal 2014 al 2020. E' quasi certo che l'Italia della cultura verrà
bocciata: la materia non sarà più considerata una priorità nazionale.
Tutto dipende da un unico progetto: Pompei. «I fondi comunitari possono avere un
ruolo importante nella tutela dei beni artistici italiani», ha detto a
"l'Espresso" il commissario Johannes Hahn: «Per questo seguiamo da vicino ciò
che succede a Pompei. Se il progetto va avanti, approveremo nuovi stanziamenti
per i prossimi sette anni». Una sfida senza alternative: «Il Grande progetto
Pompei deve diventare un modello per il resto d'Italia». Riusciremo a farcela?
Terroristi innocenti: ecco
come i talebani in Afghanistan fanno combattere i bambini
Dolci e cioccolato in cambio della vita: è così che i talebani in Afghanistan
reclutano bambini orfani e svantaggiati per farli combattere, insegnando loro a
usare le armi o addirittura spingendoli al martirio - In pochi riescono a
scappare, la maggior parte muoiono o finiscono in carcere...
Neaz
aveva otto anni quando alcuni talebani si nascosero in casa sua durante un
attacco della coalizione. Il padre e la madre furono uccisi, e lui restò da
solo. Fu rapito dai talebani, portato in una città vicina. Gli insegnarono a
usare le armi e lo ricoprirono di dolci per ingraziarselo. Poi, la promessa:
"fra poco arriverà una sorpresa speciale". E la sorpresa arrivò: era un
giubbotto imbottito di tritolo.
«Mi pagarono e mi dissero di farmi esplodere a un checkpoint», racconta Naez a "Channel
4", «allora chiesi loro a cosa mi sarebbero serviti i soldi se mi fossi fatto
esplodere. Mi risposero che se l'avessi fatto sarei andato in paradiso». Naez, a
soli otto anni, ebbe la forza di fuggire. Oggi che ne ha dieci vive in un
orfanotrofio a Lashkar Gah. Ma non tutti sono riusciti a uscirne come lui.
Le forze della coalizione hanno arrestato 224 bambini, e altre migliaia vengono
reclutati ogni giorno. Vedere bambini di 13 anni che combattono, in Afghanistan
è la normalità. Uno di loro, Hannan, ora ha 15 anni ed è in prigione da due. Si
unì ai talebani dopo che il padre fu ucciso in un raid aereo dell'esercito
americano.
Oggi spiega: «Non cerco vendetta per mio padre, ma voglio fare solo ciò che Dio
mi ha ordinato nel Corano. Cioè uccidere gli infedeli come cani».
18
luglio
Respinta la mozione M5S sul
finanziamento ai partiti. "La casta si tiene il malloppo"
I deputati grillini fotografano i colleghi al
voto
ANTONIO PITONI
Al grido di «la casta si tiene il malloppo»,
l'Aventino scatta con la protesta del «bottino», quando la Camera ha appena
respinto la mozione dei grillini sulla sospensione della rata di luglio del
finanziamento pubblico ai partiti. Tema sul quale, evidentemente, nella
maggioranza non ci sono fibrillazioni che tengano. E mentre Pd, Pdl e Scelta
civica si ricompattano sull'indirizzo del governo (passaggio dai rimborsi
diretti al finanziamento indiretto su base volontaria), la contestazione prende
il sopravvento. La processione sfila davanti ai banchi del governo, dove i
deputati del Movimento 5 Stelle, abbandonando la seduta (destinazione piazza
Montecitorio), disseminano finte banconote da 500 euro, inseguiti dai commessi.
D'altra parte, sia prima che durante il voto, avevano avuto un bel da fare per
bloccare quel manipolo di «indisciplinati» del M5S che, nonostante i richiami
della presidente di turno, Marina Sereni, continuavano a fotografare i colleghi
della maggioranza, in particolare del Pd, mentre bocciavano la loro mozione.
Epilogo scontato dopo che, neppure una sospensione
dei lavori, chiesta proprio dai grillini per cercare la via di un'ipotetica
intesa, aveva dato risultati. Al punto da costringerli, dopo appena dieci
minuti, a rinunciare ad ogni tentativo di mediazione per andare avanti sul
proprio testo. Giornata riassunta da un laconico tweet di Beppe Grillo: «I
partiti si tengono i soldi: 91.354.339 euro». Bocciata pure la mozione di Sel,
che chiedeva una commissione di studio sui finanziamenti a partiti, fondazioni e
lobby, restano sul tavolo gli emendamenti al ddl del governo presentati dal Pd
in commissione Affari costituzionali. Si va dal tetto di 100mila euro l'anno
alle donazioni dei privati ai partiti, trasformando le detrazioni sulle
erogazioni dei privati ìn crediti d'imposta, da far valere anche per le quote
associative per l'iscrizione alle formazioni politiche, all'estensione ai
dipendenti dei partiti (delle sedi nazionali e distaccate) la cassa integrazione
straordinaria e i contratti di solidarietà, con una copertura di 18 milioni di
euro per il biennio 2014-2015.
Un'ulteriore proposta punta ad elevare la
percentuale delle imposte che i cittadini possono destinare ai partiti dal 2 al
2,5 per mille. Mentre con un ulteriore emendamento (primo firmatario D'Attore),
che non piace però ai renziani, si propone di calcolare il 2 per mille
sull'imposta medià di tutti i contribuenti: i più poveri pagherebbero quanto i
più ricchi. Sebbene non condivisa dall'intero gruppo democratico, c'è pure la
proposta sul cofinanziamento di Gianclaudio Bressa: «A fronte di ogni euro
ricevuto a titolo di quote associative di erogazioni liberali annuali da parte
di persone fisiche o giuridiche», ai partiti e ai movimenti politici è assegnato
«un contributo annuo pari a 0,50 euro» da parte dello Stato. Ma il contributo
spetta solo nei casi in cui le risorse del fondo per il due per mille «non siano
interamente erogate e comunque per un importo non superiore al 25% degli
stanziamenti previsti». Se un ulteriore emendamento del Pd chiede di estendere
il controllo sui rendiconti dei partiti anche alle «fondazioni che abbiano nelle
finalità e nell'oggetto sociale anche l'attività politica», porta le firme di
Naccarato, Fabbri e Bindi l'ultima proposta di modifica al ddl del governo per
escludere che i partiti possano , ricevere finanziamenti da sindacati, enti
religiosi, enti o società straniere, persone fisiche e società che hanno
fornito, nell'anno precedente, beni o servizi alla pubblica amministrazione.
Tornando alla mozione, dalle critiche dei 5 Stelle
al plauso della maggioranza il passo è breve. Di «vera e propria svolta fra
l'iniziativa del governo e quella parlamentare» parla il vicepresidente del
gruppo Pd della Camera, Andrea Martella: «I contributi ai partiti passano dal
sistema dei rimborsi a quello delle libere scelte dei cittadini».
15
luglio
Caso Kazakistan, ora
spuntano Schifani e i servizi. E promozioni sospette
Dagospia chiama in causa l'asse tra l'ex presidente del Senato e il direttore
dell'Aisi Arturo Esposito. Mentre un'interrogazione di Sel chiede chiarimenti
sugli "scatti" di cui hanno beneficiato i funzionari di Questura coinvolti, a
partire da Maurizio Improta. Della questione ora si occupa anche la Commissione
diritti umani dell'Ue
di Luca Pisapia
Mentre il caso Ablyazov approda al Parlamento Europeo, in Italia Dagospia
attribuisce il ruolo di stratega dell’operazione all’ex presidente del Senato
Renato Schifani, oltre che dell’attuale ministro degli Interni Angelino Alfano,
chiamando in causa “la componente siculo-palermitana del Pdl, sopravvissuta (non
a caso) a tutte le sconfitte elettorali”. E un’interpellanza parlamentare di Sel
chiama invece in causa sospette promozioni di funzionari della Questura di Roma
all’indomani della vicenda. Andiamo con ordine. Come raccontato dal sito
Dagospia, dietro l’operazione di rimpatrio di Alma Shalabayeva e della piccola
Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Ablyazov, potrebbe esserci lo
zampino dei servizi segreti italiani, che si sarebbero mossi su indicazione
dell’ex presidente del Senato in diretto contatto con il Viminale. Senza che gli
altri ministeri competenti, quello degli Esteri e quello della Giustizia,
fossero informati della cosa.
Per questo il termine più indicato per l’intera operazione, non è più quello
della semplice espulsione di una clandestina – con tutte le irritualità del
caso, tanto che gli avvocati della donna hanno definito il provvedimento
“fortemente illegittimo” – ma quello di una extraordinary rendition. Una
rendition di una donna e di una bambina di sei anni per compiacere Nazarbayev:
il dittatore del Kazakistan amico di Berlusconi che ha utilizzato il ritorno in
patria della moglie e della figlia del suo acerrimo nemico Ablyazov come un vero
e proprio trofeo per ricattare l’avversario. Dagospia ha raccontato come
l’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma avrebbe agito sotto indicazioni
del servizio segreto interno (Aisi), alla cui direzione è dal giugno dello
scorso anno Arturo Esposito, il cui grande sponsor è stato l’ex presidente del
Senato, Renato Schifani. A indicare poi un interessamento nell’operazione di
Schifani, sono anche alcune fonti parlamentari che hanno raccontato a
ilfattoquotidiano.it come, nella vicenda, il senatore del Pdl Ciro Falanga stia
“parlando per voce di Schifani”.
Eletto per la prima volta nel 2001 con lista civetta collegata al Polo dal nome
“Per l’abolizione dello scorporo e contro i ribaltoni”, Falanga il suo piccolo
ribaltone l’ha fatto a fine legislatura (2005) passando con i Repubblicani
Europei, tanto da partecipare poi a un vertice sulla legge elettorale con
l’Unione di Romano Prodi. Eletto in Senato nel 2013 con il Pdl, Falanga oggi è
vicepresidente della Commissione diritti umani. E martedì 9 luglio, sia
all’audizione della Commissione con la ong Open Dialogue, sia nella successiva
conferenza stampa convocata dal presidente della commissione Luigi Manconi
insieme agli avvocati, Falanga è intervenuto in maniera veemente per difendere
l’operato della Questura. “E’ stato istruito da Schifani”, hanno asserito
diversi fonti nei corridoi di palazzo Madama.
Il caso però non potrà più risolversi tra le mura italiane, eventualmente con il
sacrificio del piccolo pesce di turno, perché è oramai internazionale. Nicole
Kiil-Nielsen, eurodeputata verde eletta in Francia, il 24 giugno ha sollevato la
questione nella sottocommissione Diritti umani del Parlamento Europeo con
un’interrogazione urgente. “I ministri italiani devono rispondere ai timori di
collusione con il Kazakistan riguardo alla deportazione della moglie e della
figlia di 6 anni di un dissidente – dice la nota di Kiil-Nielsen -. Le
informazioni che finora abbiamo avuto sono una seria causa di preoccupazione. Il
minimo che si possa pensare è che (la questione) riguardi abusi dei diritti
fondamentali e del giusto processo che di certo non ci aspettiamo da uno stato
membro della Ue come l’Italia”.
Intanto in Italia è stata redatta anche un’interpellanza urgente da parte di
Arturo Scotto (Sel), nella quale sono state richieste spiegazioni sul perché
risulti “che alcuni funzionari della Questura di Roma coinvolti nell’operazione
siano in seguito stati promossi a cariche più elevate”. Secondo fonti della
Questura di Roma sentite da ilfattoquotidiano.it, tra chi all’interno della
stessa avrebbe beneficiato di molti ‘scatti’, promozioni, dopo il rimpatrio di
Alma e Alua, sarebbe stato Maurizio Improta. Il direttore dell’Ufficio
Immigrazione dal 2012 al 2013 avrebbe fatto un balzo in avanti di 52 posizioni
nelle gruaduatorie del Viminale che aprono la strada agli avanzamenti di
carriera, passando da 73° a 21°. Se è tutto da dimostrare, e non necessariamente
consequenziale, che questi scatti decisi nel consiglio di amministrazione per il
personale di polizia del 28 giugno – all’eccezionale presenza del ministro degli
Interni Alfano – siano dovuti all’esito della rendition kazaka. Di sicuro il
capo dell’Ufficio Immigrazione ha gestito la vicenda in prima persona, firmando
le carte di suo pugno. Mentre in cabina di regia qualcun altro elaborava la
strategia per consegnare il trofeo nelle mani di Nazarbayev.
F35, rinviata inaugurazione
impianto di Cameri. M5S: “Capolavoro di ipocrisia”
Per la Difesa non c'è alcun problema politico ma secondo Giulio Marcon (Sel)
la decisione è il riflesso di "difficoltà e incertezze anche da parte del
ministero". I 5 Stelle: "Devono essersi accorti che non è molto popolare gettare
dalla finestra 13 miliardi di euro"
di Sara Nicoli e Enrico Piovesana
Lockheed
Martin e Alenia Aermacchi hanno rinviato “a data da destinarsi” la cerimonia di
inaugurazione dell’impianto di assemblaggio dell’F-35 di Cameri, Novara, che
avrebbe dovuto avere luogo giovedì 18 luglio. Nessun problema tecnico o politico
secondo la Difesa: “Solo alcune difficoltà di cerimoniale legato alla presenza
di tutti gli invitati”, spiega il tenente colonnello Antonio Zuliani, portavoce
del Segretariato generale della Difesa-Direzione nazionale armamenti.
“L’assemblaggio del primo velivolo inizierà il 18 come programmato”.
Per Giulio Marcon di Sel, questo rinvio è invece “significativo”, riflesso di
“difficoltà e incertezze anche da parte del ministero della Difesa” e “problemi
di realizzazione di questa fase operativa che ha già avuto diversi problemi nei
mesi passati”. Persino più duri i 5 Stelle: “La decisione di cancellare la
cerimonia inaugurale dello stabilimento di Cameri è un capolavoro di ipocrisia;
devono essersi accorti che non è molto popolare gettare dalla finestra 13
miliardi di euro nello stesso momento in cui si tagliano i fondi per la scuola,
il trasporto pubblico e non si trovano i soldi per la cassa integrazione. Questa
classe politica non ha il coraggio politico di fermare l’acquisto degli F35 e
pensa di mettersi al riparo dalle critiche e dalle contestazioni cancellando la
cerimonia di avvio della produzione. Questa infatti non si ferma, al contrario
continua mentre i problemi degli italiani restano senza risposte”.
Il programma militare Joint Strike Fighter F-35 di grane tecniche, e di
conseguenza economiche e politiche, ne ha avute una sequela infinita. L’ultima
ad allarmare alcuni parlamentari italiani, già pronti con delle mozioni al
riguardo, riguarda la presunta inadeguatezza della nostra portaerei Cavour ad
imbarcare gli F-35B a decollo corto e atterraggio verticale (Stvol). Questo
problema è stato recentemente segnalato dal responsabile delle Operazioni navali
della US Navy, ammiraglio Jonathan Greenert, in occasione dell’International
Maritime and Defense Exhibition (Imdex) tenutosi a Singapore. Secondo
l’ufficiale americano, la potenza e il calore del getto prodotto dall’F-35B in
fase di decollo e atterraggio renderà necessarie costose modifiche alle
portaerei che li imbarcheranno: non solo un nuovo e più resistente rivestimento
del ponte ma soprattutto il ridislocamento e la schermatura di molti apparati
che verrebbero altrimenti danneggiati dai getti: antenne, depositi di
carburante, reti protettive, imbarcazioni e batterie lanciamissili. Modifiche
che contraddicono nettamente le conclusioni di un apposito studio effettuato
dalla Lockheed Martin all’inizio del 2010, secondo il quale la potenza dei getti
degli F-35B non era così diversa da quella degli Harrier AV-8B (attualmente
imbarcati anche sulla portaerei Cavour) da richiedere misure di adattamento.
Fonti tecniche della marina militare italiana spiegano che questo problema non
riguarda la Cavour, bensì solo le ben più anziane portaerei americane della
classe Wasp.
“Nave Cavour è perfettamente predisposta ad imbarcare l’F-35B, essendo stata
progettata dopo l’avvio del programma Joint Strike Fighter, quindi non ci sarà
bisogno di alcuna modifica, salvo la già preventivata ricopertura del ponte con
una mescola termica idonea”. Roba di poco conto, insomma, e già compresa nelle
spese messe a bilancio. Salvo sorprese dell’ultim’ora, che in questo programma
non mancano mai. Sorprese su cui, tuttavia, alcuni parlamentari vogliono sia
fatta piena luce. Come Donatella Duranti di Sel che ha presentato
un’interrogazione al ministro della Difesa per conoscere “quali siano i costi
reali” che lo Stato italiano dovrà affrontare per rimettere la Cavour (ma forse
non solo) nelle condizioni di poter ospitare gli F35. Un supplemento d’indagine
non guasta, ma forse quello che sarebbe più utile chiedere alla Difesa a
proposito degli F-35 a decollo verticale (i più costosi di tutti), sarebbe per
quale oscuro motivo oltre ai 15 velivoli destinati alla portaerei della marina
ne vuole acquistare altri 15 di questo tipo per l’aeronautica, che usando
normali piste d’atterraggio non dovrebbe avere problemi di spazio. Forse la
prima rivisitazione del programma potrebbe iniziare proprio da qui.
Ecco come Israele “alleva” i
terroristi: arrestato a Hebron un bambino palestinese di cinque anni
Il piccolo Waadi Maswada, 5 anni e 9 mesi, viene arrestato dalle forze armate
di Israele - Motivo? Sospettato di aver colpito con un sasso la ruota della
macchina di un colono a Hebron - Paradosso: i militari “cazziati” da un
colonnello per aver agito “davanti alle telecamere”...
Alberto Stabile per "la Repubblica"
Waadi
Maswada ha appena cinque anni e nove mesi, e quasi non si riesce ad intravedere
in mezzo alle esuberanti corporature dei militari israeliani, sei soldati e un
ufficiale della Brigata Givati, che lo circondano. Ma sullo sfondo della scena,
ripresa da un attivista dei diritti umani della Ong B-Tselem, un occhio
spalancato sugli eccessi dell'interminabile occupazione dei Territori
palestinesi, si sente, insistente come il lamento di un animale ferito, il
pianto di Waadi che sta per essere arrestato.
Siamo ad Hebron, la Città dove riposano i Patriarchi, che qualche centinaio di
coloni israeliani, a dispetto della storia e degli oltre centomila palestinesi
che ci vivono, hanno scelto come simbolo del riscatto della biblica Eretz
Israel. Ed è per garantire ai coloni di poter coltivare il loro disegno
nazionalista religioso, che il centro di Hebron è dal 1967 occupato
militarmente. In sostanza, Hebron è una scintilla del conflitto perennemente
accesa.
Ora, viene da sorridere a pensare come Waadi, che non arriva neanche alle
ginocchia dei soldati che lo circondano, possa aver rappresentato una minaccia
qualsivoglia alla sicurezza dello Stato ebraico. Ma il bimbo, spiega l'ufficiale
ai pochi passanti che notano la scena e si avvicinano, ha tirato una pietra
contro la macchina di un colono (colpendo una ruota) e va deferito (cioè
consegnato) alla polizia palestinese per i dovuti provvedimenti.
Waadi intuisce, si dispera.
La telecamera di B-Tselem, un'organizzazione nata in Israele ma animata tanto da
attivisti israeliani che palestinesi, registra l'indifferenza dei soldati al
pianto di quel bimbo, la concitata trattativa con un ragazzo palestinese per
sapere dove abita Waadi, e infine lo sportello della jeep militare che si
chiude, inghiottendo lo sguardo disperato del bambino.
Giunti a casa, ci dice l'accurato resoconto di B-Tselem, i soldati informano la
madre che intendono consegnare il bambino alla polizia palestinese (con cui
l'esercito israeliano continua una sorta di coordinamento che risale agli
accordi di Oslo, per il resto rimasti inapplicati). La donna, ovviamente, si
rifiuta, di consegnare Waadi, che nel frattempo s'è nascosto dietro una pila di
materassi, almeno finché non arriva il padre, Karam.
Dopo mezz'ora, arriva Karam.
I soldati insistono nella loro decisione di trasferire il bimbo alla polizia
palestinese. Il padre obbietta: «Ma ha soltanto cinque anni»! Niente da fare: se
non ubbidisce agli ordini, Karam sarà arrestato. Ora la scena cambia. Padre e
figlio sono stati portati alla base militare israeliana di a-Shuhada.
Karam ha gli occhi coperti da una benda chiara e le manette ai polsi, come fosse
sospettato di chissà quale atto di violenza anti israeliana. Waadi gli siede
accanto. Insieme, Karam essendo sempre bendato e ammanettato, vengono
accompagnati al posto di blocco del Dco, l'Ufficio di coordinamento, dove ad un
certo punto arriva un colonnello israeliano. Il quale, rivolto ai suoi uomini,
si lancia in una reprimenda: «Voi state danneggiando la nostra immagine».
Non che lo sfiori il sospetto che il fermo sia pure temporaneo di un bimbo sia
illegale, ma perché «in presenza della telecamere, i palestinesi arrestati
debbono essere trattati bene». Karam e il piccolo Waadi vengono consegnati alla
polizia palestinese che li rilascerà subito dopo. La logica deformata da
un'occupazione infinita ha vinto ancora.
Le legge è stata applicata alla lettera, contro un bambino di 5 anni e 9 mesi
anche se l'età minima della responsabilità penale nei Territori è di 12 anni. Ma
i palestinesi, si sa, non hanno diritto neanche all'infanzia. In serata
l'esercito ha rivendicato la correttezza dell'operato dei soldati, ma ha anche
annunciato l'apertura di un'inchiesta.
8
luglio
Lettera aperta a Epifani
sulla 194
da snoqfactory
Gentile Segretario Epifani,
le
parliamo per quello che siamo: un gruppo di donne che appartiene al movimento
Senonoraquando? Altri concetti: destra, sinistra, emergenza, centro, larghe
intese, democrazia, crisi, li mastichiamo abbastanza bene anche noi. Nessuno di
essi, però, ci definisce.
Dunque non scriviamo a Lei per una scelta d’elezione. Lo faremmo con qualsiasi
altro segretario di partito che si prepara a un congresso.
Abbiamo riflettuto a lungo su quello che è accaduto alla Camera dei deputati
l’11 giugno scorso e ci preoccupa. Il problema è così serio che preferiamo un
dialogo meditato a una reazione impulsiva. Il suo partito si è astenuto su tutte
le mozioni tranne la propria, negando il proprio voto anche a dispositivi che
rendessero più vincolanti gli impegni di cliniche ed enti ospedalieri per
l’attuazione della legge 194 senza essere paralizzati dall’obiezione di
coscienza.
Non ci accontentiamo più di sentirci dire, come alcuni deputati del suo partito
hanno fatto nel recente dibattito parlamentare, “la 194 non si tocca”. La 194 si
tocca, eccome. Da 35 anni, dal 1978, l’anno in cui è entrata in vigore. Siamo
sincere e sinceri, una volta per tutte.
Quella legge è figlia di un’epoca, di un Paese, di un comprensibile compromesso.
In alcune regioni, anche dove governa il suo partito, l’articolo 2 è stato
interpretato a maglie larghe e si sono stipulate convenzioni con associazioni di
volontariato che si sono comportate da veri e propri dissuasori. E hanno
chiamato questa forzatura “piena attuazione della legge”. Noi non escludiamo
affatto che una donna possa essere tormentata e attraversata da dubbi di fronte
a una scelta così profonda, ma pensiamo che in questi momenti occorrono
l’amicizia, gli affetti, i rapporti di fiducia. Non lo Stato o il suo braccio
convenzionato.
In maniera uguale e contraria, l’articolo 9 è stato interpretato a capriccio
degli enti ospedalieri. Oggi l’obiezione di coscienza ha raggiunto l’80 per
cento in media, ha superato il 90 per cento in alcune zone del meridione e
spesso le regioni si sono ben guardate dal “garantire e controllare l’attuazione
della legge anche attraverso la mobilità del personale”, come recita il testo
della 194.
Vede, a nostro parere, questa legge si tira e si allenta come un elastico a
seconda degli equilibri di potere che in quel momento soddisfano il ceto
politico e le sue tattiche.
Di questo ne abbiamo abbastanza. Alcune di noi sono credenti, altre no. Nessuna
di noi è per l’aborto, tutte siamo per la scelta libera e responsabile di
ciascuna donna. Finchè l’uno non si fa due, uno solo è il corpo, una sola è la
coscienza, uno solo è il percorso di responsabilità. Le donne hanno sufficiente
immaginazione e senso etico per aprire lo sguardo sull’ embione,
rappresentarsene la vita potenziale, e decidere di se stesse.
Ognuna di noi è felice se la propria amica o la propria figlia sono state così
sagge da prevenire l’aborto. Consideriamo un dono e un privilegio non essere
passate attraverso questa esperienza.
Del resto le cifre parlano da sole. Secondo gli epidemiologi dal 1980 ad oggi,
rispetto all’abortività stimata prima della legge, sono stati evitati tre
milioni e 300 mila aborti. E sarebbero anche di più se, sul tasso di abortività,
non incidessero, per il 34%, le donne straniere che di doni e privilegi ne hanno
assai pochi.
Vorremmo discutere con Lei di tutto questo. Distinguendo l’etica dalla tattica
che, come Lei sa benissimo, sono due cose molto diverse.
Con cordialtità,
Se Non Ora Quando FACTORY
5
luglio
Santanchè il
ritorno della ''Pitonessa''
Fiat, la
Consulta dà ragione alla Fiom: "Illegittimo articolo 19 su rappresentanza"
Sentenza 'storica' della Corte costituzionale che decide sullo scontro aperto
negli stabilimenti del Lingotto dal contratto 'separato' dell'era Marchionne:
incostituzionale la norma dello Statuto dei lavoratori che limita la
rappresentanza ai soli sindacati firmatari
ROMA
- La Consulta ha dichiarato oggi illegittimo l'articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori, nella parte che consente la rappresentanza sindacale aziendale (Rsa)
ai soli sindacati firmatari del contratto applicato nell'unità produttiva. La
decisione e stata adottata nell'ambito del ricorso della Fiom, esclusa dalla Rsa,
contro la Fiat.
Il ricorso alla Consulta fu l'atto finale dello scontro inaugurato nell'era
Marchionne dall'uscita di Fiat da Confindustria e dalla nascita del contratto di
gruppo, che le tute blu della Cgil non firmarono. Il Lingotto a quel punto negò
la rappresentanza sindacale alla Fiom applicando alla lettera la disposizione
dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. La Fiom fece appello alla
Consulta, sostenendo che lo stesso articolo 19 confliggeva con alcuni principi
cardine della Costituzione (articoli 2, 3 e 39, ossia sulla lesione del
principio solidaristico, la violazione del principio di uguaglianza e del
principio di libertà sindacale), in particolare il "divieto" di discriminazione
sulla base dell'appartenenza a un partito o a un sindacato. La Consulta ha
evidentemente ritenuto fondato il rilievo del sindacato.
La Corte, si legge in una nota, nella camera di consiglio di oggi, "ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.19, 1 c. lett. b) della legge
20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto 'Statuto dei lavoratori') nella parte in cui
non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche
nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti
collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla
negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori
dell'azienda".
La questione di legittimità costituzionale, discussa ieri, è stata sollevata e
rimessa alla Corte costituzionali dai giudici dei tribunali di Torino, Modena,
Vercelli, a seguito dei ricorsi presentati dai metalmeccanici della Cgil esclusi
dalle Rsa dei vari siti Fiat sul territorio.
L'effetto immediato della pronuncia della Consulta dovrebbe essere l'ingresso
dei delegati Fiom nelle Rappresentanze sindacali aziendali di tutti gli
stabilimenti del gruppo.
Le reazioni - "La Costituzione rientra in fabbrica. E' una vittoria di tutti i
lavoratori. Non ci sono più alibi: il governo convochi immediatamente un tavolo
con la Fiat e tutte le organizzazioni sindacali per garantire l'occupazione e un
futuro industriale". E' il primo commento di Maurizio Landini , segretario
generale della Fiom, alla sentenza della Consulta. "E' ora che il Parlamento
approvi una legge sulla rappresentanza", aggiunge Landini.
"Alla lunga la giustizia vince. Adesso chiederemo che ci siano dati gli
strumenti per fare attività sindacale a Pomigliano", ha commentato il
responsabile del settore auto Fiom di Napoli, Francesco Percuoco . Di diverso
tenore il parere di Giovanni Sgambati , segretario generale Uilm Campania:
"Invece che semplificare, la decisione della Consulta rischia di complicare
ancora di più le relazioni tra sindacati e imprese e aprire la strada ad una
nuova stagione di ricorsi legali. Il paese rischia di perdere così la sua
attrattività agli occhi delle imprese straniere che scapperanno ancora di più".
"La democrazia la si deve esercitare, non la si deve rivendicare - dice invece
Vittorio Granillo , del coordinamento nazionale Slai Cobas - : e la decisione
della Consulta è una cosa positiva, che va in tal senso".
La Cgil parla invece di "sentenza di grande rilevanza e valore per le relazioni
industriali e sindacali nel paese". "La decisione della consulta - sottolinea la
nota di Corso d'Italia - ripristina le condizioni affinchè i sindacati
rappresentativi dei lavoratori e delle lavoratrici possano far valere il loro
diritto alla contrattazione e alla presenza nei luoghi di lavoro con propri
delegati e delegate. Una condizione questa che è alla base della democrazia
sindacale".
Roberto Di Maulo , segretario della Fismic, esclude invece che la sentenza possa
modificare le relazioni sindacali negli stabilimenti Fiat: "La Fiom - dice - non
ha mai parteciparto agli incontri per i rinnovi contrattuali e quindi non
rientra nell'ambito della sentenza".
"Le sentenze vanno rispettate, ma non si può continuare a fare muro contro muro,
perché questo non dà risposte alle esigenze dei lavoratori - ha detto invece
Giuseppe Terracciano , segretario generale della Fim-Cisl di Napoli - . Il
sindacato ha il compito di creare le condizioni per poter gestire le opportunità
di lavoro, e la sede giudiziaria non può certo creare lavoro".
Invalsi,
spunta il concorso interno sospetto. Dopo tre anni si rifà, ma vincono gli
stessi
L'Istituto che produce test "temuti" da studenti e professori ha problemi di
valutazione interna. E' il caso del concorso del 2010: prove di selezione per
quattro posti da primo ricercatore. Gli esclusi fanno ricorso e il Consiglio di
Stato annulla la prova, ripetuta pochi giorni fa dopo tre anni: stessi
candidati, stessi esclusi e stessi vincitori (che prendono gli arretrati di tre
anni prima). I vincitori? Molti di loro hanno lavorato con i commissari chiamati
a giudicarli
di Thomas Mackinson
Dopo gli strali, le contumelie, le invettive contro il test Invalsi , la
scoperta di costi di gestione imbarazzanti, arriva anche il concorso sospetto.
L’esame di Stato delle medie appena concluso, a detta di tanti, è stato
durissimo, con quei test di matematica e italiano a mani nude, senza
calcolatrice o dizionario. Quando serve, però, quelli dell’Invalsi sanno anche
facilitare la strada a chi ne ha bisogno. Ad esempio i candidati al concorso
interno da ricercatore che l’esame l’hanno fatto e vinto, non una, ma due volte.
Perché l’ Istituto nazionale di valutazione del sistema educativo – quello che
ha appena preparato i test di valutazione per 600mila studenti – non è riuscito
a organizzare un concorso per se stesso, tanto da doverlo ripetere per “mancanza
di elementi oggettivi di valutazione dei candidati”. I famosi “valutatori” che
non sapevano valutare. Più surreale ancora l’epilogo della storia, di quelle che
non si vorrebbero leggere: a vincere la seconda volta, infatti, sono stati gli
stessi candidati che avevano vinto la prima. E che, confermati, hanno avuto pure
gli arretrati.
Ecco come è andata. A fine 2010 l’istituto indice un concorso per titoli e
colloquio per quattro posti da primo ricercatore, II livello professionale. Si
presentano in 11 , tutti del terzo livello. In palio 400 euro netti in più al
mese e una progressione verticale di carriera con posizione assimilabile a
quella di professore associato, con tutto quello che porta in lustro e lustrini,
convegni e credenziali accademiche. Gli ammessi sono otto, cinque gli idonei e
quattro i vincitori. Tra gli esclusi c’è però chi dubita della trasparenza dei
giudizi e della correttezza della prova e fa ricorso contro l’Invalsi al
Consiglio di Stato, ottenendo l’accoglimento a quasi tre anni dal concorso. Il 7
marzo scorso il Presidente della Repubblica ha annullato con decreto la prova
orale e gli atti conseguenti. I giudici, del resto, scrivono nero su bianco che
“l’accertamento della preparazione e professionalità dei candidati appare ictu
oculi un parametro eccessivamente generico al fine di assicurare che la
valutazione della Commissione esaminatrice si svolga secondo la trasparenza
richiesta”. La genericità dei criteri di valutazione , questo il succo, lascia
alla Commissione “praterie” discrezionali nello scegliere arbitrariamente le
persone. “Discutibile” risulta infatti l’operato della Commissione che “ha
parificato il difetto di motivazione ad un vizio meramente formale, sanabile ex
post, mentre nel caso di specie il difetto di motivazione costituisce un vizio
sostanziale che induce a ritenere l’operato della Commissione stessa carente
sotto il profilo della trasparenza e della necessità di assicurare un’adeguata
par condicio tra i candidati”. La prova è dunque da rifare ma l’esito sembra
confermare i sospetti. L’appuntamento è per il 18 giugno, l’indomani degli esami
di Stato di Terza Media, nella sede di Frascati. Il risultato – sorpresa – è lo
stesso di tre anni prima: stessi idonei, stessi bocciati, stessi vincitori. E
stessi commissari, tranne uno (che nel frattempo, ironia della sorte, è
diventato Commissario straordinario Invalsi). Insomma è il concorso perfetto .
A questo punto si guarda al cv dei candidati per capire meglio e quello che
salta all’occhio è che il mondo dei pluri-promossi è davvero piccolo: due di
loro possono vantare tra le “altre attività” d’aver collaborato a seminari e
master di un professore che si sono ritrovati davanti nel ruolo di esaminatore
un anno dopo. Un terzo candidato ha pubblicato insieme a un altro prof della
commissione che lo ha poi dovuto giudicare. Qualcun altro, giusto due mesi prima
di essere esaminato, se ne andava a Washington per una conferenza internazionale
di tre giorni in compagnia del proprio esaminatore . Possibile che l’Invalsi sia
ricorsa ancora agli stessi “giudici” che tre anni prima non erano stati in grado
di motivare le loro scelte, tanto da incorrere nell’annullamento della prova?
Possibile che, dovendo chiamare commissari da fuori, non sia riuscito a trovarne
qualcuno che non avesse avuto nulla a che fare con i candidati interni? Il
rischio ora è che si vada di nuovo davanti al Consiglio di Stato mentre sul
primo concorso pende ancora un ricorso al Tar. Intanto i quattro vincitori “pro
tempore”, oltre a occupare un posto di assoluta prevalenza all’interno
dell’istituto, hanno ottenuto non soltanto gli aumenti economici per il futuro
ma anche la corresponsione di emolumenti e arretrati antecedenti alla data della
vincita del primo concorso. La selezione, infatti, si è svolta alla fine del
2010 ma aveva validità a decorrere dall’1 gennaio di quell’anno. E gli altri
candidati? Loro possono aspettare la terza edizione dello stesso concorso. Il
ricorso, infatti, è quasi scontato .
Anche perché a ben vedere è l’ultimo di una serie . Fra il 2012 e il 2013 sono
stati fatti una serie di concorsi a tempo indeterminato per varie figure
(Ricercatori III livello, CTER, collaboratori e funzionari amministrativi) che
hanno portato con sé un treno di contenziosi e ricorsi sulle modalità di
espletamento degli esami che hanno quasi sempre a che fare con la mancata
esplicitazione dei criteri di valutazione e che si vanno ad assommare a quelli
dei precari storici che chiedono il riconoscimento di un lavoro parasubordinato.
E mica e’ finita. Un nuovo concorso a tempo determinato è stato appena bandito e
già le polemiche si alzano in merito, anche da parte delle organizzazioni
sindacali, perché in alcuni casi non coerente con le indicazioni del contratto
collettivo di lavoro. Sono in corso, per altro, anche alcune stragiudiziali .
Insomma, nel carrozzone Invalsi il vagone degli scontenti inizia a pesare
parecchio, anche se poco o nulla al di fuori trapela.
Disabili, la
Corte Ue boccia l’Italia: “Misure di inserimento al lavoro insufficienti”
Secondo i giudici il nostro Paese non ha adottato tutte le misure necessarie:
"Porre rimedio al più presto". Gli Stati membri devono prevedere l'obbligo per i
datori di lavoro di sistemare i locali, adattare le attrezzature e ritmi di
lavoro e ripartire i compiti
di Redazione Il Fatto Quotidiano
L’Italia
non ha adottato tutte le misure necessarie per un adeguato inserimento
professionale dei disabili nel mondo del lavoro . L’accusa è della Corte di
giustizia europea che invita a porre il nostro Paese a porre rimedio alla
situazione al più presto. Per la Corte, l’Italia “è venuta meno agli obblighi”
derivanti dal diritto comunitario a causa di un recepimento incompleto e non
adeguato di quanto previsto dalla direttiva varata alla fine del 2000 sulla
parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Una
norma con la quale è stato stabilito un quadro generale di riferimento per la
lotta alla discriminazioni delle persone diversamente abili.
I giudici europei hanno in sostanza accolto i rilievi mossi all’Italia dalla
Commissione Ue nella procedura d’infrazione conclusasi con il deferimento alla
Corte di giustizia del nostro Paese poiché ha ritenuto insufficienti le garanzie
e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla
normativa italiana. In particolare, secondo Bruxelles , le norme nazionali non
riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti
del rapporto di lavoro. Inoltre, l’attuazione dei provvedimenti legislativi
italiani è stata affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle
autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori
di lavoro e pertanto non conferisce ai disabili diritti azionabili direttamente
in giudizio.
La Corte ha ora stabilito che gli Stati membri devono prevedere l’obbligo, per i
datori di lavoro, di adottare provvedimenti efficaci e pratici (sistemando i
locali , adattando le attrezzature , i ritmi di lavoro o la ripartizione dei
compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai
disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di
ricevere una formazione, senza tuttavia imporre al datore di lavoro un onere
sproporzionato.
Dopo aver esaminato le varie misure adottate dall’Italia per l’inserimento
professionale dei disabili la Corte ha concluso che queste misure, anche se
valutate nel loro complesso, non impongono a tutti i datori di lavoro l’adozione
di provvedimenti efficaci e pratici , in funzione delle esigenze delle
situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi
aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro,
di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.