27 marzo

Terzi-Schettino, il ministro del tradimento

Di Vincenzo Nigro

Scrivevamo questa mattina. “Se esiste ancora un residuo di sistema Italia, se esiste ancora un senso per la politica, oggi bisognerà salvare il soldato Terzi”. Scrivevamo dopo aver parlato con un ambasciatore che lo conosce benissimo: “Vedrai, è capace di tutto, è pronto a distruggere l’Italia pur di rimanere a galla”. Speravamo che quel che rimane del sistema poltiico italiano riuscisse a frenare Terzi in alzate d’ingegno che erano state messe in conto da chi lo conocce bene. Difficile credere che il tradimento del Ministro degli Esteri si spingesse a tanto: a dimettersi da un governo dimissionario, facendo finta di essere lui quello che voleva essere il salvatore dei marò ma glielo hanno impedito!

Scrivevamo: “La scarsa attitudine etica e professionale di Giulio Terzi hanno prodotto danni alla Repubblica italiana come mai un singolo uomo aveva inflitto”. Non immaginavamo che il sabotaggio potesse spingersi ancora in avanti. Non fino a questo punto, non con questa spudoratezza. Onore al ministro della Difesa Giampaolo Di Paola: il suo comportamento, il disprezzo che si leggeva sul suo volto nel momento in cui Terzi annunciava trucco mediocre delle dimissioni (quale candidatura gli è stata promessa? Quella a sindaco di Bergamo?), la serietà con cui ha esposto il dolore per non essere riuscito a riportare a casa i fucilieri cancellano ogni possibile errore, ogni possibile opacità di comportamento. Una magra consolazione, di fronte al ministro-Schettino che abbandona la nave-Italia nel momento più buio della storia della Repubblica.

 

25 marzo

Il mercato delle armi non conosce crisi. E la Cina è sempre più leader

Nell'ultimo quinquennio le esportazioni dell'industria bellica di Pechino sono aumentate del 162% rispetto al periodo precedente, contro una media del 17 per cento. Regno unito superato in classifica. E l'Italia compensa la frenata europea

di Matteo Cavallito

La Cina avanza anche nelle armi. Nel corso del quinquennio 2008-2012, le esportazioni di armi convenzionali nel mondo sono cresciute del 17%, una forte espansione cui ha contribuito in modo decisivo l’industria cinese le cui vendite all’estero sono aumentate del 162% rispetto al periodo precedente (2003-07). Una performance che ha consentito a Pechino di superare in classifica il Regno Unito entrando a far parte del club dei primi cinque esportatori di armi del mondo per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda. Lo ha riferito lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel suo ultimo rapporto pubblicato.

A mantenere la leadership nel mercato mondiale sono sempre gli Stati Uniti con una quota pari al 30% dell’export globale. A tallonare Washington c’è ovviamente la Russia (26%) mentre Germania (7%) e Francia (6%), terza e quarta rispettivamente, seguono a debita distanza. La Cina, come si diceva, ha effettuato il balzo decisivo negli ultimi anni arrivando a conquistare quota 5% contro il 2% del quinquennio precedente. Determinante, per il successo delle armi di Pechino, la crescente domanda del Pakistan, come ha confermato il direttore del Sipri Arms Transfers Programme, Paul Holtom, in una nota ufficiale del centro di ricerca svedese. Le forniture cinesi, ha precisato, raggiungerebbero comunque un crescente numero di Stati.

Nella classifica delle importazioni, rivela ancora il SIPRI, Pechino si piazza al secondo posto con il 6% della quota complessiva globale dietro all’India, prima assoluta con il 12% dell’import planetario. Pakistan (5%), Corea del Sud (5%) e Singapore (4%) completano una Top Five globale interamente asiatica. Tra gli altri aspetti significativi del rapporto si segnala la leadership russa nelle esportazioni di armamenti convenzionali verso il Venezuela (il 66% dell’import di Caracas) e, soprattutto, la Siria (dove si raggiunge il 71%). Impressionanti, poi, i numeri dell’Africa: nell’ultimo quinquennio le importazioni del Continente sono cresciute del 104% rispetto ai cinque anni precedenti ma il traino viene in pratica dal solo Nord Africa dove l’import è aumentato del 350% contro il 5% delle nazioni sub sahariane.

Alla forte domanda del mercato orientale e africano si è contrapposta negli ultimi anni la significativa riduzione della spesa europea. Le importazioni del Vecchio Continente si sono ridotte del 20% nell’ultimo quinquennio a seguito di vari fattori a cominciare dalla conclusione del conflitto in Iraq e dal ridimensionamento della presenza militare in Afghanistan. Determinante, poi, l’effetto della crisi e dei conseguenti programmi di austerity. Negli ultimi 5 anni le importazioni di armi da parte della Grecia sono diminuite del 61% facendo precipitare il Paese dal 4° al 15° posto nella classifica delle importazioni del Pianeta.

E l’Italia? Nel rapporto Sipri non se ne parla ma i dati, ovviamente, non mancano. Tra il 1990 e il 2011, ricordano Duccio Facchini, Michele Sasso e Francesco Vignarca nel loro “Armi, un affare di Stato – Soldi, interessi, scenari di un business miliardario”, Roma ha autorizzato export di armamenti per 44 miliardi di euro. Tra il 2006 e il 2010, poi, la Penisola ha compensato da sola il 14% delle esportazioni europee (pari nel loro complesso a quasi 165 miliardi di euro). Un business di successo che ha coinvolto tanto il sistema bancario quanto la regina del settore, quella Finmeccanica protagonista negli ultimi due anni di una serie infinita di guai giudiziari.

Il nostro meraviglioso Paese

di Carlo Cipiciani

Il nostro è un Paese meraviglioso, unico al mondo; non solo per bellezza, clima, cibo, ma anche per i suoi magnifici abitanti. I quali, tra tante qualità sono dotati di un inarrivabile senso per il comico, così spiccato che in Politica hanno comandato a lungo comici dilettanti ed ora che il gioco si fa duro stanno entrando in campo i professionisti. Un Paese dove ieri ci si vantava di non aver studiato (tanto a che serve?) ed oggi di essere “impresentabili”.

A volte capita però questo senso del comico debordi e superi il limite umano, per entrare nel divino. Un esempio? Il Dipartimento delle Finanze sforna i dati sulle dichiarazioni dei redditi; e viene fuori, come ogni anno, che i dipendenti dichiarano redditi superiori ai loro datori di lavoro. E nessuno apre bocca.

Non solo: si scopre, per l’ennesima volta, che su oltre 40 milioni di contribuenti solo 426 mila italiani dichiarano più di 100mila euro di reddito. E solo 31mila più di 300mila euro. Bene: solo nel nostro meraviglioso Paese il giorno che escono dati così si fa una manifestazione di piazza “contro il fisco oppressivo”.

E, soprattutto, nessuno si sente ridicolo.

Tagli all'istruzione, l'Ue contro l'Italia

Uno studio della Commissione europea rivela che tra i 27 il nostro è il Paese che ha ridotto di più i bilanci del settore: -10,4% tra il 2010 e il 2012. "C'è bisogno di un approccio coerente, questa è la chiave del futuro dei nostri giovani e della ripresa economica"

di SALVO INTRAVAIA

Una manifestazione studentesca contro i tagli
L'Italia ha tagliato più di qualsiasi altro Stato europeo sull'istruzione e da Bruxelles arriva una autentica strigliata. "Sono tempi difficili per le finanze nazionali ma abbiamo bisogno di un approccio coerente in tema di investimenti pubblici nell'istruzione e nella formazione poiché questa è la chiave per il futuro dei nostri giovani e per la ripresa di un'economia sostenibile nel lungo periodo". Come dire: la crisi c'è ma occorre capire cosa tagliare. La tirata di orecchie all'Italia arriva direttamente dalla Commissione europea che ha passato in rassegna i bilanci dei 27 Paesi membri scoprendo che negli ultimi tre anno soltanto otto hanno tagliato sull'istruzione. E l'Italia è la prima.

"Se gli Stati membri non investono adeguatamente nella modernizzazione dell'istruzione e delle abilità - ha affermato Androulla Vassiliou, commissario europeo responsabile per l'istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù - ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri concorrenti globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della disoccupazione giovanile". Un vero e proprio avvertimento neppure troppo velato al nostro Paese che soprattutto dopo il 2008 - con le riforme Gelmini - ha cominciato a tagliare su scuola e università senza troppi scrupoli e che adesso trova mille difficoltà a gestire e ad uscire dalla crisi economica globale degli ultimi tre anni.

Ma non tutti i Paesi alle prese con la crisi hanno tagliato sull'istruzione. Lussemburgo, Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Turchia - solo per citare alcuni Stati dell'Ue o candidati a farne parte - nonostante le difficoltà hanno scommesso sulla scuola incrementando le risorse. In testa la Turchia che fa registrare un più 16,5 per cento, seguita dal Lussemburgo col 7,4 per cento in più in appena due anni. Grecia, Italia e Inghilterra in coda. Col nostro Paese che dal 2010 al 2012 ha tagliato il bilancio della scuola - dalla materna alle superiori - del 10,4 per cento. Una sforbiciata accompagnata dal taglio di quasi 100mila cattedre e da un alleggerimento dei conti anche dell'università: meno 9,2 per cento in 24 mesi.

Lo studio della Commissione europea prende in considerazione anche l'impatto dei tagli sul numero di insegnanti, che in Italia - dal 2000 al 2010 - è calato dell'11,1 per cento mentre in Germania si è incrementato del 13,0 per cento. Così com'è avvenuto in Finlandia (più 12,9 per cento), in Svezia (più 21,9 per cento) e Norvegia. L'esecutivo Ue stigmatizza anche gli effetti della crisi sulle buste paga degli insegnanti - che pesano per il 70 per cento della spesa scolastica - congelate o addirittura ridotte in 11 Paesi, Italia compresa.
 

I laureati all'estero

Nel 2012 si contano circa 200.000 disoccupati tra gli under 35 laureati: i dati Istat sulla disoccupazione tra i laureati in questa infografica di Centimetri:

 

22 marzo

L'onore perduto della democrazia

di FRANCESCO MERLO

L'Italia rispedisce i due marò in India.

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Governo italiano: "Non ci sarà pena di morte"
Dignità voleva che questi nostri poveri marò tornassero in India rispettando la parola data perché pacta sunt servanda soprattutto per i soldati scelti. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ci tornano invece sbertucciati, piegati dal fardello di un disastro diplomatico. Esposti alla gogna per colpa soprattutto di un ministro degli Esteri che ha cercato di costruire sulla loro fuga un futuro politico, ed eventualmente anche elettorale, a destra. E non stiamo parlando della destra dei valori e della patria, la destra dei tratti eroici, che so?, del duca d'Aosta o di Cesare Battisti o di Enrico Toti, ma della destra badogliana del "tutti a casa".

Il ministro Terzi e il suo sodale Di Paola, ministro della Difesa, - nientemeno un ammiraglio che ha studiato al Morosini! - hanno infatti trasformato questi due apprendisti eroi in una coppia di esodati, esponendoli adesso, con il ritorno obbligato, al pericolo vero, il pericolo peggiore per un soldato e per un governo: il disonore.

Solo ora infatti il processo diventa a rischio, perché i nostri due "marines", vale a dire il meglio delle nostre forze armate, non saranno più considerati come due fucilieri di Marina di un Paese amico, due militari in attesa di giudizio, ma come due prove sfacciate e schiaccianti non di omicidio ma di furbizia umiliata, i rappresentanti di un'Italia volgare e truffaldina, subito piegata però dalla forza di un brutto atto di rappresaglia.

Sino a un mese fa i truffaldini sembravano gli indiani. Perché i due poveri pescatori morti forse non erano pescatori. Perché le acque in cui sono morti erano internazionali. E perché i nostri soldati si erano sempre comportati da soldati. E i soldati non sparano sui pescatori e, più in generale, sui lavoratori, in mare come in terra. E che fossero soldati lo avevano dimostrato non scappando subito dopo l'incidente, ma presentandosi alle autorità di polizia locali. E ancora, ottenuta e goduta la licenza per il Natale in patria, riconsegnandosi puntualmente ai loro giudici, benché sia controversa la legittimità del tribunale indiano.

Adesso che invece tornano perché gli indiani hanno sequestrato il nostro ambasciatore, violando a loro volta le regole internazionali, i due soldati diventano davvero prigionieri, e non più della Giustizia indiana e dei suoi tribunali ma di un'arroganza da ritorsione. L'India che li accoglierà non è infatti la stessa India che diede loro il permesso di partire: è un'India che si è sporcata con un sequestro di persona che non ha precedenti nel mondo diplomatico civile e che l'Italia furbastra di Terzi e di Di Paola non sa più come affrontare se non con la resa, la cosiddetta calata di braghe.

C'è purtroppo una parte dell'Italia che pensa all'India come a una terra di straccioni in costume esotico dimenticando che è invece la più grande democrazia, una potenza nucleare, un mastino dell'economia internazionale e, assieme alla Cina, agli Stati Uniti e alla Russia, uno dei paesi più importanti dello scacchiere mondiale. È inoltre uno dei principali membri delle nazioni emergenti del Brics che insidiano il primato occidentale (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e presto anche la Turchia).

Ebbene, l'idea razzistoide che gli indiani siano selvaggi, diffusa sgangheratamente dai giornali di Berlusconi, fa il paio, per stupidità, solo con l'idea che la fuga possa essere una vittoria e che il tradimento diventi un blasone. Ancora ieri sera Alfano e la Santanché definivano "orgoglio nazionale" quella fuga dalla responsabilità dei due marò che nei codici della destra a cui si richiamano è invece fellonia. È una maionese impazzita di valori: pretendono di vestire la bandiera di viltà e fondano il patriottismo sulla figuraccia internazionale.

Spiace che Mario Monti, chiamato alla massima responsabilità proprio in virtù del suo prestigio internazionale, concluda la sua vicenda di statista con questo desolante pasticcio di politica estera. In fondo, il caso dei marò è stato l'unico episodio di risonanza mondiale del governo dei tecnici. Ed è stato un episodio in due atti. Primo: darsela a gambe fedifraghe. Secondo: arrendersi senza condizioni al primo "bau". Il tutto a conferma del pregiudizio che da sempre l'Italia si porta dietro: è la nazione vaso di coccio, è il paese di don Abbondio e del miles "vana-gloriosus", è lo Stato dello sbruffone che si infila a letto con un occhio rosso per evitare un processo, è l'esercito del capitano vanitoso e fellone che abbandona la Concordia nel momento del naufragio, è la Marina di "navi e poltrone", è il governo astuto e ganzo che maramaldeggia con l'India...

Fossimo in altri tempi e con altre grammatiche, onore, buon senso e fegato vorrebbero che il nobile Giulio Terzi di Sant'Agata e l'ammiraglio Giampaolo Di Paola si consegnassero agli indiani al posto dei due marò.

 

Pizzarotti dichiara guerra ai sindacati

Antonio Sciotto

Il sindaco toglie l'integrativo ai dipendenti comunali: «Via le organizzazioni, tratto con voi». Dopo i tagli agli stipendi del 2012, nonostante le promesse, è arrivata la decurtazione anche per il 2013. La Cgil: «E' peggio di Marchionne»

La «rivoluzione grillina» travolge il Comune di Parma, dove è guerra aperta tra i sindacati e il primo cittadino del Movimento 5 Stelle, Federico Pizzarotti. Il sindaco, fiore all'occhiello del moVimento fondato da Beppe Grillo, e suo ariete nello «sfondare» le porte delle istituzioni (ha aperto la strada prima verso la Sicilia e poi fino al Parlamento), si è scontrato con i dipendenti comunali, che dopo un braccio di ferro di vari mesi, giovedì scorso sono scesi in piazza. Ed essendo andato a incontrarli, fuori dal municipio, si è trovato al centro di una selva di fischi e addirittura anche di qualche «Vaffa» (chi di spada ferisce...). Pizzarotti non si aspettava un'accoglienza simile, anche perché nella battaglia per l'integrativo che ci disponiamo a raccontare, aveva anche tentato di «scavalcare» il sindacato, per parlare direttamente con i lavoratori. E in effetti, un mese e mezzo fa, racconta la Cgil, si era tenuta a Parma un'animata assemblea in cui il primo cittadino si era impegnato di fronte ai dipendenti del Comune (e in assenza dei funzionari di Cgil, Cisl e Uil, non invitati) a non operare tagli pesanti sui loro integrativi. Probabilmente i lavoratori gli avevano dato un'apertura di credito, ma poi anche la busta paga di febbraio - come d'altronde già quella di gennaio -si è rivelata pesantemente monca. Ma cosa è successo esattamente negli ultimi mesi? Ce lo racconta Sauro Salati, segretario della Fp Cgil di Parma. Ieri abbiamo anche cercato Pizzarotti, o un suo portavoce, ma dalla segreteria del sindaco non siamo riusciti a raggiungerli, nonostante diversi tentativi delle addette dell'ufficio. Parma, come si sa, è stata al centro negli ultimi due anni di diversi scandali e tracolli finanziari: il Comune, rovinato sotto l'amministrazione di centrodestra, è stato prima commissariato, e successivamente ha visto la vittoria del primo sindaco «grillino». In tutta questa confusione, i lavoratori del Comune - i cui stipendi base, come in tutta Italia, sono congelati dal 2010 - si sono comunque dati da fare. Aspettando un accordo per l'erogazione dell'integrativo 2012 che è arrivato soltanto nel dicembre scorso.«Abbiamo ampliato le classi delle materne per accorciare le liste di attesa - racconta Salati - I vigili urbani hanno accettato, nonostante fossero sotto organico, di fare anche i turni notturni. Abbiamo creato, caso quasi unico nel Paese, uno Sportello unico al servizio dei cittadini, dove puoi chiedere dalla carta di identità ai documenti per le imprese. A dicembre abbiamo accettato, viste anche le difficoltà obiettive del Comune, un taglio al fondo del nostro salario accessorio da oltre 900 mila euro a quasi 600 mila. Il che ha significato già pesanti tagli alle buste paga. Ma al tavolo prima di Natale, la segretaria generale del Comune si è impegnata a garantirci che anche per il 2013 i lavoratori non avrebbero perso l'integrativo». Promessa mantenuta? Manco per idea.«I lavoratori - continua Salati - hanno proseguito nell'erogare servizi di eccellenza, mentre Parma ha dovuto pagare il massimo dell'Imu, dell'imposizione Irpef, e diverse rette e tariffe sono aumentate. Mentre alcuni servizi venivano tagliati: ad esempio alle materne è stato deciso il taglio di 88 posti, nonostante il nostro impegno. Ebbene, comunque a gennaio è arrivata la doccia fredda: le buste paga dei lavoratori erano tornate al contratto nazionale base, perdendo ciascuno di loro dai 30-40 euro mensili a 150 e oltre».E sì, da gennaio a oggi (a marzo la busta paga sarà quasi certamente ugualmente decurtata) qualcuno dei dipendenti ha perso fino a 600 euro: chi ha perso meno, si aggira sui 150 euro. E Pizzarotti? Il sindaco ha deciso di non siglare nuovi integrativi con il sindacato: alle riunioni, le delegazioni del Comune hanno presentato cifre molto basse per il rinnovo, «irricevibili» secondo la Cgil, scendendo dai già decurtati 600 mila euro del 2012 a qualcosa inferiore ai 200 mila. Non sono state fatte cifre ufficiali, ma insomma stiamo là. Alla rottura del tavolo, e alla protesta indetta da Cgil, Cisl e Uil - «sempre con il mandato dei lavoratori», tiene a sottolineare il segretario Fp Cgil Salati - Pizzarotti, in pieno stile «grillino», il giorno del corteo e dei fischi ha preso carta e penna e ha scritto direttamente ai dipendenti comunali, annunciando che comunque prima o poi un integrativo arriverà. Ma, pare di capire, il sindaco vuole ripetere l'esperienza dell'assemblea con i lavoratori, senza i sindacati. Protesta la Fp Cgil, con il segretario nazionale Federico Bozzanca: «Esautorare i sindacati è un atto autoritario, nel solco della linea ideologica del M5S espressa dagli anatemi di Grillo. Stupisce che il sindaco Pizzarotti chieda di interloquire direttamente con i lavoratori senza i sindacalisti, esautorando perfino le Rsu elette dai lavoratori. Un atteggiamento che fa concorrenza al peggior Marchionne».

 

18 marzo

Cyber-censura, anche un’azienda italiana vende software ai regimi

Reporter Senza Frontiere le definisce "mercenari dell'era digitale" e le cita nel rapporto pubblicato il 12 marzo, insieme ai 5 "Stati nemici di internet": Bahrein, Siria, Cina, Iran e Vietnam. Tra le società c'è anche la Hacking Team di Milano

di Marco Quarantelli

Vendono i loro software di cyber-monitoraggio della rete a regimi dittatoriali che li utilizzano per dare la caccia ai giornalisti scomodi, stanare i blogger non allineati e reprimere i diritti fondamentali. Sono 5 aziende occidentali. Reporter Senza Frontiere le definisce “mercenari dell’era digitale” e le cita nel rapporto pubblicato il 12 marzo in occasione della Giornata Mondiale contro la Cyber-censura, insieme ai 5 “Stati nemici di internet”: Bahrein , Siria , Cina , Iran e Vietnam . Tra le aziende ce n’è anche una italiana, la Hacking Team di Milano . Mettono su un mercato da 5 miliardi di dollari due tipi di tecnologie: software in grado di monitorare la rete su larga scala e spyware capaci di sorvegliare singoli computer.

“I loro prodotti – si legge nel rapporto – vengono usati per commettere violazioni dei diritti umani e della libertà di informazione “. “Il mio pc era stato arrestato prima che lo fossi io”, raccontava il 15 novembre 2012 Karim Taymour, attivista siriano, ad un giornalista di Bloomberg . Durante l’interrogatorio, gli uomini di Assad gli avevano mostrato oltre mille pagine in cui erano riportate le sue chat su Skype e migliaia di altri file scaricati da remoto da un programma che aveva scandagliato il suo pc fin nell’ultimo, remoto andito dell’hard disk. “I suoi torturatori – si legge nel rapporto, conoscevano la sua vita quanto lui, come se avessero vissuto con lui nella sua stanza”. Avevano usato software prodotti da aziende occidentali. Reporter Senza Frontiere ne ha individuate 5. C’è la francese Amesys , che prima della Primavera araba aveva venduto a Muammar Gheddafi il sistema “Eagle”, capace di intercettare posta elettronica, Facebook e chat: il regime lo utilizzava per spiare giornalisti, attivisti e oppositori politici. Dal maggio del 2012 Amesys è sotto inchiesta in Francia per “complicità in atti di tortura”.

Gamma Group è una company inglese: secondo un rapporto del 25 luglio 2012 dell’organizzazione Citizen Lab , i suoi trojan sono stati usati per spiare vari docenti universitari britannici. Il software è talmente avanzato da riuscire a prendere il controllo della webcam e del microfono, copiare i file dal disco rigido e scaricare messaggi istantanei e mail. Blue Coat è un’azienda nata e cresciuta nella Silicon Valley . I suoi software sono stati utilizzati da Cina , India, Iraq , Russia, Kenya , Indonesia, Bahrein (secondo una lista, molto più lunga, stilata da Citizen Lab) per monitorare i pc degli oppositori e bloccare la diffusione di dati e contenuti. Trovicor , ex Nokia Siemens Network, invece, è una ditta tedesca che ha fatto affari con una lunga serie di Stati, dal Nord Africa al Golfo Persico: i suoi “monitoring center” hanno aiutato le autorità di vari Paesi protagonisti della Primavera araba a spiare i dissidenti e conoscere i luoghi e gli orari scelti per le manifestazioni di piazza, in modo da reprimerle prima che avessero luogo.

Poi c’è la milanese Hacking Team . Il suo gioiello è il Remote Control System , venduto a circa 50 clienti in 30 paesi di 5 continenti”, spiegava lo scorso agosto a Slate Magazine David Vincenzetti, cofondatore della compagnia. RCS è un file Trojan in grado di spiare chat di Skype e scattare istantanee con la webcam. Può infettare un pc tramite “l’apertura di un file di testo o l’invio di un sms”, recita la brochure, e “può monitorare fino a centinaia di migliaia di target.” Nel dicembre 2011 un’inchiesta dell’ Espresso basata su file pubblicati da Wikileaks definiva l’Rcs la “cyberbomba tricolore”. Nel 2012, secondo un’inchiesta di Slate.com , la tecnologia è stata utilizzata dalle autorità del Marocco per controllare i computer di Mamfakinch.com , citizen media project premiato nel luglio 2012 da Google e dall’organizzazione Global Voices per “la difesa e la promozione delle libertà di parola su internet”. Pochi giorni dopo il riconoscimento, scrive il magazine, i suoi giornalisti ricevettero una mail contenente il trojan progettato da Hacking Team. La politica arranca. Sia gli Usa che l’ Ue si sono dotati di strumenti legislativi mirano ad evitare “l’uso maligno delle tecnologie”. Ad aprile 2012 Obama aveva firmato un ordine esecutivo per bloccare le proprietà delle aziende che vendono i loro prodotti a Iran e Siria . L’11 dicembre, poi, il Parlamento Europeo ha approvato il il report Digital Freedom Strategy , che invoca il “bando delle esportazioni di tecnologie repressive verso i regimi autoritari” e chiede alla Commissione Ue di “agire contro la criminalizzazione della libertà di espressione in Rete”. Ma la strada verso il rispetto dei diritti fondamentali sul web resta ancora lunga.

Incentivi al fotovoltaico: vale la pena pagarli?

di Ugo Bardi

Sembra proprio che ci sia qualcuno che sta facendo un grande sforzo per convincerci che il fotovoltaico è soltanto un imbroglio costoso , per esempio confondendo gli incentivi per il fotovoltaico con quelli per gli inceneritori. A parte le leggende, tuttavia, possiamo dire che gli incentivi per il fotovoltaico sono oggi circa sei miliardi di euro all’anno e che si assesteranno a un massimo di 6,7 miliardi con la fine del “conto energia” prevista per quest’anno.

Per rendersi conto dell’entità di questa cifra, diciamo che sei miliardi di euro corrispondono a meno del 5 per mille del PIL italiano (circa 1500 miliardi di Euro) e meno dell’1% del totale della spesa pubblica (circa 750 miliardi di Euro). Possiamo anche calcolare che il “sistema Italia” spende circa 100 euro a persona all’anno per incentivare l’energia fotovoltaica . Sulla bolletta elettrica, i costi per gli incentivi alle rinnovabili li pagano più che altro le grandi utenze e li si possono calcolare come circa 48 Euro per famiglia in media, all’anno, su un totale di 494 euro all’anno.

Cosa ci ritorna indietro da queste spese? Beh, gli impianti fotovoltaici generano energia elettrica, hanno attirato investimenti in Italia (circa 20 miliardi di euro fino ad oggi), hanno generato un indotto in termini di posti di lavoro e di attività industriale, come pure esportazioni di prodotti ad alta tecnologia . Si calcola anche che l’energia fotovoltaica ci faccia risparmiare almeno 2 miliardi di euro all’anno in forma di spese evitate durante i momenti di massima richiesta energetica, specialmente in estate. Inoltre, l’abbassamento dei costi del fotovoltaico fa si che nel futuro non ci sarà più bisogno di incentivi per giustificare gli investimenti.

Si può ragionevolmente sostenere che questi vantaggi ripagano ampiamente i costi. Ma il punto è un altro: gli incentivi per il fotovoltaico sono soldi che rimangono in Italia o comunque all’interno dell’economia europea . Non è così per le importazioni di combustibili fossili, petrolio, gas e carbone, che, nel 2012, ci sono costate la bellezza di 66 miliardi di euro . Sono più di mille euro l’anno a persona che se ne vanno dall’Italia verso lontani paesi produttori.

I costi per importare energia sono oltre un terzo di tutti i costi per l’importazione di materie prime : un fardello c
he azzoppa tutta l’economia italiana. E, comunque uno la voglia vedere, i combustibili fossili non dureranno per sempre. Quindi, già oggi dobbiamo cominciare a pensare al futuro. Non è solo questione usare l’energia in modo più efficiente ma anche di produrla in Italia, anche se questo ci costa qualche qualche sacrificio. Non è che il fotovoltaico, da solo, possa risolvere il problema, ma è un passo nella giusta direzione e ci fa risparmiare sulle importazioni di gas. Insomma, alla fine dei conti, siamo o non siamo il “paese del sole”? Sfruttiamolo!

 

17 marzo 2001, prima di Genova ci fu Napoli

di Nello Trocchia

Ormai 12 anni fa. Perché prima di Genova, del fumo dei lacrimogeni, dei pestaggi, della sospensione dei diritti, delle lacrime per Carlo Giuliani ci fu Napoli. 17 marzo 2001 . La democrazia quel giorno morì di violenza, di manganelli, di una repressione che bisogna ricordare, come un dovere civile . Il giorno orribile come i giudici lo hanno definito nel processo celebrato a carico di alcuni agenti accusati di violenza e, perfino, di sequestro di persona. In quello stesso giorno alcuni manifestanti furono condotti alla caserma Raniero: botte e umiliazioni. Il processo si è concluso con la prescrizione, ma quella storia che è civile e collettiva non si prescrive.

Avevo le stampelle, ma andai in piazza lo stesso perché a venti anni, come canta il maestrone Guccini, si è stupidi davvero. E io ne avevo 18, stupido un po’ di più. Eravamo in tante e tanti, un fiume di volti attraversò la mia città. Si manifestava in occasione del global forum. Piazza Plebiscito era una fortezza dove si discuteva dell’e-government. Con Genova si completò il quadro e l’immagine di vertici della terra che decidevano i destini senza consultare i popoli, arrogandosi il diritto di una delega in bianco che nessuno gli aveva assegnato. Allora era difficile scendere in piazza, al governo c’era un centrosinistra che sperimentò la militarizzazione che trovò a Genova, nel luglio successivo, con le destre padrone del paese, il punto di non ritorno. Quel 17 marzo 2001 la democrazia morì per un giorno .

A quella comunità diversa e variegata, dipinta in ogni modo becero e insulso da fogli carichi di odio, fu riservata la stagione dell’indifferenza e del silenzio dagli apparati politici. Qualche cooptato in parlamento, ma quelle istanze: reddito minimo, tobin tax, il no alle guerre, il rischio finanziarizzazione dell’economia, furono completamente ignorate. Un movimento che commise errori, certo e anche tanti, ma quella piazza avrebbe preteso risposte e politiche . Arrivarono manganelli. Scrissi raccogliendo la storia di qualche amico che aveva subito, rimasto in mezzo mentre la violenza saliva. Inviai quella testimonianza a quanti scrissero il libro bianco su quei giorni. La scrittura anche allora fu strumento di estraniazione e rivalsa. Già allora si parlò del codice identificativo per gli agenti, anche in nome della stragrande maggioranza che fa il proprio dovere, e dell’introduzione del reato di tortura, entrambe le richieste restano ancora lettera morta.

Ricordo le cariche. Quando partirono, con le stampelle, guadagnai un vicolo mentre le forze, quel giorno, del disordine bloccavano ogni accesso a piazza Municipio. Il nostro rifugio fu un palazzo. Salimmo al secondo piano. Fu una giornata surreale con le idee tra le mani sporche di sangue che ti chiedevano se ne valeva ancora la pena mentre osservavi la schiena rigata di chi aveva subito le cariche e i freddi colpi dei manganelli. Ora a distanza di anni restano i processi alle violenze di stato finiti in prescrizione e i vertici del paese che, oltre un decennio dopo, parlano di reddito minimo, tobin tax e del fallimento della globalizzazione , di fatto moltiplicatore di debolezze, povertà e diseguaglianza.

Mi volto indietro. Sorrido a quei 20 anni e a noi che, allora, eravamo stupidi, davvero; resistenti che sognavano un altro mondo possibile. Un modo perché la politica recuperi quel giorno è l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta per capire cosa accadde quel 17 marzo 2001 quando morì la democrazia.

Se l'aeroporto dei Benetton si paga al casello

Dietro la fusione tra Atlantia e Gemina, una spregiudicata operazione finanziaria: tenere alti i pedaggi per finanziare l'aeroporto di Fiumicino Nord. Due monopoli privati, sulle spalle dei contribuenti, in barba all'interesse pubblico

In questi giorni si sta compiendo un’importante operazione industriale che riveste un rilevante interesse pubblico: l’incorporazione di Gemina in Atlantia. Atlantia e Gemina sono entrambe controllate dalla famiglia Benetton, la prima è proprietaria di Autostrade per l’Italia, gestore privato di gran parte della rete autostradale italiana, la seconda è proprietaria di AdR, altra società privata che gestisce gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino. Dopo la fusione questa sarà la catena di comando: Edizione – la “ cassaforte” dei Benetton – controlla il 66% di Sintonia, che a sua volta controlla il 46% di Atlantia-Gemina. Risultato: con un apporto del 30% del capitale, i Benetton sono a tutti gli effetti i padroni di Autostrade per l’Italia e di AdR (gli altri azionisti di minoranza sono sotto il 5% e ben il 42% è la quota flottante in borsa). Sin qui nulla di nuovo, è il sistema delle ‘scatole cinesi’ con il quale – non solo in Italia – si comandano le spa senza eccessive esposizione finanziarie.

Il motivo dell’operazione lo rivela candidamente l’amministratore delegato di Atlantia – Giovanni Castellucci – con una lunga intervista pubblicata su Il Sole-24 Ore del 10 marzo. Vale la pena di riportare testualmente le sue parole, perché il ragionamento è cristallino: “Abbiamo tra 4 e 5 miliardi di investimenti per la realizzazione delle terze corsie (…) che non sono state ancora autorizzate, anche perché l’utilità di alcune è stata obiettivamente rimessa in discussione dai livelli di traffico più bassi del previsto. E poi c’è la Gronda di Genova, opera da più di 3 miliardi su cui c’è un punto interrogativo, soprattutto di carattere politico”. E poi: “Atlantia avrà investimenti che cominceranno a flettere già dai prossimi anni (…) ed il gruppo si troverà con un cash flow che potrà essere utilizzato a supporto degli importanti investimenti del Contratto di Programma AdR”.

Per capire appieno il significato di queste affermazioni bisogna fare un passo indietro e spiegare come funziona la regolazione del settore autostradale in Italia. Da sempre – da quando la Società Autostrade era dell’IRI, cioè pubblica – i pedaggi autostradali sono serviti non solo per sostenere i costi di manutenzione e gestione dell’infrastruttura, ma anche per finanziare gli investimenti per il potenziamento della rete. Così si sono costruite le autostrade italiane negli anni ’60/’70 e così sono state ulteriormente potenziate sino a tempi recenti, anche quando i gestori sono diventati privati (ma, non è male ricordarlo, l’infrastruttura è rimasta di proprietà dello Stato). Ora che cosa succede? Succede che gli ulteriori potenziamenti della rete autostradale sono sottoposti a pesanti critiche, o perché non c’è abbastanza traffico, o perché le popolazioni locali non le vogliono. E allora che si fa?

Facciamo un altro passo indietro. Come qualcuno denunciò prima e dopo la vendita della Società Autostrade ai Benetton, i pedaggi autostradali sono troppo alti. In questo modo si generano extra-profitti: Atlantia nel 2011 e nel 2012 ha portato a casa oltre il 20% di utili, al netto degli oneri finanziari e delle tasse; un risultato che in altri Paesi avrebbe fatto scalpore, visto che si tratta di un privato che sta gestendo un bene dello Stato. E, cosa forse ancora più importante, si generano extra-ricavi: sempre nel 2011 e nel 2012 Atlantia ha incassato dai pedaggi circa 3,3 miliardi di euro. Un sacco di soldi, ma come si fa a dire che sono extra-ricavi? Basta guardare i costi operativi, cioè quelli effettivamente associati alla gestione delle autostrade: sono “solo” 1,5 miliardi. La differenza tra ricavi da pedaggio e costi operativi è dunque enorme (circa 1,8 miliardi l’anno) e con questa si assicurano gli extra-profitti ai Benetton e si genera il cash flow di cui parla Castellucci. Fino a tempi recenti – come già detto – questo enorme cash flow era usato per finanziare l’estensione e l’ammodernamento della rete autostradale, che però ora non si può fare più. Ecco allora che entra in gioco la fusione Atlantia-Gemina: il cash flow generato dai super-pedaggi autostradali potrà essere utilizzato per la costruzione dell’aeroporto di Fiumicino Nord (sui terreni di una società sempre dei Benetton, ma questa è un’altra storia…).

Due punti prima di concludere.

1. Stiamo parlando di miliardi di euro e lo stiamo facendo in un periodo in cui siamo bombardati da un messaggio univoco “non ci sono i soldi” (per l’assistenza, per l’edilizia pubblica, per la sanità, per la scuola e l’università, per la ricerca e la cultura, ecc.). E, siccome non ci sono i soldi, si tagliano le pensioni o si aumentano le tasse sulla casa, con interventi di finanza pubblica che sono dello stesso ordine di grandezza: appunto, miliardi di euro.

2. I pedaggi sono molto più alti di quanto servirebbe a ricoprire i costi di gestione delle autostrade: potrebbero essere tranquillamente dimezzati, lasciando ai Benetton profitti soddisfacenti. (Giorgio Ragazzi, nel suo libro “I signori delle autostrade”, ha scritto che le autostrade dovrebbero essere gratuite…). Il cash flow generato è stato usato in passato per costruire nuove strade e ora lo si vuole usare per potenziare il principale aeroporto del Paese. Ma siamo sicuri che non ci sia un modo migliore di usare questo fiume di danaro? Non ci sono altri investimenti che dovrebbero avere la precedenza? Un piano di edilizia pubblica? La messa in sicurezza del territorio e delle scuole? Il potenziamento delle ferrovie regionali e metropolitane?

Chi scrive è perfettamente consapevole che i piani d’investimento di Atlantia, Gemina – e di tutti gli altri concessionari privati di infrastrutture pubbliche – sono sanciti da Contratti di programma sottoscritti dallo Stato italiano. Ma è anche risaputo che la pianificazione del settore autostradale (e aeroportuale) è da sempre in Italia “in ostaggio” dei concessionari: sono questi infatti a mettere in campo una pressione colossale, capace di condizionare le scelte della controparte pubblica, che a sua volta è spesso connivente per motivi elettoralistici (la nuova bretella o l’ammodernamento dell’aeroporto nel mio collegio…) o, peggio, mera corruzione (la tangente “modello Penati”…).

Non è allora venuto il momento di aprire una discussione pubblica su tutta la vicenda, riscrivere i contratti di programma e farla finita con lo strapotere privato cresciuto intorno alle infrastrutture pubbliche? Non sarebbe il caso di imporre dei canoni di concessione ai gestori di autostrade ed aeroporti in maniera tale che extra-profitti e cash flow tornino allo Stato? E che sia lo Stato a decidere sul loro uso? Che tutto ciò sia possibile è consapevole persino Castellucci, che infatti ricorda che per il momento la fusione Atlantia-Gemina è stata solo approvata dai rispettivi consigli d’amministrazione e che vi è ancora “una serie di condizioni sospensive tra cui la registrazione della Corte del Contratto di programma di AdR”. Chissà che il nuovo Parlamento non riesca a bloccarla e a riscrivere – per una volta nell’interesse pubblico – le regole di questo importante (e ricco) settore?

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte : www.sbilanciamoci.info.
 

12 marzo

 

Depressione da 100 miliardi

Allarme per gli effetti del lavoro su chi un posto ce l'ha. Sono 33 milioni gli europei che soffrono per l'umore nero. Una parlamentare irlandese invita i governi a occuparsi del problema. Subito...

Di questi tempi non fa male solo l’occupazione che non c’è. Pure chi un impiego è riuscito a conquistarlo, o a difenderlo, ha buone opportunità di ritrovarsi a vivere tempi duri. Un’eurodeputata irlandese indipendente, Marian Harkin, ha lanciato l’allarme per il diffondersi della depressione sul posto di lavoro. Secondo i dati in suo possesso, è un problema che colpisce 33 milioni di cittadini comunitari e grava per qualcosa come 110 miliardi l’anno alle casse pubbliche degli stati Ue e al sistema delle imprese, con costi di competitività che si possono solo immaginare.
E’ l’altra faccia della medaglia. La gente si dispera perché è costretta a restare a casa e trovare espedienti per sbarcare il lunario. Nel frattempo, le condizioni per chi è attivo sono peggiorate. Più pressione, più carico, più concorrenza, più instabilità. Secondo le stime raccolte dall’European Depression Association - un'alleanza di organizzazioni, pazienti, ricercatori e professionisti della sanità di 17 Paesi europei – sono 21 mila le giornate di lavoro trascorse a casa per l'impossibilità di affrontare una situazione lavorativa e 36 mila i giorni di lavoro persi per episodi di manifesta depressione. Si scopre che il mondo del lavoro e della produzione soffrono tanto di assenteismo, quanto di “presenteismo”, come si definisce la condizione di chi va comunque in ufficio mentre è malato, con evidenti perdite in termini di produttività.
La Signora Harkin chiede che l’Unione intervenga con programmi ad hoc e con azioni per migliore le condizioni di lavoro, solo in apparenza rosee. “le statistiche dicono che il presenteismo da solo costo al Regno Unito 15 miliardi di euro l’anno”. Che fare? “le legislazioni nazionali dovrebbero occuparsi di prevenzione, screening e diagnosi della depressione”, afferma l’irlandese. Magari senza lasciare passare troppo tempi. Il passare degli anni come il perdurare della crisi e l’aumentare della competitività globale, se ne conclude, non potrà che peggiorare la situazione.

 

4 marzo

 

 

Il bivio di Bersani

Norma Rangeri

Quando nell'autunno del 2011 chiedevamo di andare al voto contro chi, invece, preparava la soluzione nefasta del governo tecnico, ci veniva rimproverato lo scarso senso di responsabilità. Eravamo la solita sinistra radicale, lontana dalle esigenze del paese, viziata dal massimalismo, affezionata al tanto peggio tanto meglio. «O Monti o il caos», era il ritornello con cui si tacitavano le voci che, al contrario, polemizzavano contro la sordità di chi non riusciva a intercettare il sentimento post-referendario di un'opposizione larga, profonda, priva ormai di rappresentanza. Persino Nichi Vendola, pur alleato di Bersani, era considerato un residuo estremista da riportare all'ovile della consapevolezza, un ostacolo anziché un ponte verso uno scontento stellare alimentato da una crisi economica senza fine.
Ora che le urne hanno rivelato tutta la distanza tra i partiti e la società, ora che il Pd è costretto a fare i conti con i quattro milioni di voti perduti, ci sarebbe da aspettarsi un rapido rinsavimento, una decisa sterzata, un vero cambio di rotta.
Ancora scosso dall'esito del voto, nella notte elettorale Bersani ha detto di volersi assumere «la responsabilità» di indicare una direzione per il nuovo governo. E ieri ha spiegato che rispetterà il ruolo di primo partito conquistato dai grillini, annunciando un'agenda di governo centrata sui temi delle riforme istituzionali e della morale pubblica. È un primo passo. Timido, come di chi deve ingoiare una pillola amara, mentre sarebbe questo il momento per rivolgersi con decisione verso gli interpreti, dalle Alpi alla Sicilia, della protesta e della proposta di una nuova stagione politica.
Se la sente il gruppo dirigente del Pd di sfidare, e anche di stanare, i deputati e i senatori a 5 stelle per ottenerne la fiducia su una vera legge contro il conflitto di interessi? È nelle condizioni, il Pd, di garantire un effettivo abbattimento delle spese della «casta», una campagna a favore dell'acqua pubblica, contro le grandi opere, contro gli F35, e, a proposito di un'altra Europa, per l'istituzione del reddito minimo?
Ma c'è un altro aspetto, non meno rilevante, dell'agenda-Bersani. Riguarda la natura del partito. Le primarie sono rimaste un'eccezione alla regola. Lo scandalo Mps ha azzoppato la campagna elettorale e accomunato l'immagine del Pd al sistema politico. Confermando l'atteggiamento, sempre forte e respingente, di chi vive con una rendita di posizione. Del resto, forma e contenuto, anche in politica, camminano insieme.
Una incapacità di cambiare contagiosa. Nonostante le sollecitazioni di un movimento nuovo come «Cambiare si può», la sinistra, da Sel a Ingroia, non è stata capace di accompagnare queste battaglie con un altrettanto radicale mutamento delle forme della rappresentanza, del modo di fare politica, rimanendo prigioniera di ideologie e partitini che già nel 2008 avevano fatto fallimento. Ormai le prove d'appello sono davvero finite.
Analizzeremo e impareremo a conoscere meglio questa nuova, giovane classe dirigente grillina. Una crescita così impetuosa naturalmente raccoglie a sinistra ma anche, e molto, a destra, tra la Lega che dimezza i voti, nel mare del Pdl che di voti ne perde sette milioni. Ma per quel che abbiamo finora seguito e indagato dell'universo grillino, sappiamo che una parte importante delle idee e delle pratiche del movimento a 5 stelle insistono sul tema dell'ambientalismo, della riconversione industriale secondo i principi della sostenibilità, dell'acqua pubblica, del no alla Tav... . E non a caso le prime parole di Vendola sono state proprio su questi temi, rivolte all'unico interlocutore che, nei territori e in parlamento, le può condividere.
Naturalmente il centrosinistra deve sapersi difendere dalle sirene assordanti già all'opera. Come in un gioco dell'oca, il giorno dopo dopo la rivoluzione elettorale, con il Movimento 5 stelle diventato il primo partito, il presidente della repubblica (chissà, forse questa volta più sensibile all'eco del boom grillino) è volato dalla cancelliera Merkel. Un viaggio accompagnato dall'orchestra europea che già suona la danza dello spread, mentre il professor Monti batte i tamburi a palazzo Chigi convocando un gabinetto di guerra con Grilli (il ministro) e il Governatore di Bankitalia. Sembra di essere tornati alla casella iniziale, ai mesi fatali del novembre del 2011, all'inizio della fine, quando il capo dello stato affidò «al professor Mario Monti l'incarico di formare un nuovo governo, aperto al sostegno e alla collaborazione da parte sia dello schieramento uscito vincente dalle elezioni del 2008 sia dalle forze collocatesi all'opposizione». Sbagliare è umano, perseverare sarebbe diabolico.

 

Boom delle morti sul lavoro

Roberto Ciccarelli

Il presidente Inail Giuseppe Lucibello annuncia: «Nel 2012 le vittime sono il 3% in meno rispetto al 2011». È polemica con la Cgil: «Le vittime non sono diminuite come sostiene l'Inail, ma sono il 28% in più»

Quella tra lavoro nero e lavoro sotto contratto è una terra di nessuno. Nell'edilizia, ad esempio, non permette di comprendere quante sono le morti o gli infortuni sul lavoro. Lo dimostra la polemica che ha contrapposto ieri il direttore generale dell'Inail, Giuseppe Lucibello, a Walter Schiavella, segretario generale della Fillea-Cgil. Lucibello si è presentato ai microfoni di Radio 1 Rai per anticipare una buona notizia: il 2012 avrebbe confermato il trend discendente degli infortuni e delle morti bianche. A fine anno risultavano 654 mila denunce per infortuni, una riduzione del 9% rispetto alle 726 mila denunce del 2011. Sempre nel 2012 sarebbero stati 870 gli incidenti mortali in tutti i settori del lavoro, con una flessione di almeno il 3% rispetto ai 893 decessi nel 2012. Sono numeri che nascondono tragedie, omissioni, colpe gravissime, e spesso taciute, e per questo risulta difficile scorrerli come un ordinario rosario statistico. Ma provare a guardarci dentro, può essere utile per comprendere come si lavora oggi nell'edilizia, un campo paradigmatico per comprendere l'economia del «sommerso» che in Italia è pari al 25% del Pil. È in questo regno degli invisibili che lavorano sempre più spesso anche i migranti e le donne. Scorrendo i dati forniti da Lucibello, e contestati dalla Cgil, emerge la realtà della crisi. L'Inail sostiene che la diminuzione dei cantieri ha pesato per il 50% sul calo degli incidenti mortali e degli infortuni, soprattutto nell'agricoltura e nei settori dove sono più frequenti i controlli e la prevenzione da parte dell'ispettorato del lavoro. «Al prossimo governo - ha detto Lucibello - l'Inail chiede di mantenere la massima attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro». Una volta appreso che l'Inail ha anticipato i dati sull'andamento degli infortuni, che dovrebbero essere presentati ufficialmente ad aprile, Schiavella della Fillea-Cgil, ha provato a scalfire la montagna delle verità apparentemente incontrovertibili. A iniziare dal dogma della «statistica ufficiale». La contabilità generale sugli infortuni e le morti bianche è fortemente influenzata dal settore edile, il più numeroso rispetto a quello metalmeccanico, agricolo o tessile. Non conoscere con precisione i numeri di questo settore significa influenzare la contabilità generale e nascondere gli aspetti più inquietanti. «L'Inail continuerà a dare numeri virtuali e non reali - sostiene Schiavella - finché non ci sarà un sistema statistico che incroci i suoi numeri con quelli delle Casse edili». In altre parole, non si capirà mai la reale situazione della sicurezza sul lavoro finché non si incroceranno i dati sul numero degli addetti regolari e quelli sulle ore lavorate. La Cgil ha provato a farlo e il risultato è diverso dalle previsioni rassicuranti dell'Inail. E questo perché una parte sempre crescente del lavoro edile, o agricolo, si è spostato verso il nero, la terra di nessuno dove la statistica arriva difficilmente, restando al buio. «Gli infortuni sono cresciuti di quasi il 6% - continua Schiavella - i morti non sono diminuiti ma aumentati di quasi il 28%». Ma non è tutto perché, sotto ricatto, i lavoratori sono spinti a non denunciare gli infortuni meno gravi. Se ne restano a casa, zitti, in cambio di un risarcimento in nero. Anche l'idea che la chiusura dei cantieri sia stata provocata dalla crisi viene contestata dalla Cgil. Incrociando il dato degli infortuni e dei morti totali in rapporto al numero degli addetti, viene dimostrato che le morti bianche e gli infortuni nell'ultimo anno sono aumentati addirittura del 13,25% (infortuni) e del 47,19% (i decessi). «In questi anni - aggiunge Schiavella - l'unica regola che ha governato l'edilizia è stata quella del laissez-faire e i dati del disastro occupazionale e di quello dell'irregolarità e delle infiltrazioni criminali ne sono la testimonianza».

 

Trasporto su gomma, i costi ambientali: in Italia danni per 15,5 miliardi di euro

Il rapporto dell'Agenzia europea dell'Ambiente: l'inquinamento atmosferico nel suo insieme causa 3 milioni di giorni di assenza per malattia e 350 000 morti premature in Europa. Il solo costo sanitario dell'inquinamento prodotto dai mezzi pesanti è pari a 45 miliardi di euro

di ANTONIO CIANCIULLO

Roma - Con buona probabilità il prossimo governo nascerà attorno a pochi punti programmatici più che su un'alleanza politica. E dall'Europa oggi arriva un suggerimento. Il trasporto su gomma, sovvenzionato con fondi pubblici, produce solo in Italia danni per 15,5 miliardi di euro. Quasi la metà di questa cifra viene dai camion che, nel nostro paese, movimentano una percentuale anomalmente alta di merci. I dati sono contenuti in un rapporto dell'Agenzia europea dell'ambiente. Secondo l'Aea nel complesso l'inquinamento atmosferico causa 3 milioni di giorni di assenza per malattia e 350 000 morti premature in Europa. Il solo costo sanitario dell'inquinamento prodotto dai mezzi pesanti è pari a 45 miliardi di euro.

Un problema che la direttiva Eurovignette 2011 ha provato ad arginare stabilendo il modo in cui gli Stati possono incorporare nei pedaggi per le strade di scorrimento e le autostrade i costi sanitari derivanti dall'inquinamento atmosferico. In questo modo si possono incamerare le entrate per migliorare la rete del trasporto sostenibile senza incidere sulla fiscalità ordinaria. "Le economie europee fanno affidamento sulle lunghe distanze per il trasporto di merci", afferma Jacqueline McGlade, direttore esecutivo dell'Aea. "Ma per fare bene i conti bisogna calcolare anche il costo nascosto, pagato in anni di salute precaria e vite perse. Un costo particolarmente elevato per coloro che vivono lungo le maggiori vie di trasporto europee".

La relazione dell'Agenzia

europea dell'ambiente rileva che, pur essendo l'inquinamento atmosferico diminuito in modo significativo negli ultimi anni, il problema resta acuto in alcune parti dell'Europa, compresa la pianura padana. Le emissioni di scarico provenienti dai motori a gasolio infatti sono state recentemente etichettate come cancerogene dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.

L'impatto sanitario ed economico potrebbe essere ridotto con un pacchetto di interventi articolato. Il primo passo consiste nell'aumentare la quota di merci trasportata su ferro e su nave. Il secondo nel passare da autocarri euroclass IV e V a mezzi nuovi che provocherebbero il 40-60% di costi esterni in meno. La relazione sottolinea il fatto che facendo pagare alle compagnie di trasporto i danni ambientali e sanitari si incentiverebbero tecnologie più nuove e più pulite.

"In un governo di cambiamento una drastica revisione delle politiche di trasporto dovrebbe avere un ruolo importante", ricorda Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd. "Secondo i dati del rapporto Pendolaria di Legambiente sull'autotrasporto sono piovuti dal 2000 al 2012 oltre 5,4 miliardi di euro in un paese dove il trasporto merci è dominato, con oltre il 90%, dalla gomma. Gli incentivi riguardano fondi diretti al sostentamento del settore, sconti sui pedaggi autostradali, riduzioni sui premi Inail e Rca, deduzioni forfettarie non documentate. In totale una media di circa 500 milioni l'anno. Potrebbero essere spesi meglio".

 

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