26 novembre

 

“Maledetti voi...!”

Acqua privatizzata

Napoli, 19 novembre 2009

Non posso usare altra espressione per coloro che hanno votato per la privatizzazione dell’acqua , che quella usata da Gesù nel Vangelo di Luca, nei confronti dei ricchi :” Maledetti voi ricchi….!”
Maledetti coloro che hanno votato per la mercificazione dell’acqua .
Noi continueremo a gridare che l’acqua è vita, l’acqua è sacra, l’acqua è diritto fondamentale umano.
E’ la più clamorosa sconfitta della politica. E’ la stravittoria dei potentati economico-finanziari, delle lobby internazionali. E’ la vittoria della politica delle privatizzazioni, degli affari, del business.
A farne le spese è ‘sorella acqua’, oggi il bene più prezioso dell’umanità, che andrà sempre più scarseggiando, sia per i cambiamenti climatici, sia per l’aumento demografico. Quella della privatizzazione dell’acqua è una scelta che sarà pagata a caro prezzo dalle classi deboli di questo paese( bollette del 30-40% in più, come minimo),ma soprattutto dagli impoveriti del mondo. Se oggi 50 milioni all’anno muoiono per fame e malattie connesse, domani 100 milioni moriranno di sete. Chi dei tre miliardi che vivono oggi con meno di due dollari al giorno, potrà pagarsi l’acqua? “
Noi siamo per la vita, per l’acqua che è vita, fonte di vita. E siamo sicuri che la loro è solo una vittoria di Pirro. Per questo chiediamo a tutti di trasformare questa ‘sconfitta’ in un rinnovato impegno per l’acqua, per la vita , per la democrazia. Siamo sicuri che questo voto parlamentare sarà un “boomerang” per chi l’ha votato.
Il nostro è un appello prima di tutto ai cittadini, a ogni uomo e donna di buona volontà .Dobbiamo ripartire dal basso, dalla gente comune, dai Comuni.

Per questo chiediamo:
AI CITTADINI di
- protestare contro il decreto Ronchi , inviando e -mail ai propri parlamentari;
- creare gruppi in difesa dell’acqua localmente come a livello regionale;
- costituirsi in cooperative per la gestione della propria acqua.
AI COMUNI di
- indire consigli comunali monotematici in difesa dell’acqua;
- dichiarare l’acqua bene comune,’ privo di rilevanza economica’;
- fare la scelta dell’AZIENDA PUBBLICA SPECIALE.
LA NUOVA LEGGE NON IMPEDISCE CHE I COMUNI SCELGANO LA VIA DEL TOTALMENTE PUBBLICO, DELL’AZIENDA SPECIALE, DELLE COSIDETTE MUNICIPALIZZATE .
AGLI ATO
- ai 64 ATO (Ambiti territoriali ottimali), oggi affidati a Spa a totale capitale pubblico, di trasformarsi in Aziende Speciali, gestite con la partecipazione dei cittadini.
ALLE REGIONI di
- impugnare la costituzionalità della nuova legge come ha fatto la Regione Puglia;
- varare leggi regionali sulla gestione pubblica dell’acqua.
AI SINDACATI di
- pronunciarsi sulla privatizzazione dell’acqua;
- mobilitarsi e mobilitare i cittadini contro la mercificazione dell’acqua.
AI VESCOVI ITALIANI di
- proclamare l’acqua un diritto fondamentale umano sulla scia della recente enciclica di Benedetto XVI, dove si parla dell’accesso all’acqua come diritto universale di tutti gli esseri umani, senza distinzioni o discriminazioni”(27);
- protestare come CEI (Conferenza Episcopale Italiana) contro il decreto Ronchi .
ALLE COMUNITA’ CRISTIANE di
- informare i propri fedeli sulla questione acqua;
- organizzarsi in difesa dell’acqua.
AI Partiti di
- esprimere a chiare lettere la propria posizione sulla gestione dell’ acqua;
- farsi promotori di una discussione parlamentare sulla Legge di iniziativa popolare contro la privatizzazione dell’acqua, firmata da oltre 400.000 cittadini.
L’acqua è l’oro blu del XXI secolo. Insieme all’aria , l’acqua è il bene più prezioso dell’umanità. Vogliamo gridare oggi più che mai quello che abbiamo urlato in tante piazze e teatri di questo paese : “L’aria e l’acqua sono in assoluto i beni fondamentali ed indispensabili per la vita di tutti gli esseri viventi e ne diventano fin dalla nascita diritti naturali intoccabili- sono parole dell’arcivescovo emerito di Messina, G. Marra. L’acqua appartiene a tutti e a nessuno può essere concesso di appropriarsene per trarne illecito profitto,e pertanto si chiede che rimanga gestita esclusivamente dai Comuni organizzati in società pubbliche , che hanno da sempre il dovere di garantirne la distribuzione al costo più basso possibile”.

Alex Zanotelli

 

18 novembre

 

Acqua pubblica. Ai privati

Il governo pone la fiducia sulla privatizzazione dell'acqua
"Un giorno ci faranno pagare anche l'aria che respiriamo". Il vecchio adagio del mugugno popolare presto si potrà applicare a un bene pubblico e prezioso come l'acqua. Che sarà privatizzata - cosa privata - entro il prossimo mercoledì. Non serviranno a nulla le proteste dell'opposizione riformista e cattolica, né l'invito a riflettere rivolto al PdL da parte degli alleati della Lega. Sul decreto Ronchi è stata posta, per la ventottesima volta, la questione di fiducia. Si blinda la decisione del governo filoimprenditoriale di togliere l'acqua al popolo, e lo si fa bruciando, di fatto, tutte le regole della democrazia parlamentare.
A far pensare che l'operazione legislativa sia l'ennesimo sfoggio dei muscoli da parte della maggioranza è proprio la questione di fiducia. Il colonnello del premier al quale è stato affidato l'arduo compito di comunicare la decisione ai parlamentari è stato Elio Vito, ministro per i rapporti con il Parlamento, che ha giustificato il dictat di Berlusconi con un laconico "scelta per velocizzare i tempi".
Dopo l'approvazione in Senato, avvenuta il 4 novembre scorso, il tempo per una corretta, e doverosa, discussione a palazzo Montecitorio ci sarebbero stati tutti - il provvedimento scade fra una settimana. Solo che il "B-Style" impone di imporre le decisioni di quelli che di voti elettorali ne hanno ottenuti di più. Ed ecco così che o si consegna l'acqua alle multinazionali o si va tutti a casa che, come noto, non è proprio un costume tipicamente italiano. Quindi il quadro che si prospetta è evidente.

Articolo 15. É il fulcro della protesta. In base alla sua applicazione la maggior parte dei servizi ora di competenza degli enti locali verranno liberalizzati (privatizzati). Escluse le gestioni del gas, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali, tutto ciò che prima era di competenza delle giunte locali verrà fagocitato da aziende private. Queste beneficeranno della norma che vieterà allo Stato e agli enti territoriali di mantenere quote di capitale superiori al 30 percento sui servizi. Il resto sarà nelle mani delle Spa che, dopo il 31 dicembre del 2010, non potranno più essere assegnatarie dirette dei servizi ma dovranno obbligatoriamente concorrere a gare d'appalto per la gestione degli stessi. E anche sulle gare d'appalto le usanze italiche sono, purtroppo, ben note.

PeaceReporter ha raggiunto Emilio Molinari, presidente del Contratto mondiale sull'acqua.

Come giudica questa mossa politica del governo?

La fiducia è l'ultimo capitolo di un misfatto che va avanti dal 2003. La privatizzazione in Italia ha una specificità di obbligatorietà che non è stata richiesta dall'Unione Europea. Oltre che un atto di privatizzazione è dunque un atto autoritario e anticostituzionale che sottrae poteri ai Comuni e alle Regioni. Gli enti territoriali stanno diventando forti grazie ai comitati e dal Friuli al Veneto, passando per la stessa città di Milano il Pd ha fatto capire che l'acqua non si tocca. Anche in Parlamento ci sono state forti ripercussioni se si considera, ad esempio, che la Lega ha dovuto subire la fiducia. La partita non è comunque chiusa. Se il decreto dovesse passare inviteremo le Regioni a fare ricorso alla Corte Costituzionale o, in ultima istanza, proporremo un referendum.

Cosa cambierà per i consumatori?

I termini di cambiamento ci sono suggeriti dalle realtà di tutte le privatizzazioni: peggioramento del servizio, aumento delle tariffe e licenziamenti. Guardiamo l'esempio Telecom, le varie Centrali del Latte e quello dell'Alitalia. In tutti i comuni italiani dov'è stata già privatizzata l'acqua è avvenuto il peggio. Roma rappresentava il fiore all'occhiello nel campo della fornitura idrica, con tariffe basse e un servizio eccezionale. Dopo la privatizzazione i rappresentanti delle aziende private con quote di partecipazione minoritarie nelle società di servizi hanno iniziato a monopolizzare i consigli d'amministrazione e a fare la voce grossa e le tariffe continuano a salire vertiginosamente. A Bologna dove il servizio idrico era di prim'ordine la privatizzazione ha portato ad un deterioramento delle reti con perdite di resa del 30-35 percento. Senza considerare il raddoppio delle tariffe e la chiusura degli uffici di controllo in città strategiche nei quali sono stati licenziati decine di dipendenti e esperti molto preparati.

Le piccole e medie imprese riusciranno a superare la sfida con le multinazionali?

Assolutamente no. Se si guarda alle quattro big nazionali Acea, A2A, Hera e Iride si potrà notare che tutte hanno già dentro diversi uomini nei Cda delle varie aziende che attualmente riforniscono d'acqua i comuni italiani. Senza contare che la Suez Lyonnaise des Eaux, colosso francese, è già pronta ad acquistare l'acqua dai comuni italiani, che saranno obbligati a vendere e a riacquistare a prezzo triplicato. È una svendita dell'acqua italiana ai privati e alle aziende straniere.

Se il decreto dovesse passare, come ormai sembra certo, l'Italia si troverà di fronte ad una crisi idrica?

Non c'è legame diretto tra le due cose. Tuttavia se l'attuale diminuzione delle risorse idriche al sud dovesse continuare e se non si dovessero interrompere i prelievi di montagna l'acqua inizierà a scarseggiare. In quel caso sarà difficile l'approvvigionamento di questo bene comune. Se il parlamento dovesse approvare il provvedimento ci troveremmo di fronte ad una situazione per cui un bene di tutti, l'acqua, diventerà un privilegio riservato ai pochi che avranno le risorse finanziare per accedervi.

Antonio Marafioti

12 novembre

Medici fiscali e proclami di Brunetta

Mi chiamo Maurizio Villani e sono un medico convenzionato con la ASL RMC settore visite fiscali. Da quasi venti anni faccio visite fiscali per le ASL e quando ho letto su un giornale (La Repubblica) l'intervista al ministro Brunetta dove annuncia l'ennesimo cambiamento delle fasce orarie di reperibilità dei lavoratori pubblici allungate di tre ore per combattere l'assenteismo ho sentito il bisogno di far conoscere la realtà dei fatti.

Nessuno conosce il fatto che, noi medici addetti alle visite fiscali domiciliari delle ASL, siamo convenzionati e non dipendenti e per tale motivo abbiamo l'orario di lavoro stabilito in sede di stipula della convenzione con la Regione. La mia convenzione recita: martedì, mercoeldì, giovedì, venerdì, dalle 09,30 alle 12,30 per un totale di 12 ore settimanali.

Ma non solo, in questo lasso di tempo il numero delle visite è fisso, nel senso che quotidianamente il numero delle visite è sempre lo stesso. Aumentare il numero delle ore di reperibilità non porta a nessun aumento delle visite effettuate quotidianamente perché è solo funzione del numero dei medici operanti sul territorio ma noi siamo sempre gli stessi degli anni precedenti. Ho cercato di contattare la Repubblica per informarli, ma sembra che la cosa non Li interessi, hanno permesso l'ennesimo spot pubblicitario del ministro Brunetta e tanto basta. Spero che il Messaggero sia più motivato a scoprire in che mani siamo capitati. Distinti saluti

Dott.Maurizio Villani

 

11 novembre

Bande paramilitari contro i lavoratori
 
  Francesco Piccioni
Prove tecniche di fascismo. Non tanto ideologico quanto padronale. Ma anche gli squadristi non sono più quelli di una volta, e quindi un padrone � in questo caso Samuele Landi, ex amministratore delegato di Eutelia � è costretto ad affittarli da una delle tante agenzie private che gestiscono la «sicurezza».
Ieri mattina, alle 5 e un quarto, una quindicina di bodyguard in assetto «teste di cuoio» (divisa nera, passamontagna, piedi di porco e maxitorce bi-uso in mano) sono penetrati all'interno dello stabilimento romano, sulla via Tiburtina. All'interno dormivano una ventina di lavoratori che presidiano da giorni - qui come in tutta Italia - gli impianti del gruppo. Un'irruzione pianificata in modo militare, da due ingressi contemporaneamente, con compiti prefissati per ognuno degli uomini all'assalto, supportati da un furgone Ducato attrezzato in stile «swat» (tipo Ocean Eleven...).
Al grido di «carabinieri, tutti fuori» hanno aggredito i dipendenti che dormivano, puntando loro le torce in faccia. Il primo ad essere fermato, però. era un cameraman della Rai - al lavoro per un'inchiesta - rimasto in fabbrica la sera prima causa l'ora tarda. «Chi cazzo sei, perché stai qua dentro, dammi i documenti». La possibilità di uno sgombero era stata ovviamente valutata dai lavoratori, e non prevedeva resistenza. Consegnato il documento, però, è aperti davvero gli occhi, diventava chiaro che l'alto energumeno alla testa del «commando» non indossava nessun simbolo delle forze dell'ordine. Controrichiesta: «lei non è un carabiniere, mi faccia vedere il tesserino». Che non esce fuori. Anzi, i dipendenti tirati fuori dalle varie stanze riconoscono il «capo» e la tensione sale. Urla, spintoni. Il cameraman chiama la polizia, accende la telecamera e comincia a girare. Gli aggressori si fanno più cauti, pur se sempre minacciosi. Costringono i lavoratori a restare nell'atrio, senza potersi muovere nemmeno per andare in bagno. Il più esaltato e sprezzante di tutti è sempre Landi, che ordina ai suoi spetznaz di raggiungere le «postazioni prestabilite». Poi si sentono rumori di porte sfondate e scrivanie forzate, come se stessero cercando documenti.
La polizia arriva nell'arco di 40 minuti dall'inizio dell'irruzione. E non fatica a capire cosa è accaduto. I 15 mercenari vengono identificati e trattenuti in una stanza, mentre Landi viene portato in questura. A quel punto le «teste di cuoio»,  tranne due o tre che più tardi si rifiuteranno di abbandonare gli uffici, appaiono per quel che sono: ragazzi, quasi tutti, a parte gli «anziani» che manifestamente condividono col «capo» trascorsi comuni tra i paracadutisti. Lavorano per il Barani Group, specializzato in sorveglianza privata. Davanti ai poliziotti veri si qualificano come «addetti al portierato».
La Fiom convoca una conferenza stampa dai toni durissimi. «Avevamo presentato un esposto alla procura di Milano» per chiedere verifiche sul gruppo Agile-Omega, che avrebbe acquisito l'ex Eutelia. Da settimane chiedono al governo un tavolo per discutere non solo della condizione dei dipendenti (da tre mesi senza stipendio), ma anche della pericolosissima deriva di una società che gestisce servizi informatici vitali per lo stato (ministeri chiave come gli interni, la difesa, Banca d'Italia, ecc). Denunciano le intimidazioni mafiose a un sindacalista di Catanzaro (sede di un altro stabilimento). Gianni Rinaldini fa notare che non è il primo episodio del genere (un precedente ad Ascoli Piceno, addirittura con i cani); «non vorrei fossimo di fronte ai primi segnali di uso di strumenti impropri e inaccettabili, che mettono a rischio la democrazia in questo paese». Rievoca persino la Pinkerton, antesignana della polizia privata antisindacale negli Usa.
Sembra evidente, nella tempistica, un legame diretto tra l'esposto al tribunale e l'irruzione nella sede romana. Passato il primo momento, in cui i lavoratori hanno pensato che gli aggressori stessero facendo danni per poi incolpare loro, è apparso chiaro che stavano invece cercando di recuperare qualcosa di molto importante. La stanza blindata in cui sono custoditi i server strategici delle attività più delicate (quelle per lo stato, da cui dipende l'80% del fatturato), non è stata però toccata. Cosa cercavano i più maturi tra gli squadristi a cottimo? L'ipotesi che puntassero soltanto a buttar fuori qualche dipendente e «reimpossessarsi» dell'impianto, a sentir tutti, non sta in piedi. Da quando questo gruppo fantasma ha preso in mano l'azienda, infatti, di tutto si è occupato tranne che di farla funzionare. Anzi, ha perseguito con tenacia l'obiettivo esattamente opposto.
 
 
Unicredit, Bnp Paribas e Intesa Sanpaolo tra i finanziatori di cluster bombs

Scritto da
Luca Rasponi

Centotrentotto banche di tutto il mondo finanziano la produzione di cluster bombs. La denuncia è dell'associazione Cluster Munition Coalition, che unisce oltre 200 Ong da tutto il pianeta contro le bombe a grappolo. Tra gli istituti di credito segnalati nel rapportoWorldwide investments in cluster munitions: a shared responsability, c'è anche Intesa Sanpaolo. "Nel luglio 2007" - recita la relazione - "Lockheed Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo di bombe a grappolo, ndr) ha rinnovato la sua attuale apertura di credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari al cartello delle 31 banche" erogatrici del prestito.

Qualcosa non quadra. Ma il 3 dicembre 2008 ad Oslo non è stata firmata, anche dall'Italia, una Convenzione che bandisce le cluster bombs? Vero. Però il nostro Paese è solo tra i firmatari del trattato, che non è stato ancora ratificato dal Parlamento. E se sono più di 100 le nazioni ad aver firmato la Convenzione di Oslo, le ratifiche sono ferme a 23. Beffardamente vicine alla soglia minima di 30, necessaria a rendere il trattato operativo (e dunque vincolante per i Paesi membri). Quindi Intesa Sanpaolo non è obbligata da alcun tipo di regola internazionale a sospendere il prestito erogato a Lockheed Martin. Ma le cose non sono così semplici.

Codice etico. Intesa Sanpaolo rinnova il prestito a Lockheed Martin nel maggio-giugno 2007, come riscontrato dal sito altraeconomia.it in un documento della Security and Exchange Commission, l'organismo che controlla le società Usa quotate in Borsa. L'operazione precede solo di qualche settimana la scelta di Intesa Sanpaolo di integrare il proprio Codice etico con una weapon policy che "prevede la sospensione della partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d'arma". Perché la vicinanza di due decisioni così contrastanti tra loro?

L'eccezione. Il rapporto Cmc sostiene che per migliorare la propria posizione, Intesa Sanpaolo "non dovrebbe tollerare eccezioni, ponendo fine a tutti i contatti con i produttori di bombe a grappolo, a meno di obblighi legali". Eccezioni? Sì, perché "l'attuale policy non riguarda [...] le operazioni inziate prima della sua pubblicazione ufficiale". Ecco quindi svelato il mistero: il prestito a Lockheed Martin continua ad essere erogato perché l'accordo è stato concluso prima dell'approvazione della weapon policy. Che in effetti è arrivata qualche settimana dopo la firma del rinnovo.

Spiegazioni. Una fonte interna ad Intesa Sanpaolo assicura che contratti come quello con Lockheed Martin hanno tempi di realizzazione di diversi mesi. Per cui la vicinanza tra rinnovo e weapon policy è solo una coincidenza: il controllo sulla concreta applicazione della policy è tuttora in corso di affinamento. Il contratto con il colosso Usa della difesa, poi, è in syndication, cioè in comune con altre 30 banche. Cosa che complica eventuali exit strategies. Da ultimo, l'investimento di Intesa Sanpaolo a favore di Lockheed Martin è non finalizzato. Ma l'azienda statunitense produce quasi esclusivamente armi.

La fetta più grossa. Il rapporto Cmc sostiene che "Intesa Sanpaolo deve escludere i produttori di bombe a grappolo dai suoi asset management e dalle attività d'investimento. Non solo dai prestiti". Cosa significa? Significa che sì, il prestito a Lockheed Martin è un'eccezione. Ma significa anche che il gruppo bancario finanzia indirettamente le aziende produttrici di armi, acquistandone le azioni. E lo fa tramite fondi comuni con altre banche italiane. Lo rivela uno studio che stanno realizzando il mensile di finanza etica Valori e l'Istituto di Ricerca Economica e Sociale (Ires) della Toscana: buona parte delle banche italiane, con l'eccezione di Banca Etica, possiedono titoli azionari di aziende produttrici di "armi controverse" ( cluster bombs, mine antiuomo, ordigni nucleari). La classifica stilata dagli studiosi consegna il poco invidiabile primato negli investimenti di questo genere a Unicredit, che precede Bnp Paribas e, appunto, Intesa Sanpaolo. Da soli questi tre gruppi bancari, che distaccano ampiamente tutti gli altri, investono circa 480 milioni di euro in armamenti. Mezzo miliardo di euro: è la cifra che separa l'Italia da una reale adesione alla Convenzione di Oslo.

 

 

6 novembre

 

Una nave e mille misteri

di Riccardo Bocca
Dopo i rilievi eseguiti, per il ministro e il procuratore Grasso il caso del relitto dei veleni è risolto. Eppure troppi sono ancora i dubbi. E si parla già di depistaggio
I rilevamenti sul relitto al largo di Cetraro
La sera di venerdì 30 ottobre, l'emittente calabrese Telespazio trasmette una puntata davvero speciale del talk show " Perfidia". In studio, c'è un gruppo di pescatori della costa tirrenica per parlare dei fondi a loro sostegno, dopo il crollo delle vendite dovuto al caso "navi dei veleni". Uno dei pescatori, Franco, non è però d'accordo. Ha saputo che il giorno prima, nel corso di una conferenza stampa, il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo e il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, hanno tranquillizzato tutti: «Il caso è chiuso», ha detto Grasso. La nave di cui il mondo intero ha parlato, a 480 metri di profondità nelle acque davanti a Cetraro, non è la pericolosa Cunski affondata dal pentito Francesco Fonti. «Si tratta del piroscafo Catania», ha spiegato Prestigiacomo, «costruito a Palermo nel 1906 e silurato il 16 marzo 1917 da un sommergibile tedesco ». Risultato: a bordo non ci sono fusti radioattivi, anzi la stiva è vuota e non c'è rischio per la popolazione.

I pescatori, Franco compreso, dovrebbero sentirsi sollevati: fine della paura, riprende la pesca. Invece no. Franco s'infuria e urla: «Negli anni Novanta c'erano sei o sette pescherecci a Cetraro, e due sono andati (quella notte con Fonti) a mettere la dinamite!». A questo punto, nello studio scende il gelo. Gli altri pescatori sono spiazzati ma lui continua, invitando la magistratura a indagare, «a mettere sotto torchio» chi andava per mare in quel periodo.

Il giorno dopo, la cassetta del programma viene acquisita dal procuratore capo di Paola Bruno Giordano. Intanto monta l'angoscia del pescatore Franco, isolato da colleghi e parenti. «La verità non interessa a nessuno», si lamenta con un cronista.

E non è l'unico, in Calabria, a pensarla così. Nei giorni scorsi, il deputato Franco Laratta (Pd) si è definito «sconcertato» dalla situazione. Di più: ha sollevato il dubbio che «qualcuno ci stia prendendo in giro, con depistaggi e mezze verità» tra «notizie parziali, fatti contraddittori ed eventi prima affermati e poi negati nelle e fra le istituzioni». Una sequenza di stranezze che parte il mattino del 27 ottobre, quando il procuratore Grasso si presenta alla commissione parlamentare Antimafia e dice: «Proprio stamane, mi è stato comunicato che gli ultimi riscontri non danno la certezza che si tratti proprio della Cunski, anche se il castello sembra essere compatibile con l'indicazione che viene da Fonti». L'altra ipotesi in campo, aggiunge, «è che si tratti del piroscafo Cagliari», affondato a inizio anni Quaranta.

Tutto chiaro? Al contrario. Passano poche ore, e alle 12,56 l'agenzia Adnkronos batte una nota del ministro Prestigiacomo: «Il relitto al largo di Cetraro non corrisponde alle caratteristiche della Cunski. Il Rov, il robot sottomarino, ha già svolto le misurazioni e i rilievi fotografici del relitto». Detto questo, le indagini continueranno «con il prelievo di sedimenti dai fondali, carotaggi in profondità e prelievi di campioni dai fusti». Informazioni nette, inequivocabili.

Che vengono smentite, però, alle 13,12: un quarto d'ora dopo. «Finora abbiamo fatto solo esplorazioni acustiche », affermano i proprietari della nave Mare Oceano (che sta svolgendo le analisi a Cetraro, e che risulta dell'armatore Diego Attanasio, coinvolto dall'avvocato David Mills nel processo in cui è stato condannato per aver mentito su Silvio Berlusconi in cambio di denaro). «Il Rov», aggiunge la Geolab, «farà altre esplorazioni acustiche e poi quelle visive. Non ci sentiamo di dire con certezza che quella possa o non possa essere la nave Cunski: per noi è ancora troppo presto».

Com'è possibile tanta confusione? Perché il procuratore Grasso si sbilancia a indicare all'Antimafia il nome di un relitto sbagliato? E perché il ministro Prestigiacomo parla di rilievi avvenuti, se chi li compie deve ancora iniziare?

Difficile capirlo. Come difficili da interpretare sono le altre sfasature di questa storia. A partire dalle caratteristiche della nave Catania, che stridono con i rilievi svolti sul relitto scoperto il 12 settembre al largo di Cetraro. In quell'occasione fu calcolata una lunghezza tra i 110 e i 120 metri, una larghezza di circa 20 e un'altezza di fiancata attorno ai 10. Ora, invece, basta iscriversi al sito sui disastri navali www.wrecksite.eu, per verificare che la Catania è lunga 95,8 metri, larga 13 e alta 5,5 (dati confermati anche dal sito www.uboat.net e dal sito www.miramarshipindex.org.nz di Rodger Haworth, per mezzo secolo membro della World ship society). Insomma i numeri non quadrano: nemmeno con la conferenza stampa del 29, dove viene indicata una lunghezza di 103 metri.

Utile sarebbe, con queste premesse, sentire la versione del ministro Prestigiacomo, ma la richiesta di un'intervista cade nel vuoto. Ed è un peccato, perché c'è un altro elemento cruciale, che andrebbe chiarito. Nel senso che non coincidono il punto dove a settembre è stato individuato il relitto della presunta Cunski (latitudine 39º28'50"N, longitudine 15º41'E) e quello più a nord dov'è affondata nel 1917 la Catania (secondo tutte le fonti accessibili, latitudine 39º 32'N e longitudine 15º 42').
 
 
I rilevamenti sul relitto al largo di Cetraro
Lo scarto è di 3 miglia e mezzo: «Considerevole », dicono gli esperti: «Tanto da escludere una repentina deriva, causa correnti, nella discesa verso il fondo». Il sospetto, sussurrato da alcuni investigatori, è che il profilo della Catania non combaci con quello del relitto trovato a settembre. E ancora peggio: che qualcosa non convinca nelle comunicazioni della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, responsabile dell'inchiesta sulle navi dei veleni. Nella conferenza stampa del 29 ottobre, infatti, il vice procuratore Giuseppe Borrelli ha detto che «la stiva della nave» al largo di Cetraro era «vuota». Ma Pippo Arena, titolare della società Arena Sub e pilota del Rov nella prima ispezione alla presunta Cunski, lo smentisce: «La nave che ho ispezionato io aveva due stive. Ed erano piene, tanto che un pesce cercava di entrare e non riusciva».

Cos'ha provocato l'assoluta discrepanza tra il ricordo del pilota e le affermazioni del vice procuratore? E come va interpretata l'altra uscita della Dda di Catanzaro, pubblicata dal "Quotidiano della Calabria"? Stavolta a parlare è il procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo, il quale racconta che attorno alla nave c'era «una folta vegetazione» oltre a vari pesci. «Lo abbiamo visto dalle immagini (...). Ci fosse stata radioattività, tutto questo non sarebbe stato presente. La radioattività, infatti, provoca una forma di desertificazione ». Parole rassicuranti, quelle di Lombardo, perfette per placare la rabbia della popolazione locale.

Ma non condivise da Roberto Danovaro, ordinario di Biologia marina all'Università politecnica delle Marche: «È impossibile che il relitto, a quasi 500 metri di profondità, sia coperto da vegetazione», assicura: «A quella profondità, la mancanza di luce impedisce la vita di alghe o piante marine».

Non stupisce, dopo queste parole, che il consigliere calabrese Maurizio Feraudo (Idv) abbia lanciato l'ipotesi di un «colossale depistaggio». E che il Wwf scriva al ministro Prestigiacomo e al procuratore Grasso per chiedere «una perizia comparata tra il video del Rov incaricato da Regione e Arpacal (a settembre), e quello «della nave incaricata dal ministero dell'Ambiente (che ha smentito il pericolo, ndr)». Sicuramente tutto risulterà perfetto, ma al momento niente torna.

 

5 novembre

 
 
 
Forze Armate, un regalo da 23,5 miliardi
 
'Il caro armato' di Francesco Vignarca e Massimo Paolicelli fa i conti in tasca alla Difesa
Le Forze Armate italiane hanno di che festeggiare, nel giorno della festa nazionale a loro dedicata. Le spese militari per il 2010 schizzeranno infatti a 23 miliardi e mezzo di euro. Un esborso le cui modalità - e i cui sprechi - sono documentati nell'ultimo libro di Francesco Vignarca e Massimo Paolicelli, 'Il caro armato', uscito pochi giorni fa con Altraeconomia Edizioni. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate italiane sono ricostruiti attraverso una puntigliosa ricognizione che analizza come l'ottavo Paese al mondo per spese militari distribuisca il proprio bilancio per la Difesa. Spesso per sistemi d'arma costosissimi (come i 131 caccia per 13 miliardi di euro), altre volte in sprechi colossali (un esercito professionale di 190 mila uomini, dove il numero dei comandanti - 600 generali e ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali - quasi supera quello dei 'comandati').

"Sulle scelte di spesa da parte del nostro governo non c'è un ragionamento politico serio - spiega a PeaceReporter l'autore -. E' vero che il bilancio è robusto, nonostante quanto sostenga il ministro della Difesa La Russa, però in realtà sono spese sbagliate, non solo dal punto di vista di chi lotta per il disarmo e per la non-violenza, ma anche dal punto di vista degli stessi militari.

Spese sbagliate a causa della loro scarsa efficienza?
Sì, nel senso che gerarchicamente l'Italia non è una piramide del comando, ma la definirei piuttosto un cubo del comando. Comandati e comandanti sono più o meno lo stesso numero. Dai sottufficiali in su sono più o meno 85 mila, così come le truppe. Ci sono sprechi, perchè con questi soldi non possono fare tutto ciò che dovrebbero in termini di operatività, addestramento, mantenimento, pensioni e via dicendo. E' una situazione in cui non si ragiona con dati e obiettivi, ma per una serie di frasi fatte, per senso comune, per inerzia.

Perchè è così difficile individuare esattamente quanto l'Italia spende per le sue Forze Armate?
Perchè alcune voci del bilancio della Difesa, ad esempio quelle per le missioni all'estero, o quelle per lo sviluppo industriale o l'acquisto di certi armamenti non passano attraverso il bilancio standard delle quattro armi (aeronautica, esercito, marina e carabinieri). Quindi abbiamo centinaia di migliaia di euro investite dal ministero delle Attività produttive appunto per lo sviluppo industriale. E' vero, il bilancio della Difesa è diminuito negli ultimi anni, ma è diminuito quello standard, ovvero quello dedicato a funzioni esclusive e specifiche di difesa. Se si somma tutto siamo a oltre 23,5 miliardi di euro. Anche dati internazionali, come quelli elaborati dal Congresso Usa o dalla Cia vanno ben oltre l'1,5 del Pil, quella quota sbandierata dal ministro La Russa come obiettivo che l'Italia non raggiunge. La Russa parla dello 0,9 percento, ma i dati aggregati parlano di oltre l'1,5 percento.

Quali sono le armi che costano di più?
I costi maggiori sono per il personale, una zavorra di 190 mila effettivi, con sole 10 mila unità all'estero. Gli altri eserciti sono molto più efficienti sotto questo profilo. Il costo delle pensioni. Il costo di armamenti inutili. Anche qui è il metodo che è sbagliato. In Italia, per acquistare un armamento, basta che il Parlamento dica sì all'inizio. Gli aggiornamenti e gli ulteriori acquisti li può poi decidere in autonomia il ministero della Difesa, eventualmente solo con il parere, non vincolante, delle Commissioni. L'Eurofighter risale agli anni '80. A luglio è stato fatto un accordo per tale apparecchio che costerà 8-9 miliardi di euro. Così per l'F35: l'ultimo passaggio in Parlamento è stato un parere consultivo. Si toglie qualsiasi tipo di dibattito serio, articolato. Si va avanti per inerzia, per frasi fatte. Senza capire e chiedersi: avevamo bisogno di 200 Eurofighter e di 130 F35? Certi acquisti sono esagerati anche per i capi di Stato maggiore. Ma è una decisione politica, che il nostro governo paga. Siccome gli Stati Uniti non vogliono uno sviluppo di un caccia europeo, allora tirano dentro Gran Bretagna e Italia nell'F35. Un vincolo di dipendenza enorme. E' stato venduto come il più avanzato caccia in circolazione, ma è un programma di cui non si conosce la fine, né tecnica né di investimento. Una parte delle funzionalità è stata solo simulata, li stanno facendo volare senza aver fatto tutti i test sennò sarebbero troppo costosi. Nel libro scriviamo che non ci sarà nessun trasferimento di conoscenza informatica o tecnologica, perchè noi costruiremo solo le ali dell'apparecchio. Sono soldi buttati via, anche per chi vuole uno strumento militare efficiente.

Cosa fare? C'è la possibilità di un'inversione di tendenza nella contiguità tra forze politiche, vertici militari e industria bellica?

Bisogna applicare le norme, che già ci sono, evitando che un ex-militare, una volta finita la carriera, finisca dritto dritto nelle aziende belliche. Bisogna aspettare tre anni, prima che ciò accada. L'acquisizione di sistemi d'arma dura vent'anni, per questo un capo di Stato maggiore dell'Aeronautica che direziona e gestisce acquisti di tecnologie o sistemi, per esempio, non può lavorare uno o due anni dopo per Augusta-Westland. E' evidente il conflitto, e questo va impedito. Ma bisogna impedire anche il contrario, ovvero che chi lavorava in politica finisca nelle industrie belliche: l'Italia aveva un ambasciatore a Washington che era anche vice-presidente di Finmeccanica, Castellaneta. L'ex-sindaco di Novara, dove verranno costruite le ali dell'F-35, oggi è nel consiglio di amministrazione di Alenia Aeronautica. Mi domando come, all'epoca, poteva essere libera da ogni pressione la sua risposta alla costruzione del velivolo. Una scelta fatta solo per creare posti di lavoro? Non credo. Un sindaco che va a lavorare per la Sanofi Aventis dopo aver sempre parlato bene dell'industria dei farmaci non è molto ben visto. Nel settore militare questa indignazione non avviene, purtroppo.

Luca Galassi

   
'Servi', il Paese sommerso dei clandestini al lavoro
L'ultimo libro di Marco Rovelli: indagine impietosa su un'Italia 'schiavista'
Si chiama 'Servi', e completa una triade. Una piccola Divina Commedia dove non c'è paradiso, ma solo inferni: prima erano i Centri di permanenza temporanea ('Lager Italiani', Rizzoli, 2006), poi le morti sul lavoro ('Lavorare uccide', Rizzoli, 2008). Oggi è il 'Paese sommerso dei clandestini' a venire raccontato da Marco Rovelli, già cantante - prima con i Les Anarchistes, poi da solo con l'album 'Libertaria' - e insegnante in un liceo di Massa.

Con 'Servi' (edizioni Feltrinelli), lo scrittore scende di nuovo nella terra dei dannati. "Se sono qui ad ascoltare storie come queste - scrive Rovelli - è perche in esse leggo la mia (...) queste immagini perfette di sradicamento le porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso".

Noi che lo abbiamo accompagnato in una di queste tappe, sappiamo che il lavoro della penna di Rovelli è preceduto da quello di occhi e cuore. A Cerignola, come in ciascuno dei viaggi compiuti per l'Italia, possiamo testimoniare che certe storie, per raccontarle, l'autore prima le osserva, poi le condivide. Bisogna trascorrere qualche giorno con Marcella, donna ivoriana che gestisce un bar nella campagna foggiana, per parlare la lingua dei servi. O per dare voce a chi non l'ha. Africani, rumeni, polacchi, marocchini: Kojolì, Mircea, Caterina, Monsef. Sono uomini e donne sfruttati e trattati come schiavi, una comunità sommersa la cui condizione trascende le etnie: "Rumeni e polacchi sembrano bianchi, ma è Dio che ha sbagliato il colore della pelle", dice Marcella. Un crogiuolo di popolazioni approdate in Italia per lavorare nei luoghi più derelitti della nostra penisola: nei latifondi del sud Italia come nei cantieri di Milano e Torino. Da irregolari, la terra riservata loro è solo quella dove raccogliere pomodori. O quella da impastare per fare cemento. O, ancora, quella d'asfalto dove prostituirsi. I servi raccolgono pomodori che non mangeranno, costruiscono case che non abiteranno. Raccontano storie che nessuno ascolterà. A meno che non vengano registrate, assorbite e restituite da chi si è applicato ad esse con scrupoloso impegno, producendo un lavoro documentato quanto quello di un giornalista d'inchiesta, ma dipinto con la ricchezza e lo stile del narratore vero.

'Servi' si apre con l'unico possesso che questi uomini hanno: le mani. "Quelle mani che hanno da dire e non hanno parola, quelle stesse mani mute che sorreggono le mie mentre battono sui tasti del computer; le mie mani che parlano, e provano a forgiare una parola che sia in grado di poter far vedere quelle mani che soffrono ciò che gli altri dicono". Sulle loro mani, e sulle loro braccia, si regge l'economia del sommerso in Italia, un Paese dove il lavoro nero ("anzi, nerissimo") rende più che altrove. Ma ad un prezzo, quello delle violenze e dei soprusi, dei ricatti dei caporali, dei documenti ritirati dal padrone, delle paghe da fame, delle morti silenziose. Come in ogni altro lavoro, Rovelli correda il libro con un'appendice dove espone, dati alla mano, alcune tesi che rovesciano la tesi proposta all'immaginario dalla retorica del potere.

L'immigrazione clandestina non è un'emergenza, un evento epocale - dice l'autore - ma un fenomeno storico, con una sua evoluzione e un suo futuro. Chi la presenta come tumore sociale compie un'operazione di propaganda. Il Rapporto sulla sicurezza rivela che nella popolazione carceraria italiana gli irregolari sono il 33 percento (rispetto a una popolazione di stranieri regolari e irregolari del 7 percento). Il libro smonta l'assioma 'clandestino-criminale'. Come? Interpretando i dati. La maggior parte degli irregolari è entrata legalmente, ed è rimasta sul territorio oltre la scadenza del visto o del permesso di soggiorno. I reati compiuti dagli irregolari diminuiscono in occasione delle sanatorie, a dimostrazione della volontà dell'immigrato, una volta 'emerso', di far di tutto per non perdere il proprio status. Gli irregolari compiono in maggioranza piccoli reati, e le pene sono più basse rispetto a quelle comminate agli italiani. Gli irregolari non fruiscono di pene alternative, come l'affidamento ai servizi sociali o i domiciliari: perchè non hanno un domicilio stabile o una famiglia che li ospiti.
Il libro si chiude come si è aperto: con le mani. Dei clandestini ci si serve perchè sono invisibili, senza diritti. Clam-des-tinus, dal latino 'clam', ciò che sta nascosto, e 'die', giorno. Ciò che sfugge alla luce. Dei clandestini ci si serve e non lo si dice. "Se una mano dà scandalo, la si tagli. Quanta parte dell'Italia oggi occorrerebbe amputare?"

 

3 novembre

Sono già 146 i detenuti morti dietro le sbarre da gennaio. Decine di casi di autolesionismo. Si tolgono la vita soprattutto i condannati sottoposti al regime di isolamento

Carceri, quest'anno già 60 suicidi

"Pochi educatori, strutture vecchie"

di VLADIMIRO POLCHI

ROMA - Sessanta suicidi dall'inizio dell'anno, oltre 500 dal 2000. Dieci casi al giorno di autolesionismo. 1.365 detenuti deceduti dal 2000 al marzo 2009. 300-400 tentati suicidi l'anno. Eccola la perenne emergenza delle patrie galere: violenze, suicidi, morti sospette. Dietro le sbarre mille storie di umanità cancellata.
Da inizio gennaio a oggi sono 146 i detenuti morti in carcere, 6 in più del totale dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei primi dieci mesi del 2009 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 61 (l'ultimo ieri sera a Verona), ventuno in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Dove si muore di più? Secondo i dati dell'associazione "Ristretti Orizzonti", "ogni 4 suicidi uno muore in cella di isolamento: con il progressivo inasprimento del regime detentivo si assiste, infatti, ad un notevole aumento dei casi di suicidio". Non solo: "I detenuti sottoposti al regime del carcere duro (art. 41bis) si uccidono con una frequenza 4,45 volte superiore al resto della popolazione carceraria". Soffrono i detenuti, ma soffre anche la polizia penitenziaria, che nell'ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro spesso poco riconosciuto.

"Ristretti Orizzonti" cita il Bollettino degli eventi critici negli istituti penitenziari del ministero della Giustizia: dal 1992 al 2008 ogni anno muoiono in media 150 detenuti, di cui circa un terzo per suicidio e gli altri due terzi per cause naturali. Gli omicidi registrati sono 1-2 l'anno. I suicidi riguardano prevalentemente i detenuti più giovani: i 10 "morti di carcere" più giovani del 2009 sono tutti suicidi e due avevano solo 19 anni. Non mancano le opacità: le morti per "cause da accertare" sono più numerose di quelle per "malattia".
Alla base della sofferenza del pianeta carcere è senza dubbio la condizione di sovraffollamento. "Con 65mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila - rileva Donato Capece, segretario del sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) - accadono purtroppo questi episodi. Come può del resto un agente, da solo, controllare 80-100 detenuti?". E ancora: l'80% delle 206 galere italiane hanno oltre un secolo di vita (di queste il 20% risale addirittura al Medioevo). "Da un lato cresce il dramma del sovraffollamento dietro le sbarre - spiega Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione "Antigone" - dall'altro resta fermo il numero di educatori e assistenti sociali. La conseguenza? I detenuti restano sempre più soli ed è più facile che le storie di disperazione finiscano male". Insomma, secondo Gonnella, "il numero crescente dei suicidi è la cartina di tornasole di un carcere malato, mentre i casi di violenza fanno stabilmente da filo rosso".

 

Gli afgani di Capitan Bavastro

Giorni di attesa per i 150 afgani accampati alle spalle della Stazione Ostiense

Abbiamo un problema. Quanto è credibile lo Stato Italiano? In otto anni di guerra in Afghanistan abbiamo speso oltre 2,5 miliardi di euro (più o meno due finanziarie), inviato nei diversi avvicendamenti dei contingenti almeno 10 mila soldati, con una presenza fissa adesso di 3 mila e 22 di loro sono rientrati in Italia solo in bare di legno avvolte dal Tricolore. Tutto questo perché, tra i principali obiettivi della missione cè quello di garantire la sicurezza, una vita quotidiana tranquilla a milioni di afgani. Ma saremo realmente in grado di mettere in salvo 25 milioni di afgani dalla ferocia dei talebani, dai proiettili degli Ak-47, dagli Ied se nel cuore di Roma alle spalle della stazione Ostiense non siamo in grado di proteggere 150 profughi afgani da pioggia, pulci, topi e soprattutto a preservarne la dignità? Su di loro, lunedì, incombe lennesimo sgombero.

Via Capitan Bavastro, Roma. Sera. Laria è bagnata. Lumido entra nelle ossa. Nel piazzale adiacente ai binari della ferrovia ci sono i camper di Medu, i Medici per i diritti umani, che da oltre tre anni si prendono cura e difendono i 150 afgani. Le loro tende, le loro baracche, sono sparpagliate sulla terra in uno sbancamento di terreno a una decina di metri sotto il livello della strada. Alberto, affacciato alla balaustra guarda in basso in quella buca e racconta della sua angoscia. Il 23 ottobre la polizia è arrivata per una operazione di bonifica ambientale. Le ruspe hanno portato via limmondizia accumulata, ma anche i pochi preziosissimi effetti personali: le coperte in cui si rannicchiavano la notte, i medicinali, la documentazione sanitaria. E poi lordine di abbandonare le baracche nel termine di dieci giorni. Il termine scade lunedì 2 novembre. È per questo motivo che i volontari di Medu Alberto, Francesa, Maria Rita, Francesco, Marieaud che ha un bambino nato da poco e che dorme tranquillo nel camper, presidiano il campo. Soprattutto nelle ore notturne, quelle più sensibili, quando potrebbe arrivare lo Stato con le luci bianche e il megafono a buttare fuori gli afgani.

Ground Zero. Uno striscione bianco dà il benvenuto a chiunque abbia voglia di andare a vedere come si vive da rifugiati politici. Benvenuti nel nostro Ground Zero. E infatti, le fotografie mentali del grosso buco a Manhattan, ti si presentano davanti agli occhi in rapida sequenza. Qui dovrà essere costruito un palazzone e per questo motivo gli afgani devono lasciare il posto che spetta alle fondamenta. È legittimo, si dirà, si tratta di proprietà privata.
Il punto è questo. Medu si è rivolta alle autorità, alle amministrazioni. Bisogna trovare un posto alternativo per queste persone. La risposta, in stretto politichese, fa riferimento a progetti, provvedimenti quadro, ordinanze. Ma le uniche volte in cui lo Stato si fa vivo, lo fa in uniforme, lo fa per dare avvertimenti. Dovete lasciare questo posto. Ma dove devono andare? Questo, a quanto pare, non è un problema dello Stato. La delega al privato, al cittadino, è diventata prassi per lo Stato. Se non ci fossero privati come i volontari di Medu, la comunità di SantEgidio e qualcun altro che si preoccupi di portare generi di conforto a queste vittime di una guerra che di certo non hanno deciso loro di combattere, sarebbero abbandonati a loro stessi.

Gli afgani di Capitan Bavastro. Sono per lo più giovani, poco più che adolescenti. Sono di etnia pashtun, hazara, tagika. Hanno affrontato un lungo viaggio per sfuggire alla violenza e alla guerra. Quasi tutti sono arrivati attraverso la Grecia. Molti di loro hanno lasciato le impronte digitali alla polizia greca. Su molti di loro la polizia greca ha lasciato segni di percosse. Sono richiedenti asilo o titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari e come tali hanno, avrebbero, diritto a unassistenza sociale e sanitaria parificata a quella dei cittadini italiani. Vogliono inserirsi, vogliono lavorare. Vogliono che gli italiani vadano a consumare un tè con loro. Maria Rita e Francesca, nel fine settimana insegnano loro litaliano. Gli afgani ricambiano: lezioni di aquilone e di panificazione nel piccolo forno che si sono costruiti da soli.

I tempi in cui Sandro Pertini abbracciava il piccolo Mustafà scampato alla guerra in Libano sono molto lontani. Oggi, a Roma, Italia, la questione del decoro urbano ha più dignità del civile dovere dellaccoglienza.

Fotografie di Alfredo Covino/OnOff Picture

Nicola Sessa

 

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