Scrivevamo questa mattina. “Se esiste ancora un residuo di sistema Italia, se
esiste ancora un senso per la politica, oggi bisognerà salvare il soldato
Terzi”. Scrivevamo dopo aver parlato con un ambasciatore che lo conosce
benissimo: “Vedrai, è capace di tutto, è pronto a distruggere l’Italia pur di
rimanere a galla”. Speravamo che quel che rimane del sistema poltiico italiano
riuscisse a frenare Terzi in alzate d’ingegno che erano state messe in conto da
chi lo conocce bene. Difficile credere che il tradimento del Ministro degli
Esteri si spingesse a tanto: a dimettersi da un governo dimissionario, facendo
finta di essere lui quello che voleva essere il salvatore dei marò ma glielo
hanno impedito!
Scrivevamo: “La scarsa attitudine etica e professionale di Giulio Terzi hanno
prodotto danni alla Repubblica italiana come mai un singolo uomo aveva
inflitto”. Non immaginavamo che il sabotaggio potesse spingersi ancora in
avanti. Non fino a questo punto, non con questa spudoratezza. Onore al ministro
della Difesa Giampaolo Di Paola: il suo comportamento, il disprezzo che si
leggeva sul suo volto nel momento in cui Terzi annunciava trucco mediocre delle
dimissioni (quale candidatura gli è stata promessa? Quella a sindaco di
Bergamo?), la serietà con cui ha esposto il dolore per non essere riuscito a
riportare a casa i fucilieri cancellano ogni possibile errore, ogni possibile
opacità di comportamento. Una magra consolazione, di fronte al
ministro-Schettino che abbandona la nave-Italia nel momento più buio della
storia della Repubblica.
25 marzo
Il mercato delle armi non
conosce crisi. E la Cina è sempre più leader
Nell'ultimo quinquennio le esportazioni dell'industria bellica di Pechino
sono aumentate del 162% rispetto al periodo precedente, contro una media del 17
per cento. Regno unito superato in classifica. E l'Italia compensa la frenata
europea
di Matteo Cavallito
La Cina avanza anche nelle armi. Nel corso del quinquennio 2008-2012, le
esportazioni di armi convenzionali nel mondo sono cresciute del 17%, una forte
espansione cui ha contribuito in modo decisivo l’industria cinese le cui vendite
all’estero sono aumentate del 162% rispetto al periodo precedente (2003-07). Una
performance che ha consentito a Pechino di superare in classifica il Regno Unito
entrando a far parte del club dei primi cinque esportatori di armi del mondo per
la prima volta dalla fine della Guerra Fredda. Lo ha riferito lo Stockholm
International Peace Research Institute (Sipri) nel suo ultimo rapporto
pubblicato.
A
mantenere la leadership nel mercato mondiale sono sempre gli Stati Uniti con una
quota pari al 30% dell’export globale. A tallonare Washington c’è ovviamente la
Russia (26%) mentre Germania (7%) e Francia (6%), terza e quarta
rispettivamente, seguono a debita distanza. La Cina, come si diceva, ha
effettuato il balzo decisivo negli ultimi anni arrivando a conquistare quota 5%
contro il 2% del quinquennio precedente. Determinante, per il successo delle
armi di Pechino, la crescente domanda del Pakistan, come ha confermato il
direttore del Sipri Arms Transfers Programme, Paul Holtom, in una nota ufficiale
del centro di ricerca svedese. Le forniture cinesi, ha precisato,
raggiungerebbero comunque un crescente numero di Stati.
Nella classifica delle importazioni, rivela ancora il SIPRI, Pechino si piazza
al secondo posto con il 6% della quota complessiva globale dietro all’India,
prima assoluta con il 12% dell’import planetario. Pakistan (5%), Corea del Sud
(5%) e Singapore (4%) completano una Top Five globale interamente asiatica. Tra
gli altri aspetti significativi del rapporto si segnala la leadership russa
nelle esportazioni di armamenti convenzionali verso il Venezuela (il 66%
dell’import di Caracas) e, soprattutto, la Siria (dove si raggiunge il 71%).
Impressionanti, poi, i numeri dell’Africa: nell’ultimo quinquennio le
importazioni del Continente sono cresciute del 104% rispetto ai cinque anni
precedenti ma il traino viene in pratica dal solo Nord Africa dove l’import è
aumentato del 350% contro il 5% delle nazioni sub sahariane.
Alla forte domanda del mercato orientale e africano si è contrapposta negli
ultimi anni la significativa riduzione della spesa europea. Le importazioni del
Vecchio Continente si sono ridotte del 20% nell’ultimo quinquennio a seguito di
vari fattori a cominciare dalla conclusione del conflitto in Iraq e dal
ridimensionamento della presenza militare in Afghanistan. Determinante, poi,
l’effetto della crisi e dei conseguenti programmi di austerity. Negli ultimi 5
anni le importazioni di armi da parte della Grecia sono diminuite del 61%
facendo precipitare il Paese dal 4° al 15° posto nella classifica delle
importazioni del Pianeta.
E l’Italia? Nel rapporto Sipri non se ne parla ma i dati, ovviamente, non
mancano. Tra il 1990 e il 2011, ricordano Duccio Facchini, Michele Sasso e
Francesco Vignarca nel loro “Armi, un affare di Stato – Soldi, interessi,
scenari di un business miliardario”, Roma ha autorizzato export di armamenti per
44 miliardi di euro. Tra il 2006 e il 2010, poi, la Penisola ha compensato da
sola il 14% delle esportazioni europee (pari nel loro complesso a quasi 165
miliardi di euro). Un business di successo che ha coinvolto tanto il sistema
bancario quanto la regina del settore, quella Finmeccanica protagonista negli
ultimi due anni di una serie infinita di guai giudiziari.
Il nostro meraviglioso Paese
di Carlo Cipiciani
Il
nostro è un Paese meraviglioso, unico al mondo; non solo per bellezza, clima,
cibo, ma anche per i suoi magnifici abitanti. I quali, tra tante qualità sono
dotati di un inarrivabile senso per il comico, così spiccato che in Politica
hanno comandato a lungo comici dilettanti ed ora che il gioco si fa duro stanno
entrando in campo i professionisti. Un Paese dove ieri ci si vantava di non aver
studiato (tanto a che serve?) ed oggi di essere “impresentabili”.
A volte capita però questo senso del comico debordi e superi il limite umano,
per entrare nel divino. Un esempio? Il Dipartimento delle Finanze sforna i dati
sulle dichiarazioni dei redditi; e viene fuori, come ogni anno, che i dipendenti
dichiarano redditi superiori ai loro datori di lavoro. E nessuno apre bocca.
Non solo: si scopre, per l’ennesima volta, che su oltre 40 milioni di
contribuenti solo 426 mila italiani dichiarano più di 100mila euro di reddito. E
solo 31mila più di 300mila euro. Bene: solo nel nostro meraviglioso Paese il
giorno che escono dati così si fa una manifestazione di piazza “contro il fisco
oppressivo”.
E, soprattutto, nessuno si sente ridicolo.
Tagli all'istruzione, l'Ue
contro l'Italia
Uno studio della Commissione europea rivela che tra i 27 il nostro è il Paese
che ha ridotto di più i bilanci del settore: -10,4% tra il 2010 e il 2012. "C'è
bisogno di un approccio coerente, questa è la chiave del futuro dei nostri
giovani e della ripresa economica"
di SALVO INTRAVAIA
Una manifestazione studentesca contro i
tagli L'Italia
ha tagliato più di qualsiasi altro Stato europeo sull'istruzione e da Bruxelles
arriva una autentica strigliata. "Sono tempi difficili per le finanze nazionali
ma abbiamo bisogno di un approccio coerente in tema di investimenti pubblici
nell'istruzione e nella formazione poiché questa è la chiave per il futuro dei
nostri giovani e per la ripresa di un'economia sostenibile nel lungo periodo".
Come dire: la crisi c'è ma occorre capire cosa tagliare. La tirata di orecchie
all'Italia arriva direttamente dalla Commissione europea che ha passato in
rassegna i bilanci dei 27 Paesi membri scoprendo che negli ultimi tre anno
soltanto otto hanno tagliato sull'istruzione. E l'Italia è la prima.
"Se gli Stati membri non investono adeguatamente nella modernizzazione
dell'istruzione e delle abilità - ha affermato Androulla Vassiliou, commissario
europeo responsabile per l'istruzione, la cultura, il multilinguismo e la
gioventù - ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri concorrenti
globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della disoccupazione
giovanile". Un vero e proprio avvertimento neppure troppo velato al nostro Paese
che soprattutto dopo il 2008 - con le riforme Gelmini - ha cominciato a tagliare
su scuola e università senza troppi scrupoli e che adesso trova mille difficoltà
a gestire e ad uscire dalla crisi economica globale degli ultimi tre anni.
Ma non tutti i Paesi alle prese con la crisi hanno tagliato sull'istruzione.
Lussemburgo, Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Turchia - solo per citare
alcuni Stati dell'Ue o candidati a farne parte - nonostante le difficoltà hanno
scommesso sulla scuola incrementando le risorse. In testa la Turchia che fa
registrare un più 16,5 per cento, seguita dal Lussemburgo col 7,4 per cento in
più in appena due anni. Grecia, Italia e Inghilterra in coda. Col nostro Paese
che dal 2010 al 2012 ha tagliato il bilancio della scuola - dalla materna alle
superiori - del 10,4 per cento. Una sforbiciata accompagnata dal taglio di quasi
100mila cattedre e da un alleggerimento dei conti anche dell'università: meno
9,2 per cento in 24 mesi.
Lo studio della Commissione europea prende in considerazione anche l'impatto dei
tagli sul numero di insegnanti, che in Italia - dal 2000 al 2010 - è calato
dell'11,1 per cento mentre in Germania si è incrementato del 13,0 per cento.
Così com'è avvenuto in Finlandia (più 12,9 per cento), in Svezia (più 21,9 per
cento) e Norvegia. L'esecutivo Ue stigmatizza anche gli effetti della crisi
sulle buste paga degli insegnanti - che pesano per il 70 per cento della spesa
scolastica - congelate o addirittura ridotte in 11 Paesi, Italia compresa.
I laureati all'estero
Nel 2012 si contano circa 200.000 disoccupati tra
gli under 35 laureati: i dati Istat sulla disoccupazione tra i laureati in
questa infografica di Centimetri:
22 marzo
L'onore perduto della
democrazia
di FRANCESCO MERLO
L'Italia
rispedisce i due marò in India.
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Governo italiano: "Non ci sarà pena di morte"
Dignità voleva che questi nostri poveri marò tornassero in India rispettando la
parola data perché pacta sunt servanda soprattutto per i soldati scelti.
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ci tornano invece sbertucciati, piegati
dal fardello di un disastro diplomatico. Esposti alla gogna per colpa
soprattutto di un ministro degli Esteri che ha cercato di costruire sulla loro
fuga un futuro politico, ed eventualmente anche elettorale, a destra. E non
stiamo parlando della destra dei valori e della patria, la destra dei tratti
eroici, che so?, del duca d'Aosta o di Cesare Battisti o di Enrico Toti, ma
della destra badogliana del "tutti a casa".
Il ministro Terzi e il suo sodale Di Paola, ministro della Difesa, - nientemeno
un ammiraglio che ha studiato al Morosini! - hanno infatti trasformato questi
due apprendisti eroi in una coppia di esodati, esponendoli adesso, con il
ritorno obbligato, al pericolo vero, il pericolo peggiore per un soldato e per
un governo: il disonore.
Solo ora infatti il processo diventa a rischio, perché i nostri due "marines",
vale a dire il meglio delle nostre forze armate, non saranno più considerati
come due fucilieri di Marina di un Paese amico, due militari in attesa di
giudizio, ma come due prove sfacciate e schiaccianti non di omicidio ma di
furbizia umiliata, i rappresentanti di un'Italia volgare e truffaldina, subito
piegata però dalla forza di un brutto atto di rappresaglia.
Sino a un mese fa i truffaldini sembravano gli indiani. Perché i due poveri
pescatori morti forse non erano pescatori. Perché le acque in cui sono morti
erano internazionali. E perché i nostri soldati si erano sempre comportati da
soldati. E i soldati non sparano sui pescatori e, più in generale, sui
lavoratori, in mare come in terra. E che fossero soldati lo avevano dimostrato
non scappando subito dopo l'incidente, ma presentandosi alle autorità di polizia
locali. E ancora, ottenuta e goduta la licenza per il Natale in patria,
riconsegnandosi puntualmente ai loro giudici, benché sia controversa la
legittimità del tribunale indiano.
Adesso che invece tornano perché gli indiani hanno sequestrato il nostro
ambasciatore, violando a loro volta le regole internazionali, i due soldati
diventano davvero prigionieri, e non più della Giustizia indiana e dei suoi
tribunali ma di un'arroganza da ritorsione. L'India che li accoglierà non è
infatti la stessa India che diede loro il permesso di partire: è un'India che si
è sporcata con un sequestro di persona che non ha precedenti nel mondo
diplomatico civile e che l'Italia furbastra di Terzi e di Di Paola non sa più
come affrontare se non con la resa, la cosiddetta calata di braghe.
C'è purtroppo una parte dell'Italia che pensa all'India come a una terra di
straccioni in costume esotico dimenticando che è invece la più grande
democrazia, una potenza nucleare, un mastino dell'economia internazionale e,
assieme alla Cina, agli Stati Uniti e alla Russia, uno dei paesi più importanti
dello scacchiere mondiale. È inoltre uno dei principali membri delle nazioni
emergenti del Brics che insidiano il primato occidentale (Brasile, Russia,
India, Cina, Sudafrica e presto anche la Turchia).
Ebbene, l'idea razzistoide che gli indiani siano selvaggi, diffusa
sgangheratamente dai giornali di Berlusconi, fa il paio, per stupidità, solo con
l'idea che la fuga possa essere una vittoria e che il tradimento diventi un
blasone. Ancora ieri sera Alfano e la Santanché definivano "orgoglio nazionale"
quella fuga dalla responsabilità dei due marò che nei codici della destra a cui
si richiamano è invece fellonia. È una maionese impazzita di valori: pretendono
di vestire la bandiera di viltà e fondano il patriottismo sulla figuraccia
internazionale.
Spiace che Mario Monti, chiamato alla massima responsabilità proprio in virtù
del suo prestigio internazionale, concluda la sua vicenda di statista con questo
desolante pasticcio di politica estera. In fondo, il caso dei marò è stato
l'unico episodio di risonanza mondiale del governo dei tecnici. Ed è stato un
episodio in due atti. Primo: darsela a gambe fedifraghe. Secondo: arrendersi
senza condizioni al primo "bau". Il tutto a conferma del pregiudizio che da
sempre l'Italia si porta dietro: è la nazione vaso di coccio, è il paese di don
Abbondio e del miles "vana-gloriosus", è lo Stato dello sbruffone che si infila
a letto con un occhio rosso per evitare un processo, è l'esercito del capitano
vanitoso e fellone che abbandona la Concordia nel momento del naufragio, è la
Marina di "navi e poltrone", è il governo astuto e ganzo che maramaldeggia con
l'India...
Fossimo in altri tempi e con altre grammatiche, onore, buon senso e fegato
vorrebbero che il nobile Giulio Terzi di Sant'Agata e l'ammiraglio Giampaolo Di
Paola si consegnassero agli indiani al posto dei due marò.
Pizzarotti dichiara guerra
ai sindacati
Antonio Sciotto
Il sindaco toglie l'integrativo ai dipendenti comunali: «Via le
organizzazioni, tratto con voi». Dopo i tagli agli stipendi del 2012, nonostante
le promesse, è arrivata la decurtazione anche per il 2013. La Cgil: «E' peggio
di Marchionne»
La
«rivoluzione grillina» travolge il Comune di Parma, dove è guerra aperta tra i
sindacati e il primo cittadino del Movimento 5 Stelle, Federico Pizzarotti. Il
sindaco, fiore all'occhiello del moVimento fondato da Beppe Grillo, e suo ariete
nello «sfondare» le porte delle istituzioni (ha aperto la strada prima verso la
Sicilia e poi fino al Parlamento), si è scontrato con i dipendenti comunali, che
dopo un braccio di ferro di vari mesi, giovedì scorso sono scesi in piazza. Ed
essendo andato a incontrarli, fuori dal municipio, si è trovato al centro di una
selva di fischi e addirittura anche di qualche «Vaffa» (chi di spada
ferisce...). Pizzarotti non si aspettava un'accoglienza simile, anche perché
nella battaglia per l'integrativo che ci disponiamo a raccontare, aveva anche
tentato di «scavalcare» il sindacato, per parlare direttamente con i lavoratori.
E in effetti, un mese e mezzo fa, racconta la Cgil, si era tenuta a Parma
un'animata assemblea in cui il primo cittadino si era impegnato di fronte ai
dipendenti del Comune (e in assenza dei funzionari di Cgil, Cisl e Uil, non
invitati) a non operare tagli pesanti sui loro integrativi. Probabilmente i
lavoratori gli avevano dato un'apertura di credito, ma poi anche la busta paga
di febbraio - come d'altronde già quella di gennaio -si è rivelata pesantemente
monca. Ma cosa è successo esattamente negli ultimi mesi? Ce lo racconta Sauro
Salati, segretario della Fp Cgil di Parma. Ieri abbiamo anche cercato Pizzarotti,
o un suo portavoce, ma dalla segreteria del sindaco non siamo riusciti a
raggiungerli, nonostante diversi tentativi delle addette dell'ufficio. Parma,
come si sa, è stata al centro negli ultimi due anni di diversi scandali e
tracolli finanziari: il Comune, rovinato sotto l'amministrazione di
centrodestra, è stato prima commissariato, e successivamente ha visto la
vittoria del primo sindaco «grillino». In tutta questa confusione, i lavoratori
del Comune - i cui stipendi base, come in tutta Italia, sono congelati dal 2010
- si sono comunque dati da fare. Aspettando un accordo per l'erogazione
dell'integrativo 2012 che è arrivato soltanto nel dicembre scorso.«Abbiamo
ampliato le classi delle materne per accorciare le liste di attesa - racconta
Salati - I vigili urbani hanno accettato, nonostante fossero sotto organico, di
fare anche i turni notturni. Abbiamo creato, caso quasi unico nel Paese, uno
Sportello unico al servizio dei cittadini, dove puoi chiedere dalla carta di
identità ai documenti per le imprese. A dicembre abbiamo accettato, viste anche
le difficoltà obiettive del Comune, un taglio al fondo del nostro salario
accessorio da oltre 900 mila euro a quasi 600 mila. Il che ha significato già
pesanti tagli alle buste paga. Ma al tavolo prima di Natale, la segretaria
generale del Comune si è impegnata a garantirci che anche per il 2013 i
lavoratori non avrebbero perso l'integrativo». Promessa mantenuta? Manco per
idea.«I lavoratori - continua Salati - hanno proseguito nell'erogare servizi di
eccellenza, mentre Parma ha dovuto pagare il massimo dell'Imu, dell'imposizione
Irpef, e diverse rette e tariffe sono aumentate. Mentre alcuni servizi venivano
tagliati: ad esempio alle materne è stato deciso il taglio di 88 posti,
nonostante il nostro impegno. Ebbene, comunque a gennaio è arrivata la doccia
fredda: le buste paga dei lavoratori erano tornate al contratto nazionale base,
perdendo ciascuno di loro dai 30-40 euro mensili a 150 e oltre».E sì, da gennaio
a oggi (a marzo la busta paga sarà quasi certamente ugualmente decurtata)
qualcuno dei dipendenti ha perso fino a 600 euro: chi ha perso meno, si aggira
sui 150 euro. E Pizzarotti? Il sindaco ha deciso di non siglare nuovi
integrativi con il sindacato: alle riunioni, le delegazioni del Comune hanno
presentato cifre molto basse per il rinnovo, «irricevibili» secondo la Cgil,
scendendo dai già decurtati 600 mila euro del 2012 a qualcosa inferiore ai 200
mila. Non sono state fatte cifre ufficiali, ma insomma stiamo là. Alla rottura
del tavolo, e alla protesta indetta da Cgil, Cisl e Uil - «sempre con il mandato
dei lavoratori», tiene a sottolineare il segretario Fp Cgil Salati - Pizzarotti,
in pieno stile «grillino», il giorno del corteo e dei fischi ha preso carta e
penna e ha scritto direttamente ai dipendenti comunali, annunciando che comunque
prima o poi un integrativo arriverà. Ma, pare di capire, il sindaco vuole
ripetere l'esperienza dell'assemblea con i lavoratori, senza i sindacati.
Protesta la Fp Cgil, con il segretario nazionale Federico Bozzanca: «Esautorare
i sindacati è un atto autoritario, nel solco della linea ideologica del M5S
espressa dagli anatemi di Grillo. Stupisce che il sindaco Pizzarotti chieda di
interloquire direttamente con i lavoratori senza i sindacalisti, esautorando
perfino le Rsu elette dai lavoratori. Un atteggiamento che fa concorrenza al
peggior Marchionne».
18 marzo
Cyber-censura, anche un’azienda
italiana vende software ai regimi
Reporter Senza Frontiere le definisce
"mercenari dell'era digitale" e le cita nel rapporto pubblicato il 12 marzo,
insieme ai 5 "Stati nemici di internet": Bahrein, Siria, Cina, Iran e Vietnam.
Tra le società c'è anche la Hacking Team di Milano
di Marco Quarantelli
Vendono
i loro software di cyber-monitoraggio della rete a regimi dittatoriali che li
utilizzano per dare la caccia ai giornalisti scomodi, stanare i blogger non
allineati e reprimere i diritti fondamentali. Sono 5 aziende occidentali.
Reporter Senza Frontiere le definisce “mercenari dell’era digitale” e le cita
nel rapporto pubblicato il 12 marzo in occasione della Giornata Mondiale contro
la Cyber-censura, insieme ai 5 “Stati nemici di internet”: Bahrein , Siria ,
Cina , Iran e Vietnam . Tra le aziende ce n’è anche una italiana, la Hacking
Team di Milano . Mettono su un mercato da 5 miliardi di dollari due tipi di
tecnologie: software in grado di monitorare la rete su larga scala e spyware
capaci di sorvegliare singoli computer.
“I loro prodotti – si legge nel rapporto – vengono usati per commettere
violazioni dei diritti umani e della libertà di informazione “. “Il mio pc era
stato arrestato prima che lo fossi io”, raccontava il 15 novembre 2012 Karim
Taymour, attivista siriano, ad un giornalista di Bloomberg . Durante
l’interrogatorio, gli uomini di Assad gli avevano mostrato oltre mille pagine in
cui erano riportate le sue chat su Skype e migliaia di altri file scaricati da
remoto da un programma che aveva scandagliato il suo pc fin nell’ultimo, remoto
andito dell’hard disk. “I suoi torturatori – si legge nel rapporto, conoscevano
la sua vita quanto lui, come se avessero vissuto con lui nella sua stanza”.
Avevano usato software prodotti da aziende occidentali. Reporter Senza Frontiere
ne ha individuate 5. C’è la francese Amesys , che prima della Primavera araba
aveva venduto a Muammar Gheddafi il sistema “Eagle”, capace di intercettare
posta elettronica, Facebook e chat: il regime lo utilizzava per spiare
giornalisti, attivisti e oppositori politici. Dal maggio del 2012 Amesys è sotto
inchiesta in Francia per “complicità in atti di tortura”.
Gamma Group è una company inglese: secondo un rapporto del 25 luglio 2012
dell’organizzazione Citizen Lab , i suoi trojan sono stati usati per spiare vari
docenti universitari britannici. Il software è talmente avanzato da riuscire a
prendere il controllo della webcam e del microfono, copiare i file dal disco
rigido e scaricare messaggi istantanei e mail. Blue Coat è un’azienda nata e
cresciuta nella Silicon Valley . I suoi software sono stati utilizzati da Cina ,
India, Iraq , Russia, Kenya , Indonesia, Bahrein (secondo una lista, molto più
lunga, stilata da Citizen Lab) per monitorare i pc degli oppositori e bloccare
la diffusione di dati e contenuti. Trovicor , ex Nokia Siemens Network, invece,
è una ditta tedesca che ha fatto affari con una lunga serie di Stati, dal Nord
Africa al Golfo Persico: i suoi “monitoring center” hanno aiutato le autorità di
vari Paesi protagonisti della Primavera araba a spiare i dissidenti e conoscere
i luoghi e gli orari scelti per le manifestazioni di piazza, in modo da
reprimerle prima che avessero luogo.
Poi c’è la milanese Hacking Team . Il suo gioiello è il Remote Control System ,
venduto a circa 50 clienti in 30 paesi di 5 continenti”, spiegava lo scorso
agosto a Slate Magazine David Vincenzetti, cofondatore della compagnia. RCS è un
file Trojan in grado di spiare chat di Skype e scattare istantanee con la webcam.
Può infettare un pc tramite “l’apertura di un file di testo o l’invio di un sms”,
recita la brochure, e “può monitorare fino a centinaia di migliaia di target.”
Nel dicembre 2011 un’inchiesta dell’ Espresso basata su file pubblicati da
Wikileaks definiva l’Rcs la “cyberbomba tricolore”. Nel 2012, secondo
un’inchiesta di Slate.com , la tecnologia è stata utilizzata dalle autorità del
Marocco per controllare i computer di Mamfakinch.com , citizen media project
premiato nel luglio 2012 da Google e dall’organizzazione Global Voices per “la
difesa e la promozione delle libertà di parola su internet”. Pochi giorni dopo
il riconoscimento, scrive il magazine, i suoi giornalisti ricevettero una mail
contenente il trojan progettato da Hacking Team. La politica arranca. Sia gli
Usa che l’ Ue si sono dotati di strumenti legislativi mirano ad evitare “l’uso
maligno delle tecnologie”. Ad aprile 2012 Obama aveva firmato un ordine
esecutivo per bloccare le proprietà delle aziende che vendono i loro prodotti a
Iran e Siria . L’11 dicembre, poi, il Parlamento Europeo ha approvato il il
report Digital Freedom Strategy , che invoca il “bando delle esportazioni di
tecnologie repressive verso i regimi autoritari” e chiede alla Commissione Ue di
“agire contro la criminalizzazione della libertà di espressione in Rete”. Ma la
strada verso il rispetto dei diritti fondamentali sul web resta ancora lunga.
Incentivi al fotovoltaico:
vale la pena pagarli?
di Ugo Bardi
Sembra proprio che ci sia qualcuno che sta facendo un grande sforzo per
convincerci che il fotovoltaico è soltanto un imbroglio costoso , per esempio
confondendo gli incentivi per il fotovoltaico con quelli per gli inceneritori. A
parte le leggende, tuttavia, possiamo dire che gli incentivi per il fotovoltaico
sono oggi circa sei miliardi di euro all’anno e che si assesteranno a un massimo
di 6,7 miliardi con la fine del “conto energia” prevista per quest’anno.
Per rendersi conto dell’entità di questa cifra, diciamo che sei miliardi di euro
corrispondono a meno del 5 per mille del PIL italiano (circa 1500 miliardi di
Euro) e meno dell’1% del totale della spesa pubblica (circa 750 miliardi di
Euro). Possiamo anche calcolare che il “sistema Italia” spende circa 100 euro a
persona all’anno per incentivare l’energia fotovoltaica . Sulla bolletta
elettrica, i costi per gli incentivi alle rinnovabili li pagano più che altro le
grandi utenze e li si possono calcolare come circa 48 Euro per famiglia in
media, all’anno, su un totale di 494 euro all’anno.
Cosa ci ritorna indietro da queste spese? Beh, gli impianti fotovoltaici
generano energia elettrica, hanno attirato investimenti in Italia (circa 20
miliardi di euro fino ad oggi), hanno generato un indotto in termini di posti di
lavoro e di attività industriale, come pure esportazioni di prodotti ad alta
tecnologia . Si calcola anche che l’energia fotovoltaica ci faccia risparmiare
almeno 2 miliardi di euro all’anno in forma di spese evitate durante i momenti
di massima richiesta energetica, specialmente in estate. Inoltre, l’abbassamento
dei costi del fotovoltaico fa si che nel futuro non ci sarà più bisogno di
incentivi per giustificare gli investimenti.
Si può ragionevolmente sostenere che questi vantaggi ripagano ampiamente i
costi. Ma il punto è un altro: gli incentivi per il fotovoltaico sono soldi che
rimangono in Italia o comunque all’interno dell’economia europea . Non è così
per le importazioni di combustibili fossili, petrolio, gas e carbone, che, nel
2012, ci sono costate la bellezza di 66 miliardi di euro . Sono più di mille
euro l’anno a persona che se ne vanno dall’Italia verso lontani paesi
produttori.
I costi per importare energia sono oltre un terzo di tutti i costi per
l’importazione di materie prime : un fardello che
azzoppa tutta l’economia italiana. E, comunque uno la voglia vedere, i
combustibili fossili non dureranno per sempre. Quindi, già oggi dobbiamo
cominciare a pensare al futuro. Non è solo questione usare l’energia in modo più
efficiente ma anche di produrla in Italia, anche se questo ci costa qualche
qualche sacrificio. Non è che il fotovoltaico, da solo, possa risolvere il
problema, ma è un passo nella giusta direzione e ci fa risparmiare sulle
importazioni di gas. Insomma, alla fine dei conti, siamo o non siamo il “paese
del sole”? Sfruttiamolo!
17 marzo 2001, prima di
Genova ci fu Napoli
di Nello Trocchia
Ormai 12 anni fa. Perché prima di Genova, del fumo dei lacrimogeni, dei
pestaggi, della sospensione dei diritti, delle lacrime per Carlo Giuliani ci fu
Napoli. 17 marzo 2001 . La democrazia quel giorno morì di violenza, di
manganelli, di una repressione che bisogna ricordare, come un dovere civile . Il
giorno orribile come i giudici lo hanno definito nel processo celebrato a carico
di alcuni agenti accusati di violenza e, perfino, di sequestro di persona. In
quello stesso giorno alcuni manifestanti furono condotti alla caserma Raniero:
botte e umiliazioni. Il processo si è concluso con la prescrizione, ma quella
storia che è civile e collettiva non si prescrive.
Avevo le stampelle, ma andai in piazza lo stesso perché a venti anni, come canta
il maestrone Guccini, si è stupidi davvero. E io ne avevo 18, stupido un po’ di
più. Eravamo in tante e tanti, un fiume di volti attraversò la mia città. Si
manifestava in occasione del global forum. Piazza Plebiscito era una fortezza
dove si discuteva dell’e-government. Con Genova si completò il quadro e
l’immagine di vertici della terra che decidevano i destini senza consultare i
popoli, arrogandosi il diritto di una delega in bianco che nessuno gli aveva
assegnato. Allora era difficile scendere in piazza, al governo c’era un
centrosinistra che sperimentò la militarizzazione che trovò a Genova, nel luglio
successivo, con le destre padrone del paese, il punto di non ritorno. Quel 17
marzo 2001 la democrazia morì per un giorno .
A quella comunità diversa e variegata, dipinta in ogni modo becero e insulso da
fogli carichi di odio, fu riservata la stagione dell’indifferenza e del silenzio
dagli apparati politici. Qualche cooptato in parlamento, ma quelle istanze:
reddito minimo, tobin tax, il no alle guerre, il rischio finanziarizzazione
dell’economia, furono completamente ignorate. Un movimento che commise errori,
certo e anche tanti, ma quella piazza avrebbe preteso risposte e politiche .
Arrivarono manganelli. Scrissi raccogliendo la storia di qualche amico che aveva
subito, rimasto in mezzo mentre la violenza saliva. Inviai quella testimonianza
a quanti scrissero il libro bianco su quei giorni. La scrittura anche allora fu
strumento di estraniazione e rivalsa. Già allora si parlò del codice
identificativo per gli agenti, anche in nome della stragrande maggioranza che fa
il proprio dovere, e dell’introduzione del reato di tortura, entrambe le
richieste restano ancora lettera morta.
Ricordo le cariche. Quando partirono, con le stampelle, guadagnai un vicolo
mentre le forze, quel giorno, del disordine bloccavano ogni accesso a piazza
Municipio. Il nostro rifugio fu un palazzo. Salimmo al secondo piano. Fu una
giornata surreale con le idee tra le mani sporche di sangue che ti chiedevano se
ne valeva ancora la pena mentre osservavi la schiena rigata di chi aveva subito
le cariche e i freddi colpi dei manganelli. Ora a distanza di anni restano i
processi alle violenze di stato finiti in prescrizione e i vertici del paese
che, oltre un decennio dopo, parlano di reddito minimo, tobin tax e del
fallimento della globalizzazione , di fatto moltiplicatore di debolezze, povertà
e diseguaglianza.
Mi volto indietro. Sorrido a quei 20 anni e a noi che, allora, eravamo stupidi,
davvero; resistenti che sognavano un altro mondo possibile. Un modo perché la
politica recuperi quel giorno è l’istituzione di una commissione parlamentare di
inchiesta per capire cosa accadde quel 17 marzo 2001 quando morì la democrazia.
Se l'aeroporto dei Benetton
si paga al casello
Dietro la fusione tra Atlantia e Gemina, una spregiudicata operazione
finanziaria: tenere alti i pedaggi per finanziare l'aeroporto di Fiumicino Nord.
Due monopoli privati, sulle spalle dei contribuenti, in barba all'interesse
pubblico
In questi giorni si sta compiendo un’importante operazione industriale che
riveste un rilevante interesse pubblico: l’incorporazione di Gemina in Atlantia.
Atlantia e Gemina sono entrambe controllate dalla famiglia Benetton, la prima è
proprietaria di Autostrade per l’Italia, gestore privato di gran parte della
rete autostradale italiana, la seconda è proprietaria di AdR, altra società
privata che gestisce gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino. Dopo la fusione
questa sarà la catena di comando: Edizione – la “ cassaforte” dei Benetton –
controlla il 66% di Sintonia, che a sua volta controlla il 46% di
Atlantia-Gemina. Risultato: con un apporto del 30% del capitale, i Benetton sono
a tutti gli effetti i padroni di Autostrade per l’Italia e di AdR (gli altri
azionisti di minoranza sono sotto il 5% e ben il 42% è la quota flottante in
borsa). Sin qui nulla di nuovo, è il sistema delle ‘scatole cinesi’ con il quale
– non solo in Italia – si comandano le spa senza eccessive esposizione
finanziarie.
Il motivo dell’operazione lo rivela candidamente l’amministratore delegato di
Atlantia – Giovanni Castellucci – con una lunga intervista pubblicata su Il
Sole-24 Ore del 10 marzo. Vale la pena di riportare testualmente le sue parole,
perché il ragionamento è cristallino: “Abbiamo tra 4 e 5 miliardi di
investimenti per la realizzazione delle terze corsie (…) che non sono state
ancora autorizzate, anche perché l’utilità di alcune è stata obiettivamente
rimessa in discussione dai livelli di traffico più bassi del previsto. E poi c’è
la Gronda di Genova, opera da più di 3 miliardi su cui c’è un punto
interrogativo, soprattutto di carattere politico”. E poi: “Atlantia avrà
investimenti che cominceranno a flettere già dai prossimi anni (…) ed il gruppo
si troverà con un cash flow che potrà essere utilizzato a supporto degli
importanti investimenti del Contratto di Programma AdR”.
Per capire appieno il significato di queste affermazioni bisogna fare un passo
indietro e spiegare come funziona la regolazione del settore autostradale in
Italia. Da sempre – da quando la Società Autostrade era dell’IRI, cioè pubblica
– i pedaggi autostradali sono serviti non solo per sostenere i costi di
manutenzione e gestione dell’infrastruttura, ma anche per finanziare gli
investimenti per il potenziamento della rete. Così si sono costruite le
autostrade italiane negli anni ’60/’70 e così sono state ulteriormente
potenziate sino a tempi recenti, anche quando i gestori sono diventati privati
(ma, non è male ricordarlo, l’infrastruttura è rimasta di proprietà dello
Stato). Ora che cosa succede? Succede che gli ulteriori potenziamenti della rete
autostradale sono sottoposti a pesanti critiche, o perché non c’è abbastanza
traffico, o perché le popolazioni locali non le vogliono. E allora che si fa?
Facciamo un altro passo indietro. Come qualcuno denunciò prima e dopo la vendita
della Società Autostrade ai Benetton, i pedaggi autostradali sono troppo alti.
In questo modo si generano extra-profitti: Atlantia nel 2011 e nel 2012 ha
portato a casa oltre il 20% di utili, al netto degli oneri finanziari e delle
tasse; un risultato che in altri Paesi avrebbe fatto scalpore, visto che si
tratta di un privato che sta gestendo un bene dello Stato. E, cosa forse ancora
più importante, si generano extra-ricavi: sempre nel 2011 e nel 2012 Atlantia ha
incassato dai pedaggi circa 3,3 miliardi di euro. Un sacco di soldi, ma come si
fa a dire che sono extra-ricavi? Basta guardare i costi operativi, cioè quelli
effettivamente associati alla gestione delle autostrade: sono “solo” 1,5
miliardi. La differenza tra ricavi da pedaggio e costi operativi è dunque enorme
(circa 1,8 miliardi l’anno) e con questa si assicurano gli extra-profitti ai
Benetton e si genera il cash flow di cui parla Castellucci. Fino a tempi recenti
– come già detto – questo enorme cash flow era usato per finanziare l’estensione
e l’ammodernamento della rete autostradale, che però ora non si può fare più.
Ecco allora che entra in gioco la fusione Atlantia-Gemina: il cash flow generato
dai super-pedaggi autostradali potrà essere utilizzato per la costruzione
dell’aeroporto di Fiumicino Nord (sui terreni di una società sempre dei Benetton,
ma questa è un’altra storia…).
Due punti prima di concludere.
1. Stiamo parlando di miliardi di euro e lo stiamo facendo in un periodo in cui
siamo bombardati da un messaggio univoco “non ci sono i soldi” (per
l’assistenza, per l’edilizia pubblica, per la sanità, per la scuola e
l’università, per la ricerca e la cultura, ecc.). E, siccome non ci sono i
soldi, si tagliano le pensioni o si aumentano le tasse sulla casa, con
interventi di finanza pubblica che sono dello stesso ordine di grandezza:
appunto, miliardi di euro.
2. I pedaggi sono molto più alti di quanto servirebbe a ricoprire i costi di
gestione delle autostrade: potrebbero essere tranquillamente dimezzati,
lasciando ai Benetton profitti soddisfacenti. (Giorgio Ragazzi, nel suo libro “I
signori delle autostrade”, ha scritto che le autostrade dovrebbero essere
gratuite…). Il cash flow generato è stato usato in passato per costruire nuove
strade e ora lo si vuole usare per potenziare il principale aeroporto del Paese.
Ma siamo sicuri che non ci sia un modo migliore di usare questo fiume di danaro?
Non ci sono altri investimenti che dovrebbero avere la precedenza? Un piano di
edilizia pubblica? La messa in sicurezza del territorio e delle scuole? Il
potenziamento delle ferrovie regionali e metropolitane?
Chi scrive è perfettamente consapevole che i piani d’investimento di Atlantia,
Gemina – e di tutti gli altri concessionari privati di infrastrutture pubbliche
– sono sanciti da Contratti di programma sottoscritti dallo Stato italiano. Ma è
anche risaputo che la pianificazione del settore autostradale (e aeroportuale) è
da sempre in Italia “in ostaggio” dei concessionari: sono questi infatti a
mettere in campo una pressione colossale, capace di condizionare le scelte della
controparte pubblica, che a sua volta è spesso connivente per motivi
elettoralistici (la nuova bretella o l’ammodernamento dell’aeroporto nel mio
collegio…) o, peggio, mera corruzione (la tangente “modello Penati”…).
Non è allora venuto il momento di aprire una discussione pubblica su tutta la
vicenda, riscrivere i contratti di programma e farla finita con lo strapotere
privato cresciuto intorno alle infrastrutture pubbliche? Non sarebbe il caso di
imporre dei canoni di concessione ai gestori di autostrade ed aeroporti in
maniera tale che extra-profitti e cash flow tornino allo Stato? E che sia lo
Stato a decidere sul loro uso? Che tutto ciò sia possibile è consapevole persino
Castellucci, che infatti ricorda che per il momento la fusione Atlantia-Gemina è
stata solo approvata dai rispettivi consigli d’amministrazione e che vi è ancora
“una serie di condizioni sospensive tra cui la registrazione della Corte del
Contratto di programma di AdR”. Chissà che il nuovo Parlamento non riesca a
bloccarla e a riscrivere – per una volta nell’interesse pubblico – le regole di
questo importante (e ricco) settore?
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte : www.sbilanciamoci.info.
12 marzo
Depressione
da 100 miliardi
Allarme per gli effetti del lavoro su chi un
posto ce l'ha. Sono 33 milioni gli europei che soffrono per l'umore nero. Una
parlamentare irlandese invita i governi a occuparsi del problema. Subito...
Di questi tempi non fa male solo l’occupazione che
non c’è. Pure chi un impiego è riuscito a conquistarlo, o a difenderlo, ha buone
opportunità di ritrovarsi a vivere tempi duri. Un’eurodeputata irlandese
indipendente, Marian Harkin, ha lanciato l’allarme per il diffondersi della
depressione sul posto di lavoro. Secondo i dati in suo possesso, è un problema
che colpisce 33 milioni di cittadini comunitari e grava per qualcosa come 110
miliardi l’anno alle casse pubbliche degli stati Ue e al sistema delle imprese,
con costi di competitività che si possono solo immaginare.
E’ l’altra faccia della medaglia. La gente si dispera perché è costretta a
restare a casa e trovare espedienti per sbarcare il lunario. Nel frattempo, le
condizioni per chi è attivo sono peggiorate. Più pressione, più carico, più
concorrenza, più instabilità. Secondo le stime raccolte dall’European Depression
Association - un'alleanza di organizzazioni, pazienti, ricercatori e
professionisti della sanità di 17 Paesi europei – sono 21 mila le giornate di
lavoro trascorse a casa per l'impossibilità di affrontare una situazione
lavorativa e 36 mila i giorni di lavoro persi per episodi di manifesta
depressione. Si scopre che il mondo del lavoro e della produzione soffrono tanto
di assenteismo, quanto di “presenteismo”, come si definisce la condizione di chi
va comunque in ufficio mentre è malato, con evidenti perdite in termini di
produttività.
La Signora Harkin chiede che l’Unione intervenga con programmi ad hoc e con
azioni per migliore le condizioni di lavoro, solo in apparenza rosee. “le
statistiche dicono che il presenteismo da solo costo al Regno Unito 15 miliardi
di euro l’anno”. Che fare? “le legislazioni nazionali dovrebbero occuparsi di
prevenzione, screening e diagnosi della depressione”, afferma l’irlandese.
Magari senza lasciare passare troppo tempi. Il passare degli anni come il
perdurare della crisi e l’aumentare della competitività globale, se ne conclude,
non potrà che peggiorare la situazione.
4 marzo
Il bivio di Bersani
Norma Rangeri
Quando nell'autunno del 2011 chiedevamo di andare
al voto contro chi, invece, preparava la soluzione nefasta del governo tecnico,
ci veniva rimproverato lo scarso senso di responsabilità. Eravamo la solita
sinistra radicale, lontana dalle esigenze del paese, viziata dal massimalismo,
affezionata al tanto peggio tanto meglio. «O Monti o il caos», era il ritornello
con cui si tacitavano le voci che, al contrario, polemizzavano contro la sordità
di chi non riusciva a intercettare il sentimento post-referendario di
un'opposizione larga, profonda, priva ormai di rappresentanza. Persino Nichi
Vendola, pur alleato di Bersani, era considerato un residuo estremista da
riportare all'ovile della consapevolezza, un ostacolo anziché un ponte verso uno
scontento stellare alimentato da una crisi economica senza fine.
Ora che le urne hanno rivelato tutta la distanza tra i partiti e la società, ora
che il Pd è costretto a fare i conti con i quattro milioni di voti perduti, ci
sarebbe da aspettarsi un rapido rinsavimento, una decisa sterzata, un vero
cambio di rotta.
Ancora scosso dall'esito del voto, nella notte elettorale Bersani ha detto di
volersi assumere «la responsabilità» di indicare una direzione per il nuovo
governo. E ieri ha spiegato che rispetterà il ruolo di primo partito conquistato
dai grillini, annunciando un'agenda di governo centrata sui temi delle riforme
istituzionali e della morale pubblica. È un primo passo. Timido, come di chi
deve ingoiare una pillola amara, mentre sarebbe questo il momento per rivolgersi
con decisione verso gli interpreti, dalle Alpi alla Sicilia, della protesta e
della proposta di una nuova stagione politica.
Se la sente il gruppo dirigente del Pd di sfidare, e anche di stanare, i
deputati e i senatori a 5 stelle per ottenerne la fiducia su una vera legge
contro il conflitto di interessi? È nelle condizioni, il Pd, di garantire un
effettivo abbattimento delle spese della «casta», una campagna a favore
dell'acqua pubblica, contro le grandi opere, contro gli F35, e, a proposito di
un'altra Europa, per l'istituzione del reddito minimo?
Ma c'è un altro aspetto, non meno rilevante, dell'agenda-Bersani. Riguarda la
natura del partito. Le primarie sono rimaste un'eccezione alla regola. Lo
scandalo Mps ha azzoppato la campagna elettorale e accomunato l'immagine del Pd
al sistema politico. Confermando l'atteggiamento, sempre forte e respingente, di
chi vive con una rendita di posizione. Del resto, forma e contenuto, anche in
politica, camminano insieme.
Una incapacità di cambiare contagiosa. Nonostante le sollecitazioni di un
movimento nuovo come «Cambiare si può», la sinistra, da Sel a Ingroia, non è
stata capace di accompagnare queste battaglie con un altrettanto radicale
mutamento delle forme della rappresentanza, del modo di fare politica, rimanendo
prigioniera di ideologie e partitini che già nel 2008 avevano fatto fallimento.
Ormai le prove d'appello sono davvero finite.
Analizzeremo e impareremo a conoscere meglio questa nuova, giovane classe
dirigente grillina. Una crescita così impetuosa naturalmente raccoglie a
sinistra ma anche, e molto, a destra, tra la Lega che dimezza i voti, nel mare
del Pdl che di voti ne perde sette milioni. Ma per quel che abbiamo finora
seguito e indagato dell'universo grillino, sappiamo che una parte importante
delle idee e delle pratiche del movimento a 5 stelle insistono sul tema dell'ambientalismo,
della riconversione industriale secondo i principi della sostenibilità,
dell'acqua pubblica, del no alla Tav... . E non a caso le prime parole di
Vendola sono state proprio su questi temi, rivolte all'unico interlocutore che,
nei territori e in parlamento, le può condividere.
Naturalmente il centrosinistra deve sapersi difendere dalle sirene assordanti
già all'opera. Come in un gioco dell'oca, il giorno dopo dopo la rivoluzione
elettorale, con il Movimento 5 stelle diventato il primo partito, il presidente
della repubblica (chissà, forse questa volta più sensibile all'eco del boom
grillino) è volato dalla cancelliera Merkel. Un viaggio accompagnato
dall'orchestra europea che già suona la danza dello spread, mentre il professor
Monti batte i tamburi a palazzo Chigi convocando un gabinetto di guerra con
Grilli (il ministro) e il Governatore di Bankitalia. Sembra di essere tornati
alla casella iniziale, ai mesi fatali del novembre del 2011, all'inizio della
fine, quando il capo dello stato affidò «al professor Mario Monti l'incarico di
formare un nuovo governo, aperto al sostegno e alla collaborazione da parte sia
dello schieramento uscito vincente dalle elezioni del 2008 sia dalle forze
collocatesi all'opposizione». Sbagliare è umano, perseverare sarebbe diabolico.
Boom delle morti sul lavoro
Roberto Ciccarelli
Il presidente Inail Giuseppe Lucibello annuncia: «Nel 2012 le vittime sono il
3% in meno rispetto al 2011». È polemica con la Cgil: «Le vittime non sono
diminuite come sostiene l'Inail, ma sono il 28% in più»
Quella
tra lavoro nero e lavoro sotto contratto è una terra di nessuno. Nell'edilizia,
ad esempio, non permette di comprendere quante sono le morti o gli infortuni sul
lavoro. Lo dimostra la polemica che ha contrapposto ieri il direttore generale
dell'Inail, Giuseppe Lucibello, a Walter Schiavella, segretario generale della
Fillea-Cgil. Lucibello si è presentato ai microfoni di Radio 1 Rai per
anticipare una buona notizia: il 2012 avrebbe confermato il trend discendente
degli infortuni e delle morti bianche. A fine anno risultavano 654 mila denunce
per infortuni, una riduzione del 9% rispetto alle 726 mila denunce del 2011.
Sempre nel 2012 sarebbero stati 870 gli incidenti mortali in tutti i settori del
lavoro, con una flessione di almeno il 3% rispetto ai 893 decessi nel 2012. Sono
numeri che nascondono tragedie, omissioni, colpe gravissime, e spesso taciute, e
per questo risulta difficile scorrerli come un ordinario rosario statistico. Ma
provare a guardarci dentro, può essere utile per comprendere come si lavora oggi
nell'edilizia, un campo paradigmatico per comprendere l'economia del «sommerso»
che in Italia è pari al 25% del Pil. È in questo regno degli invisibili che
lavorano sempre più spesso anche i migranti e le donne. Scorrendo i dati forniti
da Lucibello, e contestati dalla Cgil, emerge la realtà della crisi. L'Inail
sostiene che la diminuzione dei cantieri ha pesato per il 50% sul calo degli
incidenti mortali e degli infortuni, soprattutto nell'agricoltura e nei settori
dove sono più frequenti i controlli e la prevenzione da parte dell'ispettorato
del lavoro. «Al prossimo governo - ha detto Lucibello - l'Inail chiede di
mantenere la massima attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro». Una volta
appreso che l'Inail ha anticipato i dati sull'andamento degli infortuni, che
dovrebbero essere presentati ufficialmente ad aprile, Schiavella della
Fillea-Cgil, ha provato a scalfire la montagna delle verità apparentemente
incontrovertibili. A iniziare dal dogma della «statistica ufficiale». La
contabilità generale sugli infortuni e le morti bianche è fortemente influenzata
dal settore edile, il più numeroso rispetto a quello metalmeccanico, agricolo o
tessile. Non conoscere con precisione i numeri di questo settore significa
influenzare la contabilità generale e nascondere gli aspetti più inquietanti.
«L'Inail continuerà a dare numeri virtuali e non reali - sostiene Schiavella -
finché non ci sarà un sistema statistico che incroci i suoi numeri con quelli
delle Casse edili». In altre parole, non si capirà mai la reale situazione della
sicurezza sul lavoro finché non si incroceranno i dati sul numero degli addetti
regolari e quelli sulle ore lavorate. La Cgil ha provato a farlo e il risultato
è diverso dalle previsioni rassicuranti dell'Inail. E questo perché una parte
sempre crescente del lavoro edile, o agricolo, si è spostato verso il nero, la
terra di nessuno dove la statistica arriva difficilmente, restando al buio. «Gli
infortuni sono cresciuti di quasi il 6% - continua Schiavella - i morti non sono
diminuiti ma aumentati di quasi il 28%». Ma non è tutto perché, sotto ricatto, i
lavoratori sono spinti a non denunciare gli infortuni meno gravi. Se ne restano
a casa, zitti, in cambio di un risarcimento in nero. Anche l'idea che la
chiusura dei cantieri sia stata provocata dalla crisi viene contestata dalla
Cgil. Incrociando il dato degli infortuni e dei morti totali in rapporto al
numero degli addetti, viene dimostrato che le morti bianche e gli infortuni
nell'ultimo anno sono aumentati addirittura del 13,25% (infortuni) e del 47,19%
(i decessi). «In questi anni - aggiunge Schiavella - l'unica regola che ha
governato l'edilizia è stata quella del laissez-faire e i dati del disastro
occupazionale e di quello dell'irregolarità e delle infiltrazioni criminali ne
sono la testimonianza».
Trasporto su gomma, i costi
ambientali: in Italia danni per 15,5 miliardi di euro
Il rapporto dell'Agenzia europea dell'Ambiente: l'inquinamento atmosferico
nel suo insieme causa 3 milioni di giorni di assenza per malattia e 350 000
morti premature in Europa. Il solo costo sanitario dell'inquinamento prodotto
dai mezzi pesanti è pari a 45 miliardi di euro
di ANTONIO CIANCIULLO
Roma
- Con buona probabilità il prossimo governo nascerà attorno a pochi punti
programmatici più che su un'alleanza politica. E dall'Europa oggi arriva un
suggerimento. Il trasporto su gomma, sovvenzionato con fondi pubblici, produce
solo in Italia danni per 15,5 miliardi di euro. Quasi la metà di questa cifra
viene dai camion che, nel nostro paese, movimentano una percentuale anomalmente
alta di merci. I dati sono contenuti in un rapporto dell'Agenzia europea
dell'ambiente. Secondo l'Aea nel complesso l'inquinamento atmosferico causa 3
milioni di giorni di assenza per malattia e 350 000 morti premature in Europa.
Il solo costo sanitario dell'inquinamento prodotto dai mezzi pesanti è pari a 45
miliardi di euro.
Un problema che la direttiva Eurovignette 2011 ha provato ad arginare stabilendo
il modo in cui gli Stati possono incorporare nei pedaggi per le strade di
scorrimento e le autostrade i costi sanitari derivanti dall'inquinamento
atmosferico. In questo modo si possono incamerare le entrate per migliorare la
rete del trasporto sostenibile senza incidere sulla fiscalità ordinaria. "Le
economie europee fanno affidamento sulle lunghe distanze per il trasporto di
merci", afferma Jacqueline McGlade, direttore esecutivo dell'Aea. "Ma per fare
bene i conti bisogna calcolare anche il costo nascosto, pagato in anni di salute
precaria e vite perse. Un costo particolarmente elevato per coloro che vivono
lungo le maggiori vie di trasporto europee".
La relazione dell'Agenzia
europea dell'ambiente rileva che, pur essendo l'inquinamento atmosferico
diminuito in modo significativo negli ultimi anni, il problema resta acuto in
alcune parti dell'Europa, compresa la pianura padana. Le emissioni di scarico
provenienti dai motori a gasolio infatti sono state recentemente etichettate
come cancerogene dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.
L'impatto sanitario ed economico potrebbe essere ridotto con un pacchetto di
interventi articolato. Il primo passo consiste nell'aumentare la quota di merci
trasportata su ferro e su nave. Il secondo nel passare da autocarri euroclass IV
e V a mezzi nuovi che provocherebbero il 40-60% di costi esterni in meno. La
relazione sottolinea il fatto che facendo pagare alle compagnie di trasporto i
danni ambientali e sanitari si incentiverebbero tecnologie più nuove e più
pulite.
"In un governo di cambiamento una drastica revisione delle politiche di
trasporto dovrebbe avere un ruolo importante", ricorda Ermete Realacci,
responsabile green economy del Pd. "Secondo i dati del rapporto Pendolaria di
Legambiente sull'autotrasporto sono piovuti dal 2000 al 2012 oltre 5,4 miliardi
di euro in un paese dove il trasporto merci è dominato, con oltre il 90%, dalla
gomma. Gli incentivi riguardano fondi diretti al sostentamento del settore,
sconti sui pedaggi autostradali, riduzioni sui premi Inail e Rca, deduzioni
forfettarie non documentate. In totale una media di circa 500 milioni l'anno.
Potrebbero essere spesi meglio".