26 novembre
“Maledetti voi...!” Acqua privatizzata Napoli, 19 novembre 2009
Non posso usare altra espressione per coloro che
hanno votato per la privatizzazione dell’acqua , che quella usata da Gesù nel
Vangelo di Luca, nei confronti dei ricchi :” Maledetti voi ricchi….!”
Per questo chiediamo: Alex Zanotelli
18 novembre
Acqua pubblica. Ai privati
Il governo pone la fiducia sulla
privatizzazione dell'acqua
"Un
giorno ci faranno pagare anche l'aria che respiriamo". Il
vecchio adagio del mugugno popolare presto si potrà applicare a
un bene pubblico e prezioso come l'acqua. Che sarà privatizzata
- cosa privata - entro il prossimo mercoledì. Non serviranno a
nulla le proteste dell'opposizione riformista e cattolica, né
l'invito a riflettere rivolto al PdL da parte degli alleati
della Lega. Sul decreto Ronchi è stata posta, per la
ventottesima volta, la questione di fiducia. Si blinda la
decisione del governo filoimprenditoriale di togliere l'acqua al
popolo, e lo si fa bruciando, di fatto, tutte le regole della
democrazia parlamentare.
A far pensare che l'operazione legislativa sia l'ennesimo sfoggio dei muscoli da parte della maggioranza è proprio la questione di fiducia. Il colonnello del premier al quale è stato affidato l'arduo compito di comunicare la decisione ai parlamentari è stato Elio Vito, ministro per i rapporti con il Parlamento, che ha giustificato il dictat di Berlusconi con un laconico "scelta per velocizzare i tempi". Dopo l'approvazione in Senato, avvenuta il 4 novembre scorso, il tempo per una corretta, e doverosa, discussione a palazzo Montecitorio ci sarebbero stati tutti - il provvedimento scade fra una settimana. Solo che il "B-Style" impone di imporre le decisioni di quelli che di voti elettorali ne hanno ottenuti di più. Ed ecco così che o si consegna l'acqua alle multinazionali o si va tutti a casa che, come noto, non è proprio un costume tipicamente italiano. Quindi il quadro che si prospetta è evidente. Articolo 15. É il fulcro della protesta. In base alla sua applicazione la maggior parte dei servizi ora di competenza degli enti locali verranno liberalizzati (privatizzati). Escluse le gestioni del gas, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali, tutto ciò che prima era di competenza delle giunte locali verrà fagocitato da aziende private. Queste beneficeranno della norma che vieterà allo Stato e agli enti territoriali di mantenere quote di capitale superiori al 30 percento sui servizi. Il resto sarà nelle mani delle Spa che, dopo il 31 dicembre del 2010, non potranno più essere assegnatarie dirette dei servizi ma dovranno obbligatoriamente concorrere a gare d'appalto per la gestione degli stessi. E anche sulle gare d'appalto le usanze italiche sono, purtroppo, ben note. PeaceReporter ha raggiunto Emilio Molinari, presidente del Contratto mondiale sull'acqua. Come giudica questa mossa politica del governo? La fiducia è l'ultimo capitolo di un misfatto che va avanti dal 2003. La privatizzazione in Italia ha una specificità di obbligatorietà che non è stata richiesta dall'Unione Europea. Oltre che un atto di privatizzazione è dunque un atto autoritario e anticostituzionale che sottrae poteri ai Comuni e alle Regioni. Gli enti territoriali stanno diventando forti grazie ai comitati e dal Friuli al Veneto, passando per la stessa città di Milano il Pd ha fatto capire che l'acqua non si tocca. Anche in Parlamento ci sono state forti ripercussioni se si considera, ad esempio, che la Lega ha dovuto subire la fiducia. La partita non è comunque chiusa. Se il decreto dovesse passare inviteremo le Regioni a fare ricorso alla Corte Costituzionale o, in ultima istanza, proporremo un referendum. Cosa cambierà per i consumatori? I termini di cambiamento ci sono suggeriti dalle realtà di tutte le privatizzazioni: peggioramento del servizio, aumento delle tariffe e licenziamenti. Guardiamo l'esempio Telecom, le varie Centrali del Latte e quello dell'Alitalia. In tutti i comuni italiani dov'è stata già privatizzata l'acqua è avvenuto il peggio. Roma rappresentava il fiore all'occhiello nel campo della fornitura idrica, con tariffe basse e un servizio eccezionale. Dopo la privatizzazione i rappresentanti delle aziende private con quote di partecipazione minoritarie nelle società di servizi hanno iniziato a monopolizzare i consigli d'amministrazione e a fare la voce grossa e le tariffe continuano a salire vertiginosamente. A Bologna dove il servizio idrico era di prim'ordine la privatizzazione ha portato ad un deterioramento delle reti con perdite di resa del 30-35 percento. Senza considerare il raddoppio delle tariffe e la chiusura degli uffici di controllo in città strategiche nei quali sono stati licenziati decine di dipendenti e esperti molto preparati. Le piccole e medie imprese riusciranno a superare la sfida con le multinazionali? Assolutamente no. Se si guarda alle quattro big nazionali Acea, A2A, Hera e Iride si potrà notare che tutte hanno già dentro diversi uomini nei Cda delle varie aziende che attualmente riforniscono d'acqua i comuni italiani. Senza contare che la Suez Lyonnaise des Eaux, colosso francese, è già pronta ad acquistare l'acqua dai comuni italiani, che saranno obbligati a vendere e a riacquistare a prezzo triplicato. È una svendita dell'acqua italiana ai privati e alle aziende straniere. Se il decreto dovesse passare, come ormai sembra certo, l'Italia si troverà di fronte ad una crisi idrica? Non c'è legame diretto tra le due cose. Tuttavia se l'attuale diminuzione delle risorse idriche al sud dovesse continuare e se non si dovessero interrompere i prelievi di montagna l'acqua inizierà a scarseggiare. In quel caso sarà difficile l'approvvigionamento di questo bene comune. Se il parlamento dovesse approvare il provvedimento ci troveremmo di fronte ad una situazione per cui un bene di tutti, l'acqua, diventerà un privilegio riservato ai pochi che avranno le risorse finanziare per accedervi. Antonio Marafioti 12 novembre
Medici fiscali e proclami di
Brunetta
11 novembre
Bande paramilitari contro i lavoratori
Francesco Piccioni
Prove tecniche di
fascismo. Non tanto ideologico quanto padronale. Ma anche gli
squadristi non sono più quelli di una volta, e quindi un padrone �
in questo caso Samuele Landi, ex amministratore delegato di Eutelia
� è costretto ad affittarli da una delle tante agenzie private che
gestiscono la «sicurezza».
Ieri mattina, alle 5 e un quarto, una quindicina di bodyguard in assetto «teste di cuoio» (divisa nera, passamontagna, piedi di porco e maxitorce bi-uso in mano) sono penetrati all'interno dello stabilimento romano, sulla via Tiburtina. All'interno dormivano una ventina di lavoratori che presidiano da giorni - qui come in tutta Italia - gli impianti del gruppo. Un'irruzione pianificata in modo militare, da due ingressi contemporaneamente, con compiti prefissati per ognuno degli uomini all'assalto, supportati da un furgone Ducato attrezzato in stile «swat» (tipo Ocean Eleven...). Al grido di «carabinieri, tutti fuori» hanno aggredito i dipendenti che dormivano, puntando loro le torce in faccia. Il primo ad essere fermato, però. era un cameraman della Rai - al lavoro per un'inchiesta - rimasto in fabbrica la sera prima causa l'ora tarda. «Chi cazzo sei, perché stai qua dentro, dammi i documenti». La possibilità di uno sgombero era stata ovviamente valutata dai lavoratori, e non prevedeva resistenza. Consegnato il documento, però, è aperti davvero gli occhi, diventava chiaro che l'alto energumeno alla testa del «commando» non indossava nessun simbolo delle forze dell'ordine. Controrichiesta: «lei non è un carabiniere, mi faccia vedere il tesserino». Che non esce fuori. Anzi, i dipendenti tirati fuori dalle varie stanze riconoscono il «capo» e la tensione sale. Urla, spintoni. Il cameraman chiama la polizia, accende la telecamera e comincia a girare. Gli aggressori si fanno più cauti, pur se sempre minacciosi. Costringono i lavoratori a restare nell'atrio, senza potersi muovere nemmeno per andare in bagno. Il più esaltato e sprezzante di tutti è sempre Landi, che ordina ai suoi spetznaz di raggiungere le «postazioni prestabilite». Poi si sentono rumori di porte sfondate e scrivanie forzate, come se stessero cercando documenti. La polizia arriva nell'arco di 40 minuti dall'inizio dell'irruzione. E non fatica a capire cosa è accaduto. I 15 mercenari vengono identificati e trattenuti in una stanza, mentre Landi viene portato in questura. A quel punto le «teste di cuoio», tranne due o tre che più tardi si rifiuteranno di abbandonare gli uffici, appaiono per quel che sono: ragazzi, quasi tutti, a parte gli «anziani» che manifestamente condividono col «capo» trascorsi comuni tra i paracadutisti. Lavorano per il Barani Group, specializzato in sorveglianza privata. Davanti ai poliziotti veri si qualificano come «addetti al portierato». La Fiom convoca una conferenza stampa dai toni durissimi. «Avevamo presentato un esposto alla procura di Milano» per chiedere verifiche sul gruppo Agile-Omega, che avrebbe acquisito l'ex Eutelia. Da settimane chiedono al governo un tavolo per discutere non solo della condizione dei dipendenti (da tre mesi senza stipendio), ma anche della pericolosissima deriva di una società che gestisce servizi informatici vitali per lo stato (ministeri chiave come gli interni, la difesa, Banca d'Italia, ecc). Denunciano le intimidazioni mafiose a un sindacalista di Catanzaro (sede di un altro stabilimento). Gianni Rinaldini fa notare che non è il primo episodio del genere (un precedente ad Ascoli Piceno, addirittura con i cani); «non vorrei fossimo di fronte ai primi segnali di uso di strumenti impropri e inaccettabili, che mettono a rischio la democrazia in questo paese». Rievoca persino la Pinkerton, antesignana della polizia privata antisindacale negli Usa. Sembra evidente, nella tempistica, un legame diretto tra l'esposto al tribunale e l'irruzione nella sede romana. Passato il primo momento, in cui i lavoratori hanno pensato che gli aggressori stessero facendo danni per poi incolpare loro, è apparso chiaro che stavano invece cercando di recuperare qualcosa di molto importante. La stanza blindata in cui sono custoditi i server strategici delle attività più delicate (quelle per lo stato, da cui dipende l'80% del fatturato), non è stata però toccata. Cosa cercavano i più maturi tra gli squadristi a cottimo? L'ipotesi che puntassero soltanto a buttar fuori qualche dipendente e «reimpossessarsi» dell'impianto, a sentir tutti, non sta in piedi. Da quando questo gruppo fantasma ha preso in mano l'azienda, infatti, di tutto si è occupato tranne che di farla funzionare. Anzi, ha perseguito con tenacia l'obiettivo esattamente opposto.
Unicredit, Bnp Paribas e Intesa
Sanpaolo tra i finanziatori di cluster bombs
Scritto da
Centotrentotto banche di tutto il
mondo finanziano la produzione di cluster bombs. La denuncia è
dell'associazione Cluster Munition Coalition, che unisce oltre 200 Ong
da tutto il pianeta contro le bombe a grappolo. Tra gli istituti di
credito segnalati nel rapportoWorldwide
investments in cluster munitions: a shared responsability,
c'è anche Intesa Sanpaolo. "Nel luglio 2007" - recita la relazione - "Lockheed
Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo
di bombe a grappolo, ndr) ha rinnovato la sua attuale apertura di
credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a
luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari
al cartello delle 31 banche" erogatrici del prestito.
6 novembre
Una nave e mille misteri
di Riccardo Bocca
Dopo i rilievi eseguiti, per il ministro e il procuratore Grasso il caso del
relitto dei veleni è risolto. Eppure troppi sono ancora i dubbi. E si parla
già di depistaggio
I pescatori, Franco compreso, dovrebbero sentirsi sollevati: fine della paura, riprende la pesca. Invece no. Franco s'infuria e urla: «Negli anni Novanta c'erano sei o sette pescherecci a Cetraro, e due sono andati (quella notte con Fonti) a mettere la dinamite!». A questo punto, nello studio scende il gelo. Gli altri pescatori sono spiazzati ma lui continua, invitando la magistratura a indagare, «a mettere sotto torchio» chi andava per mare in quel periodo. Il giorno dopo, la cassetta del programma viene acquisita dal procuratore capo di Paola Bruno Giordano. Intanto monta l'angoscia del pescatore Franco, isolato da colleghi e parenti. «La verità non interessa a nessuno», si lamenta con un cronista. E non è l'unico, in Calabria, a pensarla così. Nei giorni scorsi, il deputato Franco Laratta (Pd) si è definito «sconcertato» dalla situazione. Di più: ha sollevato il dubbio che «qualcuno ci stia prendendo in giro, con depistaggi e mezze verità» tra «notizie parziali, fatti contraddittori ed eventi prima affermati e poi negati nelle e fra le istituzioni». Una sequenza di stranezze che parte il mattino del 27 ottobre, quando il procuratore Grasso si presenta alla commissione parlamentare Antimafia e dice: «Proprio stamane, mi è stato comunicato che gli ultimi riscontri non danno la certezza che si tratti proprio della Cunski, anche se il castello sembra essere compatibile con l'indicazione che viene da Fonti». L'altra ipotesi in campo, aggiunge, «è che si tratti del piroscafo Cagliari», affondato a inizio anni Quaranta. Tutto chiaro? Al contrario. Passano poche ore, e alle 12,56 l'agenzia Adnkronos batte una nota del ministro Prestigiacomo: «Il relitto al largo di Cetraro non corrisponde alle caratteristiche della Cunski. Il Rov, il robot sottomarino, ha già svolto le misurazioni e i rilievi fotografici del relitto». Detto questo, le indagini continueranno «con il prelievo di sedimenti dai fondali, carotaggi in profondità e prelievi di campioni dai fusti». Informazioni nette, inequivocabili. Che vengono smentite, però, alle 13,12: un quarto d'ora dopo. «Finora abbiamo fatto solo esplorazioni acustiche », affermano i proprietari della nave Mare Oceano (che sta svolgendo le analisi a Cetraro, e che risulta dell'armatore Diego Attanasio, coinvolto dall'avvocato David Mills nel processo in cui è stato condannato per aver mentito su Silvio Berlusconi in cambio di denaro). «Il Rov», aggiunge la Geolab, «farà altre esplorazioni acustiche e poi quelle visive. Non ci sentiamo di dire con certezza che quella possa o non possa essere la nave Cunski: per noi è ancora troppo presto». Com'è possibile tanta confusione? Perché il procuratore Grasso si sbilancia a indicare all'Antimafia il nome di un relitto sbagliato? E perché il ministro Prestigiacomo parla di rilievi avvenuti, se chi li compie deve ancora iniziare? Difficile capirlo. Come difficili da interpretare sono le altre sfasature di questa storia. A partire dalle caratteristiche della nave Catania, che stridono con i rilievi svolti sul relitto scoperto il 12 settembre al largo di Cetraro. In quell'occasione fu calcolata una lunghezza tra i 110 e i 120 metri, una larghezza di circa 20 e un'altezza di fiancata attorno ai 10. Ora, invece, basta iscriversi al sito sui disastri navali www.wrecksite.eu, per verificare che la Catania è lunga 95,8 metri, larga 13 e alta 5,5 (dati confermati anche dal sito www.uboat.net e dal sito www.miramarshipindex.org.nz di Rodger Haworth, per mezzo secolo membro della World ship society). Insomma i numeri non quadrano: nemmeno con la conferenza stampa del 29, dove viene indicata una lunghezza di 103 metri. Utile sarebbe, con queste premesse, sentire la versione del ministro Prestigiacomo, ma la richiesta di un'intervista cade nel vuoto. Ed è un peccato, perché c'è un altro elemento cruciale, che andrebbe chiarito. Nel senso che non coincidono il punto dove a settembre è stato individuato il relitto della presunta Cunski (latitudine 39º28'50"N, longitudine 15º41'E) e quello più a nord dov'è affondata nel 1917 la Catania (secondo tutte le fonti accessibili, latitudine 39º 32'N e longitudine 15º 42'). Cos'ha provocato l'assoluta discrepanza tra il ricordo del pilota e le affermazioni del vice procuratore? E come va interpretata l'altra uscita della Dda di Catanzaro, pubblicata dal "Quotidiano della Calabria"? Stavolta a parlare è il procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo, il quale racconta che attorno alla nave c'era «una folta vegetazione» oltre a vari pesci. «Lo abbiamo visto dalle immagini (...). Ci fosse stata radioattività, tutto questo non sarebbe stato presente. La radioattività, infatti, provoca una forma di desertificazione ». Parole rassicuranti, quelle di Lombardo, perfette per placare la rabbia della popolazione locale. Ma non condivise da Roberto Danovaro, ordinario di Biologia marina all'Università politecnica delle Marche: «È impossibile che il relitto, a quasi 500 metri di profondità, sia coperto da vegetazione», assicura: «A quella profondità, la mancanza di luce impedisce la vita di alghe o piante marine». Non stupisce, dopo queste parole, che il consigliere calabrese Maurizio Feraudo (Idv) abbia lanciato l'ipotesi di un «colossale depistaggio». E che il Wwf scriva al ministro Prestigiacomo e al procuratore Grasso per chiedere «una perizia comparata tra il video del Rov incaricato da Regione e Arpacal (a settembre), e quello «della nave incaricata dal ministero dell'Ambiente (che ha smentito il pericolo, ndr)». Sicuramente tutto risulterà perfetto, ma al momento niente torna.
5 novembre
Forze Armate, un regalo da 23,5
miliardi
'Il caro armato' di Francesco
Vignarca e Massimo Paolicelli fa i conti in tasca alla Difesa
Le Forze Armate italiane hanno di che
festeggiare, nel giorno della festa nazionale a loro dedicata. Le
spese militari per il 2010 schizzeranno infatti a 23 miliardi e
mezzo di euro. Un esborso le cui modalità - e i cui sprechi - sono
documentati nell'ultimo libro di Francesco Vignarca e Massimo
Paolicelli, 'Il caro armato', uscito pochi giorni fa con
Altraeconomia Edizioni. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate
italiane sono ricostruiti attraverso una puntigliosa ricognizione
che analizza come l'ottavo Paese al mondo per spese militari
distribuisca il proprio bilancio per la Difesa. Spesso per sistemi
d'arma costosissimi (come i 131 caccia per 13 miliardi di euro),
altre volte in sprechi colossali (un esercito professionale di 190
mila uomini, dove il numero dei comandanti - 600 generali e
ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali
- quasi supera quello dei 'comandati').
"Sulle scelte di spesa da parte del nostro governo non c'è un ragionamento politico serio - spiega a PeaceReporter l'autore -. E' vero che il bilancio è robusto, nonostante quanto sostenga il ministro della Difesa La Russa, però in realtà sono spese sbagliate, non solo dal punto di vista di chi lotta per il disarmo e per la non-violenza, ma anche dal punto di vista degli stessi militari. Spese sbagliate a causa della
loro scarsa efficienza? Perchè è così difficile
individuare esattamente quanto l'Italia spende per le sue Forze
Armate? Quali sono le armi che
costano di più? Cosa fare? C'è la possibilità di un'inversione di tendenza nella contiguità tra forze politiche, vertici militari e industria bellica? Bisogna applicare le norme, che già ci sono, evitando che un ex-militare, una volta finita la carriera, finisca dritto dritto nelle aziende belliche. Bisogna aspettare tre anni, prima che ciò accada. L'acquisizione di sistemi d'arma dura vent'anni, per questo un capo di Stato maggiore dell'Aeronautica che direziona e gestisce acquisti di tecnologie o sistemi, per esempio, non può lavorare uno o due anni dopo per Augusta-Westland. E' evidente il conflitto, e questo va impedito. Ma bisogna impedire anche il contrario, ovvero che chi lavorava in politica finisca nelle industrie belliche: l'Italia aveva un ambasciatore a Washington che era anche vice-presidente di Finmeccanica, Castellaneta. L'ex-sindaco di Novara, dove verranno costruite le ali dell'F-35, oggi è nel consiglio di amministrazione di Alenia Aeronautica. Mi domando come, all'epoca, poteva essere libera da ogni pressione la sua risposta alla costruzione del velivolo. Una scelta fatta solo per creare posti di lavoro? Non credo. Un sindaco che va a lavorare per la Sanofi Aventis dopo aver sempre parlato bene dell'industria dei farmaci non è molto ben visto. Nel settore militare questa indignazione non avviene, purtroppo. Luca Galassi
'Servi', il Paese
sommerso dei clandestini al lavoro
L'ultimo libro di Marco Rovelli:
indagine impietosa su un'Italia 'schiavista'
Si chiama 'Servi', e completa una triade.
Una piccola Divina Commedia dove non c'è paradiso, ma solo inferni:
prima erano i Centri di permanenza temporanea ('Lager Italiani', Rizzoli,
2006), poi le morti sul lavoro ('Lavorare uccide', Rizzoli, 2008). Oggi
è il 'Paese sommerso dei clandestini' a venire raccontato da Marco
Rovelli, già cantante - prima con i Les Anarchistes, poi da solo con
l'album 'Libertaria' - e insegnante in un liceo di Massa.
Con 'Servi' (edizioni Feltrinelli), lo scrittore scende di nuovo nella terra dei dannati. "Se sono qui ad ascoltare storie come queste - scrive Rovelli - è perche in esse leggo la mia (...) queste immagini perfette di sradicamento le porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso". Noi che lo abbiamo accompagnato in una di queste tappe, sappiamo che il lavoro della penna di Rovelli è preceduto da quello di occhi e cuore. A Cerignola, come in ciascuno dei viaggi compiuti per l'Italia, possiamo testimoniare che certe storie, per raccontarle, l'autore prima le osserva, poi le condivide. Bisogna trascorrere qualche giorno con Marcella, donna ivoriana che gestisce un bar nella campagna foggiana, per parlare la lingua dei servi. O per dare voce a chi non l'ha. Africani, rumeni, polacchi, marocchini: Kojolì, Mircea, Caterina, Monsef. Sono uomini e donne sfruttati e trattati come schiavi, una comunità sommersa la cui condizione trascende le etnie: "Rumeni e polacchi sembrano bianchi, ma è Dio che ha sbagliato il colore della pelle", dice Marcella. Un crogiuolo di popolazioni approdate in Italia per lavorare nei luoghi più derelitti della nostra penisola: nei latifondi del sud Italia come nei cantieri di Milano e Torino. Da irregolari, la terra riservata loro è solo quella dove raccogliere pomodori. O quella da impastare per fare cemento. O, ancora, quella d'asfalto dove prostituirsi. I servi raccolgono pomodori che non mangeranno, costruiscono case che non abiteranno. Raccontano storie che nessuno ascolterà. A meno che non vengano registrate, assorbite e restituite da chi si è applicato ad esse con scrupoloso impegno, producendo un lavoro documentato quanto quello di un giornalista d'inchiesta, ma dipinto con la ricchezza e lo stile del narratore vero. 'Servi' si apre con l'unico possesso che questi uomini hanno: le mani. "Quelle mani che hanno da dire e non hanno parola, quelle stesse mani mute che sorreggono le mie mentre battono sui tasti del computer; le mie mani che parlano, e provano a forgiare una parola che sia in grado di poter far vedere quelle mani che soffrono ciò che gli altri dicono". Sulle loro mani, e sulle loro braccia, si regge l'economia del sommerso in Italia, un Paese dove il lavoro nero ("anzi, nerissimo") rende più che altrove. Ma ad un prezzo, quello delle violenze e dei soprusi, dei ricatti dei caporali, dei documenti ritirati dal padrone, delle paghe da fame, delle morti silenziose. Come in ogni altro lavoro, Rovelli correda il libro con un'appendice dove espone, dati alla mano, alcune tesi che rovesciano la tesi proposta all'immaginario dalla retorica del potere.
L'immigrazione
clandestina non è un'emergenza, un evento epocale - dice l'autore - ma
un fenomeno storico, con una sua evoluzione e un suo futuro. Chi la
presenta come tumore sociale compie un'operazione di propaganda. Il
Rapporto sulla sicurezza rivela che nella popolazione carceraria
italiana gli irregolari sono il 33 percento (rispetto a una popolazione
di stranieri regolari e irregolari del 7 percento). Il libro smonta
l'assioma 'clandestino-criminale'. Come? Interpretando i dati. La
maggior parte degli irregolari è entrata legalmente, ed è rimasta sul
territorio oltre la scadenza del visto o del permesso di soggiorno. I
reati compiuti dagli irregolari diminuiscono in occasione delle
sanatorie, a dimostrazione della volontà dell'immigrato, una volta 'emerso',
di far di tutto per non perdere il proprio status. Gli irregolari
compiono in maggioranza piccoli reati, e le pene sono più basse rispetto
a quelle comminate agli italiani. Gli irregolari non fruiscono di pene
alternative, come l'affidamento ai servizi sociali o i domiciliari:
perchè non hanno un domicilio stabile o una famiglia che li ospiti.
3 novembre
Sono già 146 i detenuti morti dietro le sbarre da gennaio. Decine di casi di autolesionismo. Si tolgono la vita soprattutto i condannati sottoposti al regime di isolamento Carceri, quest'anno già 60 suicidi "Pochi educatori, strutture vecchie" di VLADIMIRO POLCHI ROMA - Sessanta suicidi
dall'inizio dell'anno, oltre 500 dal 2000. Dieci casi al giorno di
autolesionismo. 1.365 detenuti deceduti dal 2000 al marzo 2009. 300-400 tentati
suicidi l'anno. Eccola la perenne emergenza delle patrie galere: violenze,
suicidi, morti sospette. Dietro le sbarre mille storie di umanità cancellata.
Gli afgani di Capitan Bavastro Giorni di attesa per i 150 afgani accampati alle spalle della Stazione Ostiense
Abbiamo
un problema. Quanto è credibile lo Stato Italiano? In otto anni di guerra in
Afghanistan abbiamo speso oltre 2,5 miliardi di euro (più o meno due
finanziarie), inviato nei diversi avvicendamenti dei contingenti almeno 10 mila
soldati, con una presenza fissa adesso di 3 mila e 22 di loro sono rientrati in
Italia solo in bare di legno avvolte dal Tricolore. Tutto questo perché, tra i
principali obiettivi della missione cè quello di garantire la sicurezza, una
vita quotidiana tranquilla a milioni di afgani. Ma saremo realmente in grado di
mettere in salvo 25 milioni di afgani dalla ferocia dei talebani, dai proiettili
degli Ak-47, dagli Ied se nel cuore di Roma alle spalle della stazione Ostiense
non siamo in grado di proteggere 150 profughi afgani da pioggia, pulci, topi e
soprattutto a preservarne la dignità? Su di loro, lunedì, incombe lennesimo
sgombero. Fotografie di Alfredo Covino/OnOff Picture Nicola Sessa
Mesi precedenti Anni precedenti
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