"Un miliardo e mezzo di euro
buttati": quanti sprechi nelle opere di Berlusconi
Rapporto di Legambiente sulla Legge Obiettivo lanciata nel 2001 dall'ex
premier in tv a "Porta a porta": "Di questo elenco di opere solo il 9% è stato
realizzato (17 su 192) ma per tutte le altre l'iter va avanti e quindi
continuano le spese, malgrado in molti casi sia evidente che non potranno mai
essere realizzate"
di ANTONIO CIANCIULLO
ROMA
- Un miliardo e mezzo di euro buttati via. E' il prezzo del giochetto televisivo
del 2001, a "Porta a porta", con la lavagna su cui veniva tracciato l'elenco
delle grandi opere: ha fruttato un bel pacchetto di voti a Berlusconi e una
consistente dispersione di denaro pubblico. Da allora - tra studi, consulenze,
commissari, società ad hoc - per progetti mai realizzati è andata in fumo una
cifra equivalente a tre volte il bilancio del ministero dell'Ambiente.
I dati sono contenuti in uno studio della Legambiente: "Chi ha visto la Legge
Obiettivo?" Della mitica norma che per anni è stata al centro delle polemiche
non si parla più. Quasi sparita da questo dibattito elettorale. Rimossa da chi
ne aveva fatto una bandiera e oggi guarda con imbarazzo ai risultati ottenuti in
più di un decennio.
IL RAPPORTO DI LEGAMBIENTE
"La bulimia di opere, grandi e piccole, ma tutte definite strategiche è stata
tale in questi anni da aver fatto lievitare l'elenco fino a 192 infrastrutture
tra strade, autostrade, linee ferroviarie, porti, aeroporti", si legge nel
rapporto. "Dal 2001 ad oggi, di questo elenco di opere solo il 9% è stato
realizzato (17 su 192) ma per tutte le altre l'iter va avanti e quindi
continuano le spese, malgrado in molti casi sia assolutamente evidente che non
potranno mai essere realizzate".
L'80 per cento della domanda di trasporto, quella urbana, non è neanche in lista
d'attesa perché i soldi vengono dirottati altrove. "Nel Decreto Sviluppo
approvato a dicembre", continua il rapporto, "il ministro Corrado Passera ha
inserito ulteriori risorse per le grandi opere sotto la forma di credito
d'imposta fino al 50% del valore dell'opera a valere su Ires e Irap. L'aspetto
incredibile è che queste risorse pubbliche andranno a opere per le quali 'è
accertata la non sostenibilità del piano economico finanziario'. Ci troviamo
quindi di fronte a un autentico regalo, in soldi pubblici, per opere che non
servono (non sono prioritarie) e che non si ripagano neanche con i pedaggi".
In molti casi dunque a bloccare i progetti non sono stati i veti ambientalisti
ma i conti che non tornano. Ad esempio per il passante autostradale di Mestre
sono stati investiti 900 milioni di euro, una cifra con la quale si sarebbero
potuti comprare 100 treni pendolari ad alta capienza. Per correggere il tiro -
suggerisce Legambiente - occorre intervenire
sui 304 miliardi di euro di debiti che sono la spesa prevista (e giudicata
sottostimata) per le 175 opere mirate ai trasporti ancora da realizzare. Una
voragine da chiudere dirottando altrove buona parte degli sforzi.
Ecco un rapido elenco delle priorità proposte. Investire sulla mobilità
sostenibile nelle aree urbane. Far crescere il trasporto ferroviario pendolare
in modo da arrivare a 5 milioni di utenti nel 2020 (oggi sono 2,9 milioni).
Ridurre del 20% la quota di trasporto merci che viaggia su gomma, investendo
seriamente nella logistica e nell'offerta di servizi efficienti, concorrenziali,
integrati su treno e nave. Ridurre il numero delle vittime degli incidenti
stradali del 20%. Creare un'Authority per il settore dei trasporti.
Le tasse di Palermo e il
voto dell’evasione
La rotta d'Italia. Quattro palermitani su dieci sono sconosciuti al fisco.
Solo in 4mila hanno un reddito di oltre 100mila euro, ma in provincia circolano
35mila auto di grossa cilindrata. Come vota l’evasione?
Nei programmi elettorali dei partiti, la lotta all’evasione fiscale è sempre in
bella evidenza. Citata ritualmente come obiettivo che, raggiunto sia pure
parzialmente (stiamo parlando di cifre che si aggirano sui 120 miliardi),
permetterebbe di abolire misure anti-popolari: dall’Imu alla sterilizzazione
delle pensioni rispetto al tasso di inflazione. In questo momento, si parla di
lotta all’evasione soprattutto per mettere in evidenza nuovi metodi di
contrasto, blitz che dovrebbero creare un effetto dissuasivo, creazioni di
conflitti di interessi tra chi paga le imposte e chi invece evade.
Una politica di comunicazione, correttamente, mette in luce il vasto
armamentario utilizzato dagli organi di controllo provando ad assicurare
evidenza mediatica alla repressione, sia essa concentrata in micro-interventi
(il controllo degli scontrini), che su macro-interventi come l’individuazione di
evasori totali. Poco si dice sulla concreta efficacia di questa azione e sulla
proporzione tra risultati raggiunti ed obiettivi prefissati.
Onde contribuire ad una migliore comprensione del fenomeno e della difficoltà di
azione che implica per ridimensionarlo vogliamo descrivere, per larghi cenni, il
contesto fiscale di una grande città meridionale, Palermo. Ci riferiamo ai dati
diffusi dal Ministero dell’Economia e rielaborati dall’Ufficio Statistica del
Comune.
Quattro palermitani su dieci sono sconosciuti al fisco: il 40% dei cittadini tra
i 15 e i 64 anni non paga le tasse, un parametro inferiore a quello relativo a
Napoli (55%), ma stridente rispetto a quello di Milano (8%). In sostanza, a
Palermo solo 270.000 persone circa su 439 mila residenti in età lavorativa danno
il loro contributo fiscale. Viene subito da chiedersi se ci troviamo di fronte a
una disoccupazione ben più alta rispetto a quella denunziata dalle statistiche
ufficiali (16%, secondo i dati Istat al 2011) oppure di fronte ad un’evasione di
massa. Solo l’1,4% della popolazione dichiara un reddito superiore ai 100 mila
euro: 4.000 “ricchi” rispetto a 263 mila contribuenti. La percentuale si impenna
nelle fasce più basse di contribuzione: il 14,7 per cento dei paganti dichiara
meno di 10 mila euro, il 6,3% meno di cinquemila.
Come è logico attendersi, in una città come Palermo la cui economia si fonda
principalmente sul terziario burocratico, la maggior parte dei contribuenti
(86.500 persone) dichiara tra i 20 mila e i 33 mila euro all’anno. Si tratta,
come anticipavamo, della fascia media dei dipendenti colpita dal fisco, con
nessuna possibilità di evadere e con scarsa probabilità di elusione,
direttamente sulla busta paga. Entriamo più nel dettaglio.
Nella fascia più bassa – da 5 a 15 mila euro – ci sono 60 mila contribuenti (con
uno stipendio lordo quindi che in media dovrebbe superare di poco i 1.200 euro).
Il doppio di quelli che dichiarano da 33 a 55 mila euro. Tra 50 e 70 mila euro
(quindi, con uno stipendio lordo che dovrebbe aggirarsi a poco più di 5.500
euro) ci sono solo 10 mila contribuenti. Solo 7 mila, per specificare meglio un
dato già citato, quelli con un reddito lordo tra 70 e 100 mila euro.
Un’osservazione prima di proseguire: se a pagare le tasse è la classe media, con
uno stipendio lordo medio di circa 2.000 euro, come si possono giustificare le
35 mila automobili di grossa cilindrata che circolano tra Palermo e provincia
(fonte Aci)?
Gli interrogativi che pone questa sommaria lettura dei dati trovano una
risposta, sia pur parziale, in altre evidenze: l’86% dei commercianti
palermitani non rilascia né scontrini né ricevuta fiscale. Una sorta di economia
invisibile, in larga parte informale, costituita dal commercio agro-alimentare,
degli ambulanti, dai gestori di ristoranti e pizzerie. Sono i risultati, quelli
ora esposti, che scaturiscono da un’indagine della Guardia di Finanza su un
campione di circa mille controlli, effettuata nei mesi scorsi.
L’indagine si è estesa anche alla provincia di Palermo. La percentuale di
evasori nel commercio tra città e provincia si attenua (il 47%) ma,
inspiegabilmente se si tiene conto dell’intensificarsi dell’attenzione,
raddoppia rispetto al 2011, quasi esistesse una correlazione positiva tra crisi
ed evasione.
Qualcuno ha provato a tracciare un identikit dell’evasore palermitano [2].
Accanto ai soggetti del sommerso (20-22% del Pil palermitano) e ai disoccupati,
si segnalano i cosiddetti evasori per sopravvivenza, micro-imprese individuali
che non riescono a rispettare norme e regolamenti. Fuori da ogni sospetto
organizzazioni mafiose (che paradossalmente vogliono pagare le tasse anche più
del dovuto, sia per evitare sospetti che per riciclare, attraverso, ad esempio,
il trucco della sovrafatturazione), compaiono sulla scena nuovi attori, i
commercialisti abusivi, professionisti della elusione “canaglia”. I
commercialisti dell’albo tendono a ridimensionare il fenomeno con il
tradizionale argomento: l’evasione non si misura in base al numero dei
“furbetti” (il caso di Palermo) ma rispetto alla somma non pagata che a Palermo
è poca cosa, rispetto ad altre realtà territoriali, visto la debolezza del suo
tessuto produttivo.
Resta un tema tutto da approfondire: l’evasione di massa come si intreccia con
l’espressione del consenso politico, con l’adesione a un sistema complessivo di
legalità, con la libertà di impresa? Pensiamo soltanto, in un quadro come quello
descritto, all’attenzione che può suscitare una proposta di condono tombale o,
viceversa, un’ipotesi di riduzione di imposte (non pagate) grazie ai proventi
accresciuti dalla lotta all’evasione.
11 febbraio
Basta con le “battutine”
Beatrix Kiddo durante il combattimento
contro gli 88 folli (Uma Thurman in “Kill Bill”)
Credevamo
di essercene liberate mandando giù tutto quello che ci ha fatto Monti, ma ci
eravamo sbagliate: ora la destra è un mostro a due teste, da una parte il
professore che fa patti con la Chiesa e il Papa, e dall’altra un signore che
pensavamo di non dover più rivedere, e che invece sta lì come se non se ne fosse
mai andato. Un signore che si vanta di essere un latin lover e che i realtà ha
ancora sul groppone un processo come imputato per concussione e prostituzione
minorile. Un signore che non sentivamo da tempo e di cui pensavamo di esserci
liberate per sempre: noi che con la speranza di non dover più sentire battutine
maschiliste da ubriaconi in bettole di terza categoria, avevamo accettato il
professore che con la bacchetta da maestro c’ha fatto neri a tutti. Noi, che
pensavamo di poterci scrollare di dosso – prima o poi – quella prassi italiana,
definitivamente sdoganata da lui e da quelli come lui, dei favori sessuali in
cambio di lavoro, candidature, carriere, case o soldi sonanti, e che invece oggi
ce lo ritroviamo lì, come un lupo travestito da salvatore che promette a tutti
quello che non può permettersi di dare in cambio (e lui lo sa che non può), pur
di salvare se stesso in una lotta contro il tempo su questioni giudiziarie di
cui adesso pochissimi giornali parlano.
Ironia della sorte il sacrificio non è servito, e ora ci ritroviamo con le pezze
e nuovamente con la faccia di questo signore davanti che ridacchia e scherza con
quelli che erano i suoi nemici, e che adesso non si permettono più di tanto
perché “non si sa mai”. Lui, che perde le staffe se qualcuno – pochi in realtà –
gli butta la verità in faccia, e cioè che quello che dice “non è vero”. Lui, che
tutte noi credevamo cotto, e che invece oggi è più aggressivo che mai perché non
ha risolto tutto quello che doveva risolvere nel suo interesse e che quindi ce
la deve fare anche stavolta. Ecco questo signore che va per gli ottanta e che in
un mese ha ripreso la scena della politica italiana come se non si fosse mai
mosso da dov’era, adesso – per far vedere che non ha nessun “pentimento” e che è
giusto essere così – su un palco di una piazza italiana davanti a una folla di
persone, chiede a una giovane ragazza che presenta l’evento, e di cui potrebbe
essere il nonno, quante volte “viene”: quante volte “viene”? E a te che te ne
importa quante volte viene questa ragazza? Ed ecco che, come un miracolo, in un
attimo si ricrea quell’atmosfera di complicità maschile in cui la gente applaude
sciocca la scenetta dove “ironicamente” si mima una contrattazione a sfondo
sessuale: scenetta che si conclude con la richiesta del nonno della visione del
posteriore della giovane-merce, come fosse al mercato delle schiave.
Cosa crede questo signore, che sia un complimento per noi? Non sa che per le
donne suona come un’offesa? Che questo è un messaggio machista che traghetta
l’idea che le donne sono merce da comprare, usare, valutare, svendere e se
necessario anche da prendere con la forza, da tenere sotto, e se non danno retta
anche da uccidere? L’offesa che rivolge a quella ragazza che imbarazzata ride
perché non sa come difendersi (invece di dare uno schiaffo sonoro: ma che
goduria sarebbe!), è un’offesa che fa a tutte le italiane ormai arcistufe di
queste “battutine”. Donne che vivono una forte discriminazione a casa, a lavoro,
per strada, nella società e nella politica, donne che rimangono in situazioni di
violenza perché costrette a vivere con il proprio aguzzino in casa in quanto
economicamente dipendenti, donne che subiscono torti e soprusi sessuali, fisici,
psicologici, perché non sanno dove andare, come difendersi. Un’offesa a tutte
quelle donne uccise in Italia, prese a forbiciate, a mattarellate in testa,
accoltellate in casa propria, strangolate, buttate giù dal balcone dai loro
uomini, solo perché hanno detto “no” a quella sottomissione e a quel controllo.
Caro signore, tutto ha un limite e questo è troppo: le donne questo non lo
vogliono, perché non fa piacere, non è un complimento e ci siamo rotte di
sopportare quella cialtroneria che in questi anni ha ritirato fuori il peggio
degli italiani: quell’italietta ignorante, burina, maschilista, che la domenica
va allo stadio gridando cori razzisti e sessisti, quell’Italia che dice messa e
poi approfitta per “educare sessualmente” i bambini, quell’Italia che la mattina
prende la valigetta da professionista per andare a lavoro e la sera quando
rincasa tonfa di botte la moglie, questa Italia che fa finta di non sapere e che
invece sa che ogni sera il vicino di casa abusa dei figli ma non dice niente,
un’Italia becera che ti fischia per strada perché di te vede solo una gigantesca
f*ca che cammina, e che sogna una donna un po’ mamma un po’ migno*ta, perché
quello che veramente sei non gli interessa. Un Paese in cui le donne si devono
difendere con le unghie e con i denti.
L’anno scorso a Torino, al tavolo sui mass media del convegno sulla violenza
“Mai più complici” organizzato da Snoq, una donna dell’organizzaione continuava
a dire che ormai questa epoca era tramontata, che il peggio era finito e che
tutto quello che era stato negli ultimi anni potevamo anche dimenticarcelo.
Ecco, proprio a lei, e alle donne che la pensano come lei, dico che se non
tiriamo fuori la Beatrix che è in noi, tra poco potrebbe essere anche peggio.
di Luisa Betti
pubblicato il 11 febbraio 2013
Quando Mps ripuliva a Forlì
soldi di San Marino. Per Bankitalia era tutto regolare
Le carte dell'inchiesta del 2008 sull'enorme flusso di contanti in banconote
da 500 euro che il Monte dei Paschi esportava oltreconfine passano a Siena.
Nella provincia romagnola si muoveva il triplo dei soldi di Milano e Roma.
Eppure nessuno si è insospettito
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Ancora
Mps, ancora Bankitalia. Torniamo indietro di qualche anno, al 2008, a Forlì ,
quando il Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di risparmio di San Marino
vengono rinviate a giudizio per il riciclaggio di 1 miliardo e 600 milioni di
euro. Ora gli atti di quell’inchiesta sono stati trasmessi alla procura di Siena
perché potrebbero fornire degli elementi utili ai pm che stanno indagando
sull’istituto di credito senese. Lo rivela Repubblica ricordando come Mps,
attraverso la sua filiale forlivese, è stata accusata di aver ripulito, nel
biennio 2006-2008, decine di migliaia di assegni messi all’incasso dalla banca
di San Marino. Una volta trasformati in contanti dall’istituto senese, i titoli
tornavano a San Marino con dei furgoni che trasportavano oltreconfine fino a due
milioni e mezzo di euro a settimana. Tutti in banconote da 500. Per questo
motivo il Monte si riforniva continuamente dalla filiale locale della Banca
d’Italia presso la quale aveva un conto.
Dalle carte emerge che Mps ha prelevato dalla filiale di Forlì il 14,2% del
contante totale di quanto prelevato su tutto il territorio. Non solo, tra il
2007 e il 2008 la filiale romagnola della Banca d’Italia ha erogato agli
istituti di credito della zona (principalmente Mps, ma anche Unicredit) una tale
quantità di banconote da 500 euro che era costretta a rifornirsi continuamente
dalla banca centrale. “Il Servizio cassa generale della Banca d’Italia ha dovuto
rifornirla, dall’inizio del 2007, di un milione di pezzi di banconote da 500
euro – si legge nel fascicolo – Nel periodo 2006-2008 lo sbilancio tra banconote
da 500 versate e prelevate dai conti di gestione è risultato pari a 1 milione e
700mila pezzi.
Eppure nessuno si è insospettito. Nemmeno quando nel 2008 la filiale di Forlì
risultava al secondo posto in tutta Italia per banconote da 500 euro emesse.
Nella provincia romagnola si muovevano soldi “in misura tripla rispetto a Milano
e Roma “. Il flusso si è fermato solo quando è stato scoperto il riciclaggio
sulla tratta Forlì-Rimini . E gli ispettori di Bankitalia non hanno riscontrato
“irregolarità in ordine all’operato della filiale di Forlì”.
Ecco gli sprechi Made in
Italy.Per la Corte dei
Conti danni da 300 milioni
Un catalogo che mette in mostra i casi più
emblematici di sperpero di denaro in Italia. Dal ponte di Calatrava a Venezia al
maestro che sottrae gli alimenti destinati agli alunni, un anno di lavoro delle
procure regionali
Il ponte di Santiago Calatrava sulla Laguna
Dal
ponte di Venezia "scivoloso", al maestro marchigiano che mette in tasca alimenti
destinati agli alunni, passando per casi di malasanità, corruzione e frode. E'
il quadro - certo a tinte poco luminose - dell'Italia degli sprechi e delle
frodi tratteggiato in un dossier messo a punto dalla procura generale della
Corte dei Conti. I magistrati contabili ha messo insieme, in un catalogo poco
onorevole per l'immagine del Paese, le iniziative più rilevanti dei procuratori
regionali. Casi che nel 2012 hanno comportato un pregiudizio economico che "in
base ad un calcolo necessariamente provvisorio si valuta in oltre 293,632
milioni di euro".
La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta lo scorso anno da tutte
le procure regionali e ha messo insieme "le fattispecie di particolare
interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il
pregiudizio economico spesso ingente". Dal parcheggio messo sotto sequestro a
Genova perché insisteva in un sito sottoposto a vincolo storico-paessaggistico,
al giro di mazzette nelle camere mortuarie dei nosocomi di Milano; dalle
consulenze "inutili" (così le definisce la stessa magistratura contabile) della
provincia di Napoli alla "erronea" utilizzazione del tariffario da parte delle
Asl calabresi per le prestazioni specialistiche e di laboratorio, la casistica
delle truffe e dei danni allo Stato è ampia. Nei faldoni finiti nel mirino dei
magistrati contabili anche consulenze non lecite, "imprudenza nella stipulazione
di contratti di finanza derivata", omessa riscossione delle imposte.
Sfogliando i faldoni delle procure regionali si incontrano "fenomeni già noti -
come rilevano i magistrati contabili - di corruzione, di malasanità, di
conferimento di consulenze in violazione di norme". Ma anche operazioni
spericolate con i derivati, abusi nella gestione del personale e omissioni nella
riscossione dei tributi. Fino a casi di singoli funzionari di piccolo cabotaggio
che per imperizia o per frode hanno causato danni alla pubblica amministrazione.
Ecco i casi più eclatanti:
- Venezia , il ponte che fa scivolare . E' il Ponte della Costituzione, dell'archistar
spagnolo Santiago Calatrava, per il quale la Corte dei Conti ha riscontrato
"comportamenti colpevoli del progettista e del direttore dei lavori". Tanti
scivoloni per i turisti e un danno all'erario di 3,467 milioni di euro.
- Firenze, premi a pioggia per gli addetti del Comune . Il danno per gli errori
nella gestione del personale ammonta a 50 milioni.
- Abruzzo, dai lavori post-sisma alle multe stracciate . Le vertenze in corso di
istruttoria riguardano soprattutto i contributi per i lavori a seguito del
terremoto del 2009. Ma ci sono anche casi di "mancata riscossione di
contravvenzioni al codice della strada da parte di diversi Comuni" grazie ad
"amicizie" tra multati e funzionari pubblici.
- Campania, il litorale e i suoi rifiuti . Una citazione per un danno di circa
43 milioni di euro ha riguardato la gestione del contratto per la bonifica e lo
stoccaggio dei rifiuti nel litorale Domizio Flegreo e Agro Aversano.
- Emilia Romagna, palazzi acquistati ma vuoti . Il caso è dell'ufficio Inail
distaccato di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna. Il danno per
sovra-prezzo e sovra-dimensionamento è di 3,3 milioni.
- Trieste, il muse costa 600mila euro ma non c'è. Il contributo era stato
versato dalla Regione Friuli Venezia Giulia "ad una nota Fondazione di
fotografie antiche", fa sapere la Corte.
- Scuola Diaz, indaga la procura del Lazio . Il G8 si svolse a Genova ma è nelle
mani della Corte dei Conti del Lazio il procedimento per accertare "l'ipotesi di
possibile danno erariale e all'immagine subita dall'Amministrazione per gli
Interni".
- In Molise il collegamento Termoli-Croazia è salatato . Società mista
irregolare, tutto da rifare e il danno è di 6 mln.
- Piemonte, ombre su Grinzane Cavour. L'associazione che gestisce il prestigioso
premio avrebbe sottratto illecitamente fondi della Regione Piemonte.
- Sardegna, si comprano le banche ma mancano i marinai. Prima sono state
comprate le imbarcazioni, poi sono rimaste ormeggiate "essendo carente il
personale per la conduzione dei mezzi".
- Sardegna, appalti edili in cambio di lavori domestici. E' il caso di un
tecnico comunale di un Comune della Sardegna che affidava lavori a un'impresa in
cambio di opere per la propria abitazione.
- Sicilia, nomine regionali sotto la lente. Per presunti illeciti nella nomina
di consulenti, per danni legati a dismissioni del patrimonio immobiliare, per
l'assunzione di soggetti sprovvisti dei prescritti titoli professionali.
L'ultima bugia dell'Alitalia:
tariffa "elettorale" per i giovani
La compagnia aveva promesso, dopo le polemiche sul voto agli studenti erasmus,
voli a 99 euro per i giovani che devono rientrare dall'estero. Ma la tariffa è
introvabile e un biglietto Londra-Roma-Londra costa oltre 500 euro
di FRANCESCO MERLO
QUEI
571,95 euro per venire a votare mio figlio diciottenne non li può spendere. E
magari "truffa" non è la parola adatta, ma certo è una miserabile bugia dell'Alitalia
la fantomatica "tariffa agevolata di 99 euro andata e ritorno per favorire il
rientro in Italia di tutti gli studenti, fino a 26 anni non compiuti, che si
trovano all'estero per motivi di studio".
Per 4 volte ho tentato di comprare il biglietto a costo elettorale ma non c'è
stato nulla da fare. Ho chiamato il Customer Center (è il solito inglese dei
cretini cognitivi, è solo un centralino), e ho parlato, senza mai dire che sono
un giornalista, anche con due capi ufficio. Con gentilezza mi è stato fatto
sempre lo stesso conto: 571,95 euro.
La promessa non mantenuta (99 euro) è evidentemente diventato il trucco shock
del nuovo imbonitore italiano che meno ha e più fa vanto, più è disperato e più
inganna: 4 milioni di posti di lavoro (che sono la metà degli otto milioni di
baionette), la restituzione dell'Imu... e 99 euro per tornare a votare che sono
quasi la metà della metà della metà della verità. Cosi il commercio diventa
inganno e nessuno crede più a nessuno. Conta solo l'effetto annuncio.
5 febbraio
Le spara sempre grosse Berlusconi,
il suo obiettivo è “choccare”,
adesso parla di “restituzioni”,
fino a quando s’andrà a votare !
Ci proporrà anche “prostituzioni”
a piacimento, e senza pagare
ci farà dono delle illusioni
per farci stare bene, per campare !
Ridarà l’IMU e tutte le tasse,
insieme ad un CONDONO TOMBALE,
però finora ci svuotò le casse
agendo da perfetto criminale!
Così farà contento l’evasore
Prendendo per il culo l’elettore!
Vox
L'università che ci
meritiamo
Alessandro Dal Lago
Il documento sullo stato dell'università italiana
elaborato dal Cun e ampiamente commentato in questi giorni dalla stampa è più di
un rapporto. È la certificazione di un'agonia. I dati sono noti ma vale la pena
riassumerli in poche righe: diminuzione degli immatricolati del 17% negli ultimi
dieci anni, riduzione del corpo docente del 22% dal 2006 a oggi, taglio
inarrestabile del finanziamento ordinario, delle borse di studio e dei fondi
della ricerca. Grazie a questo dimagrimento forzato, i dati sulle prestazioni
del sistema non possono che essere peggiorati.
Basti dire che nella classifica del numero dei laureati l'Italia è al 34mo posto
su 36 paesi Ocse.
Oddio, in questo panorama di deflazione (anzi, di depressione) culturale e
scientifica c'è una vistosa eccezione: l'Anvur, la famigerata Agenzia di
valutazione dell'università (ampiamente sbeffeggiata in Italia e all'estero per
le sue procedure insensate, gli errori marchiani e l'avversione di cui gode nel
mondo accademico), ma che ci costa più di 300 milioni di euro in tre anni. Uno
spreco di denaro privo di senso: se mai l'abilitazione nazionale avrà una
conclusione (ciò di cui tutti dubitano), il 90% degli abilitati non potrà essere
reclutato dagli atenei per la mancanza di fondi, e quindi tutto sarà stato
inutile. Una vera beffa per chi sinceramente credeva, facendo domanda, di essere
riconosciuto per il suo merito di ricercatore, invece che per l' appartenenza a
qualche cordata o tribù accademica.
Tuttavia, la vicenda Anvur, se inserita sullo sfondo dell'agonia
dell'università, ci dice molto sulla lungimiranza del sistema politico italiano,
di centrodestra e centrosinistra, in tema d'innovazione scientifica e ricadute
della ricerca sul benessere comune. I ministri, consulenti e opinionisti che
hanno gonfiato la necessità di una valutazione oggettiva, quantitativa e
neutrale dell'università, all'insegna dello slogan «basta con i fannulloni!»,
sono gli stessi che si auguravano fino all'altro ieri la diminuzione di studenti
e professori, l'aumento delle tasse, lo sgonfiamento di un sistema troppo
cresciuto e così via. Penso a Perotti, Giavazzi, Gelmini e tutti gli altri. Un
coro di profeti di sventura, le cui previsioni alla fine si sono avverate: oggi
l'università italiana, saccheggiata in nome del merito, della serietà, del
rigore ecc. produce meno laureati, dottori di ricerca, docenti di qualsiasi
altro paese sviluppato - ed è un vero miracolo che continui a sfornare un numero
di brevetti e pubblicazioni scientifiche che la collocano al settimo posto nel
mondo.
Ma, appunto, tutto questo ha un significato che trascende le vicende
dell'università. Per sintetizzare in poche parole il problema: il ceto politico
italiano non ha mai ritenuto che valesse la pena investire nella ricerca e
quindi nell'università pubblica.
Qui appare un paradosso clamoroso: i governi del nostro paese sono sempre stati
colonizzati da professori universitari. Tra i primi che mi vengono in mente,
Amato, Prodi, Urbani, Berlinguer, Diliberto, Brunetta ecc. per non parlare del
governo in carica che annovera tre rettori e professori di ogni genere e
statura. Ebbene, come spiegare l'evidente e costante disinteresse di questi
accademici per l'istituzione da cui provengono? Una risposta malevola potrebbe
essere che tutti costoro hanno usato l'università per fare carriera politica. Ma
forse quella più realistica è che tutti o quasi hanno voluto un'università
adeguata a un paese ai margini delle economie più ricche.
Qui sta probabilmente il nodo della questione università. Un sistema politico di
ampie vedute sa che un'università ben finanziata, capace di lavorare non solo
per le aziende ma anche per lo sviluppo culturale dei suoi abitanti in campi non
immediatamente remunerativi, non è solo un lusso. È un investimento sul futuro.
Permette alle giovani generazioni sia di competere in campo scientifico e
linguistico, sia di aprirsi la mente, di godere di capacità critica e di
indipendenza di pensiero. Di giudicare le scelte politiche ed economiche di chi
li governa, di arricchire le proprie esperienze non solo in tema di listini di
borsa e nuovi software, ma magari di arte, letteratura e altri mondi. Se tutto
questo sembrasse un'utopia andate a dare un'occhiata ai corsi di laurea in
Germania o negli Usa. Certo, anche lì si taglia e si riduce, ovviamente, ma
nessuno si sognerebbe di dire, come il mitico Oscar Giannino, che la diminuzione
degli immatricolati è una buona cosa. O che è meglio rinunciare ai corsi di
antropologia o letteratura per quelli di economia aziendale, come se questa
fosse un'alternativa razionale.
Un'università fatta di Bocconi e politecnici in sedicesimo - a vantaggio dei
privati, ma a spese dei contribuenti - è stato l'obiettivo costante dei governi
di centrosinistra e centrodestra negli ultimi 25 anni. Un'università di questo
tipo è perfetta per un'economia di servizi, di piccole aziende, di una Fiat che
chiacchiera in Italia e investe in America, di speculazioni finanziarie e banche
allo sbando. Questo è oggi il nostro paese e questa è la sua università.
La rotta d'Italia
di Leopoldo Nascia
F35 e spese militari: le alternative possibili
Il dibattito sull’opportunità di acquistare i
caccia F35 è al centro del dibattito politico, dopo le dichiarazioni del leader
del centro sinistra Pierluigi Bersani sulla necessità di ripensare la
partecipazione al programma. Rivediamo come sono andate le cose
Dalla fine degli anni novanta l’Italia è entrata nel consorzio di nove paesi che
dovranno sviluppare e produrre gli F35, velivoli da guerra ad alta tecnologia in
grado di sfuggire ai radar. L’impegno del governo è stato, prima, di acquistare
131 velivoli per un costo di oltre 15 miliardi; è poi stato ridimensionato ad
‘appena’ 90 unità a causa dei recenti vincoli di bilancio, ma i risparmi
previsti sono limitati, appena tre miliardi di euro per l’aumento dei costi
unitari. Tuttavia, argomentano i militari, il programma sarebbe ‘ripagato’ dalla
creazione di oltre diecimila nuovi posti di lavoro. In realtà la spesa impegnata
fino ad oggi – circa 2,7 miliardi, di cui 800 milioni spesi solo per lo
stabilimento di assemblaggio di Cameri (Novara) – non ha visto ancora il ritorno
occupazionale previsto e anche con l’indotto l’occupazione aggiuntiva sarà
nell’ordine delle centinaia di unità. Nel futuro, qualche migliaio di lavoratori
ora addetti alla produzione dei “vecchi” eurofighter verranno recuperati dalla
produzione di F35, ma non si vede da dove i 10 mila nuovi posti di lavoro
possano venir fuori.
Come sempre succede, poi, i programmi di nuove armi sono pieni di problemi. I
cacciabombardieri non volano ancora e a impennarsi sono soltanto i loro costi,
tanto da indurre il congresso Usa a mettere sotto controllo l’intero programma.
Negli anni, i partner del consorzio hanno progressivamente rivisto al ribasso la
propria partecipazione al programma, di fronte alla crisi e ai problemi di
realizzazione, da ultimo il rischio di esplosione del velivolo in caso di
fulmini. Alcuni paesi, come Olanda e Regno Unito, nutrono sempre più perplessità
al riguardo, altri come il governo conservatore del Canada hanno rinunciato al
programma, dopo che le previsioni di spesa per gli F35 si sono rivelate
sistematicamente sottostimate, sia in termini di costo di acquisto sia in
termini di esercizio.
L’Italia dovrà mettere in conto, oltre ai 12-15 miliardi per l’acquisto, i costi
di esercizio e manutenzione che nel tempo, se in linea con le previsioni del
Parliament Budget Office canadese, saranno superiori a trenta miliardi: in
trent’anni il programma F35 costerà ai cittadini italiani circa 40-45 miliardi
di euro, in pratica una manovra finanziaria. Allo stato dei fatti, l’Italia
rischia di diventare l’unico paese dell’Unione Europea a disporre di F35, non
proprio sulla rotta dell’integrazione con una difesa comune del continente.
La campagna “Tagliamo le ali alle armi”, promossa da Sbilanciamoci! e molte
altre organizzazioni (
http://www.sbilanciamoci.org/2013/01/f-35-spreco-e-problemi-e-ora-di-cambiare-rotta/)
in questi anni ha messo la questione degli F35 all’ordine del giorno del
dibattito politico: ora Pierluigi Bersani tentenna e Massimo D’Alema è costretto
a difendersi dicendo che lui, quand’era presidente del consiglio, aveva
autorizzato la partecipazione dell’Italia a un programma per la costruzione di
un cacciabombardiere “low cost”, come ricordano in questi giorni le
dichiarazioni di Flavio Lotti (candidato con Ingroia) e Giulio Marcon (candidato
con Sel).
Mentre l’Aeronautica militare convoca la stampa a Cameri per mostrare lo
stabilimento di assemblaggio e decantare i (pochi) posti di lavoro creati, è il
caso di valutare meglio le alternative agli F35. Il programma è oggi in serie
difficoltà, in tutti i paesi lo scetticismo sulle possibilità di realizzazione
ai costi previsti si diffonde in tutte le forze politiche e negli Usa si
moltiplicano le critiche da parte del Congresso. Quanto agli effetti
occupazionali, una spesa analoga in campo civile avrebbe risultati molto più
grandi: ad esempio con un solo F35 si può finanziare per un anno la gestione di
500 nidi per 35 mila bambini, con circa 7500 nuove unità di occupazione; i nuovi
nidi aumenterebbero il tasso di attività femminile e creerebbero sbocchi
occupazionali proprio per le donne, che tradizionalmente registrano maggior
disoccupazione e minore partecipazione alle forze lavoro, in special modo al
sud.
Ma vediamo come sta cambianod l’insieme della spesa militare italiana. L’Italia
è alla vigilia di una revisione dello strumento militare e deve rivedere scelte
strategiche, sistemi d’arma e spese militari in un quadro più ampio ed europeo.
La revisione, delegata al Ministero della difesa tramite un processo di
delegificazione spurio, dovrebbe condurre a una riduzione delle forze armate a
circa 150 mila unità (nel Regno Unito sono poco più di 100 mila), e a una
composizione della spesa meno concentrata sul personale e più orientata agli
investimenti, lasciando mani libere al Ministero della difesa nella destinazione
del proprio budget. Nonostante le spese del ministero della difesa siano passate
pressoché indenni attraverso le finanziarie del governo Berlusconi, e nonostante
la spending review abbia previsto alcuni tagli (236,1 milioni nel 2013, 176,4
milioni nel 2014 e 269,5 milioni nel 2015), gli allegati tecnici dell’ultima
Legge di stabilità prevedono un incremento complessivo del bilancio della
difesa.
In tempi di drastici tagli alla spesa pubblica, il bilancio del Ministero della
difesa passa così dai 19.962 milioni dell’esercizio 2012, a 20.935 nel 2013 fino
a 21.024 milioni di euro nel 2015. In tre anni, il ministero della difesa
aumenta del 5,3% le proprie risorse, pari a più di un miliardo di euro. Tale
aumento da un lato contrasta con la riduzione degli organici e dall’altro è in
controtendenza nel quadro di tagli generalizzati agli altri ministeri. Per
citare qualche esempio, nello stesso periodo il Ministero dello sviluppo
economico registra una riduzione di più del 30% delle risorse (da 13,9 miliardi
nel 2013 a 10 miliardi nel 2015), il Ministero dell’istruzione nel 2015 perde
circa 700 milioni di euro, il Ministero della salute perde 100 milioni nel 2015.
Il motivo dell’aumento di budget, leggendo le relazioni al parlamento per la
riforma dello strumento militare del ministro Di Paola, scaturisce dalla bassa
percentuale sul Pil della funzione difesa: 0,84% pari a 13,6 miliardi nel 2012,
contro una media europea dell’1,61%.
In realtà, la lettura di altre fonti ufficiali fornisce un quadro diverso: le
spese per la difesa in Italia sono, secondo la Nato, sulla base delle
informazioni fornite dal governo italiano nel 2011, pari a 21,7 miliardi di euro
(1,4% del Pil). Secondo l’Istat, l’Italia ha speso nel 2011 oltre 25 miliardi di
euro per la funzione difesa, pari all’1,6% del Pil.
Nella scorsa “contro finanziaria” Sbilanciamoci! ( http://www.sbilanciamoci.org/wp-content/uploads/2012/11/rapporto-sbila-2013_def-stampa1.pdf)
ha stimato oltre 23 miliardi di euro di spesa militare, a cui si aggiungono
circa 50 milioni di mancato introito per lo stato per le detrazioni riservate al
personale della sicurezza e 3,5 miliardi di spesa pensionistica annuale a favore
dei militari, per un totale di 26,8 miliardi di euro. Ad esclusione dei dati del
Ministero della difesa, tutte le fonti indicano una spesa molto maggiore, in
linea con le richieste della Nato e i volumi di spesa degli altri paesi Ue. La
revisione del modello di difesa offre l’opportunità di pensare a risparmi
consistenti di almeno un miliardo l’anno, senza pregiudicare la nostra capacità
difensiva e liberando risorse per maggiori spese in campo civile e sociale.
Vediamo che cosa si potrebbe fare in concreto.
In pimo luogo, la riduzione del personale a circa 100mila unità, come nel Regno
Unito, al posto delle prospettate 150 mila, in un periodo di tempo inferiore a
10 anni, permetterebbe un risparmio di oltre 500 milioni di euro l’anno. Il
congelamento delle accademie per alcuni anni consentirebbe di risparmiare da
subito sui costi di esercizio e, nel tempo, porterebbe a un riequilibrio delle
nostre forze armate, eccessivamente sbilanciate verso i gradi di ufficiale e
sottoufficiale. In secondo luogo, l’abolizione del programma F35 e il blocco
degli investimenti in sistemi d’arma fino al 2015 porterebbe ulteriori risparmi
di spesa, creando nuovi spazi per le manovre di finanza pubblica. In terzo
luogo, si potrebbero risparmiare diversi milioni di euro cancellando l’impiego
dei militari in operazioni di ‘sicurezza’ sulle strade e nelle città italiane.
L’ostinazione dei governi e dei vertici militari ad acquistare i
cacciabombardieri F35 è al centro della strategia di mantenere un apparato
militare elefantiaco e costoso, è il riflesso di un’idea di potere militare e di
privilegi per la “casta” dei generali che il paese non si può più permettere.
Cancellare gli F35 è il primo passo per ripensare le politiche per la sicurezza
dell’Italia.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte : www.sbilanciamoci.info.
1 febbraio
Politiche
sociali, in 5 anni tagli del 75%. Cgil: "Cancellati fondi non autosufficienza"
Dossier del sindacato: le
risorse sono passate da 923 a 70 milioni. Colpiti anche fondi per la famiglia e
le politiche giovanili. Carla Cantone (Spi Cgil): "Siamo all'anno zero del
welfare". I tagli riguardano anche gli enti locali, e soprattutto il mezzogiorno
ROMA
- Allarme risorse per le politiche sociali. A lanciarlo è un dossier dello Spi
Cgil che calcola come, negli ultimi 5 anni, il fondo per le politiche sociali
abbia subito un taglio del 75% passando da una dotazione originaria di 923,3
milioni di euro a 69,95 milioni.
Il Fondo, ricorda il sindacato, costituisce la principale fonte di finanziamento
statale degli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie. Sul 'saldo'
pesantemente negativo ha influito il destino del Fondo per la non
autosufficienza: la sua dotazione finanziaria che nel 2010 era di 400 milioni di
euro, infatti, si legge ancora nell'indagine, è stato del tutto eliminato dal
governo Berlusconi e non è stato rifinanziato dal governo Monti "nonostante le
reiterate promesse in tal senso". Ulteriori decurtazioni sono state poi
apportate al Fondo per le politiche della famiglia che è passato da 185,3
milioni a 31,99 milioni e a quello per le politiche giovanili, sceso dagli
iniziali 94,1 milioni a 8,18 milioni.
"Ormai siamo davvero all'anno zero del welfare pubblico - commenta Carla
Cantone, leader Spi Cgil - con un continuo taglio di risorse che sta privando
dei servizi di assistenza le fasce più deboli del paese, che in questo modo sono
state letteralmente abbandonate al proprio destino". Per la dirigente sindacale
"è bene che
la politica si affretti a intervenire", "il welfare deve essere messo al centro
della campagna elettorale e del programma di governo di tutti i candidati".
Invece, conclude, "nessuno finora ha detto ancora niente in merito e non
vorremmo che si perdesse ancora una volta l'occasione per risolvere una
questione che tocca da vicino i bisogni delle persone".
La situazione delle risorse per le politiche sociali non migliora a livello
locale: nei Comuni italiani si è infatti registrata una diminuzione della spesa
per i servizi sociali in senso stretto nel 2012 del 3,6%. Del 6,8% è stata
invece la diminuzione di risorse stanziate per il welfare allargato (servizi
sociali, istruzione, sport e tempo libero), con punte dell'11% rilevate in
diverse zone del Mezzogiorno. Più contenuta è stata la riduzione a carico delle
spese per l'amministrazione generale (auto-amministrazione, costi della
politica), che si è attestata al 2,9%. Le entrate tributarie, sottolinea infine
lo Spi, sempre nel 2012 sono però aumentate del 9,5%.
Monti, non-candidato-già-eletto,
diventato politico di fatto,
ha già ereditato il difetto
di dir cazzate al primo contatto!
Aveva fama di uomo corretto,
pronto a rispettare un contratto.
Ora parlando, dice : «Vi prometto…!»
giustificando ciò che non ha fatto!
Vuole passare per riformatore
spacciando per ricette d’equità
quelle proprie di un conservatore
perché rimanga tutto come sta!
Per la gioia di tutti i banchieri:
farà domani … ciò che fece ieri!
Vox
Giornata
della memoria, l’illusione infranta da Berlusconi
di Giorgio Simonelli
E’ proprio vero quel che dice quella canzoncina scema: “Meno male che Silvio
c’è”. Ci pensavo ieri sera, mentre terminava la giornata della memoria . Era
stata, a mia impressione, la più intensa delle celebrazioni di questa ricorrenza
, nata solo una dozzina di anni fa e quindi di non facile accoglienza nella vita
di un paese svagato e distratto, che fatica a celebrare le sue feste più
antiche. Questa volta, invece, forse grazie alla coincidenza con una domenica,
la giornata della memoria aveva visto una diffusione di iniziative e di presenze
sorprendenti. Tutti avevano svolto egregiamente il loro compito: i comuni, anche
più piccoli, impegnati in varie manifestazioni e il governo, con i viaggi ad
Auschwitz organizzati dal Miur e guidati da un ministro dell’istruzione
finalmente vero, dopo gli anni dell’avanspettacolo. Persino la famigerata
televisione , che di solito in queste nobili occasioni dà il peggio di sé, ha
fatto le cose per bene . Un’offerta eccellente sui canali tematici come Rai
Storia; una scelta saggia da parte delle generaliste, che hanno rispolverato
l’antica consuetudine di collocare in prima serata un buon film significativo
per quella particolare circostanza; a sorpresa, l’adesione al clima della
giornata anche da parte dei canali sportivi, quelli di Sky in modo particolare.
Insomma, un’insolita sensazione di vivere in un paese normale, persino serio, di
livello culturale europeo, come la Germania, dove il capo del governo poche ore
prima aveva fatto una riflessione profonda e terribilmente impegnativa sul peso
che grava ancora sul popolo tedesco a causa delle colpe del nazismo.
Poi all’improvviso ci ha pensato lui a infrangere questa illusione, con una
dichiarazione che mi colpisce soprattutto per l’ignoranza sommaria che rivela,
perché non spiega quali sono le cose buone che Mussolini avrebbe fatto:
l’eliminazione, forse un po’ brutale ma inevitabile, dei comunisti, tanto cara
al nostro? La bonifica delle paludi pontine che sempre si cita in questi casi? O
i treni che circolavano sempre in orario? Per i quali vale però sempre la
celebre risposta di Massimo Troisi: “Vabbè, ma per questo bastava che lo
nominassero capostazione, non capo del governo”.
Eh sì! Meno male che Silvio c’è, a impedire di illuderci, a ricordarci che
viviamo in un paese in cui nessuna impresa è mai compiuta (e non solo gli
ospedali e le metropolitane), in cui anche le cose che nascono dalle migliori
intenzioni e partono con il piede giusto trovano sempre sulla strada un
guastafeste in grado di rovinarle.