28 maggio

di ADRIANO SOFRI

 
NEL colonnino delle ultime notizie, sulla homepage di questo giornale scorrevano ieri queste righe, l'una dopo l'altra: "18.57. Thyssen: operai morti in rogo agirono correttamente. 18.59. Incidente Saras: avevano 26, 27 e 52 anni". "Hanno tentato di salvarsi a vicenda". Nei telegiornali da Sarroch si è sentita poi anche una voce che diceva: "Non dovevano essere lì in quella condizione: è stata una loro iniziativa". Un tribunale, fra qualche anno, stabilirà invece che i tre morti di Sarroch hanno agito correttamente: e forse la notiziola scorrerà a due minuti di distanza da quella di una nuova strage sul lavoro. "Correttamente": basterà questo avverbio misurato per dire di tre uomini che sacrificano la vita per sbarcare i 900 euro di lunario e per soccorrersi a vicenda, o bisognerà dire "eroicamente"? Bisognerà dire che abnegazione ed eroica solidarietà sono l'altra faccia di un lavoro stentato e risicato come quello degli appalti, eppure tenuto stretto da chi deve conservarlo come un privilegio in una crisi devastante?

Il privilegio di morire soffocati dal gas, in una stiva di nave, in una cisterna di vino, in un serbatoio non bonificato. C'è una fabbrica gigantesca, gli impianti sono fermi per la manutenzione, sicché le misure di sicurezza devono essere le più attente e rigorose: e tre operai, cui forse non si è assicurata la formazione necessaria, e addirittura in assenza del "permesso di lavoro", senza il quale nessuno dovrebbe anche solo affacciarsi sull'orlo di quei veleni, ci perdono la vita, e un quarto riesce a scampare per raccontarlo. Il responsabile sindacale della sicurezza, William Schirru, dice frasi secche. Dice: "Non si può fare sicurezza col lavoro precario in un posto in cui un errore ti costa la vita, e può provocare un disastro". Dice: "Non si può morire così alla Saras, nel 2009: e invece sono morti così". E' una storia semplice. Sempre la stessa storia.


Si sa che cosa siano le ditte esterne nei grandi impianti - e quello di Sarroch è il più grande d'Europa nel suo genere: costi tagliati di un terzo, turni sfibranti "per stare nei tempi" previsti da gare al ribasso, e "sicurezza ciao". Lo dice un sindacalista nei sette minuti di filmato di Massimiliano Mazzotta messo in rete ieri a ridosso della tragedia, si intitola "Oil", la didascalia spiega che la Saras ne ha chiesto il sequestro. Ci sono, nel filmato, testimonianze che colpiscono per la loro asciutta efficacia: operai, un pastore, un pescatore. Così come colpivano, nei telegiornali di ieri sera, le facce e le frasi dei compagni di lavoro dei morti, per la commozione la dignità e la proprietà di pensieri e parole: come ogni volta che la sciagura strappa il sipario che tiene distante dalla vita finta la vita vera. Quella che si prende a nolo, per due mesi, o per sei, a buon prezzo: ma non si può comprare.
 


 
Armi illegali e armi legali. Le prime si combattono, le seconde si fatturano. Il risultato: 140mila morti all'anno nella sola America latina
Far entrare armi illegalmente in America Latina? Un gioco da ragazzi. Almeno a quanto rivelano i due processi ai più potenti trafficanti d'armamenti del mondo: il russo Viktor Bout, il mercante di morte, catturato in Thailandia e ora in attesa di estradizione in Usa, e il siriano Monser al Kassar, condannato a trent'anni a New York. La porta privilegiata per il continente: il Nicaragua. Acquirenti particolari: le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ma non solo.

armiNicaragua e dintorni. Secondo la Dea, Agenzia antidorgra statunitense, sia Bout che Al Kassar stavano tentando di vendere dei lanciamissili portatili terra-aria russi Sam alle Farc. La via individuata per riuscirci: Romania o Bulgaria, quindi il paese centroamericano, da dove sarebbero decollati mezzi aerei che avrebbero paracadutato le armi direttamente nella selva colombiana, in braccio alla guerriglia. "Certo non ci sono prove che il governo di Daniel Ortega sia complice, ma senza dubbio il paese ha enormi lacune illegali che facilitano il traffico illegale", ha dichiarato allo spagnolo El Pais Roberto Orozco, esperto nicaraguense di Studi strategici e politiche pubbliche. "Non dimentichiamo, comunque, che Ortega ha dato riparo ai narcoterroristi delle Farc", ha quindi replicato il direttore della Fondazione filo-uribista Sicurezza e Democrazia di Bogotà.
Un attacco al Nicaragua in piena regola, rafforzato dalle fonti della Difesa Usa: "I porti nicaraguensi sono dei colabrodi per le armi", specialmente, secondo Orozco, il porto di Corinto, "l'unico che ha acque profonde e che è controllato da Esercito e polizia, che fanno finta di niente. Non ci sono statistiche affidabili sulla quantità di imbarcazioni che attraccano lì, ma sono sufficienti due o tre caricati bene per rifornire il mercato di migliaia di armi".

armiArmi-droga, connubio perfetto. Sono più di 80 milioni le armi illegali in America Latina. Lo stabilisce il Centro per l'informazione della Difesa di Washington. Chiunque può riuscire a comprare una pistola o un fucile. E per chi si impegna un po' di più, ecco che trova facilmente un bazzuca o un lanciamissili. E, valutando il tasso di omicidi della regione i conti son presto fatti: la Banca mondiale dichiara che sono 140mila all'anno i morti ammazzati, più del doppio della media mondiale. E se si guardano alcuni paesi i dati balzano alle stelle: la Colombia, a causa del conflitto interno, ha una media di 65 morti da arma da fuoco ogni centomila abitanti, seguita da 50 in Guatemala, 45 nel Salvador, 35 in Venezuela e 28 in Brasile. E va da sé che l'acquisto di armi illegali vada a braccetto con il narcotraffico.
I centri di smistamento, una volta che le armi sono arrivati perlopiù, appunto, dal Nicaragua, ma anche dal Guatemala, sono la Tripla frontiera tra Brasile, Argentina e Paraguay; il golfo colombiano di Urabà, al confine con Panamà; e il confine in piena regione amazzonica fra Perù, Colombia e Brasile. E, a quanto pare, nella maggior parte dei traffici illegali ci sono invisghiati poliziotti o militari, che ci ricavano lauti guadagni.
Ma molto spesso c'è uno scambio alla pari droga-armi. Una sorta di baratto, gestita dalla mafia internazionale: cocaina dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia verso l'Europa, attraverso il Venezuela, l'Ecuador e il Brasile, e in cambio arrivano armi dal medesimo canale in senso contrario.
Un tema, quello del traffico di armi, legale e illegale, che preoccupa molto le amministrazioni europee, ma anche statunitensi. E' del 20 maggio, infatti, la notizia che alla Camera dei rappresentanti Usa è stata approvata una proposta di legge che, se promulgata, imporrà multe milionarie e fino a dieci anni di prigione per il delitto di traffico di armi verso il Messico. Perché, per quanto riguardano gli armamenti da e per gli Usa la porta messicana è logisticamente la preferita, sia clandestinamente che alla luce del sole. E infatti la nuova legge prevede non solo un controllo attento delle armi legali ma, anche, la nascita di una Forza speciale per prevenire il traffico di armi illegali nell'intero continente americano, che verrà guidata dai dipertimenti di Stato, della Sicurezza interna e della Giustizia.

armiDa e per il Messico. A scoperchiare il vaso di pandora e a far sì che il Parlamento Usa sia corso ai ripari, fu, circa un mese fa, l'ambasciatore messicano negli Stati Uniti, Arturo Sarukhán, il quale denunciò che il 90 percento delle armi utilizzate dai cartelli della droga messicani provengono dagli Usa. Una diretta conseguenza del fatto che la legge che regolava la vendita di armi di assalto e semiautomatiche è decaduta nel 2004, per la pressione, guarda caso, del Partito Repubblicano e di organizzazioni come l'Associazione nazioanel del Rifle. E se si pensa che, in Messico, soltanto tra il 2008 e il 2009, sono morti ammazzati per la violenza legata al narcotraffico almeno settemila persone, tutto è più chiaro. Come è chiara la caotica rivalità tra mercato legale e mercato illegale delle armi. Sì perché, a prima vista, questa battaglia, l'ennesima, contro il traffico di armi illegali potrebbe anche sembrare una buona notizia per chi sogna un mondo senza guerre, ma se si guarda un po' più attentamente la speranza inizia a sfumare. Perché, va bene il no all'illegalità, ma restano le armi vendute regolarmente, e sono tante. Questo mercato è stato e resta fra i più redditizi dell'economia globale. Quindi qualcosa resta stonato e il dubbio rimane: tanta veemenza nel combattere l'illegalità in questo campo non sarà dettata dal fatto che il traffico clandestino di armi fa troppa concorrenza al mercato di armi con tanto di fattura?

Stella Spinelli

LA SICUREZZA E’ DI DESTRA O DI SINISTRA?

di Agostino Spataro

 Di questi tempi, si fa un gran parlare di riforma della “sicurezza” anche se non si capisce quale e a che cosa dovrà servire tutta questa sbandierata sicurezza. 

In realtà, più che una riforma sembra un’invocazione generica, demagogica, nel bel mezzo di una campagna elettorale.

Tuttavia, sarebbe da stolti non vedere che per quanto populista sia l’approccio i suoi promotori fanno leva su problemi reali.

Il bisogno di sicurezza, infatti, è venuto crescendo nella società, soprattutto nei settori meno abbienti e perciò meno protetti. Talvolta questo bisogno è gonfiato ad arte per mezzo di campagne mediatiche mirate ed allarmistiche, ma si basa sempre su un nucleo di verità.

Perciò è utile rifletterci sopra, tentando di rispondere ad alcuni interrogativi che frullano, insoluti, nella mente un po’ frastornata della gente.

 Sicurezza o ordine pubblico democratico?

Già il termine stesso di “sicurezza” suscita qualche perplessità, specie se non è accompagnata da un’aggettivazione che la definisca nel suo valore politico e in sintonia col dettato costituzionale e col diritto internazionale.

Solitamente, si usa tale termine in riferimento ad un edificio, ad un’infrastruttura, ad un lavoratore, all’integrità territoriale di un Paese, ecc. Insomma, il concetto di sicurezza più s’addice a qualcosa di specifico meno ad un sistema complesso e in evoluzione di relazioni umane, sociali, ambientali.

A scanso di equivoci, meglio sarebbe dire “ordine pubblico democratico” che sembra una dizione più  idonea per definire il sistema e più consona con lo spirito e con la lettera della Costituzione repubblicana e antifascista.

Per essere veramente democratico quest’ordine deve essere concepito, organizzato e partecipato come risultante di uno sforzo coordinato e congiunto di tutte le forze sociali e politiche che affidano allo Stato la responsabilità di farlo funzionare, secondo giustizia, efficienza ed uguaglianza.

Ovviamente, i cittadini possono / debbono collaborare con lo Stato in questa delicata opera di salvaguardia del bene comune.

Possono farlo, senza bisogno di ronde e di compagnie di ventura che creano confusione sul terreno operativo e possono debordare in una gestione partigiana, arbitraria della sicurezza.

Parliamoci chiaro, le milizie, i volontari con le divise o con le camice nere, rosse, verdi, ecc sono sempre stati al servizio di un progetto politico o di uno Stato autoritari.

In Italia, per altro, questa esperienza è stata amaramente vissuta con la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fortissimamente voluta dal fascismo il quale, con la scusa di combattere la delinquenza, se ne servì per soffocare la democrazia politica e la libertà dei cittadini.

Se una riforma c’è da fare è la riorganizzazione delle forze dell’ordine che devono essere strutturate e dotate dei mezzi necessari per adempiere al meglio ai compiti istituzionali,

senza essere distolte per incombenze di tipo amministrativo o, peggio, per garantire una scorta, sovente solo uno status-symbol, ad una pletora di esponenti politici e di governo.

  La riforma governativa corrisponde al bisogno reale di sicurezza?

A parte talune norme antimafia (non disprezzabili), il provvedimento Lega - Berlusconi, oltre che discutibile nel merito, appare inadeguato al bisogno poiché offre una risposta parziale e pasticciata ad un problema complesso e vasto qual è quello della “sicurezza globale” che, certo, non può essere ridotta all’immigrazione  clandestina.

Se per sicurezza deve intendersi, in primo luogo, la tutela della vita e della salute umane, questo provvedimento trascura la gran parte dei fattori d’insicurezza che ogni anno, in Italia, provocano diverse migliaia di vittime e feriti. Più di una guerra mediorientale.

Penso all’elevato numero di vittime per incidenti stradali o sul lavoro, ai casi di malasanità, alle aggressioni della microcriminalità, alle violenze di quella organizzata, al bullismo, alla pedofilia, alla sfruttamento della prostituzione, al mercato nero del lavoro, al contrabbando, alle sempre più frequenti esplosioni di follia, di gelosia, ecc.

Una sequenza impressionante di eventi tragici che chiamano in causa l’organizzazione della società e le responsabilità dello Stato e dei vari organismi preposti alla prevenzione dei reati e al controllo del territorio.

 Garantismo o permissivismo?

In realtà, la tanto sbandierata “sicurezza” leghista e governativa, concentrandosi ossessivamente sull’immigrazione clandestina, non interviene sui diversi fronti dell’insicurezza diffusa, soprattutto nei grandi centri urbani e nelle periferie dove si registrano i più gravi allarmi sociali.

Rispetto a tali fenomeni c’è un groviglio di cause che vanno chiarite e rimosse, richiamando la responsabilità della classe dirigente che sembra avere abbandonato la società alla deriva, in balia di un permissivismo eccessivo contrabbandato per garantismo.

Tale “equivoco” ha creato uno squilibrio fra la giusta esigenza del recupero dei soggetti deviati e la tutela dei diritti dei cittadini vittime delle varie devianze.

Insomma, si è capovolto il senso vero dello Stato democratico che, in primo luogo, deve tutelare la sicurezza, i diritti dei cittadini onesti e dopo, se compatibili con tale priorità, anche quelli di chi, in vario modo, vi attenta.

Questo a me pare un punto chiaro da riaffermare anche da parte di una sinistra che, se vuole aspirare ad un ruolo di governo, non può regalare al centrodestra il monopolio della sicurezza, per altro esercitato in chiave propagandistica e populista.

 Ma la sicurezza è di destra o di sinistra?

Penso che dovrebbe essere un valore fondante della convivenza civile, condiviso da tutte le forze democratiche. Tuttavia, se proprio le si vuol dare una connotazione politica credo che tutelare la sicurezza dei cittadini sia più interesse della sinistra e delle forze progressiste e meno della destra.

Se non altro per il fatto che la domanda di sicurezza proviene, prevalentemente, dai ceti medi e meno abbienti i quali si rivolgono allo Stato perché, a differenza delle classi agiate, non dispongono di mezzi propri per tutelarsi. 

Ecco perché dovrebbero essere le forze di sinistra, progressiste a farsi carico del problema, con politiche basate sulla prevenzione e sul recupero, ma anche, se è necessario, sulla giusta repressione dei reati, come vuole la legge. Lasciare tale compito al centro-destra è un grave errore politico poiché - come si vede- non risolve il problema della sicurezza vera e ne fa solo una bandiera da agitare per fini elettorali. Senza dimenticare che, storicamente, la destra ha sempre strumentalizzato il bisogno di sicurezza per imporre un ordine autoritario, talvolta illiberale.

 

26 maggio

Il tesoro della Casta

di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli

Leciti ma segreti: la nuova legge permette di tenere nascosto il 27 per cento dei contributi elargiti dai privati. Così 15 milioni l'anno restano coperti

Trasparenza addio, sulle sovvenzioni di privati e aziende ai partiti cala di nuovo l'ombra. Ai tempi di Tangentopoli il reato di illecito finanziamento travolse la prima Repubblica? Bene, adesso il finanziamento è diventato lecito ma invisibile, praticamente occulto: sotto i 50 mila euro resta nascosto a norma di legge. È l'arma segreta di un esercito di uomini con la ventiquattr'ore che cinge d'assedio i palazzi del potere: si chiamano lobbisti, e bussano alle porte dei politici, ungendo ingranaggi dove più gli conviene. Quanto pesi veramente la loro opera di "seduzione" sulle decisioni del Parlamento è cosa ardua da capire.

Le liste tenute dalle Camere non sono soltanto difficili da consultare, ma nascondono la reale entità del fenomeno. Spulciando i bilanci 2007 delle formazioni politiche rappresentate in Parlamento, infatti, "L'espresso" ha individuato una "zona grigia", formata dai fondi dei quali i tesorieri di partito non sono tenuti a render nota la provenienza. Qui si scopre che ben il 27 per cento dei contributi privati ai principali partiti italiani è perlopiù di origine ignota. Un limbo da 15 milioni di euro, insomma. Appena due, invece, i milioni di euro in finanziamenti "trasparenti" nello stesso anno. Se poi pensi che nel 2008 (che è stata annata di campagne elettorali) le cifre "alla luce del sole" sono quadruplicate, vien da chiedersi quanto sia cresciuta in proporzione la zona d'ombra.

Come funzioni il lobbismo sommerso ce lo spiega Franco Bonato, ex tesoriere di Rifondazione: "L'intento di celare la provenienza dei fondi diviene evidente quando si constata la facilità con cui il limite fissato per legge può essere aggirato. Se io, imprenditore, decido di dare 50 mila euro a un partito, ma preferisco che il mio contributo resti segreto, mi basterà versarne 49.999. Se ho intenzione di versarne più di 50 mila, e voglio sempre restare anonimo, mi basterà ripartire la somma fra i componenti della mia famiglia. Così io ne verserò una quota, mia moglie un'altra, mio figlio un'altra ancora e così via. Sono stratagemmi di uso comune per chi non vuole farsi notare", conclude.

Tutto grazie allo scorso governo Berlusconi. Agli inizi del 2006, poche righe inserite di soppiatto nel famoso Milleproroghe, a mo' di sandwich fra una disposizione sull'8 per mille e un contributo a "Genova capitale europea della cultura 2004", sono andate a innalzare la soglia di trasparenza dei fondi privati, al di sotto della quale è impossibile sapere chi-dà-quanto-a-chi. La cifra è schizzata dai circa 6.600 euro fissati nel lontano 1981 ai 50 mila di oggi. Venti volte tanto. Pure fra i banchi dell'opposizione se n'erano accorti in pochi: fra questi Pierluigi Castagnetti, allora deputato della Margherita, ora Pd. "Permettere che si elargiscano anonimamente cento milioni di vecchie lire", ribadisce oggi, "vuol dire che qui non si parla più di "finanziamento", ma di semplice corruzione politica ". Per i partiti come per i singoli parlamentari. Lo stesso accadeva nel medesimo periodo per il finanziamento privato a deputati e senatori, con una modifica voluta dai parlamentari della Casa delle libertà, e infilata con altrettanta destrezza in un testo di legge sul voto domiciliare. In questo caso la soglia è salita dai 6.500 euro a 20 mila e con una differenza non da poco: mentre la zona grigia dei partiti è calcolabile a partire dai loro bilanci, quella dei parlamentari no.

Il grigio, da noi, non è fatto solo di soldi che vanno da privati e lobbisti a partiti o singoli parlamentari. Fioccano i versamenti che per varie ragioni viaggiano da partito a partito (vedi box) o da politico a partito. Le liste della Camera sono piene di rappresentanti che finanziano la propria formazione. Come gli oltre 4 milioni di euro arrivati ai Ds dai propri deputati e senatori nel 2007, i circa 713 mila euro dei leghisti o i 281 mila euro dell'Idv, ma succede anche con An e Margherita, ed era tradizione consolidata fra quelli di Rifondazione. Se l'autofinanziamento attraverso i propri politici può avere un senso, però, qualche perplessità la suscitano i casi in cui è il gruppo parlamentare a rimpinguare le casse del suo partito coi finanziamenti pubblici che riceve da Camera e Senato. Soldi che in teoria servirebbero esclusivamente alle spese di gestione degli uffici, ma che si traducono in un ulteriore finanziamento pubblico indiretto. Vedi i 97 mila euro del gruppo alla Camera di An, ma vedi anche il mezzo milione di euro che nel 2007 i gruppi leghisti hanno girato a via Bellerio. Se a tutto ciò aggiungi il fatto che, grazie a un vecchio cavillo tornato "utile" ai tempi di Internet, le liste dei finanziamenti privati non possono essere pubblicate on line, è evidente che in Italia lobbisti e lobbizzati godono di una comoda cortina di fumo. Che fa diventare sempre più opachi i rapporti fra il potere economico e quello politico.

Prendiamo Forza Italia. Il confronto fra i contributi sopra i 50 mila euro ricevuti negli ultimi due anni fa riflettere: nel 2007, quando era all'opposizione, è stata corteggiata dai lobbisti con 310 mila euro. Che però un anno dopo, conquistato palazzo Chigi, sono lievitati a quasi 2 milioni e mezzo. Tanti soldi, tanti favori da ricambiare? Una delle più folte pattuglie di sostenitori del Cavaliere sono i costruttori. A scendere in campo addirittura l'Associazione nazionale costruttori edili, con 50 mila euro che certo non staranno rendendo la vita più difficile al Piano Casa di Berlusconi. Insieme all'Ance i grandi costruttori privati, quelli che sugli appalti pubblici fanno la loro fortuna, a cominciare dall'Astaldi, passando per la Pizzarotti di Parma, per finire con il gruppo Gavio.

Proprio Marcellino Gavio è il maggior finanziatore forzista, con 650 mila euro in 13 assegni da 50 mila l'uno. Gavio è azionista dell'Impregilo, società capofila per la costruzione del ponte sullo Stretto: è notizia di qualche settimana fa che, dopo lo stop imposto da Prodi, la grande opera ripartirà presto. Ma l'imprenditore alessandrino è anche uno dei signori delle autostrade italiane, visto che gestisce chilometri e chilometri di asfalto, soprattutto al Nord (una su tutte la Torino-Milano). Non gli dispiacerà se dal primo maggio il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ha aumentato i pedaggi. Non solo cemento. Il partito berlusconiano si nutre anche di acciaio, coi 300 mila euro dell'imprenditore cremonese Giovanni Arvedi. E un occhio di riguardo va alla salute: 200 mila vengono dalle cliniche, La Nuova Sanità srl di Bari, e Multimedica Holding spa di Milano. Che per un partito andare al potere sia come un battesimo, con tanto di regali degli invitati, lo ha capito bene Raffaele Lombardo, padre-padrone dell'Mpa, che da quando è diventato governatore della Sicilia e alleato di governo della destra ha fatto l'en plein. Nel 2007 nessun contributo di peso, un anno dopo 665 mila euro. Primo fan del medico siciliano è Maurizio Zamparini, presidente del Palermo calcio, con due versamenti da 100 mila euro l'uno. E si capisce: i suoi interessi nell'isola sono molteplici, visto che nel capoluogo sta per costruire un grosso centro commerciale, e in più vorrebbe gestire il progetto di un nuovo stadio.

Va di magra, invece, a chi esce dalla stanza dei bottoni. È successo a Lamberto Dini, che quando risultava decisivo per le sorti del governo Prodi aveva ricevuto dall'imprenditore Davide Cincotti 295 mila euro. E ora che è intruppato nel Pdl gli tocca accontentarsi delle briciole (appena 100 mila). Idem per i Ds senesi. Quando il centrosinistra guidava il Paese, Giuseppe Mussari (capo del Monte Paschi) donava loro 162.500 euro, cifra che poi nel 2008 si è ridotta a meno della metà.

A volte lobbista e politico sono anime gemelle, altre una strana coppia. Come l'antiberlusconiano ante litteram, Antonio Di Pietro, che ha intascato 50 mila euro da Sei Tv, una società televisiva milanese. Dalla visura camerale salta fuori che la proprietaria è tale Tiziana Grilli, moglie di Raimondo Lagostena Bassi, reuccio delle tv locali grazie al circuito Odeon. Lagostena però è uomo che fa affari col Cavaliere (visto che mandava in onda la defunta Tv delle libertà della Brambilla), ed è anche editore di Telepadania (non a caso ha foraggiato anche la Lega con 60 mila euro). Allora con Di Pietro che c'azzecca?

Curioso pure il finanziamento di 60 mila euro alla campagna elettorale di Gianni Alemanno da parte della Snai, società di scommesse. Anche se in fondo al sindaco di Roma l'azzardo non dispiace, visto che da tempo preme per un casinò nella capitale. Ancora, c'è lo strano caso dell'onorevole Sergio De Gregorio, che invece di finanziare la propria televisione (Italiani nel mondo reti televisive", società che gestisce una tv satellitare e web) riceve dalla stessa quasi 75 mila euro.

Infine c'è il finanziamento al partito che diventa "lessico famigliare". Stiamo parlando dell'Udc di Pier Ferdinando Casini, che lo scorso anno ha potuto contare su 2.210.000 euro (seconda sola a Forza Italia), l'80 per cento dei quali proviene da un'unica fonte: l'immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Un bel po' di soldi, ma spezzettati in 18 tranche da 100 mila, perché così il suocero ci ha anche risparmiato su. Esiste infatti una norma studiata ad hoc perché i partiti calamitino soldi dai privati: chi dona fino a 103 mila euro può scaricare dalle tasse il 19 per cento dell'importo, molto di più rispetto a un'associazione qualsiasi.

 

Nigeria, il Delta è in fiamme

Nuovi scontri tra forze di sicurezza e ribelli nella regione petrolifera, almeno cento morti e migliaia di sfollati

Almeno cento morti e migliaia, forse addirittura diecimila, sfollati. E' questo il bilancio, stando alle testimonianze di operatori umanitari e civili, dell'offensiva lanciata a metà maggio dalla Joint Task Force (Jtf) nigeriana, composta di elementi di esercito, marina, aviazione e polizia, contro i militanti del Movement for the Emancipation of the Niger Delta (Mend) nella zona di Gbramatu, nello stato meridionale del Delta. Un'operazione a cui i ribelli hanno risposto dichiarando una "guerra a tutto campo", le cui principali vittime rischiano di essere i civili.

I più fortunati, quasi tutti donne e bambini, sono riusciti a raggiungere la città di Warri e a chiedere aiuto. Ma la maggior parte dei civili provenienti dai villaggi di Oporoza e Okerenkoko, colpiti dai raid aerei e terresti delle forze di sicurezza nigeriane, sarebbe ancora rifugiata nelle foreste di mangrovie che coprono l'area, senza alcuna possibilità di ricevere assistenza da parte della Croce Rossa o delle altre organizzazioni umanitarie. La Jtf ha giustificato il lancio dell'offensiva (a séguito della quale 12 soldati risultano dispersi) con a una presunta imboscata a una pattuglia lanciata dai ribelli, che però smentiscono la versione dei fatti, parlando di un attacco ingiustificato contro i civili.

In un comunicato inviato a PeaceReporter, il Joint Revolutionary Council (Jcr), che comprende alcuni tra i maggiori gruppi ribelli operanti nella zona, promette all'esercito una campagna "occhio per occhio", in cui gli attacchi ai civili saranno "vendicati" e in cui qualsiasi membro delle forze di sicurezza colto a non rispettare le regole di ingaggio verso i civili verrà "giustiziato sommariamente". Ma secondo gli operatori umanitari, il rischio maggiore è che, come successo in passato, siano i civili a dover pagare le conseguenze di questa nuova ondata di violenze nel Delta. Le testimonianze parlano di migliaia di persone costrette a fuggire dal teatro delle violenze, con almeno cento persone morte nell'operazione ma dalla zona, impossibile da raggiungere al momento a causa degli scontri, non arrivano notizie provenienti da fonti indipendenti.

Come sembrano lontani i tempi in cui il presidente nigeriano Amaru Yar'Adua, appena dopo la sua elezione, apriva ai ribelli del Delta, facendo sperare in un processo di pace che facesse uscire la regione dalla guerra civile scoppiata alla fine degli anni Novanta, e riesplosa a varie ondate. I ribelli, che chiedono maggiori risorse provenienti dallo sfruttamento petrolifero e più diritti per le popolazioni locali, hanno impegnato severamente le forze di sicurezza nigeriane in questi anni, costringendo il Paese a tagliare del 20 percento circa la produzione petrolifera. Dal canto suo, il governo accusa i ribelli di essere semplici organizzazioni criminali, dedite al contrabbando di oro nero e interessate solamente a stabilire dei propri "feudi" nella regione. A più di dieci anni dall'esplosione delle prime violenze, la pace nel Delta rimane un'utopia.

Matteo Fagotto

 

Una storia cecena

Majnat Abdulaeva, giornalista rifugiata in Germania, racconta la sua vita e la sua guerra

Majnat Abdulaeva è una rifugiata politica cecena che oggi vive in Germania. Per anni è stata corrispondente di guerra dalla sua città, Grozny, per la Novaya Gazeta - il giornale di Anna Politkosvaskaya - e per Radio Liberty. PeaceReporter l'ha incontrata a Varese, nel corso di un incontro sul conflitto ceceno organizzato dall'associazione 'Est - Volontari in Movimento'.
Ecco la sua storia e la sua testimonianza.

E.P.

Alla fine degli anni '80, con la Perestrojka, anche nella repubblica cecena si respirava un'entusiasmante aria di cambiamento. Io, che all'epoca mi ero appena iscritta all'università, ero affascinata, incantata da tutto quello che si leggeva sui giornali: decenni di storia stavano improvvisamente tornando alla luce. La storia stessa si stava facendo sotto i nostri occhi. C'era un grande fermento culturale, c'era finalmente la possibilità di leggere e di scrivere la verità. Così sono stata attirata nel mondo del giornalismo. Con il crollo dell'Unione Sovietica tutti credemmo che l'epoca del Kgb, della censura e della paura fossero finite per sempre. Ma non era così.

Durante la seconda guerra mondiale, Stalin aveva ordinato la deportazione del mio popolo, accusandolo falsamente di collaborazionismo con i tedeschi, e aveva cancellato la nostra identità culturale facendo perfino saltare in aria le torri medievali, simbolo della nostra storia.
Cinquant'anni dopo, Eltsin dichiara guerra al mio popolo, chiamandoci ‘criminali' e ‘banditi', bombarda a tappeto la nostra capitale, trucidando migliaia di civili e radendo al suolo musei, biblioteche, teatri, università, cancellando nuovamente la nostra cultura. La Russia post-comunista, aveva dato inizio all'ultima guerra coloniale d'europea, per punire un piccolo popolo che aveva osato ribellarsi alla sua logica imperiale.

Iniziai a lavorare come corrispondente per la Novaya Gazeta e per Radio Liberty: i due mezzi di comunicazione più odiati dai russi perché erano gli unici che raccontavano quello che stava accadendo sfidando la censura e la propaganda militare russa. Io, in quanto cecena, avevo la possibilità si mimetizzarmi tra la gente, di andare sui luoghi dei bombardamenti, dei rastrellamenti, delle esecuzioni sommarie, e quindi di vedere quello che stava realmente accadendo. Inviavo i miei reportage e di notte, a casa mia, stavo sveglia, vestita, ascoltando i rumori dei blindati per le strade, aspettando il momento in cui sarebbero arrivati a prendermi. La Cecenia è piccola: tutti sapevano che ero io a far uscire le notizie. Avevo paura, non solo per me ma anche per la mia famiglia, che era diventata ostaggio del mio lavoro.

Ho continuato a lavorare come corrispondente da Grozny anche dopo la fine della prima guerra, e poi con l'inizio della seconda nel 1999. Questa volta era Putin a volerci cancellare, a bombardare a tappeto le nostre città e i nostri villaggi, uccidendo altre migliaia di civili innocenti.
Dopo il settembre 2001 i ceceni, che prima erano ‘banditi', divennero ‘terroristi'.
Casa mia divenne un specie di albergo per i reporter stranieri che venivano a coprire la guerra. Ho ricominciato a passare le notti sveglia, aspettando. Finché non sono arrivati. Erano ceceni, parlavano russo, erano armati ma senza divisa. Mi hanno detto che dovevo scegliere: o la smettevo di scrivere o me ne andavo. Per mesi hanno continuato a seguirmi, a minacciare me e la mia famiglia. Nel 2004, grazie a dei giornalisti di Reporter Senza Frontiere che ospitavo in casa mia, riuscii a lasciare la Cecenia e mi rifugiai in Germania con l'aiuto del Penn Club. A Grozny rimase la mia famiglia, che vive ancora lì.

Grazie al telefono, ma soprattutto tramite Internet, riesco a tenermi costantemente in contatto con la Cecenia e quindi posso continuare a raccontare quello che succede, scrivendo sui giornali tedeschi ed europei. La guerra in Cecenia non è finita come vuol far credere la propaganda russa: la guerra continua, anche se in forme diverse rispetto al passato. I guerriglieri ceceni combattono ancora regolarmente sulle montagne, contro i russi e contro i ceceni collaborazionisti. A Grozny e nelle altre città la guerra non c'è, ma si vive sotto dittatura, quella del regime filo-russo di Ramzan Kadyrov. La gente, pur entusiasta per la ricostruzione in corso, è ancora traumatizzata dalle violenze della guerra e continua a vivere nella paura. Stanno ricostruendo le nostre case, ma il nostro popolo è distrutto: oltre il 70 percento della popolazione non ha lavoro, dilagano le malattie conseguenze della guerra, in particolare il cancro al seno, che in Cecenia è più diffuso che in qualsiasi altra regione russa. Il nostro ambiente è distrutto dalla guerra e dall'inquinamento. Non esiste libertà politica, né libertà di stampa. I tanti giornali ceceni nati negli ultimi tempi parlano di tutto tranne che di quello che succede in Cecenia: riportano notizie sul divorzio di Berlusconi, ma non sulla guerra che continua sulle montagne.

La guerra cecena di oggi è cambiata anche per un altro aspetto: il ruolo della religione islamica nella guerriglia. Noi ceceni siamo sempre stati musulmani, ma il nostro islam è quello della tradizione mistica sufi, quindi spirituale, aperto e tollerante. Nulla a che vedere con l'islam integralista di stampo mediorientale. Guardate me: io sono musulmana. All'inizio della guerra l'indipendentismo ceceno non era a carattere islamico, anzi: i nostri combattenti credevano nei valori occidentali: la libertà, la democrazia. Ma poi si sono sentiti traditi dall'Occidente e quindi si sono progressivamente radicalizzati, abbracciando l'islam jihadista. Vi garantisco che starsene nei rifugi, sotto i bombardamenti aerei russi, mentre le radio dice che Putin viene accolto da tutti i governanti occidentali come un campione di democrazia, genera una grande disillusione.

Frottole e calunnie

di GIUSEPPE D'AVANZO

Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l'urgenza del momento. Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).

Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l'imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l'illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come "un nemico politico", come "un avversario in tutti i campi", come "un'estremista". I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus "attacchi e insulti contro il premier". Quali?

L'aver firmato un appello di "condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese" senza dire che la Gandus è ebrea e quell'appello era firmato da ebrei e "in nome del popolo ebreo". Il capo del governo sostiene che quel giudice "ha dimostrato avversione nei suoi confronti". La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica - a tutta la politica - per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto "il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi", come poi è stato. Da quell'appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"), due sole parole, "obbrobrio devastante". Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli.

Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. "Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str... di Berlusconi gli facciamo un c... così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio"" (la Stampa, 18.06.08). Dov'è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c'è mai stata. Berlusconi ha inventato l'una e l'altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.

La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l'unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l'avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?

 

Schermo sedato

di Norma Rangeri

Silvio Berlusconi dà il tocco finale al conflitto di interessi scegliendo il direttore del Tg1 nella persona del suo più entusiasta scriba. Come in passato, all'inizio della sua avventura politica, il Cavaliere volle promuovere Giuliano Ferrara, ghost writer della discesa in campo, a ministro della Repubblica, ora chiama alla redazione del mattinale Rai il giornalista che in questi anni lo ha seguito con passione, regalando ai lettori de La Stampa il distillato del berlusconismo. E' il naturale, scontato epilogo di una lenta, progressiva degenerazione di un potere mediatico che dopo aver misurato, nell'avvicendamento delle legislature, la propria capacità di persuasione e di seduzione, ora torna prendere pieno possesso della fonte primaria della sua, vera, profonda radice: la televisione, il sistema dell'informazione, la leva dell'intrattenimento.
Il bisogno di una comunicazione sedata è fortissimo, inversamente proporzionale alla difficoltà del capo del governo di controllare le proprie pulsioni, in pubblico e in privato. La necessità e l'urgenza di mettere in sicurezza la rappresentazione di un'Italia da rotocalco mentre gli indicatori economici dicono che il peggio del disastro sociale sta arrivando, toglie di mezzo anche gli ultimi brandelli di una parvenza di rispetto del galateo istituzionale. Al punto che le nomine per i posti chiave della Rai corrispondono ai nomi pubblicati sui giornali dopo il conclave di palazzo Grazioli.
Il voto favorevole del presidente di garanzia, Paolo Garimberti, non deve stupire. Del resto fu Claudio Petruccioli a passare per quelle stanze prima di diventare, a sua volta, presidente di viale Mazzini. Berlusconi non è, come lo descrive il suo braccio destro, Gianni Letta, «un uomo che vede prima e più lontano degli altri», ma, questo sì, il politico che al tavolo delle opache convergenze sa muoversi meglio degli altri. E Massimo D'Alema che oggi, anno 2009, ammette che «la democrazia è in pericolo», fa quasi tenerezza. Giocare agli apprendisti stregoni con chi si definisce «la strega» produce questi risultati.
Come dice uno che il potere lo conoscere da vicino, Marcello Dell'Utri, «le notizie bisogna darle, ma c'è modo e modo di comunicarle». Ecco, la tv ha sempre trovato la maniera di portare nelle case di milioni di italiani la magia del verosimile. La squadra che da domani cucinerà la realtà per conto dei cittadini può trovare nella galleria di viale Mazzini (da Rossella a Mimun, da Del Noce a Saccà) una copiosa letteratura di riferimento. Saprà uguagliarne l'esempio e portare a termine la delicata missione che il Cavaliere oggi gli affida, in un momento di difficoltà per la sua immagine pubblica. In sinergia con il mondo Mediaset, i dirigenti di questa nuova fase potranno dare notizie dettate dal cuore: «Proprio nel giorno della motivazione della sentenza Mills, dove Berlusconi fu assolto...», come ha detto ieri un giornalista di Studio Aperto.
Per bucare il grande telone del Berlusconi-show bisogna imparare dai fallimenti, politici e culturali, di un ventennio. I giornalisti del servizio pubblico o si acconciano a celebrare il funerale della categoria o scelgono una battaglia che ormai concede solo la prima linea.

Industria italiana ancora in picchiata a marzo

Ordini giù del 26%, fatturato in calo del 22%. E anche l'auto perde colpi

La crisi non si è per niente arrestata e lo dimostrano i pesanti dati diffusi ieri dall'Istat, relativi all'industria nel mese di marzo. Il fatturato è diminuito dello 0,8% rispetto a febbraio, e del 22,6% rispetto a marzo 2008. Male anche gli ordinativi: il calo è del 2,7% rispetto a febbraio scorso, e del 26% rispetto al marzo dell'anno scorso. In particolare, gli ordini dall'estero sono scesi del 9,4% rispetto a febbraio scorso, e del 33% rispetto al marzo di un anno fa.
Le diminuzioni più significative del fatturato si sono registrate nei settori della fabbricazione di mezzi di trasporto (meno 36,4%), della metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (meno 35,2%), della fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (meno 30,2%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (meno 29,4%), aggiunge l'Istat. Per quanto riguarda gli ordinativi, le variazioni negative più marcate le hanno segnate la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (meno 36,4%) e la fabbricazione di mezzi di trasporto (meno 30%).
Particolarmente negativo il settore delle auto: il fatturato è diminuito del 27,9% rispetto a marzo 2008, mentre gli ordinativi sono calati del 19%.
Lettura «positiva» da parte del Cerm: «I dati Istat, pur non privi di evidenti criticità», permettono «una lettura con qualche sfumatura positiva». A marzo «la caduta del fatturato e degli ordinativi dell'industria rallenta». «Da giugno 2008 non compariva un segno positivo nella variazione congiunturale del fatturato estero» (a marzo +0,1%) e «dopo 5 mesi di variazioni congiunturali comprese tra il -2,7 e il -4,6%, il fatturato interno si riduce 'solo' del -1,3%». Anche per gli ordinativi interni, era da luglio 2008 che «mancava un variazione congiunturale positiva» (a marzo +1%). Inoltre, il -0,8% su base mensile del fatturato è «la caduta minore, in valore assoluto, da aprile 2008». Per quanto riguarda i dati tendenziali, tuttavia, il Cerm evidenzia che «la tendenza resta profondamente negativa, con variazioni stabilmente a doppia cifra». «Il quadro resta difficile - concludono gli economisti - Tuttavia, la fase acuta della crisi sembra alle spalle. I ritmi di recupero sono per adesso molto lenti. Il 2009 e il 2010 saranno comunque anni difficili».

 

20 maggio

Dov'è la vergogna

di EZIO MAURO

Dov'è la vergogna
IMMERSO fino al collo nello scandalo Mills, rispetto al quale le leggi ad personam lo hanno aiutato a fuggire la condanna ma non il disonore, impegnato a lottizzare in fretta e furia la Rai prima delle elezioni, ieri Silvio Berlusconi ha perso la testa insultando "Repubblica". E' successo quando Gianluca Luzi, il nostro notista politico, gli ha chiesto durante una conferenza stampa se e come avrebbe risposto alle dieci domande che gli abbiamo rivolto sul caso del "ciarpame politico" sollevato dalla moglie con la denuncia dei suoi metodi di selezione delle candidate, i suoi comportamenti da "malato" che "frequenta minorenni".

"Vergognatevi", ha intimato il Presidente del Consiglio. Per aver colto le contraddizioni tra le sue versioni dei fatti e quelle degli altri protagonisti della vicenda? Per avergli chiesto di chiarirle? Per aver posto queste domande in pubblico? Per aver rotto il conformismo italiano che è l'altra faccia del cesarismo? O per non aver censurato la denuncia della moglie? Spiace per il premier ma le contraddizioni del potere e le domande che ne nascono sono lo spazio proprio del giornalismo. Che cosa intenda il Capo del governo quando dice che "se Repubblica cambiasse atteggiamento potremmo trovare un accordo" non è chiaro ma è impossibile.

Non cerchiamo "accordi", ma trasparenza. E in ogni caso, non cambieremo atteggiamento anche perché l'imbarazzo di Berlusconi e la sua ira spingono a cercarne le ragioni, come deve fare un giornale. Il premier dovrà rassegnarsi. Non tutto in questo Paese è "arrangiabile", risolvibile con qualche patto oscuro. Se è capace di togliere le sue contraddizioni dal tavolo, lo faccia davanti ai cittadini. Altrimenti, continueremo a dire che non può farlo, e a chiedergli perché.

Per il resto il Presidente del Consiglio ripete la sua invettiva abituale: ora rivendica una dimensione privata, dopo che anche la sua Prima Comunione viene spacciata dai suoi giornali come volantino elettorale. E insiste sull'odio "politico" e l'invidia "personale", come se non fosse possibile la critica dei cittadini che non hanno bisogno di odiarlo e non si sognano nemmeno di invidiarlo, perché gli basta giudicarlo.

"Gli italiani stanno con me, con me", ha urlato alla fine il premier. Intendendo che il numero dei consensi oltre al pieno diritto di governare gli conferisce anche l'immunità da critiche, osservazioni e domande. Non è così in nessun paese democratico, signor Presidente, s'informi, entrando finalmente in Occidente. Ma il fatto che lei lo pensi, per tappare la bocca ai giornali, ci fa davvero vergognare un po'.

 

19 maggio

Cinzia Gubbini
 

Al G8 di Torino botte agli studenti che protestano

 

Controlli fin dall'alba, ma alla fine un bilancio tutto a danno delle forze dell'ordine. Sarebbero infatti 19 gli agenti - 17 poliziotti e 2 carabinieri - rimasti feriti in seguito agli scontri di stamattina davanti a Palazzo del Valentino a Torino, sede del "G8 university summit". Titolo molto "international" per un incontro che mette insieme i 41 rettori delle università italiane, più circa 200 rappresentanti degli atenei di tutto il mondo. Una due giorni da cui dovrebbero uscire "proposte concrete" da sottoporre ai grandi della terra che si incontreranno a luglio all'Aquila. Ma il summit dei grandi capi dell'università per il momento ha avuto solo il risultato di rappresentare, anche simbolicamente, il distacco completo e lacerante tra chi comanda e chi subisce. Stamattina la sede del summit era blindata all'inverosimile: polizia, carabinieri e guardia di finanza schierati non soltanto a difesa del palazzo, ma anche nelle vie limitrofe.
Vie strette a anguste, quelle del quartiere San Salvario. Strade che ricordano Genova e quel contro-G8 represso nel sangue che ha segnato la storia e l'immaginario del movimento italiano e mondiale. Ma i ragazzi dell'Onda di oggi sono per la gran parte ventenni, ragazzi che del 2001 hanno solo sentito parlare e neanche tanto. Il movimento che ha infiammato l'università ha dato prova di essere, in questi mesi, molto diverso dalla composizione dei movimenti di otto anni fa.
Nulla è cambiato, invece, dall'altra parte. Il corredo giottesco è fatto sempre di summit asserragliati dentro sedi inaccessibili, forze di polizia col compito di caricare appena se ne presenti l'occasione. E così, come da giorni annunciavano i giornali locali, anche ieri si è creata l'occasione di scontro che è subito stata rilanciata mediaticamente come "guerriglia urbana".
La manifestazione degli studenti, arrivati anche dall'estero, in realtà è stata partecipata e colorata fino all'arrivo al palazzo del Valentino. I ragazzi dell'Onda hanno ripetuto lo slogan che contraddistingue la loro generazione: "La vostra crisi non la paghiamo", contestando la legittimità della Conferenza dei rettori e del G8. La tensione è salita quando il corteo ha raggiunto il quartiere San Salvario, presidiato dalle forze di polizia. Una parte del corteo, fornita di maschere antilacrimogeno, caschi e protezioni ha cercato di creare una specie di "servizio d'ordine": ma la manovra non ha funzionato. E la polizia ha iniziato le cariche, lanciando un numero piuttosto consistente di lacrimogeni. C'è chi ne ha contati una trentina. I manifestanti hanno risposto lanciando pietre. Erano di facile reperibilità: a corso Guglielmo Marconi ci sono lavori in corso, con mucchi di pietre a disposizione di chi volesse servirsene.
Le cariche, piuttosto pesanti, hanno fatto scappare la maggior parte degli universitari. Ma come già detto le vie limitrofe al castello erano presidiate dalla polizia, e fuggire non è stato semplice. Due i fermati. Dalle prime informazioni si tratta di ragazzi di Milano. Il resto del corteo è tornato all'università, dove si è svolta un'assemblea che ha comunque giudicato positiva la giornata, vista la numerosa partecipazione alla manifestazione che ha dimostrato la vitalità del movimento stduentesco. Si registrano dichiarazioni di solidarietà alle forze dell'ordine, presidente della Camera Gianfranco Fini in testa. Silenzio assordante in zona Pd.
 
 

di Francesco Piccioni
FEDERMECCANICA Gennaio-marzo -15%
Industria, il peggior trimestre della storia
Il trimestre più brutto dell'economia italiana nel dopoguerra - gennaio-marzo 2009 - è addirittura drammatico per il settore metalmeccanico, autentico pilastro dell'export nazionale. Nonostante la crisi, infatti, complice anche il contemporaneo crollo delle importazioni, il settore ha mantenuto un saldo positivo negli scambi con l'estero, pari a 6,7 miliardi di euro. Nell'analisi congiunturale di Federmeccanica, però, l'attività manifatturiera in genere cala di un pesantissimo 15%, mentre quello metalmeccanico precipita del 30% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Un salto nel vuoto realizzatosi soprattutto negli ultimi due trimestri - anche se la recessione va ufficialmente datata a partire da un anno fa - quando si è accumulato prima un -11,1 e poi, nel 2009, una contrazione del 13,4. Roba da chiudere e cambiare mestiere, se fosse possibile.
Così ovviamente non è, ma le previsioni di breve termine degli industriali non sono affatto rosee. La caduta, infatti, non accenna a diminuire. Al massimo, come già detto da altri istituti, tende a rallentare la velocità. Una «planata», insomma, non ancora un «toccare il fondo per poi ripartire». Del resto, i due terzi delle imprese del settore mettono in conto un portafoglio ordini in diminuzione (a parte cantieri navali e aerei, che lavorano su commesse di lungo periodo) e licenziamenti in crescita almeno per i prossimi sei mesi. Una caduta così veloce, spiega Angelo Megaro, responsabile Centro studi di Federmeccanica, non potrà comunque essere recuperata in tempi brevi, nemmeno se «la ripresa» partisse oggi (invece che, per i più ottimisti, dal 2010).
L'occupazione nelle gradi imprese (quelle con più di 500 addetti) è scesa per ora soltanto dell'1,6%. Il segreto sta nell'esplosione della cassa integrazione ordinaria, cresciuta del 1.014% a marzo e addirittura del 1.400% ad aprile. Uno scenario apocalittico, se tradotto in posti di lavoro: il dato di marzo equivale a 144.000 metalmeccanici di troppo.
Un prospettiva che pesa sia sul prossimo - e contrastato - rinnovo contrattuale («quantomeno intempestivo», chiosano le imprese), su cui grava la mannaia della «riforma del modello contrattuale» siglato a gennaio senza l'accordo della Cgil; sia sulle scelte dei governi. Gli imprenditori chiedono «politiche, almeno su scala europea, che incentivino i consumi», con «regole nuove che favoriscano la scomparsa di alcuni prodotti a favore di altri» (auto ecologiche al posto di quelle inquinanti, è l'esempio obbligato). Ma sulle politiche salariali non riescono proprio ad andare oltre constatazioni ovvie («il salario è un reddito per il lavoratore, ma un costo per l'impresa») o desideri per questa via irrealizzabili («più si è in grado di redistribuire, più si sostiene la domanda»). E' la ricetta al tempo della crisi, in fondo. Le imprese «siano messe in grado di competere per conquistare qualche frazione di mercato», ma per «il sostegno al reddito» ci pensi lo stato, con gli ammortizzatori («molto è stato fatto, ci piacerebbe che si facesse di più»). Anche perché, sennò, le macchine ecologiche, chi se le compra?

 
 
 

di Maurizio Galvani
DIARIO DELLA CRISI
Fumo a Parigi Profondo russo Spagna sommersa
Fumo alla borsa di Parigi, dove gli operai dello stabilimento francese dell'industria di pneumatici tedesca Continental hanno bruciato gomme per protestare contro la chiusura dell'azienda. Dopo i manager presi in ostaggio e le grandi manifestazioni di massa, gli operai francesi non rinunciano allo loro radicalità ed alcune centinaia di lavoratori hanno alzato una densa nuvola di fumo nero davanti a palazzo Brongniart sede della Borsa. I licenziamenti potrebbero riguardare 1.120 persone dello stabilimento Continental di Clairoix.
La Spagna dei primati - la disoccupazione a fine 2010 potrebbe raggiungere il 20% della forza lavoro - ha una quota di economia sommersa pari al 19,5% del Pil contro il 18,7% dell'anno scorso. La quota iberica è al terzo posto nella Ue per presenza dell'economia sommersa; dopo l'Italia (25% del Pil nel 2008) e del 22% della Grecia. Il giro d'affari che «produce» l'economia sommersa è pari a 210 miliardi di euro e occupa ben 15 milioni di lavoratori sia come primo che secondo impiego. In Germania, la quota di economia sommersa sarà quest'anno del 14,6% del Pil mentre in Francia sarà dell'11,6% del Pil, secondo le stime ufficiali. Spagna anche più morosa ovvero continua a crescere la quota di crediti inevasi concessi da banche, casse di deposito e cooperative. L'insolvenza risulta la più alta da tredici anni e ha raggiunto il 4,17%. Il triplo rispetto a marzo del 2008 quando era pari all'1,11%. A fine anno, secondo gli esperti, la morosità potrebbe diventare del 9%.
Crisi corta o crisi lunga, finita o non finita. Il dilemma sembra tutto italiana ma non per gli organismi internazionali. Il numero due dell'Fmi, John Lipsky, ad esempio a Tokyo ha continuato a dire che «è tutt'altro che è finita (la crisi) e ci sarebbero ancora molte incertezze». L'Fmi cerca di parlare del mondo globale, sia dei paesi più industrializzati che più poveri; in questo caso l'allarme di Lipsky riguarda i paesi asiatici ai quali viene proposto: «tagliati i tassi di interesse». La recessione quest'anno sarà del 3% con un modesto rimbalzo positivo a fine 2010. Esclusa sia la Cina che l'India.
In India, ieri, dopo lo strepitoso successo del partito del Congresso (inaspettata) la borsa di Bombay è balzata in una sola seduta del 17%. Un evento che accompagna la vittoria del Bjp con 260 seggi contro i 157 raggiunto dai rivali che comunque non garantisce la maggioranza assoluta e quindi una politica economica autonoma. Tra i «grandi balzi» si registra l'aumento del 40% dell'azioni del gruppo Tata e dell'industria dell'elettronica Infosys: a più 9,8%.
Lo spagnolo El Pais fa un titolo shock: «Brasile e Cina contro il dollaro». Per raccontare che Lula - presidente del Brasile - è arrivato a Pechino per consolidare i rapporti tra i due colossi. Lula e Hu Jintao - che fanno entrambe parte del G20 - sono d'accordo a promuovere relazioni commerciali che escludano il dollaro come moneta di scambio. Sarebbe una «rivoluzione». Già Argentina, Uruguay e Colombia hanno avviato conversazioni con Brasilia per adottare un nuovo sistema di relazioni monetarie.
Sempre la Cina ha cominciato la costruzione della pipeline di petrolio verso la Russia a seguito dell'accordo tra i due paesi lo scorso mese. È quanto riferisce l'agenzia di stampa Xinhua. Il vice premier cinese Wang Qishan ha annunciato l'inizio della costruzione oggi a Mohe nel nord est del paese, nella provincia di Heilongjiang, da dove partirà l'oleodotto. In base agli accordi dello scorso aprile, la Cina presterà 10 miliardi di dollari alla russa Transneft e altri 15 miliardi a Rosneft in cambio di 300 milioni di tonnellate di petrolio che dovranno essere trasportate attraverso la pipeline nell'arco di 20 anni. Intanto non si calma la recessione in Russia: la produzione industriale è scesa del 16,9% su base tendenziale. Rispetto al mese precedente il calo è dell'8,1%.
In Arabia Saudita, patria del wahhabismo islamico ed anche paese ricchissimo, sono ormai 200 mila i giovani diplomati e laureati che risultano in questo momento disoccupati; a cui si devono aggiungere le tremila donne laureate senza lavoro. Il giornale locale al-Watan scrive che «per ora il governo fa finta di non vedere». Nè si è programmato - come è stato fatto a Pechino - un grande ufficio di collocamento nella fiera locale.

 
 

TAMIL di j.t.

La comunità in Italia tra silenzi e indifferenza
«Non c'è nessuno che possa ricevervi, sono tutti via per il ponte del 25 aprile». Così si sono sentiti rispondere i delegati della comunità Tamil in Italia quando, il 27 aprile scorso, hanno chiesto di essere ricevuti in Senato per parlare della catastrofe in corso in Sri Lanka. Prima di partire alla volta di Roma da tutta Italia, ma in gran parte dalla Sicilia, dove i Tamil residenti sono circa ottomila, gliel'avevano assicurato: qualcuno a Palazzo Madama li avrebbe ascoltati. «Abbiamo affittato 15 pullman in tutto, 8 solo a Palermo, spendendo 20mila euro - racconta al manifesto Janani Thavarajasingam, portavoce dei Tamil in Italia - una cifra racimolata a fatica con le quote che ogni famiglia ha pagato per mandare un proprio membro. Fino all'ultimo abbiamo rischiato di non poter partire, perchè mancavano ancora 4mila euro e il titolare della ditta che ci ha affittato i pullman voleva essere pagato subito. Alla fine siamo riusciti a raggiungere Roma, ma arrivati al Senato nessuno ci voleva ricevere. Eppure ci avevano assicurato che saremmo stati ascoltati, altrimenti non avremmo organizzato la trasferta». Non avevano tenuto conto che al Senato c'è la «settimana corta».
L'unico ad incontrarli, alla fine, è stato Lamberto Dini. «Ci ha espresso solidarietà, ha condannato la carneficina in corso contro i tamil, ma più di tanto non si è impegnato a fare». Erano già stati ricevuti alla Farnesina, dalla Direzione generale per l'Asia, «ma si sono limitati ad ascoltarci, senza replica alcuna». Nel coro di appelli per la tregua umanitaria, perchè l'Italia non si è fatta sentire? E perchè la stampa italiana nei mesi scorsi non ha parlato di quel che stava accadendo? E' la domanda che i Tamil d'Italia si sentono fare da amici e familiari che vivono sparsi in giro per il mondo, la maggior parte in Francia, Gran Bretagna, Canada e Australia, dove i media dedicano spazio alle notizie sulla crisi in corso. Certo, il numero dei tamil presenti in Italia, 10mila circa, è esiguo in confronto agli oltre 80mila della Gran Bretagna o ai 100mila della Francia. Ma, se sommati agli immigrati di etnia singalese, il totale degli srilankesi arriva a 65mila, secondo i dati del 2008. Eppure, nel loro paese d'adozione, l'attenzione per quello che è accaduto nella loro isola è stata poca o nulla.
Come se non bastasse, la settimana scorsa l'ambasciatore srilankese in Italia ha chiesto al governo italiano di non concedere l'asilo politico ai Tamil, perchè «contrari alla pacificazione nel paese». Da noi i Tamil richiedenti asilo, diritto di cui godono dall'inizio della guerra civile nell'83, sono pochi, in media 220 all'anno negli ultimi due anni, secondo i dati dell'Unhcr. Janani Thavarajasingam, che oltre ad essere la portavoce dei tamil, lavora come mediatrice nei campi profughi, racconta che molti srilankesi di etnia singalese cercano di ottenere lo status di rifugiato fornendo nomi tamil: «Spesso accade che mi preghino in ginocchio e in lacrime di non rivelare la loro origine singalese, è davvero penoso, ma purtroppo il mio compito è di identificarli».

 

 

12 maggio

 

Sul sito Criticamente è pubblicata questa lettera di Laura, una studentessa di Colle di Roio, frazione dell'Aquila.

Chiuso il teatrino della comparse, si solleva il velo sulla reale realtà!

Ciao a tutti.

Oggi è il 20 aprile 2009. Per molti Abruzzesi lo sguardo è congelato all'alba del 6 aprile 2009. Io, fisso il mio sull'ennesimo sorriso paterno e rassicurante del nostro Presidente del Consiglio, che campeggia sul paginone centrale de Il Centro, quotidiano locale e che ancora una volta (pure quando un minimo di decenza richiederebbe moderazione), fa sfoggio di capacità ed efficienza facendo grandi promesse nella speranza che si dimentichi il prima possibile (si sa gli italiani hanno memoria moooolto corta), che fino al 5 aprile nel meraviglioso piano casa che si intendeva vararare a imperitura soluzione della crisi economica, di norme antisismiche nemmeno l'ombra.

Vi scrivo da Colle di Roio (AQ) uno dei paesini colpiti dal sisma del 6 aprile 2009.

Il mio paese.

Trovo molto difficile fare ordine nel turbinio di pensieri che mi gonfiano la testa, ma ci proverò. E scrivo questa nota perchè credo che solo uno strumento quale la rete permetta di conoscere altre verità, senza mediazioni se non dell'autore.

Il nostro campo è abitato da circa trecento persone, distribuite in una quarantina di tende. Tornati da una vacanza mai iniziata, assieme a Pierluigi, abbiamo cercato di dare un contributo alle attività di gestione della tendopoli che, nel frattempo, (era passata già una settimana dall'inaspettato evento), era andata sviluppandosi.

Come sapete non sono un tecnico, nè ho una qualche esperienza di gestione logistica e di personale in situazioni di emergenza e quanto vi racconto può essere viziato da uno stato di fragilità emotiva (immagino mi si potrà perdonare). Il fatto è, che a fronte di uno sforzo impagabile profuso da molte delle persone presenti nel nostro campo, (volontari della protezione civile, della croce verde/rossa, vigili del fuoco, forze di polizia etc...), inarrestabili fino allo sfinimento, ci siamo trovati, o sarebbe meglio dire ci siamo purtroppo imbattuti, nella struttura ufficiale della Protezione Civile stessa e nel suo sistema organizzativo.

La splendida macchina degli aiuti, per quanto ho visto io, poggia le sue solide e certamente antisismiche basi, sulle spalle e sulle palle dei volontari; il resto da' l'impressione di drammatica improvvisazione. E non perchè non si sappia lavorare o non si abbiano strumenti e mezzi, ma semplicemente ed a mio parere, perchè si è follemente sottovalutato il problema fin dall'inizio.

Se vero che il terremoto non è prevedibile è altrettanto vero che tutte le scosse precedenti (circa trecento più o meno violente prima dell'inaspettato evento) dovevano rappresentare un serio monito. Perchè non è servito il fatto che due settimane prima del sisma alcuni palazzi presenti in via XX settembre a L'Aquila, poi miseramente sventrati, erano già stati transennati perchè le scosse che si erano susseguite fino a quel momento (la più alta di 4° grado, quindi poca cosa...) avevano fatto cadere parte degli intonaci e dei cornicioni...

Una persona minimamante intelligente, a capo di una struttura così grande quale la protezione civile, avrebbe dovuto schierare i propri uomini alle porte della città, come un esercito, pronto a qualsiasi evenienza. Ed invece mi trovo a dover raccontare che le prime venti tende del nostro campo se le sono dovute montare i cittadini del paese (ancora stravolti dal sisma), con l'aiuto di una manciata di instancabili volontari, che manca un coordinamento tra i singoli gruppi presenti, che la segreteria del campo (che cerchiamo di far funzionare), è rimasta attiva fino a ieri con un Pc portatile di proprietà di mia proprietà, acquistato "sia mai dovesse servire", e con quello di un volontario; che siamo stati dotati di stampante e telefono ma per la linea Adsl (in Italia ancora uno strano coso...) stiamo ancora aspettando e quello che siamo riusciti a mettere in piedi è merito dell'intelligenza di qualche giovane del posto e dei suoi strumenti tecnici; che abbiamo dovuto chiamare chi disinfettasse e portasse via mucchi di vestiti perchè arrivati sporchi e non utilizzabili; che fino dieci giorni dal sisma avevamo un rubinetto per trecento persone, nessuna doccia, circa 20 bagni chimici e nessun tipo di riscaldamento per le tende.

Vi ricordo che in Abruzzo ed a L'Aquila in particolare la primavera fatica ad arrivare e che anche in queste notti la temperatura continua ad essere prossima prossima allo zero. Non ci si può quindi stupire che molte persone, la maggior parte delle quali anziane (e non tutte con la dentiera...), cocciutamente ed in barba alle direttive che vietano di rientrare nelle case, contiunano a fare la spola dalla tenda al bagno di casa.

Potreste obbiettare che tutto sommato e visti i risultati raggiunti nel seguire più di quarantamila sfollati questi problemi sono inevitabili e bisogna solo avere pazienza. Condivido il ragionamento.

Quello che mi lascia stupito, che la gente non sa e che gli organi di informazione si guardano bene dal dire è che tutta la macchina si basa all'atto pratico, sulla volontà ed il cuore di persone che lasciano le loro case e le loro famiglie e che non pagate, cercano di ridare un minimo di dignità e conforto a chi, a partire dalla propria intimità, ha perso tutto o quasi. La protezione civile che molti immaginano (alla Bertolaso per intenderci) non esiste nei campi, almeno non nel nostro. I volontari si alternano, perchè obbligati ad andarsene dopo circa 7 giorni.

Cosa comporta tutto questo?

Che ogni settimana si vedono facce nuove con la necessità di ricominciare a conoscersi ed imparare a coordinarsi, che il capo campo cambia anche lui con gli altri e quindi può avere esperienza o meno, che spesso, ed è il nostro caso, la gestione di alcune attività è affidata ai terremotati perchè non viene inviato personale apposito, con inevitabili problemi, invidie acrimonie e litigate tra...poveri.

Volete un esempio cristallino della disorganizzazione?

La nostra psicologa, giunta al campo per propria cocciuta volontà, è rimasta anche lei solo una settimana. Vi immaginate quale può essere l'aiuto ed il sostegno che una persona addetta può dare e quale fiducia può risquotere per permettere alle persone di aprirsi, se cambia con cadenza domenicale??? A questo si aggiungano l'inesperienza di molte persone (spesso e per fortuna sconfitta dalla volontà di far bene) e le tristi e umilianti dimostrazioni di miseria umana che ci caratterizzano e che risultano ancora più indecenti ed inaccettabili in casi di emergenza.

Qualcosa di buono però ragazzi l'ho imparato.

Ho imparato che per la richiesta di materiale devo inviare un modulo apposito e che a firmare lo stesso non deve essere il capo campo, la cui responsabilità, fortuna sua, è solo quella di gestire trecento vite, trecento anime, più tutti coloro che ci aiutano dalla sera alla mattina, ma serve il visto del Sindaco, oppure del presidente di circoscrizione oppure di un loro delegato (pubblico ufficiale). Noi dopo aver speso due giorni per individuare chi dovesse firmare questi benedetti moduli, sappiamo che dobbiamo prendere la macchina e quando serve (ovviamente più volte al giorno), raggiungerlo al comune.

Un'ultima noticina.

Due giorni fa la Protezione civile si è riunita con gli esperti, ed ha ritenuto che non vi siano motivi di preoccupazione relativamente alle dighe abruzzesi (la terra trema ogni giorno). Ora ricordandomi che analoga sicurezza era stata espressa all'alba di una scossa di quarto grado e pochi giorni prima che il nostro inaspettato evento facesse trecento morti e azzerasse l'economia e la vita di migliaia di persone...ho provveduto, poco elegantemente, ad eseguire il noto gesto scaramantico...

Però dei regali li ho ricevuti.

Sono le lacrime di molte delle persone che hanno lavorato alla tendopoli, trattenute a stento nel momento dei saluti; sono le parole e gli sguardi dei vecchi del paese, che mescolano dignità e paura, coraggio e rassegnazione, senza mai un lamento.

Un'altra cosa.

Vi prego chiunque di voi possa, prenda il treno l'aereo o la macchina e si faccia un giro per L'Aquila e d'intorni. Le tendopoli non sono tutte come quelle a Collemaggio. Scoprirete il livello di falsità che viene profuso a piene mani dagli organi di comunicazione oramai supini e del livello di indecenza del ns presidente del consiglio che prima con lacrime alla cipolla e poi con sorrisi di plastica distribuisce garanzie e futuro a chi, vivendo in tenda e saggiando sulla pelle la situazione sa, che sono tutte palle.

I morti sono serviti subito per mostrarsi umano e vicino alle famiglie, ma ora è meglio dimenticarli in fretta..Via via..nessuna responsabilità, nessun dolo. I pm sono dei malvagi.. ricostruiamo in fretta.. forza la vità e bella, vedrete, tra un mese sarete tutti a casa... Conoscete i nomi delle famiglie che doveva ospitare nelle sue ville?

Le virtù umane travalicano gli eventi, le sue miserie non hanno confini.

Se volete vi prego fortemente di inviare questa mail a quanti vi sono amici. La stampa nazionale si è guardata bene dal pubblicarla.

Un saluto a tutti.

Laura

 

Una risata ci seppellirà

Alessandro Portelli

L’ultima volta che sono stato in metropolitana a Milano i posti erano tutti occupati – anche se non so da chi e se con adeguato diritto di sangue - per cui sono stato in piedi. Se non altro, tenendomi agli appositi sostegni, non ho dato occasione a nessun padano di prendersela anche per questo con Roma ladrona.
Almeno su questo, ho la coscienza a posto, adesso che, nella «capitale morale» del paese, il capogruppo in consiglio comunale di un partito di governo - non il primo che passa, insomma - se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un congruo
numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.
La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: «Ci sono, o ci fanno?» Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in farsa. Se fosse così, non avrebbe senso disturbare il fantasma di Rosa Parks, la signora afroamericana che
consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell’Alabama rifiutando di cedere il posto a un bianco. E ancora meno ne avrebbe evocare la memoria delle leggi razziali come hanno fatto Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo, quella del dirigente leghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa anche lui che non è destinata a essere messa in pratica.
Il problema però è che - come sapeva benissimo William Shakespeare - tragedia e farsa invece sono inseparabili e si specchiano fra loro. La tragedia può scadere in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei leghisti, del loro leader Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul serio, intanto non ci accorgiamo che queste buffonate stanno diventando realtà in spazi assai più vasti e cruciali dei vagoni milanesi: è l’intera Italia che si trasforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli indigeni, e galera per chi ne varca gli inviolabili
confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politiche governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli immigrati come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell’Adriatico, e ci cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni lascia le barche alla deriva, rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire. La farsa milanese si fa tragedia nei campi di concentramento dei migranti in Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non «ci fanno»: ci sono, e fanno finta di non esserci.
Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l’assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che dà forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte. E’ tutto uno scherzo, è tutta una farsa - che si porta via
con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere.
Forse «ci fanno» e non «ci sono» solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo «una risata vi seppellirà». Avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.

 

11 maggio

Nuovi fascismi, ma che razza d'Europa

Adesso basta. Razzisti, xenofobi e antisemiti vanno isolati, giudicati e condannati. Giudicati, sì giudicati. Sembrerà strano che a dirlo siamo proprio noi che, per storia politica e culturale, garantisti lo siamo stati sempre sino in fondo. Ma il fondo, ormai, è già stato toccato.

Tre le notizie che oggi ci hanno fatto rabbrividire. La prima purtroppo è ormai diventata “semplice” routine. Altri 240 clandestini “trovati in mare” (trovati?) sono stati riportati a Tripoli. A dare la lieta novella è il ministro dell'interno Bobo Maroni che così cerca – senza tanti sforzi, del resto – di ingraziarsi gli Stati Generali del Nord convocati oggi a Vicenza. «La linea della fermezza in materia di immigrazione - afferma l'ex socialista - continuerà finché gli sbarchi non cesseranno”. E come esibisse un fiore all'occhiello dichiara: “Negli ultimi cinque giorni sono stati respinti oltre 500 clandestini». Bene, bravo. Un bacio in bocca a Silvio Berlusconi che solo oggi aveva dichiarato: “Siamo contrari all'idea di un'Italia multietnica”.

Più inquietante e preoccupante la seconda notizia. In Austria, una famiglia ebrea viennese si è vista rifiutare una prenotazione presso un albergo di Serfaus - “accogliente” località turistica del Tirolo a soli 30 chilometri dal confine italiano e anche questo la dice lunga – con la seguente motivazione: "cattive esperienze" avute in passato con ospiti ebrei. Così dichiara senza vergogna la proprietaria del residence "Haus Sonnenhof" che non sa che la cosiddetta lobby ebraica sul suo residence c'ha già messo una “croce”.

E come se tutto questo non bastasse, un gruppo di neonazisti incappucciati ha urlato "Heil Hitler" durante la cerimonia in ricordo della liberazione del campo di concentramento di Mauthausen. Giovani neo-nazisti, vestiti di nero e incappucciati che dopo il saluto nazista si sono dati “coraggiosamente” alla fuga.

Adesso basta. E a Gianni Alemanno che dice di provare “ripugnanza per la condotta disumana del fascismo nei confronti degli ebrei" chiediamo solo un gesto simbolico. Piuttosto che parlare, signor sindaco, si tolga – per favore- quella croce celtica dal collo.

 

Maddalena d'oro

di Fabrizio Gatti

Costi dei lavori lievitati. Appalti nel mirino dei Pm. Il vertice traslocato. Ora all'isola resta un polo velistico di pregio. Ma anche un albergo di lusso. Che nessuno vuole gestire

Doveva essere l'hotel delle notti di Obama e Sarkozy, il cinque stelle superiore dei capi di Stato del mondo. È già una cattedrale nel deserto, con la sua facciata bianca stretta tra un capannone della Marina militare, una strada trafficata e il mare senza spiaggia che qui, e solo qui su tutta l'isola, a volte puzza di fogna.
Nessuno vuole gestire il più grande dei due alberghi costruiti alla Maddalena per il G8 che non si farà. La gara indetta dalla Protezione civile è andata deserta. Perché, almeno per pareggiare il capitale già speso, lo Stato o la Regione Sardegna dovrebbero affittare l'albergo a un imprenditore che a sua volta dovrebbe far pagare mille euro a notte per queste stanze con vista da motel. Una cifra folle e completamente fuori mercato. Qualcosa non ha funzionato nel controllo dei costi, come 'L'espresso' aveva già scoperto nel dicembre scorso. Ma i dubbi adesso sono ufficiali. Tutte queste opere sono sotto inchiesta.

I carabinieri del Ros stanno indagando sulla catena di appalti. Un'indagine condotta per il momento dalla Procura di Firenze. Anche il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, commissario delegato per il G8 e responsabile dell'applicazione delle procedure d'urgenza, ha avviato un'indagine interna. Un provvedimento seguito pochi giorni fa dalla decisione del Consiglio dei ministri di chiedere per decreto il taglio retroattivo dal primo marzo delle maggiorazioni alle imprese per le lavorazioni su più turni, dei premi di produzione e la riduzione del 50 per cento dei compensi per le prestazioni professionali destinati a progettisti, esecutori e collaudatori. Maggiorazioni, premi e compensi confermati da almeno 16 tra ordinanze e decreti voluti, firmati o proposti dal governo e dalla Protezione civile. Un dietrofront che limita (di poco) i danni per le casse statali, ma anche le possibili responsabilità giudiziarie di funzionari e controllori, tuttora da identificare, che prima avrebbero avvallato le spese e ora stanno lavorando per contenerle. Letta così la decisione di Silvio Berlusconi di trasferire il vertice a L'Aquila, non è solo un atto d'affetto e un doveroso impulso al risparmio. È anche una via d'uscita necessaria. Forse bastava una formulazione più moderata dei preventivi e dei contratti. E i soldi per l'evento sarebbe bastati.

La domanda da cui parte l'inchiesta dei carabinieri del Ros è una: nella formulazione delle offerte, c'è stata o meno concorrenza tra imprese? Un dubbio che hanno avuto anche i vertici della Protezione civile. Nel giugno 2008 Bertolaso chiede al professor Gian Michele Calvi come poter verificare se alla Maddalena si stia spendendo più del necessario. Calvi, oltre che amico del capo della Protezione civile, è tra i massimi esperti di ingegneria antisismica e membro della Commissione grandi rischi. Pochi giorni dopo il professore, che insegna a Pavia, viene accompagnato a visitare i cantieri. Sempre in quei giorni un'ordinanza di Berlusconi sostituisce il soggetto attuatore degli appalti Angelo Balducci con il suo collaboratore Fabio De Santis e istituisce una commissione di tre esperti: «Al fine di assicurare un'adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori in termini di congruità dei relativi atti negoziali», è scritto nell'ordinanza. Insomma, un'indagine su interventi e contratti. In autunno viene sostituito anche De Santis e a capo degli appalti è nominato il professor Calvi. La questione dei costi continua a preoccupare.

Calvi avvia le verifiche delle spese, voce per voce. E a fine febbraio spedisce tutti i progetti al Consiglio superiore dei lavori pubblici perché esprima un parere. Presidente di questo consiglio è proprio Angelo Balducci, nel frattempo promosso dal ministro Altero Matteoli al vertice del massimo organismo di controllo del ministero. «È vero che il Consiglio si trova a dover valutare provvedimenti di spesa approvati quando Balducci era soggetto attuatore», spiega una fonte vicina alla struttura di missione della Protezione civile alla Maddalena, «ma Balducci conosce i cantieri e gli imprenditori che hanno vinto gli appalti. E forse è l'unico funzionario di Stato in grado di far accettare a quegli imprenditori tagli ai loro incassi. Il rischio è sempre quello dei ricorsi». Tutti nei cantieri della Maddalena sanno che i carabinieri stanno indagando. L'indagine del Ros parte dall'intercettazione il 9 agosto 2008 di una telefonata dell'architetto Marco Casamonti, 43 anni, fondatore dello studio Archea, uno dei progettisti dell'hotel. Casamonti, arrestato e rilasciato dopo l'interrogatorio, è sotto inchiesta in Toscana dall'autunno per i presunti accordi sottobanco tra la Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti e alcuni politici della giunta di Firenze. «Ci hanno chiamato per dare una mano per i progetti del G8 all'isola della Maddalena», dice Casamonti nella telefonata intercettata, «perché stanno facendo i lavori e sono nella cacca più nera. Perché hanno dato incarico agli architetti di Berlusconi che non sono in grado...».

Adesso il decreto voluto dal governo per tagliare i premi alle imprese potrebbe addirittura aggravare i conti. La retroattività al primo marzo, quando ancora si parlava di G8 alla Maddalena, e la decisione di dimezzare i compensi ai professionisti rischia di esporre lo Stato ai ricorsi. Alcune ditte appaltatrici, una minoranza, stanno già studiando la questione con i propri legali. La maggior parte degli imprenditori ha per ora deciso di concludere comunque i lavori. In palio c'è l'Abruzzo e la possibilità di partecipare agli appalti per la ricostruzione. Il caos di questi giorni, la manifestazione degli abitanti, le proteste del sindaco della Maddalena, Angelo Comiti, hanno nascosto il risultato positivo dei lavori sull'isola. Per la prima volta in Italia un'opera pubblica viene progettata, appaltata, eseguita e consegnata in poco più di un anno. Al posto di un arsenale militare, contaminato da amianto e idrocarburi, ora c'è uno yachting club con porto turistico per 700 barche, aree per conferenze, scuole di vela e un albergo di lusso progettati dall'architetto Stefano Boeri. Un polo di attività che avrà forse più successo dell'hotel-cattedrale ricavato nell'ex ospedale militare, quello che nessuno vuole. Per la sua gestione, il cuore del progetto che avrebbe dovuto ospitare il meeting, ha vinto la Mita Resort, società della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. E il fatto che altre due società sarde abbiano presentato ricorso al Tar per far annullare la gara, significa che questo complesso richiama interesse. Con il suo indotto di posti di lavoro e ricadute economiche.Facendo qui il G8, Berlusconi rischiava cioè di dar lustro a un'idea uscita dal programma dell'ex governatore sardo di centrosinistra, Renato Soru. Un'eventualità che il premier ha sempre tentato di evitare, fin da quando appena eletto aveva proposto di trasferirlo a Napoli.

L'altra incognita sull'avvenire della Maddalena è la mancanza di infrastrutture. Dirottate alle imprese costruttrici le principali risorse, non sono rimasti più soldi per l'allargamento dell'aeroporto di Olbia, la realizzazione della superstrada Olbia-Sassari e la costruzione della passeggiata a mare che avrebbe dovuto collegare il paese della Maddalena al nuovo porto turistico. I tre progetti, più volte confermati dal governo, sono stati via via sfilati perché i costi già alti e le varianti in corso d'opera stavano svuotando la cassa. «A più di due settimane dal trasferimento del G8», racconta il sindaco, Angelo Comiti, «non ho ricevuto una sola telefonata di Bertolaso. Di nessuno, né del governo, né della Protezione civile. Ci hanno spinti in una situazione antipatica. Perché sembra che vogliamo fare concorrenza agli amici dell'Aquila che vivono settimane tragiche. Non è così, andrò a L'Aquila a spiegarlo. Però il lavoro enorme che abbiamo fatto qui non può essere ridotto a una sceneggiata di ?Scherzi a parte?. Ti svegli una mattina e ti dicono che era tutto una finzione».

Pochi giorni fa Comiti ha potuto visitare i cantieri, ancora coperti dal segreto di Stato e presidiati dal battaglione San Marco come se il G8 si dovesse svolgere ancora qui. La riservatezza sui cantieri dovrebbe essere tolta il 20 maggio. Al sindaco i rappresentanti della struttura di missione, Riccardo Micciché e Francesco Piermarini, cognato di Bertolaso, hanno garantito che i lavori saranno completati entro il 31 maggio. Come previsto. Data confermata dall'architetto Boeri: «Non posso dire di più perché vale sempre il segreto, ma nonostante i tagli le imprese hanno deciso di concludere».Verranno comunque consegnati immobili senza arredamento. La Protezione civile ha inoltre deciso di non completare l'asfaltatura dei viali e l'arredo a verde per risparmiare altri 50 milioni da impegnare per il G8 a L'Aquila. Questo dovrebbe ridurre i costi alla Maddalena da 377 a 327 milioni di euro. La previsione di spesa al momento della firma dei contratti era di 308 milioni. Secondo la Protezione civile che, va detto, ha sempre garantito trasparenza sulle cifre, c'è stato dunque un rincaro del 22 per cento. Le imprese però avevano già ottenuto per contratto un incremento del 30 per cento per il fatto di lavorare su un'isola, del 15 per cento per i turni di lavoro giorno e notte e ancora del 12 come ulteriore ?premio di accelerazione?. Cioè un aumento del 57 per cento. Il risultato è un valore degli immobili completamente fuori mercato che difficilmente potrà restituire alle casse pubbliche quello che tutti noi abbiamo speso. Per l'albergo nell'ex ospedale che nessuno vuole gestire si tratta di 16.800 metri quadri. Ci sono costati 73 milioni, calcolando un aumento medio del 22 per cento sui 60 milioni previsti. Significa un costo di costruzione senza arredamento di 4.345 euro al metro (3.571 senza l'aumento). Alla Maddalena i costi non superano i 1.200 euro al metro. Le ultime tabelle dell'Agenzia del territorio fermano il costo di vendita di una villa di lusso a 3.200 euro al metro. Poiché tra suite e standard, le stanze sono 101 significa un costo medio per ogni stanza di 722 mila euro. Cioè l'equivalente, per ogni camera, di 14 mini appartamenti da 50 mila euro da costruire a L'Aquila. Considerata una rendita del 4 per cento, se lo Stato dovesse pretendere il pareggio da questo investimento con l'incasso di un affitto, il povero gestore dovrebbe sperare di incassare 28 mila euro l'anno per ogni stanza. E poiché l'estate alla Maddalena riempie gli alberghi non più di 40 giorni, significa partire già da 722 euro a notte. E a questo punto fallirebbe perché non avrebbe soldi per pagare il personale, la manutenzione, le tasse. Alla fine dovrebbe alzare il prezzo. Almeno mille, 1.200 euro a notte. Per affacciarsi su un capannone, una strada, lo scarico. E gustarsi il panorama che Obama e Sarkozy non hanno mai visto.

 

Che flop la Robin Tax

di Luca Piana

Eni ha risparmiato mezzo miliardo di euro. Erg ha fatto un utile record. Saras ha distribuito dividendi come l'anno prima. E l'imposta del ministro Giulio Tremonti sui petrolieri si è rivelata una delusione

Corrado Passera

Tasseremo i petrolieri per dare più burro, pane e pasta alla gente povera... Era il 3 giugno scorso quando il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, lanciava così la Robin Hood Tax. Undici mesi più tardi, il bilancio annuale appena approvato dall'Eni, la principale compagnia petrolifera italiana controllata dal Tesoro, racconta però che il tentativo tremontiano si è rivelato, almeno in parte, un bluff.

Nel 2008 le aziende italiane dell'Eni hanno contabilizzato imposte correnti sul reddito per 1,91 miliardi di euro, mezzo miliardo in meno rispetto al 2007. Senza la Robin Tax, dice il bilancio, ne avrebbero pagate ancora meno; ma l'aumento relativo non può consolare Tremonti, per due diversi motivi.

Il primo è che sull'incremento del gettito fiscale previsto grazie alla Robin Tax il ministero dell'Economia contava non poco per rimpinguare i conti pubblici. Il secondo è un paradosso che il bilancio dell'Eni fa emergere con chiarezza: con buona pace della "tassa etica" di Tremonti, della "punizione inflitta dal popolo sovrano allo sceriffo di Nottingham", ovvero i petrolieri colpevoli di aver guadagnato troppo con il boom dei prezzi del greggio, per il 2008 l'Eni pagherà all'estero tasse correnti sul reddito per 10,1 miliardi, tre in più del 2007. A guadagnarci, con le imposte dell'Eni, saranno soprattutto i governi stranieri, non quello italiano.

La Robin Tax ha debuttato ufficialmente con un decreto del 25 giugno scorso che, dai petrolieri dell'ipotesi iniziale, ha aumentato le imposte sul reddito anche alle società elettriche e alle banche, nonché per importi minori alle assicurazioni e alle cooperative (vedi scheda nella pagina a fianco). La stretta avrebbe dovuto far affluire nelle casse dello Stato un gettito aggiuntivo che, dai 2,2 miliardi del 2008, era previsto salire quest'anno a un picco di 4,6 miliardi, per poi planare progressivamente ai 3,5 miliardi previsti nel 2011. Una misura non da poco, dunque, se si considera che l'abolizione dell'Ici sulla prima casa dei cittadini più ricchi - varata contestualmente - è costata al fisco 2,2 miliardi in termini di minori entrate.

Se è presto per una valutazione completa della Robin Tax, la lettura dei primi bilanci depositati dalle aziende coinvolte fornisce alcune indicazioni per capire chi è stato davvero colpito dalla stretta tremontiana.

PETROLIERI FELICI Al di là dell'Eni, anche i magnati privati del petrolio sembrano aver assorbito il colpo senza traumi. Lo scorso anno, quando la Robin Tax era uscita da poco, la Saras della famiglia Moratti aveva calcolato che la rivalutazione obbligatoria delle scorte - tassata con un'aliquota sostitutiva del 16 per cento - avrebbe comportato un esborso di ben 50 milioni. Il successivo crollo del greggio, evidentemente non previsto da Tremonti, ha però ridotto il costo di questa voce, scesa a soli 5 milioni: poco o nulla, per un gruppo da 8,6 miliardi di ricavi. E se, complessivamente, la Saras ha contabilizzato imposte correnti per 147 milioni (43 in più rispetto al 2007), la mini-stretta non ha impedito la distribuzione ai Moratti di un dividendo di 100 milioni, gli stessi dell'anno scorso.

Ancora più curioso il caso dei Garrone, proprietari della Erg, un gruppo da 11,5 miliardi di ricavi. Nel bilancio la società calcola in una cinquantina di milioni l'impatto sulle imposte correnti causato dalla Robin Tax. Un importo che pare sopportabile, se si considera che quest'anno la Erg ha incassato una maxi plusvalenza di 892 milioni per la cessione alla russa Lukoil del 49 per cento degli impianti di Priolo, in Sicilia. Alcuni dettagli di quest'operazione stridono non poco con la retorica su Robin Hood: non solo la plusvalenza ha determinato un mega abbattimento dell'imponibile fiscale alla luce della cosiddetta 'Partecipation exemption', norma voluta da Tremonti nel 2003, ma la Erg - per minimizzare l'impatto delle imposte - si è affidata allo studio di commercialisti fondato dal ministro. Risultato: il gruppo ha chiuso l'anno con un utile netto di 646 milioni, quattro volte quello del 2007.

IL CONTO FINISCE IN BOLLETTA Francesco Tundo, professore di diritto tributario a Bologna e titolare di uno studio di consulenza fiscale a Milano, ritiene che anche quest'anno gli effetti della Robin Tax sui conti dei petrolieri saranno "da verificare". Una possibile sorpresa riguarda la vendita delle scorte, rivalutate a prezzi 2008 rispetto ai bassissimi costi storici: una modifica che, se il greggio si manterrà su livelli vicini ai minimi, potrebbe tradursi in minori imposte sui margini di vendita. Tundo ritiene invece che il colpo maggiore verrà accusato dalle società di distribuzione energetica. Se l'Enel nel 2008 ha versato 290 milioni di imposte in più per effetto della Robin, per il tributarista "gli effetti più pesanti in termini relativi si riverseranno sulle ex municipalizzate".

Qualche accenno si può trarre già dai bilanci 2008: la milanese A2A ha visto le imposte correnti balzare da 97 a 261 milioni, la romana Acea da 115 a 155 milioni. "Gli effetti sono due: il primo riguarda il fatto che queste aziende potranno vedersi costrette a trasferire i maggiori oneri sulle bollette dei cittadini. D'altra parte, se si accontenteranno di margini inferiori, verseranno minori dividendi agli enti locali azionisti", osserva Tundo. E qui nasce il vero problema: mentre la Robin Tax ha evitato di colpire monopoli come le televisioni e le autostrade, rischia invece di penalizzare aziende che contribuiscono non poco a sostenere le finanze delle città, già private dell'Ici. "Non bisogna dimenticare, però, che sono proprio i comuni a fornire una serie di servizi pubblici essenziali, dagli asili all'assistenza agli anziani", dice Tundo.

LA BANCA È SALVA Banche e assicurazioni sono l'altro settore nel mirino della Robin Tax. Anche in questo caso, però, gli effetti della manovra appaiono controversi. Se i tecnici di Tremonti si aspettavano un gettito aggiuntivo dalle Generali di Trieste, resteranno delusi. La compagnia nel 2008 ha contabilizzato in Italia imposte correnti per 90 milioni, a fronte dei 358 del 2007. Evidentemente le maggiori tasse da pagare sulle riserve non hanno compensato la frenata dei margini causata dalla crisi.

Più articolato il discorso sulle banche, per le quali è stata allargata la base del reddito imponibile, riducendo la possibilità di dedurre gli interessi pagati sul denaro preso in prestito e i fondi accantonati a garanzia dei crediti. Dopo la Robin Tax, tuttavia, Tremonti ha dovuto far fronte a un nuovo imprevisto, la tempesta d'autunno sulle banche. E nel decreto anticrisi di novembre, in cambio di un'aliquota leggermente inasprita, ha reso più rapidamente deducibili una serie di ammortamenti. I bilanci di Intesa Sanpaolo e Unicredit, i due maggiori istituti italiani, rendono bene l'idea degli effetti. Le imposte correnti sono aumentate di 866 milioni per il gruppo guidato da Corrado Passera e di 1,04 miliardi per quello di Alessandro Profumo. Allo stesso tempo, però, grazie alla norma anti-crisi Intesa ha potuto mettere a bilancio futuri benefici fiscali per 2,1 miliardi, Unicredit per 2,4. Alla fine, così, sono tutti contenti. Le banche hanno ricevuto un sostegno essenziale per non far sprofondare l'utile, mentre Tremonti può subito mettere in cassa un po' di quattrini. Per il futuro, poi, si vedrà.

 

7 maggio

 

IL RETROSCENA. Il contributo statale effettivo per ogni famiglia non sarà di 150 mila euro, ma di un terzo Fondi "virtuali" e stanziamenti basati su previsioni di incassi crescenti delle lotterie

I trucchi del "decreto abracadabra": ricostruzione diluita in 23 anni

di MASSIMO GIANNINI

Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c'è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il "Decreto Abracadabra". Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell'Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest'anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di "non aver messo le mani nelle tasche degli italiani". Il ministro dell'Economia si è fregiato di aver reperito le risorse "senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all'altra del bilancio".

Il "Decreto Abracadabra" non aiuta a capire. Il capitolo "Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria" dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 12, intitolato "Norme di carattere fiscale in materia di giochi") è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall'indizione di "nuove lotterie ad estrazione istantanea", "ulteriori modalità di gioco del Lotto", nuove forme di "scommesse a distanza a quota fissa". E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un "gioco" che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: "La previsione di una crescita del volume di entrate per l'anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi - si legge nella relazione tecnica al decreto - potrebbe risultare in qualche modo problematica".

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 14, intitolato "Ulteriori disposizioni finanziarie") è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell'Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per "garantire l'acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer") al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell'articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle "maggiori entrate derivanti dalla lotta all'evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi". Insomma, entrate scritte sull'acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l'erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel "Pacchetto Ricostruzione". A parte gli interventi d'emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l'edificazione delle case provvisorie ("a durevole utilizzazione", secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest'anno, 300 l'anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a "Porta a Porta" di due giorni fa, fa pensare che l'impegno di una "casetta" a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato "un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica".

Basterà presentare le fatture relative all'opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d'imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell'Umbria e del Friuli, i terremotati d'Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come "limite massimo" dell'erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l'impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell'appartamento da riedificare.

Nel "Decreto Abracadabra", per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i "soliti comunisti-sfascisti" dell'opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l'esecutivo di trattare gli aquilani come "terremotati di serie B"), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l'altro ieri a L'Aquila ha ripetuto "qui servono soldi veri". C'è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L'epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

 

AL San Paolo come alla Diaz, lo Stato si assolve

Intervista all’avvocato Mirko Mazzali, difensore dei ragazzi picchiati dalle forze dell’ordine all’ospedale San Paolo la notte del 16 marzo 2003

La notte del 16 marzo 2003, Davide Cesare, detto 'Dax', un ragazzo del centro sociale O.R.So., e due suoi compagni vennero accoltellati da due neofascisti nei pressi di via Brioschi, a Milano. L'arrivo in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale San Paolo fu inutile per Dax, che morì in seguito alle ferite riportate.
Amici e compagni di Dax e degli altri due ragazzi feriti accorsero in ospedale per chiedere notizie e ricevere, con disperazione, l'annuncio della morte del ragazzo. Dopo poco, macchine di polizia e carabinieri presenti per "mantenere l'ordine pubblico" bloccarono l'ingresso al pronto soccorso e cominciavano cariche e pestaggi contro i presenti. Testimonianze del personale medico-sanitario in servizio quella notte riferirono come le forze di polizia si fossero spinte negli inseguimenti fino nei corridoi interni e nelle sale visita del pronto soccorso, invadendo anche il dipartimento Emergenza e Accettazione e che la brutalità degli scontri era evidente dal numero di feriti e dalla quantità di sangue presente sul pavimento del pronto soccorso. I ragazzi subirono gravi lesioni: nasi, zigomi, braccia, mani, denti rotti, teste aperte.
Il chirurgo di turno quella notte indicò come causa delle cariche la volontà delle forze dell'ordine di impedire agli amici del ragazzo morto di lasciare i locali.
In seguito a questi fatti iniziò un procedimento penale davanti alla quarta sezione del tribunale di Milano. Dopo il grado d'appello, il processo "San Paolo" si conclude giovedì 7 maggio a Roma con il giudizio di Cassazione.
Abbiamo intervistato l'avvocato Mirko Mazzali, già avvocato di parte civile nel processo per l'omicidio di Dax, che assiste in Cassazione i due compagni di Dax, condannati in primo grado e in appello.

Avvocato, ci parli di questo processo. Quali sono state le fasi processuali più rilevanti e le condanne in primo grado e in appello? Per i fatti del 16 marzo 2003 all'ospedale San Paolo in primo grado erano stati imputati quattro compagni di Davide Cesare e tre appartenenti delle forze dell'ordine per lesioni e abuso d'ufficio.
La sentenza di primo grado aveva portato alla condanna di due dei compagni di Davide e di un carabiniere ripreso da una telecamera amatoriale mentre manganella una persona a terra, e al proscioglimento per prescrizione di un altro carabiniere in possesso di armi improprie, cioè di una mazza da baseball.
In appello la condanna è stata confermata per i compagni di Davide, ma non per il carabiniere condannato in primo grado.

Quali sono state le motivazioni dell'assoluzione in appello del carabiniere condannato in primo grado?
Hanno sostenuto che un carabiniere non poteva sapere cosa faceva l'altro mentre il ragazzo era a terra.

Ritiene che ci siano state delle anomalie o irregolarità nello svolgimento del processo? Dal punto di vista formale non ci sono state anomalie: il procedimento si è svolto in modo formalmente regolare. La particolarità in processi come questo non è nello svolgimento del procedimento, ma nella fase di valutazione delle prove. E' in questa fase, nella quale i magistrati possono esercitare una certa discrezionalità di valutazione, che emerge come vengano adottati due pesi e due misure. Prendo l'esempio del nostro caso: per il solo fatto di essere stati presenti sul luogo degli scontri, due compagni di Davide sono stati condannati per concorso morale. E' stato ritenuto che la loro presenza abbia influito a livello psicologico nell'eccitare l'atmosfera durante gli scontri. Dall'altra parte esiste un video amatoriale, che è stato acquisito come prova e quindi valutato, che riprende un poliziotto mentre tiene fermo un ragazzo che viene manganellato. In questo caso non è stato giudicato esistente né un concorso morale, né un concorso materiale, anche se appare evidente l'aiuto materiale apportato da un poliziotto nel bloccare il ragazzo a terra. Al contrario è stato ritenuto che quell'atto servisse "a vincere una resistenza" della persona visibilmente inerme.

Quindi il fatto che alcuni imputati fossero appartenenti alle forze di polizia ha modificato le dinamiche processuali? Quali problemi comporta l'accertamento di reati di pubblici ufficiali? A partire dagli anni Settanta è molto più difficile riuscire a provare la commissione di un reato da parte delle forze dell'ordine, direi quasi impossibile. Oltre al diverso criterio usato nella valutazione delle prove, di cui dicevo, c'è anche la difficoltà nell'individuazione dei soggetti responsabili tra le forze di polizia e nel provare i fatti. Le dinamiche processuali di questo procedimento sono le stesse che si sono presentate anche per i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto: in quel caso sono dovuti passare mesi prima che si riuscisse a identificare un poliziotto anche se riconoscibile perché portava una coda di cavallo. Questo processo, come gli altri con membri delle forze di polizia tra gli imputati, ha presentato le stesse difficoltà in fase probatoria.

Quale è stata l'utilità delle testimonianze del personale ospedaliero nell'accertamento dei fatti? Il personale ospedaliero è stato di enorme importanza per ricostruire i fatti e gli accadimenti in modo veritiero, anche se poi è stata riformata la sentenza di primo grado che aveva fatto una migliore valutazione dei fatti descritti. Nella sentenza di primo grado erano state usate parole anche piuttosto severe descrivendo un attacco delle forze dell'ordine inefficace, eccessivamente duro e ingiustificato fino a descriverlo "intimidatorio e ritorsivo" anche se poi il giudizio è mutato in secondo grado. La ricostruzione dei fatti del personale ospedaliero è stata del tutto svalutata a favore di quella fatta direttamente dalle forze di polizia implicate nei pestaggi stessi.

Quali sono state le prove determinanti a carico dei condannati?La prova fondamentale per la condanna del compagno di Dax manganellato è stata la testimonianza del poliziotto responsabile del pestaggio stesso. In un primo momento il compagno di Dax non era stato riconosciuto come autore materiale di alcun reato o aggressione, ma invece come vittima del pestaggio ripreso dal video amatoriale. Successivamente alla sua denuncia dei poliziotti ripresi mentre lo manganellavano è stato denunciato e riconosciuto dagli stessi poliziotti da lui accusati. Anche se assurdo, questa testimonianza è stata valutata come attendibile.

Chi dirigeva questa operazione di polizia? E' stato possibile ricostruire se c'è stato un ordine preciso e premeditato su come procedere o se è "scappata di mano" la situazione? Non si è mai potuto ricostruire quale fosse la catena di comando e se chi doveva gestire l'operazione volesse questi risultati a scopo di ritorsione o meno. Certamente però si deve notare che la situazione si è di molto tranquillizzata e normalizzata con l'arrivo della Digos.

Qual è il suo giudizio sulla copertura mediatica di questi fatti? Al principio il video dei pestaggi fece scalpore. Dopo qualche tempo l'attenzione è calata perché la questione non "faceva più notizia".
L'allora questore di Milano, Vincenzo Boncoraglio, aveva diffuso ai giornali la sua versione per la quale i ragazzi corsi in ospedale per farsi curare o per avere informazioni sulle condizioni degli altri volessero sottrarre la salma di Dax (sic!). Questa assurda versione è stata però smentita in dibattimento dal personale medico in servizio.

Cosa spera dalla sentenza di Cassazione di domani e con quali motivi ha impugnato la sentenza d'appello? Non nutro molte speranze sulla sentenza di Cassazione anche alla luce di come è stato condotto il processo fin'ora. Oltre ad altri argomenti tecnici, il principale motivo d'impugnazione è la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione proprio per quelle incongruenze nella motivazione della sentenza circa le valutazioni effettuate dai giudici.

Chiara Avesani

 

6 maggio

 

La crisi travolge i "Workers" di Dubai

Sono più di mille al giorno i lavoratori immigrati negli Emirati che perdono il lavoro

scritto da Elisabetta Norzi

Oltre millecinquecento visti cancellati ogni giorno. E' il ritmo con cui, a Dubai, i lavoratori stranieri vengono licenziati. E se a rimane sere senza lavoro, finora, erano stati soprattutto i professionisti più pagati - ingegneri, architetti, manager occidentali -, adesso la crisi sta travolgendo i workers.

Così vengono chiamati in città tutti gli immigrati indiani, pakistani, afgani, bangladesi, filippini che svolgono i lavori meno qualificati e che hanno uno stipendio massimo di 200 euro al mese. I numeri, finalmente, sono stati parzialmente confermati anche dal governo dell'emirato, che ha fatto di tutto per nascondere le difficoltà di Dubai: il ministero del Lavoro ha parlato di più di 400mila permessi di soggiorno annullati dallo scorso ottobre ad oggi. Subito dopo, però, è arrivata puntuale la smentita: ''la popolazione non sta diminuendo a causa della crisi - ha sottolineato il ministro del lavoro Saqr Ghobash -; molti stranieri in questo periodo sono semplicemente stati mandati a casa per una vacanza, solo il tempo di fare ripartire a pieni ritmi l'economia: a fronte dei permessi cancellati, ci sono oltre 600mila nuovi visti rilasciati''. Un dato, quest'ultimo, non confermato da nessuno dei report delle banche né dalle ricerche delle agenzie di consulenza, che parlano invece di una diminuzione della popolazione del 17 percento, su un totale di circa due milioni di abitanti.

Ma non sono indispensabili i numeri per capire che la crisi ha travolto Dubai: ai bordi delle strade i cantieri sono fermi, le gru abbandonate, il traffico è scomparso e i supermercati, in tutti i quartieri della città, si sono svuotati. I prezzi degli alloggi, poi, soprattutto nelle zone abitate dagli occidentali come Springs o Jbr, sono crollati: una villetta bifamiliare con due stanze da letto, da oltre 3mila mila euro al mese è scesa a duemila. L'emiro di Abu Dhabi è intervenuto per garantire il completamento delle infrastrutture cominciate, come la metropolitana che dovrebbe essere inaugurata il prossimo settembre e la rete stradale che in città non è ancora finita. Gli altri nuovi progetti, invece, per il momento sono fermi: interi quartieri, già disegnati e alcuni anche per metà costruiti, rischiano di rimanere scheletri di cemento.

Il paradosso è che i migranti arrivati a Dubai per sfuggire dalla povertà dei propri paesi d'origine, ora fanno fatica anche a tornare a casa. ''La situazione è la stessa per molti miei amici, operai nei cantieri edili di Dubai - racconta Melanie, originaria delle Filippine che lavora per un'impresa di pulizie come domestica per 160 euro al mese-: non hanno i soldi per tornare nei loro paesi perché le aziende non hanno pagato gli stipendi degli ultimi mesi''. E tutele, da parte dello stato o delle imprese, non ne esistono. Il consolato indiano e quello filippino hanno dichiarato di essere sommersi dalle richieste di aiuto di lavoratori che non hanno i soldi per il biglietto aereo di ritorno nelle loro città. Al momento sono le ambasciate a farsene carico: hanno messo a disposizione alcuni appartamenti e posti letto per chi è rimasto senza casa, coprono le spese di vitto e alloggio, e organizzano charter verso Manila, Delhi, Mumbai o Calcutta. ''Anche nel mio campo, quello delle pulizie - prosegue Melanie -, cominciano ad arrivare segnali di crisi: la mia società lavora solo per gli ‘expat', gli occidentali, non per i locali che pagano male e maltrattano le ragazze filippine. Moltissimi occidentali stanno però andando via da Dubai e abbiamo sempre meno clienti. Speriamo che la città non si svuoti del tutto, altrimenti anche io sarò costretta a tornare a casa. Il mio stipendio è basso, ma riesco a mandare comunque un po' di soldi a casa, per mio figlio che è rimasto nelle Filippine con i nonni. E là il lavoro proprio non si trova''.
 

L'oro di riserva

La Cina sta accumulando il più prezioso dei metalli. Perché vuole smarcarsi dalla dipendenza dal dollaro, un'arma a doppio taglio che ha contribuito lei stessa a creare
scritto daAlessandro Ursic
Mille e cinquantaquattro tonnellate di oro possono essere un sogno per i comuni mortali, oppure ordinaria amministrazione per le riserve di uno Stato come gli Usa, che ne possiedono una quantità otto volte superiore; persino l'Italia ne ha di più. Per la Cina, però, sono improvvisamente tante. Nei giorni scorsi Pechino ha annunciato di aver portato a tale ammontare le sue riserve auree, quasi raddoppiandole negli ultimi anni. Confermando di voler gradualmente smarcarsi dalla dipendenza dall'economia americana, che lei stessa ha contribuito a creare finanziando per anni l'indebitamento di Washington.

Acquistando in particolare metallo prezioso prodotto in patria, la Cina ha così messo da parte oro come una formichina. La quantità attualmente nei suoi forzieri rimane trascurabile: rappresenta l'1,6 percento delle sue enormi riserve in valuta straniera, che ammontano a 2.000 miliardi di dollari di cui circa due terzi proprio in biglietti verdi, grazie all'acquisto massiccio di Bot americani. Ma, messo insieme a dichiarazioni e altri fatti degli ultimi mesi, il quasi raddoppio delle riserve auree del gigante asiatico contribuisce a rendere evidente la volontà politica di raggiungere una serie di obiettivi a lungo termine: accrescere l'autonomia della Cina sulla scena economica globale, stimolare la domanda interna e ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni, fare dello yuan una valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale. Il problema è che Pechino ha le mani legate, perché nel perseguire questi scopi rischia di veder svalutare il suo investimento multimiliardario in dollari.

Per anni, la Cina ha accumulato dollari mantenendo basso - secondo Washington troppo basso - il valore dello yuan, e favorendo così la crescita delle sue esportazioni. I risparmi dei cinesi finanziavano i consumi oltre le proprie possibilità degli americani, dando vita allo squilibrio reso evidente dall'attuale crisi. Negli ultimi tre anni, da quando Pechino ha abbandonato il cambio fisso tra la sua moneta e il biglietto verde, lo yuan si è leggermente rivalutato. E se prima erano gli Usa a fare pressioni sulla Cina, ora è Pechino a mostrarsi baldanzosa: a marzo il direttore della Banca centrale cinese ha buttato lì l'idea che il dollaro non debba più essere la valuta mondiale di riferimento, e successivamente il premier Wen Jiabao ha auspicato una maggiore supervisione internazionale delle scelte economiche degli Stati Uniti. Proprio perché da esse dipende anche il benessere della Cina.

Tali preoccupazioni, alimentate dal fervore nazionalistico che accompagna l'ascesa del gigante asiatico, in Cina sono sentite non solo dagli economisti: nell'ultimo anno, un libro complottistico dal titolo "Currency Wars" (Guerre valutarie) ha venduto oltre un milione di copie. La tesi principale è che l'Occidente trama per frenare lo sviluppo cinese; da questo punto di vista, gli Usa avrebbero interesse a svalutare il dollaro non solo per rilanciare la propria economia travolta dalla crisi, ma anche per far perdere valore alle riserve di Pechino.

In realtà, gli Stati Uniti e il mondo hanno un tremendo bisogno della Cina, come si è visto anche dai sempre più frequenti auspici di vedere i cittadini cinesi aumentare i propri consumi, per rimpiazzare quelli degli americani. Sono movimenti tettonici che prenderanno decenni, ma è vero che Pechino sembra avere intenzione di percorrere questa strada: i suoi piani di stimolo all'economia premono proprio su questo tasto, sul progressivo potenziamento della domanda interna, e sulla diversificazione della sua politica monetaria. Far calare bruscamente le sue riserve in dollari sarebbe controproducente: se ne mettesse sul mercato una quantità consistente, il biglietto verde diventerebbe carta straccia, le esportazioni cinesi crollerebbero e le riserve cinesi in dollari brucerebbero gran parte del loro valore. Ma a lungo termine, l'obiettivo è comunque di farle lentamente scendere. E cominciare ad accumulare oro contribuisce allo scopo.
 

Sri Lanka, guerra senza tregua

La diplomazia non ferma i bombardamenti governativi su ribelli e civili tamil

La missione diplomatica in Sri Lanka dei ministri degli Esteri britannico e francese, David Miliband e Bernard Kouchner, non è riuscita a convincere il presidente Mahinda Rajapakse a concedere una tregua umanitaria alle Tigri tamil per consentire l'evacuazione dei 50 mila civili ancora intrappolati nella zona di conflitto.

Il presidente: occidentali ipocriti e ingenui. "Non ci sarà nessun cessate-il-fuoco", ha dichiarato Rajapakse dopo la partenza dei due diplomatici. "Gli occidentali cercano di fare pressione su di noi usando l'argomento dei civili: ma perché non vanno a vedere cosa hanno fatto e stanno facendo loro in Iraq e Afghanistan? Se io ho detto che non stiamo usando armi pesanti e bombardamenti per non mettere a rischio i civili, significa che è così. Ma questi inviati stranieri sono pronti a credere alla propaganda di un'organizzazione terroristica".
Ma le immagini e le notizie che giungono dalla zona dei combattimenti dimostrano che le forze armate di Colombo - che domenica avevano annunciato che non avrebbero più usato ‘armi pesanti' - stanno continuando a bombardare dal cielo, dal mare e dalla terra i cinque chilometri di spiaggia a nord di Mullaitivu rimasti in mano ai guerriglieri dell'Ltte.

I bombardamenti non si fermano. Un video diffuso dalle Tigri tamil mostra i caccia governativi che lunedì 27 aprile sganciavano bombe sulla cosiddetta ‘Safe Zone'. Alle 6 di pomeriggio, sempre secondo le Tigri tamil, sono iniziati i bombardamenti di artiglieria, proseguiti senza sosta tutta la notte, fino alle 11 del mattino seguente: in diciassette ore almeno 2.600 razzi, 2 mila proiettili di mortaio e mille cannonate, sparate anche dalle navi della marina militare, sono piovute sulle tendopoli tra le palme, uccidendo 272 civili e ferendone altre centinaia. Impossibile confermare queste notizie, vista l'assenza in loco di giornalisti e osservatori indipendenti. Anche se le immagini delle esplosioni sulla spiaggia confermano il bombardamento sugli sfollati.
Ieri mattina, mercoledì, i guerriglieri avrebbero raccolto altri 160 cadaveri di civili. E nel pomeriggio, attorno alle 16, i bombardamenti, da terra e dal mare, sarebbero ricominciati, uccidendo altri 150 civili e colpendo anche l'unico ospedale da campo rimasto: il bilancio fornito ieri sera dall'Ltte parla di almeno nove pazienti uccisi e quindici feriti.
Uccisi 6.432 civili, 150 mila profughi maltrattati. Le Nazioni Unite, non le Tigri tamil, hanno contato 6.432 civili tamil uccisi tra il 20 gennaio e il 20 aprile, ovvero più di settanta ogni giorno. Ora che la densità di sfollati è aumentata (50 mila ammassati in otto chilometri quadrati), le cifre fornite quotidianamente dall'Ltte potrebbero anche essere verosimili.
Non se la passano meglio i 150 mila civili tamil scappati nelle ultime settimane dalla zona di conflitto e finiti nei ventiquattro campi d’accoglienza allestiti e gestiti dall’esercito, dove, secondo il sito filo-ribelle TamilNet, i profughi vengono trattati “come i prigionieri dei campi di concentramento nazisti”: “Le condizioni igieniche – denuncia il sito – sono disumane, il cibo viene lanciato ai profughi come ai cani, e la gente è costretta a correre. Nel campo di Menik, a Vavuniya, due bambini sono morti schiacciati nella calca. Sessanta profughi sono già morti per malattie. E almeno trecento giovani sono stati forzosamente arruolati nell’esercito”. Precedentemente erano già stati denunciati maltrattamenti, torture e sparizioni. Nesso può uscire dai campi, salvo gli ultrasessantenni che hanno parenti in zona.

Scuola modello small

di Roberta Carlini
Scattano i tagli del ministro Gelmini: 42 mila insegnanti in meno. Così saranno ridotte le lezioni di lingue e i pomeriggi a scuola. Ecco come sei istituti si preparano all'austerity

Da un anno all'altro ci saranno 42 mila insegnanti in meno assieme a 8 miliardi di tagli in quattro anni. Un crescendo: 456 milioni nel 2009, 1.650 l'anno prossimo, 2.538 nel 2011, 3.188 nel 2012. Fino a poche settimane fa, erano solo numeri scritti su documenti ufficiali. Adesso, si stanno abbattendo concretamente sulla vita delle scuole italiane, man mano che ciascuna di esse viene a sapere quanti insegnanti in meno avrà l'anno prossimo. E ne trae le conseguenze: domande di tempo pieno non accolte, aumento del numero degli alunni per classe, riduzione dei rientri pomeridiani e dei tempi prolungati. Ne sanno già qualcosa gli utenti delle scuole di ogni ordine e grado, con relativi genitori nel panico. Alle elementari i risparmi sono affidati all'abolizione del modulo e al tetto al tempo pieno (garantito, in teoria, solo dove già c'era).

Le scuole medie sono quelle che subiscono i tagli più forti: meno 15.500 prof, mentre gli studenti saranno oltre 7 mila in più. Alle superiori, come antipasto della riforma che arriverà l'anno prossimo, per adesso si amputano 11.350 posti. Parole magiche per ottenere i tagli sono: abolizione delle compresenze, riordino delle cattedre. Che vuol dire, meno ore di lezione con più studenti e con un solo docente per volta. E per le medie, Cenerentola della scuola, meno lingue straniere e meno lettere. Ma per capire come sarà la scuola che riapre a settembre, conviene partire dal basso: dalle classi e dagli orari, che in questi giorni in tutt'Italia stanno prendendo forma.

Napoli - Adelaide Ristori
Quelli dell'ufficio provinciale gliel'avevano detto: "Non lo chiedete il tempo pieno, perché al Sud non lo danno". Eppure i modelli mandati dal ministero, freschi di stampa, prevedevano sulla carta la libertà di scelta: "Scusate, ma se sul modulo c'è scritto, perché io devo dire alle famiglie di non scegliere il tempo pieno?". E così alla scuola Adelaide Ristori , circolo Napoli 34, 800 utenti dalle materne alle medie, hanno spedito i moduli e incrociato le dita. Qualche giorno fa, la doccia fredda: niente tempo pieno a Forcella, e cinque maestre in meno. "Una bomba. Un disastro. Tutto da rifare". Luisa Perasole, vicepreside della scuola, ha strappato tutte le simulazioni d'orario fatte, e ha ricominciato daccapo a riempire fogli e schemini, per far tornare i conti e riaprire a settembre la stessa scuola con meno insegnanti. Il problema non è solo dei 37 bambini le cui famiglie avevano barrato sull'ottimistico modulo la casella '40 ore': non le avranno, è certo, ma di cosa dovranno accontentarsi? 24, 27 o 30 ore a settimana, per stare sempre al ventaglio di offerte ministeriali? "Sarà difficile garantire anche il tempo prolungato al pomeriggio. E la mensa, nostro orgoglio da anni", dice Perasole.

Scuola di frontiera, tra la centrale via Duomo e le zone più popolari di Forcella e Mercato, la Ristori, circolo Napoli 34, ha lottato per conquistare quello che si chiamava 'tempo prolungato'. E che rischia anch'esso l'estinzione, per il combinato disposto di due novità: l'abolizione delle ore di compresenza degli insegnanti nella stessa classe, e, per medie e superiori, il riordino delle cattedre (tutte a 18 ore, tutte d'insegnamento frontale). "Prima, anche senza avere il tempo pieno i bambini potevano restare in mensa, e poi fare attività nel pomeriggio. Con cinque maestre in meno, salta tutto il modello che abbiamo costruito in anni di lavoro".
Lavoro didattico, e sul territorio: "Il pomeriggio lo usavamo per fare attività di recupero personalizzate, ad esempio mettendo insieme bambini dello stesso livello per rafforzare la matematica o l'italiano. Poi c'erano i laboratori, per elementari e medie: informatica, latino, multimediale, facevamo anche un tg. C'erano corsi di computer o teatro anche per le famiglie: lavoriamo in zone molto problematiche, e avere la scuola aperta al pomeriggio, per tutti, è importante".
Utopie, di fronte alla formula che il ministero ha usato per calcolare l'organico: 'Numero di classi per 27 diviso 22'. Dove 22 sono le ore di insegnamento previste da contratto per ogni maestra e 27 è l'orario settimanale di riferimento delle elementari. Piccolo dettaglio: nelle domande d'iscrizione, a Forcella come in tutt'Italia, le 27 ore non le ha chieste quasi nessuno (il 7 per cento del totale), ancora meno hanno chiesto le 24 ore (il 3), mentre tutti gli altri hanno chiesto le 30 e le 40 ore. In pratica, il 90 per cento delle famiglie ha chiesto un orario superiore a quello compatibile con i tagli.
Il ministro Gelmini
Palermo - Oberdan
Nello stesso dilemma si dibatte Giovanni Litrico, direzione didattica Oberdan, quartiere Oreto-Guadagna di Palermo: da settembre ha due insegnanti in meno per lo stesso numero di bambini. In prima elementare, "tutte le famiglie hanno chiesto le 30 ore articolate su sei giorni, sabato compreso. Qui la settimana corta non esiste, e il tempo pieno non si è sviluppato perché i comuni non hanno dato le strutture". Ma adesso tocca lavorare di fantasia e forbici per salvare il sabato. "Forse per quest'anno ci lasciano le compresenze di inglese e religione: cercherò di usare quelle ore per coprire quelle che mancano". In sostanza, succederà che quando entra l'insegnante di religione o il maestro specialista di inglese, la maestra titolare esce, e va a tappare i buchi in qualche altra classe. Un escamotage disperato ma comune a tante scuole d'Italia. Per i bambini che non seguono la religione cattolica, il risultato è nella pratica violazione di Costituzione e Concordato: non avranno l'insegnamento alternativo, ma saranno piazzati momentaneamente in altre classi. Certo è che l'insegnante specialista di cattolicesimo resterà. Mentre quello di inglese va a estinguersi, sostituito dall'insegnante 'specializzato': cioè uno con 100-150 ore di formazione ad hoc, da quest'anno obbligatorie per tutti. Così l'inglese lo fa la maestra prevalente, e si risparmia. "Forse pensano che insegnare inglese in prima elementare sia più facile, invece è proprio quella l'età decisiva per cominciare bene la seconda lingua".

Roma - Di Liegro Maltrattato alle elementari, l'inglese si presenta apparentemente potenziato'alle medie: dove si può chiedere, invece della seconda lingua straniera, di fare cinque ore di inglese a settimana. Il perché in una tabella del decreto sugli organici: riduzione posti della 'seconda lingua comunitaria', meno 5.616. Ma alla scuola media Di Liegro, nel quartiere Tiburtino a Roma, la domanda per 'l'inglese potenziato' non l'ha fatta nessuno. "Tutta l'Europa studia due lingue, non si vede perché noi dobbiamo restare fuori", dice la preside, Simonetta Caravita. Ma è meglio farne solo una bene, che due male, è il ragionamento di buon senso. "Certo, però per migliorare la lingua bisogna migliorare il metodo, fare gruppi di livello omogeneo, attività integrative, non basta allungare le ore di insegnamento frontale", dice Caravita. Nella sua scuola l'anno scorso c'era il tempo prolungato con potenziamento delle lingue straniere, anche con il conseguimento delle certificazioni tipo 'ket' e 'delf'. Quest'anno invece l'insegnamento delle lingue finirà per essere dimezzato.

Verona - Veronetta Porto San Pancrazio "Proprio ieri il papà di un bambino che deve venire a scuola da noi mi ha chiesto: l'anno prossimo quanti pomeriggi avremo a scuola? Due, o tre? Non ho potuto rispondere, e questo è devastante". Ernesto Passante, dirigente dell'istituto comprensivo di Veronetta-Porto San Pancrazio, a Verona, aspetta i dati dell'organico senza grandi speranze. Ha tre scuole materne, tre elementari e due medie: 750 alunni. La sua scuola va spesso nelle cronache per l'alta percentuale di stranieri: "Altro che mozione Coda, qui le classi di soli stranieri, che poi sono quasi tutti nati in Italia, ce le abbiamo già". Ma hanno anche tante altre cose: supporto per l'inserimento, corsi per potenziare le eccellenze, far prendere ai ragazzi (italiani) i diplomi di lingua straniera che negli istituti privati si pagano fior di quattrini. E adesso? "Adesso salta tutto. Per tutte queste attività noi usavamo quella parte di organico che era superiore allo stretto necessario". Con le nuove regole resta a malapena lo stretto necessario. "Gli insegnanti bravi saranno quelli che riescono a tenersi tutta la classe in silenzio". Ma anche così, il cerchio non si quadra: "Le 24 ore, quelle del modello del maestro unico, le hanno chieste in quattro. Gli altri vogliono o il tempo pieno o i rientri al pomeriggio. Penso che saremo costretti a ridurre i rientri. Il tempo pieno forse riusciamo a mantenerlo".

Roma - Walt Disney I ragazzini si avviano verso la mensa sotto un ritratto di Walt schizzato a carboncino sul muro, mentre la direttrice fa la lista degli esclusi, che ancora non sanno di essere tali. "In una sede ci hanno dato solo una classe a tempo pieno su due: 19 domande bocciate. Qui, nella sede principale, ne restano fuori otto", spiega Eva Pasqualini, riepilogando i numeri della sua scuola, la Walt Disney del Nuovo Salario: una classe in più, due insegnanti in meno. Risultato: aumento dei bambini per classe con 27 per le elementari e 28 per le medie. Non solo: "Di fatto è saltato il tetto al numero di alunni in presenza di disabili, anche se ancora si aspetta il regolamento ufficiale". Le cose non cambieranno solo per le prime: "Le compresenze si eliminano anche per le classi già avviate con i vecchi moduli. Dunque credo che dovremo ridurre l'orario, anticipando l'uscita del venerdì". Quanto all'arrivo della maestra prevalente e la sepoltura del modulo, la Pasqualini invita ad andarci cauti: "Certo, avremo più vincoli di prima, ma non credo che rinunceremo ad avere un lavoro collegiale degli insegnanti". Per tradurre: ci sarà una qualche nuova versione del 'modulo', con maestre specializzate per gruppi di materie. "In fondo l'autonomia ce l'abbiamo ancora", dice Pasqualini, che non accetta un orario patchwork, fatto da una maestra prevalente, per 22 ore, più tanti pezzetti di altre maestre: il modello Gelmini, in altre parole, che molte scuole stanno di fatto by-passando.

Lecce - Corigliano d'Otranto "Anche noi cercheremo di mantenere il più possibile la specializzazione delle maestre per ambiti di competenza, non possiamo tornare all'insegnante tuttologo", dice dal Salento Luigi Martano, dirigente di una scuola materna ed elementare. Che come tutti gli altri ha le sue decimazioni: 15 insegnanti invece di 19. Ma ha anche un grattacapo in più: il pignoramento. Equitalia gli ha appena intimato di pagare la tassa sulla spazzatura per gli anni scorsi: 9 mila euro, che nelle casse non ci sono. Perché i finanziamenti sono stati tagliati, e dall'anno prossimo "Internet e fotocopie li dovremo far pagare dalle famiglie". Equitalia minaccia le vie legali. "Non so, qui ci sono lavagne e scrivanie: vogliono prendere queste?".

 

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