NEL colonnino delle ultime notizie, sulla homepage di questo giornale
scorrevano ieri queste righe, l'una dopo l'altra: "18.57. Thyssen:
operai morti in rogo agirono correttamente. 18.59. Incidente Saras:
avevano 26, 27 e 52 anni". "Hanno tentato di salvarsi a vicenda". Nei
telegiornali da Sarroch si è sentita poi anche una voce che diceva: "Non
dovevano essere lì in quella condizione: è stata una loro iniziativa".
Un tribunale, fra qualche anno, stabilirà invece che i tre morti di
Sarroch hanno agito correttamente: e forse la notiziola scorrerà a due
minuti di distanza da quella di una nuova strage sul lavoro.
"Correttamente": basterà questo avverbio misurato per dire di tre uomini
che sacrificano la vita per sbarcare i 900 euro di lunario e per
soccorrersi a vicenda, o bisognerà dire "eroicamente"? Bisognerà dire
che abnegazione ed eroica solidarietà sono l'altra faccia di un lavoro
stentato e risicato come quello degli appalti, eppure tenuto stretto da
chi deve conservarlo come un privilegio in una crisi devastante?
Il privilegio di morire soffocati dal gas, in una stiva di nave, in una
cisterna di vino, in un serbatoio non bonificato. C'è una fabbrica
gigantesca, gli impianti sono fermi per la manutenzione, sicché le
misure di sicurezza devono essere le più attente e rigorose: e tre
operai, cui forse non si è assicurata la formazione necessaria, e
addirittura in assenza del "permesso di lavoro", senza il quale nessuno
dovrebbe anche solo affacciarsi sull'orlo di quei veleni, ci perdono la
vita, e un quarto riesce a scampare per raccontarlo. Il responsabile
sindacale della sicurezza, William Schirru, dice frasi secche. Dice:
"Non si può fare sicurezza col lavoro precario in un posto in cui un
errore ti costa la vita, e può provocare un disastro". Dice: "Non si può
morire così alla Saras, nel 2009: e invece sono morti così". E' una
storia semplice. Sempre la stessa storia.
Si sa che cosa siano le ditte esterne nei grandi impianti - e quello di
Sarroch è il più grande d'Europa nel suo genere: costi tagliati di un
terzo, turni sfibranti "per stare nei tempi" previsti da gare al
ribasso, e "sicurezza ciao". Lo dice un sindacalista nei sette minuti di
filmato di Massimiliano Mazzotta messo in rete ieri a ridosso della
tragedia, si intitola "Oil", la didascalia spiega che la Saras ne ha
chiesto il sequestro. Ci sono, nel filmato, testimonianze che colpiscono
per la loro asciutta efficacia: operai, un pastore, un pescatore. Così
come colpivano, nei telegiornali di ieri sera, le facce e le frasi dei
compagni di lavoro dei morti, per la commozione la dignità e la
proprietà di pensieri e parole: come ogni volta che la sciagura strappa
il sipario che tiene distante dalla vita finta la vita vera. Quella che
si prende a nolo, per due mesi, o per sei, a buon prezzo: ma non si può
comprare.
Armi illegali e armi legali. Le prime si combattono, le seconde
si fatturano. Il risultato: 140mila morti all'anno nella sola America
latina
Far entrare armi illegalmente in America Latina? Un gioco da ragazzi.
Almeno a quanto rivelano i due processi ai più potenti trafficanti
d'armamenti del mondo: il russo Viktor Bout, il mercante di morte,
catturato in Thailandia e ora in attesa di estradizione in Usa, e il
siriano Monser al Kassar, condannato a trent'anni a New York. La porta
privilegiata per il continente:
il Nicaragua. Acquirenti particolari: le Forze armate rivoluzionarie
della Colombia, ma non solo.
Nicaragua
e dintorni. Secondo la Dea, Agenzia antidorgra statunitense,
sia Bout che Al Kassar stavano tentando di vendere dei lanciamissili
portatili terra-aria russi Sam alle Farc. La via individuata per
riuscirci: Romania o Bulgaria, quindi il paese centroamericano, da dove
sarebbero decollati mezzi aerei che avrebbero paracadutato le armi
direttamente nella selva colombiana, in braccio alla guerriglia. "Certo
non ci sono prove che il governo di Daniel Ortega sia complice, ma senza
dubbio il paese ha enormi lacune illegali che facilitano il traffico
illegale", ha dichiarato allo spagnolo El Pais Roberto Orozco, esperto
nicaraguense di Studi strategici e politiche pubbliche. "Non
dimentichiamo, comunque, che Ortega ha dato riparo ai narcoterroristi
delle Farc", ha quindi replicato il direttore della Fondazione
filo-uribista Sicurezza e Democrazia di Bogotà.
Un attacco al Nicaragua in piena regola, rafforzato dalle fonti della
Difesa Usa: "I porti nicaraguensi sono dei colabrodi per le armi",
specialmente, secondo Orozco, il porto di Corinto, "l'unico che ha acque
profonde e che è controllato da Esercito e polizia, che fanno finta di
niente. Non ci sono statistiche affidabili sulla quantità di
imbarcazioni che attraccano lì, ma sono sufficienti due o tre caricati
bene per rifornire il mercato di migliaia di armi".
Armi-droga,
connubio perfetto. Sono più di 80 milioni le armi illegali in
America Latina. Lo stabilisce il Centro per l'informazione della Difesa
di Washington. Chiunque può riuscire a comprare una pistola o un fucile.
E per chi si impegna un po' di più, ecco che trova facilmente un bazzuca
o un lanciamissili. E, valutando il tasso di omicidi della regione i
conti son presto fatti: la Banca mondiale dichiara che sono 140mila
all'anno i morti ammazzati, più del doppio della media mondiale. E se si
guardano alcuni paesi i dati balzano alle stelle: la Colombia, a causa
del conflitto interno, ha una media di 65 morti da arma da fuoco ogni
centomila abitanti, seguita da 50 in Guatemala, 45 nel Salvador, 35 in
Venezuela e 28 in Brasile. E va da sé che l'acquisto di armi illegali
vada a braccetto con il narcotraffico.
I centri di smistamento, una volta che le armi sono arrivati perlopiù,
appunto, dal Nicaragua, ma anche dal Guatemala, sono la Tripla frontiera
tra Brasile, Argentina e Paraguay; il golfo colombiano di Urabà, al
confine con Panamà; e il confine in piena regione amazzonica fra Perù,
Colombia e Brasile. E, a quanto pare, nella maggior parte dei traffici
illegali ci sono invisghiati poliziotti o militari, che ci ricavano
lauti guadagni.
Ma molto spesso c'è uno scambio alla pari droga-armi. Una sorta di
baratto, gestita dalla mafia internazionale: cocaina dalla Colombia, dal
Perù e dalla Bolivia verso l'Europa, attraverso il Venezuela, l'Ecuador
e il Brasile, e in cambio arrivano armi dal medesimo canale in senso
contrario.
Un tema, quello del traffico di armi, legale e illegale, che preoccupa
molto le amministrazioni europee, ma anche statunitensi. E' del 20
maggio, infatti, la notizia che alla Camera dei rappresentanti Usa è
stata approvata una proposta di legge che, se promulgata, imporrà multe
milionarie e fino a dieci anni di prigione per il delitto di traffico di
armi verso il Messico. Perché, per quanto riguardano gli armamenti da e
per gli Usa la porta messicana è logisticamente la preferita, sia
clandestinamente che alla luce del sole. E infatti la nuova legge
prevede non solo un controllo attento delle armi legali ma, anche, la
nascita di una Forza speciale per prevenire il traffico di armi illegali
nell'intero continente americano, che verrà guidata dai dipertimenti di
Stato, della Sicurezza interna e della Giustizia.
Da
e per il Messico. A scoperchiare il vaso di pandora e a far sì
che il Parlamento Usa sia corso ai ripari, fu, circa un mese fa,
l'ambasciatore messicano negli Stati Uniti, Arturo Sarukhán, il quale
denunciò che il 90 percento delle armi utilizzate dai cartelli della
droga messicani provengono dagli Usa. Una diretta conseguenza del fatto
che la legge che regolava la vendita di armi di assalto e
semiautomatiche è decaduta nel 2004, per la pressione, guarda caso, del
Partito Repubblicano e di organizzazioni come l'Associazione nazioanel
del Rifle. E se si pensa che, in Messico, soltanto tra il 2008 e il
2009, sono morti ammazzati per la violenza legata al narcotraffico
almeno settemila persone, tutto è più chiaro. Come è chiara la caotica
rivalità tra mercato legale e mercato illegale delle armi. Sì perché, a
prima vista, questa battaglia, l'ennesima, contro il traffico di armi
illegali potrebbe anche sembrare una buona notizia per chi sogna un
mondo senza guerre, ma se si guarda un po' più attentamente
la
speranza inizia a sfumare. Perché, va bene il
no all'illegalità, ma restano
le armi vendute regolarmente, e sono tante. Questo mercato è stato e
resta fra i più redditizi dell'economia globale. Quindi qualcosa resta
stonato e il dubbio rimane: tanta veemenza nel combattere l'illegalità
in questo campo non sarà dettata dal fatto che il traffico clandestino
di armi fa troppa concorrenza al
mercato di armi con tanto di fattura?
Stella Spinelli
LA SICUREZZA E’ DI DESTRA O DI SINISTRA?
di Agostino Spataro
Di questi tempi, si fa un
gran parlare di riforma della “sicurezza” anche se non si capisce quale e a che
cosa dovrà servire tutta questa sbandierata sicurezza.
In realtà, più che una
riforma sembra un’invocazione generica, demagogica, nel bel mezzo di una
campagna elettorale.
Tuttavia, sarebbe da stolti
non vedere che per quanto populista sia l’approccio i suoi promotori fanno leva
su problemi reali.
Il bisogno di sicurezza,
infatti, è venuto crescendo nella società, soprattutto nei settori meno abbienti
e perciò meno protetti. Talvolta questo bisogno è gonfiato ad arte per mezzo di
campagne mediatiche mirate ed allarmistiche, ma si basa sempre su un nucleo di
verità.
Perciò è utile rifletterci
sopra, tentando di rispondere ad alcuni interrogativi che frullano, insoluti,
nella mente un po’ frastornata della gente.
Sicurezza o ordine
pubblico democratico?
Già il termine stesso di
“sicurezza” suscita qualche perplessità, specie se non è accompagnata da
un’aggettivazione che la definisca nel suo valore politico e in sintonia col
dettato costituzionale e col diritto internazionale.
Solitamente, si usa tale
termine in riferimento ad un edificio, ad un’infrastruttura, ad un lavoratore,
all’integrità territoriale di un Paese, ecc. Insomma, il concetto di sicurezza
più s’addice a qualcosa di specifico meno ad un sistema complesso e in
evoluzione di relazioni umane, sociali, ambientali.
A scanso di equivoci, meglio
sarebbe dire “ordine pubblico democratico” che sembra una dizione più idonea
per definire il sistema e più consona con lo spirito e con la lettera della
Costituzione repubblicana e antifascista.
Per essere veramente
democratico quest’ordine deve essere concepito, organizzato e partecipato come
risultante di uno sforzo coordinato e congiunto di tutte le forze sociali e
politiche che affidano allo Stato la responsabilità di farlo funzionare, secondo
giustizia, efficienza ed uguaglianza.
Ovviamente, i cittadini
possono / debbono collaborare con lo Stato in questa delicata opera di
salvaguardia del bene comune.
Possono farlo, senza bisogno
di ronde e di compagnie di ventura che creano confusione sul terreno operativo e
possono debordare in una gestione partigiana, arbitraria della sicurezza.
Parliamoci chiaro, le
milizie, i volontari con le divise o con le camice nere, rosse, verdi, ecc sono
sempre stati al servizio di un progetto politico o di uno Stato autoritari.
In Italia, per altro, questa
esperienza è stata amaramente vissuta con la Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale fortissimamente voluta dal fascismo il quale, con la scusa di
combattere la delinquenza, se ne servì per soffocare la democrazia politica e la
libertà dei cittadini.
Se una riforma c’è da fare è
la riorganizzazione delle forze dell’ordine che devono essere strutturate e
dotate dei mezzi necessari per adempiere al meglio ai compiti istituzionali,
senza essere distolte per
incombenze di tipo amministrativo o, peggio, per garantire una scorta, sovente
solo uno status-symbol, ad una pletora di esponenti politici e di governo.
La riforma governativa
corrisponde al bisogno reale di sicurezza?
A parte talune norme
antimafia (non disprezzabili), il provvedimento Lega - Berlusconi, oltre che
discutibile nel merito, appare inadeguato al bisogno poiché offre una risposta
parziale e pasticciata ad un problema complesso e vasto qual è quello della
“sicurezza globale” che, certo, non può essere ridotta all’immigrazione
clandestina.
Se per sicurezza deve
intendersi, in primo luogo, la tutela della vita e della salute umane, questo
provvedimento trascura la gran parte dei fattori d’insicurezza che ogni anno, in
Italia, provocano diverse migliaia di vittime e feriti. Più di una guerra
mediorientale.
Penso all’elevato numero di
vittime per incidenti stradali o sul lavoro, ai casi di malasanità, alle
aggressioni della microcriminalità, alle violenze di quella organizzata, al
bullismo, alla pedofilia, alla sfruttamento della prostituzione, al mercato nero
del lavoro, al contrabbando, alle sempre più frequenti esplosioni di follia, di
gelosia, ecc.
Una sequenza impressionante
di eventi tragici che chiamano in causa l’organizzazione della società e le
responsabilità dello Stato e dei vari organismi preposti alla prevenzione dei
reati e al controllo del territorio.
Garantismo
o permissivismo?
In realtà, la tanto
sbandierata “sicurezza” leghista e governativa, concentrandosi ossessivamente
sull’immigrazione clandestina, non interviene sui diversi fronti
dell’insicurezza diffusa, soprattutto nei grandi centri urbani e nelle periferie
dove si registrano i più gravi allarmi sociali.
Rispetto a tali fenomeni c’è
un groviglio di cause che vanno chiarite e rimosse, richiamando la
responsabilità della classe dirigente che sembra avere abbandonato la società
alla deriva, in balia di un permissivismo eccessivo contrabbandato per
garantismo.
Tale “equivoco” ha creato uno
squilibrio fra la giusta esigenza del recupero dei soggetti deviati e la tutela
dei diritti dei cittadini vittime delle varie devianze.
Insomma, si è capovolto il
senso vero dello Stato democratico che, in primo luogo, deve tutelare la
sicurezza, i diritti dei cittadini onesti e dopo, se compatibili con tale
priorità, anche quelli di chi, in vario modo, vi attenta.
Questo a me pare un punto
chiaro da riaffermare anche da parte di una sinistra che, se vuole aspirare ad
un ruolo di governo, non può regalare al centrodestra il monopolio della
sicurezza, per altro esercitato in chiave propagandistica e populista.
Ma
la sicurezza è di destra o di sinistra?
Penso che dovrebbe essere un
valore fondante della convivenza civile, condiviso da tutte le forze
democratiche. Tuttavia, se proprio le si vuol dare una connotazione politica
credo che tutelare la sicurezza dei cittadini sia più interesse della sinistra e
delle forze progressiste e meno della destra.
Se non altro per il fatto che
la domanda di sicurezza proviene, prevalentemente, dai ceti medi e meno abbienti
i quali si rivolgono allo Stato perché, a differenza delle classi agiate, non
dispongono di mezzi propri per tutelarsi.
Ecco perché dovrebbero essere
le forze di sinistra, progressiste a farsi carico del problema, con politiche
basate sulla prevenzione e sul recupero, ma anche, se è necessario, sulla giusta
repressione dei reati, come vuole la legge. Lasciare tale compito al
centro-destra è un grave errore politico poiché - come si vede- non risolve il
problema della sicurezza vera e ne fa solo una bandiera da agitare per fini
elettorali. Senza dimenticare che, storicamente, la destra ha sempre
strumentalizzato il bisogno di sicurezza per imporre un ordine autoritario,
talvolta illiberale.
26 maggio
Il tesoro della Casta
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli
Leciti ma segreti: la nuova legge permette di
tenere nascosto il 27 per cento dei contributi elargiti dai privati. Così 15
milioni l'anno restano coperti
Trasparenza addio, sulle sovvenzioni di privati e
aziende ai partiti cala di nuovo l'ombra. Ai tempi di Tangentopoli il reato di
illecito finanziamento travolse la prima Repubblica? Bene, adesso il
finanziamento è diventato lecito ma invisibile, praticamente occulto: sotto i 50
mila euro resta nascosto a norma di legge. È l'arma segreta di un esercito di
uomini con la ventiquattr'ore che cinge d'assedio i palazzi del potere: si
chiamano lobbisti, e bussano alle porte dei politici, ungendo ingranaggi dove
più gli conviene. Quanto pesi veramente la loro opera di "seduzione" sulle
decisioni del Parlamento è cosa ardua da capire.
Le liste tenute dalle Camere non sono soltanto difficili da consultare, ma
nascondono la reale entità del fenomeno. Spulciando i bilanci 2007 delle
formazioni politiche rappresentate in Parlamento, infatti, "L'espresso" ha
individuato una "zona grigia", formata dai fondi dei quali i tesorieri di
partito non sono tenuti a render nota la provenienza. Qui si scopre che ben il
27 per cento dei contributi privati ai principali partiti italiani è perlopiù di
origine ignota. Un limbo da 15 milioni di euro, insomma. Appena due, invece, i
milioni di euro in finanziamenti "trasparenti" nello stesso anno. Se poi pensi
che nel 2008 (che è stata annata di campagne elettorali) le cifre "alla luce del
sole" sono quadruplicate, vien da chiedersi quanto sia cresciuta in proporzione
la zona d'ombra.
Come funzioni il lobbismo sommerso ce lo spiega Franco Bonato, ex tesoriere di
Rifondazione: "L'intento di celare la provenienza dei fondi diviene evidente
quando si constata la facilità con cui il limite fissato per legge può essere
aggirato. Se io, imprenditore, decido di dare 50 mila euro a un partito, ma
preferisco che il mio contributo resti segreto, mi basterà versarne 49.999. Se
ho intenzione di versarne più di 50 mila, e voglio sempre restare anonimo, mi
basterà ripartire la somma fra i componenti della mia famiglia. Così io ne
verserò una quota, mia moglie un'altra, mio figlio un'altra ancora e così via.
Sono stratagemmi di uso comune per chi non vuole farsi notare", conclude.
Tutto grazie allo scorso governo Berlusconi. Agli inizi del 2006, poche righe
inserite di soppiatto nel famoso Milleproroghe, a mo' di sandwich fra una
disposizione sull'8 per mille e un contributo a "Genova capitale europea della
cultura 2004", sono andate a innalzare la soglia di trasparenza dei fondi
privati, al di sotto della quale è impossibile sapere chi-dà-quanto-a-chi. La
cifra è schizzata dai circa 6.600 euro fissati nel lontano 1981 ai 50 mila di
oggi. Venti volte tanto. Pure fra i banchi dell'opposizione se n'erano accorti
in pochi: fra questi Pierluigi Castagnetti, allora deputato della Margherita,
ora Pd. "Permettere che si elargiscano anonimamente cento milioni di vecchie
lire", ribadisce oggi, "vuol dire che qui non si parla più di "finanziamento",
ma di semplice corruzione politica ". Per i partiti come per i singoli
parlamentari. Lo stesso accadeva nel medesimo periodo per il finanziamento
privato a deputati e senatori, con una modifica voluta dai parlamentari della
Casa delle libertà, e infilata con altrettanta destrezza in un testo di legge
sul voto domiciliare. In questo caso la soglia è salita dai 6.500 euro a 20 mila
e con una differenza non da poco: mentre la zona grigia dei partiti è
calcolabile a partire dai loro bilanci, quella dei parlamentari no.
Il grigio, da noi, non è fatto solo di soldi che vanno da privati e lobbisti a
partiti o singoli parlamentari. Fioccano i versamenti che per varie ragioni
viaggiano da partito a partito (vedi box) o da politico a partito. Le liste
della Camera sono piene di rappresentanti che finanziano la propria formazione.
Come gli oltre 4 milioni di euro arrivati ai Ds dai propri deputati e senatori
nel 2007, i circa 713 mila euro dei leghisti o i 281 mila euro dell'Idv, ma
succede anche con An e Margherita, ed era tradizione consolidata fra quelli di
Rifondazione. Se l'autofinanziamento attraverso i propri politici può avere un
senso, però, qualche perplessità la suscitano i casi in cui è il gruppo
parlamentare a rimpinguare le casse del suo partito coi finanziamenti pubblici
che riceve da Camera e Senato. Soldi che in teoria servirebbero esclusivamente
alle spese di gestione degli uffici, ma che si traducono in un ulteriore
finanziamento pubblico indiretto. Vedi i 97 mila euro del gruppo alla Camera di
An, ma vedi anche il mezzo milione di euro che nel 2007 i gruppi leghisti hanno
girato a via Bellerio. Se a tutto ciò aggiungi il fatto che, grazie a un vecchio
cavillo tornato "utile" ai tempi di Internet, le liste dei finanziamenti privati
non possono essere pubblicate on line, è evidente che in Italia lobbisti e
lobbizzati godono di una comoda cortina di fumo. Che fa diventare sempre più
opachi i rapporti fra il potere economico e quello politico.
Prendiamo Forza Italia. Il confronto fra i contributi sopra i 50 mila euro
ricevuti negli ultimi due anni fa riflettere: nel 2007, quando era
all'opposizione, è stata corteggiata dai lobbisti con 310 mila euro. Che però un
anno dopo, conquistato palazzo Chigi, sono lievitati a quasi 2 milioni e mezzo.
Tanti soldi, tanti favori da ricambiare? Una delle più folte pattuglie di
sostenitori del Cavaliere sono i costruttori. A scendere in campo addirittura
l'Associazione nazionale costruttori edili, con 50 mila euro che certo non
staranno rendendo la vita più difficile al Piano Casa di Berlusconi. Insieme
all'Ance i grandi costruttori privati, quelli che sugli appalti pubblici fanno
la loro fortuna, a cominciare dall'Astaldi, passando per la Pizzarotti di Parma,
per finire con il gruppo Gavio.
Proprio Marcellino Gavio è il maggior finanziatore forzista, con 650 mila euro
in 13 assegni da 50 mila l'uno. Gavio è azionista dell'Impregilo, società
capofila per la costruzione del ponte sullo Stretto: è notizia di qualche
settimana fa che, dopo lo stop imposto da Prodi, la grande opera ripartirà
presto. Ma l'imprenditore alessandrino è anche uno dei signori delle autostrade
italiane, visto che gestisce chilometri e chilometri di asfalto, soprattutto al
Nord (una su tutte la Torino-Milano). Non gli dispiacerà se dal primo maggio il
ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ha aumentato i pedaggi. Non solo
cemento. Il partito berlusconiano si nutre anche di acciaio, coi 300 mila euro
dell'imprenditore cremonese Giovanni Arvedi. E un occhio di riguardo va alla
salute: 200 mila vengono dalle cliniche, La Nuova Sanità srl di Bari, e
Multimedica Holding spa di Milano. Che per un partito andare al potere sia come
un battesimo, con tanto di regali degli invitati, lo ha capito bene Raffaele
Lombardo, padre-padrone dell'Mpa, che da quando è diventato governatore della
Sicilia e alleato di governo della destra ha fatto l'en plein. Nel 2007 nessun
contributo di peso, un anno dopo 665 mila euro. Primo fan del medico siciliano è
Maurizio Zamparini, presidente del Palermo calcio, con due versamenti da 100
mila euro l'uno. E si capisce: i suoi interessi nell'isola sono molteplici,
visto che nel capoluogo sta per costruire un grosso centro commerciale, e in più
vorrebbe gestire il progetto di un nuovo stadio.
Va di magra, invece, a chi esce dalla stanza dei bottoni. È successo a Lamberto
Dini, che quando risultava decisivo per le sorti del governo Prodi aveva
ricevuto dall'imprenditore Davide Cincotti 295 mila euro. E ora che è intruppato
nel Pdl gli tocca accontentarsi delle briciole (appena 100 mila). Idem per i Ds
senesi. Quando il centrosinistra guidava il Paese, Giuseppe Mussari (capo del
Monte Paschi) donava loro 162.500 euro, cifra che poi nel 2008 si è ridotta a
meno della metà.
A volte lobbista e politico sono anime gemelle, altre una strana coppia. Come l'antiberlusconiano
ante litteram, Antonio Di Pietro, che ha intascato 50 mila euro da Sei Tv, una
società televisiva milanese. Dalla visura camerale salta fuori che la
proprietaria è tale Tiziana Grilli, moglie di Raimondo Lagostena Bassi, reuccio
delle tv locali grazie al circuito Odeon. Lagostena però è uomo che fa affari
col Cavaliere (visto che mandava in onda la defunta Tv delle libertà della
Brambilla), ed è anche editore di Telepadania (non a caso ha foraggiato anche la
Lega con 60 mila euro). Allora con Di Pietro che c'azzecca?
Curioso pure il finanziamento di 60 mila euro alla campagna elettorale di Gianni
Alemanno da parte della Snai, società di scommesse. Anche se in fondo al sindaco
di Roma l'azzardo non dispiace, visto che da tempo preme per un casinò nella
capitale. Ancora, c'è lo strano caso dell'onorevole Sergio De Gregorio, che
invece di finanziare la propria televisione (Italiani nel mondo reti
televisive", società che gestisce una tv satellitare e web) riceve dalla stessa
quasi 75 mila euro.
Infine c'è il finanziamento al partito che diventa "lessico famigliare". Stiamo
parlando dell'Udc di Pier Ferdinando Casini, che lo scorso anno ha potuto
contare su 2.210.000 euro (seconda sola a Forza Italia), l'80 per cento dei
quali proviene da un'unica fonte: l'immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone.
Un bel po' di soldi, ma spezzettati in 18 tranche da 100 mila, perché così il
suocero ci ha anche risparmiato su. Esiste infatti una norma studiata ad hoc
perché i partiti calamitino soldi dai privati: chi dona fino a 103 mila euro può
scaricare dalle tasse il 19 per cento dell'importo, molto di più rispetto a
un'associazione qualsiasi.
Nigeria, il Delta è in
fiamme
Nuovi scontri tra forze di sicurezza e ribelli
nella regione petrolifera, almeno cento morti e migliaia di sfollati
Almeno
cento morti e migliaia, forse addirittura diecimila, sfollati. E' questo il
bilancio, stando alle testimonianze di operatori umanitari e civili,
dell'offensiva lanciata a metà maggio dalla Joint Task Force (Jtf) nigeriana,
composta di elementi di esercito, marina, aviazione e polizia, contro i
militanti del Movement for the Emancipation of the Niger Delta (Mend) nella zona
di Gbramatu, nello stato meridionale del Delta. Un'operazione a cui i ribelli
hanno risposto dichiarando una "guerra a tutto campo", le cui principali vittime
rischiano di essere i civili.
I più fortunati, quasi tutti donne e bambini, sono riusciti a raggiungere la
città di Warri e a chiedere aiuto. Ma la maggior parte dei civili provenienti
dai villaggi di Oporoza e Okerenkoko, colpiti dai raid aerei e terresti delle
forze di sicurezza nigeriane, sarebbe ancora rifugiata nelle foreste di
mangrovie che coprono l'area, senza alcuna possibilità di ricevere assistenza da
parte della Croce Rossa o delle altre organizzazioni umanitarie. La Jtf ha
giustificato il lancio dell'offensiva (a séguito della quale 12 soldati
risultano dispersi) con a una presunta imboscata a una pattuglia lanciata dai
ribelli, che però smentiscono la versione dei fatti, parlando di un attacco
ingiustificato contro i civili.
In un comunicato inviato a PeaceReporter, il Joint Revolutionary Council (Jcr),
che comprende alcuni tra i maggiori gruppi ribelli operanti nella zona, promette
all'esercito una campagna "occhio per occhio", in cui gli attacchi ai civili
saranno "vendicati" e in cui qualsiasi membro delle forze di sicurezza colto a
non rispettare le regole di ingaggio verso i civili verrà "giustiziato
sommariamente". Ma secondo gli operatori umanitari, il rischio maggiore è che,
come successo in passato, siano i civili a dover pagare le conseguenze di questa
nuova ondata di violenze nel Delta. Le testimonianze parlano di migliaia di
persone costrette a fuggire dal teatro delle violenze, con almeno cento persone
morte nell'operazione ma dalla zona, impossibile da raggiungere al momento a
causa degli scontri, non arrivano notizie provenienti da fonti indipendenti.
Come sembrano lontani i tempi in cui il presidente nigeriano Amaru Yar'Adua,
appena dopo la sua elezione, apriva ai ribelli del Delta, facendo sperare in un
processo di pace che facesse uscire la regione dalla guerra civile scoppiata
alla fine degli anni Novanta, e riesplosa a varie ondate. I ribelli, che
chiedono maggiori risorse provenienti dallo sfruttamento petrolifero e più
diritti per le popolazioni locali, hanno impegnato severamente le forze di
sicurezza nigeriane in questi anni, costringendo il Paese a tagliare del 20
percento circa la produzione petrolifera. Dal canto suo, il governo accusa i
ribelli di essere semplici organizzazioni criminali, dedite al contrabbando di
oro nero e interessate solamente a stabilire dei propri "feudi" nella regione. A
più di dieci anni dall'esplosione delle prime violenze, la pace nel Delta rimane
un'utopia.
Matteo Fagotto
Una storia cecena
Majnat Abdulaeva, giornalista rifugiata in
Germania, racconta la sua vita e la sua guerra
Majnat Abdulaeva è una rifugiata politica
cecena che oggi vive in Germania. Per anni è stata corrispondente di guerra
dalla sua città, Grozny, per la Novaya Gazeta - il giornale di Anna
Politkosvaskaya - e per Radio Liberty. PeaceReporter l'ha incontrata a Varese,
nel corso di un incontro sul conflitto ceceno organizzato dall'associazione 'Est
- Volontari in Movimento'.
Ecco la sua storia e la sua testimonianza.
E.P.
Alla fine degli anni '80, con la Perestrojka,
anche nella repubblica cecena si respirava un'entusiasmante aria di cambiamento.
Io, che all'epoca mi ero appena iscritta all'università, ero affascinata,
incantata da tutto quello che si leggeva sui giornali: decenni di storia stavano
improvvisamente tornando alla luce. La storia stessa si stava facendo sotto i
nostri occhi. C'era un grande fermento culturale, c'era finalmente la
possibilità di leggere e di scrivere la verità. Così sono stata attirata nel
mondo del giornalismo. Con il crollo dell'Unione Sovietica tutti credemmo che
l'epoca del Kgb, della censura e della paura fossero finite per sempre. Ma non
era così.
Durante la seconda guerra mondiale, Stalin aveva ordinato la deportazione del
mio popolo, accusandolo falsamente di collaborazionismo con i tedeschi, e aveva
cancellato la nostra identità culturale facendo perfino saltare in aria le torri
medievali, simbolo della nostra storia.
Cinquant'anni dopo, Eltsin dichiara guerra al mio popolo, chiamandoci
‘criminali' e ‘banditi', bombarda a tappeto la nostra capitale, trucidando
migliaia di civili e radendo al suolo musei, biblioteche, teatri, università,
cancellando nuovamente la nostra cultura. La Russia post-comunista, aveva dato
inizio all'ultima guerra coloniale d'europea, per punire un piccolo popolo che
aveva osato ribellarsi alla sua logica imperiale.
Iniziai a lavorare come corrispondente per la Novaya Gazeta e per Radio Liberty:
i due mezzi di comunicazione più odiati dai russi perché erano gli unici che
raccontavano quello che stava accadendo sfidando la censura e la propaganda
militare russa. Io, in quanto cecena, avevo la possibilità si mimetizzarmi tra
la gente, di andare sui luoghi dei bombardamenti, dei rastrellamenti, delle
esecuzioni sommarie, e quindi di vedere quello che stava realmente accadendo.
Inviavo i miei reportage e di notte, a casa mia, stavo sveglia, vestita,
ascoltando i rumori dei blindati per le strade, aspettando il momento in cui
sarebbero arrivati a prendermi. La Cecenia è piccola: tutti sapevano che ero io
a far uscire le notizie. Avevo paura, non solo per me ma anche per la mia
famiglia, che era diventata ostaggio del mio lavoro.
Ho continuato a lavorare come corrispondente da Grozny anche dopo la fine della
prima guerra, e poi con l'inizio della seconda nel 1999. Questa volta era Putin
a volerci cancellare, a bombardare a tappeto le nostre città e i nostri
villaggi, uccidendo altre migliaia di civili innocenti.
Dopo il settembre 2001 i ceceni, che prima erano ‘banditi', divennero ‘terroristi'.
Casa mia divenne un specie di albergo per i reporter stranieri che venivano a
coprire la guerra. Ho ricominciato a passare le notti sveglia, aspettando.
Finché non sono arrivati. Erano ceceni, parlavano russo, erano armati ma senza
divisa. Mi hanno detto che dovevo scegliere: o la smettevo di scrivere o me ne
andavo. Per mesi hanno continuato a seguirmi, a minacciare me e la mia famiglia.
Nel 2004, grazie a dei giornalisti di Reporter Senza Frontiere che ospitavo in
casa mia, riuscii a lasciare la Cecenia e mi rifugiai in Germania con l'aiuto
del Penn Club. A Grozny rimase la mia famiglia, che vive ancora lì.
Grazie al telefono, ma soprattutto tramite Internet, riesco a tenermi
costantemente in contatto con la Cecenia e quindi posso continuare a raccontare
quello che succede, scrivendo sui giornali tedeschi ed europei. La guerra in
Cecenia non è finita come vuol far credere la propaganda russa: la guerra
continua, anche se in forme diverse rispetto al passato. I guerriglieri ceceni
combattono ancora regolarmente sulle montagne, contro i russi e contro i ceceni
collaborazionisti. A Grozny e nelle altre città la guerra non c'è, ma si vive
sotto dittatura, quella del regime filo-russo di Ramzan Kadyrov. La gente, pur
entusiasta per la ricostruzione in corso, è ancora traumatizzata dalle violenze
della guerra e continua a vivere nella paura. Stanno ricostruendo le nostre
case, ma il nostro popolo è distrutto: oltre il 70 percento della popolazione
non ha lavoro, dilagano le malattie conseguenze della guerra, in particolare il
cancro al seno, che in Cecenia è più diffuso che in qualsiasi altra regione
russa. Il nostro ambiente è distrutto dalla guerra e dall'inquinamento. Non
esiste libertà politica, né libertà di stampa. I tanti giornali ceceni nati
negli ultimi tempi parlano di tutto tranne che di quello che succede in Cecenia:
riportano notizie sul divorzio di Berlusconi, ma non sulla guerra che continua
sulle montagne.
La guerra cecena di oggi è cambiata anche per un altro aspetto: il ruolo della
religione islamica nella guerriglia. Noi ceceni siamo sempre stati musulmani, ma
il nostro islam è quello della tradizione mistica sufi, quindi spirituale,
aperto e tollerante. Nulla a che vedere con l'islam integralista di stampo
mediorientale. Guardate me: io sono musulmana. All'inizio della guerra
l'indipendentismo ceceno non era a carattere islamico, anzi: i nostri
combattenti credevano nei valori occidentali: la libertà, la democrazia. Ma poi
si sono sentiti traditi dall'Occidente e quindi si sono progressivamente
radicalizzati, abbracciando l'islam jihadista. Vi garantisco che starsene nei
rifugi, sotto i bombardamenti aerei russi, mentre le radio dice che Putin viene
accolto da tutti i governanti occidentali come un campione di democrazia, genera
una grande disillusione.
Frottole e calunnie
di GIUSEPPE D'AVANZO
Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile
della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per
riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa
ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura
da scrivere e riscrivere secondo l'urgenza del momento. Il premier deve fare
questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e
anche di se stesso).
Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro
Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills
testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare
la credibilità, la reputazione, l'imparzialità e umiliandola, senza un
contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con
la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e
mai discusse dai media) l'illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la
serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre
giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come "un nemico politico", come "un
avversario in tutti i campi", come "un'estremista". I suoi avvocati sono giunti
a rimproverare a Nicoletta Gandus "attacchi
e insulti contro il premier". Quali?
L'aver firmato un appello di "condanna della politica di repressione violenta e
di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della
popolazione palestinese" senza dire che la Gandus è ebrea e quell'appello era
firmato da ebrei e "in nome del popolo ebreo". Il capo del governo sostiene che
quel giudice "ha dimostrato avversione nei suoi confronti". La prova? La Gandus
ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con
centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica - a tutta la
politica - per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto "il sistema
giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi",
come poi è stato. Da quell'appello vengono maliziosamente estratte, a proposito
della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"),
due sole parole, "obbrobrio devastante". Le due parole sono gettate sul viso
della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente
della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli.
Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto
Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica
per dimostrare la faziosità di quel giudice. "Ho un testimone che ha ascoltato
una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro
magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str...
di Berlusconi gli facciamo un c... così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio
vedere fare il presidente del Consiglio"" (la Stampa, 18.06.08). Dov'è finito
questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice
la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più
notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del
governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro
la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c'è mai stata.
Berlusconi ha inventato l'una e l'altra di sana pianta calunniando il giudice
milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso
sul serio.
La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta
imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere.
Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno
screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si
fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è
l'unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve
essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la
necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle
persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il
premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto
David Mills nonostante l'avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo
incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci
che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso
il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può
credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?
Schermo sedato
di Norma Rangeri
Silvio Berlusconi dà il tocco finale al conflitto
di interessi scegliendo il direttore del Tg1 nella persona del suo più
entusiasta scriba. Come in passato, all'inizio della sua avventura politica, il
Cavaliere volle promuovere Giuliano Ferrara, ghost writer della discesa in
campo, a ministro della Repubblica, ora chiama alla redazione del mattinale Rai
il giornalista che in questi anni lo ha seguito con passione, regalando ai
lettori de La Stampa il distillato del berlusconismo. E' il naturale, scontato
epilogo di una lenta, progressiva degenerazione di un potere mediatico che dopo
aver misurato, nell'avvicendamento delle legislature, la propria capacità di
persuasione e di seduzione, ora torna prendere pieno possesso della fonte
primaria della sua, vera, profonda radice: la televisione, il sistema
dell'informazione, la leva dell'intrattenimento.
Il bisogno di una comunicazione sedata è fortissimo, inversamente proporzionale
alla difficoltà del capo del governo di controllare le proprie pulsioni, in
pubblico e in privato. La necessità e l'urgenza di mettere in sicurezza la
rappresentazione di un'Italia da rotocalco mentre gli indicatori economici
dicono che il peggio del disastro sociale sta arrivando, toglie di mezzo anche
gli ultimi brandelli di una parvenza di rispetto del galateo istituzionale. Al
punto che le nomine per i posti chiave della Rai corrispondono ai nomi
pubblicati sui giornali dopo il conclave di palazzo Grazioli.
Il voto favorevole del presidente di garanzia, Paolo Garimberti, non deve
stupire. Del resto fu Claudio Petruccioli a passare per quelle stanze prima di
diventare, a sua volta, presidente di viale Mazzini. Berlusconi non è, come lo
descrive il suo braccio destro, Gianni Letta, «un uomo che vede prima e più
lontano degli altri», ma, questo sì, il politico che al tavolo delle opache
convergenze sa muoversi meglio degli altri. E Massimo D'Alema che oggi, anno
2009, ammette che «la democrazia è in pericolo», fa quasi tenerezza. Giocare
agli apprendisti stregoni con chi si definisce «la strega» produce questi
risultati.
Come dice uno che il potere lo conoscere da vicino, Marcello Dell'Utri, «le
notizie bisogna darle, ma c'è modo e modo di comunicarle». Ecco, la tv ha sempre
trovato la maniera di portare nelle case di milioni di italiani la magia del
verosimile. La squadra che da domani cucinerà la realtà per conto dei cittadini
può trovare nella galleria di viale Mazzini (da Rossella a Mimun, da Del Noce a
Saccà) una copiosa letteratura di riferimento. Saprà uguagliarne l'esempio e
portare a termine la delicata missione che il Cavaliere oggi gli affida, in un
momento di difficoltà per la sua immagine pubblica. In sinergia con il mondo
Mediaset, i dirigenti di questa nuova fase potranno dare notizie dettate dal
cuore: «Proprio nel giorno della motivazione della sentenza Mills, dove
Berlusconi fu assolto...», come ha detto ieri un giornalista di Studio Aperto.
Per bucare il grande telone del Berlusconi-show bisogna imparare dai fallimenti,
politici e culturali, di un ventennio. I giornalisti del servizio pubblico o si
acconciano a celebrare il funerale della categoria o scelgono una battaglia che
ormai concede solo la prima linea.
Industria italiana ancora in
picchiata a marzo
Ordini giù del 26%, fatturato in calo del 22%.
E anche l'auto perde colpi
La crisi non si è per niente arrestata e lo
dimostrano i pesanti dati diffusi ieri dall'Istat, relativi all'industria nel
mese di marzo. Il fatturato è diminuito dello 0,8% rispetto a febbraio, e del
22,6% rispetto a marzo 2008. Male anche gli ordinativi: il calo è del 2,7%
rispetto a febbraio scorso, e del 26% rispetto al marzo dell'anno scorso. In
particolare, gli ordini dall'estero sono scesi del 9,4% rispetto a febbraio
scorso, e del 33% rispetto al marzo di un anno fa.
Le diminuzioni più significative del fatturato si sono registrate nei settori
della fabbricazione di mezzi di trasporto (meno 36,4%), della metallurgia e
fabbricazione di prodotti in metallo (meno 35,2%), della fabbricazione di
apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche
(meno 30,2%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati
(meno 29,4%), aggiunge l'Istat. Per quanto riguarda gli ordinativi, le
variazioni negative più marcate le hanno segnate la metallurgia e fabbricazione
di prodotti in metallo (meno 36,4%) e la fabbricazione di mezzi di trasporto
(meno 30%).
Particolarmente negativo il settore delle auto: il fatturato è diminuito del
27,9% rispetto a marzo 2008, mentre gli ordinativi sono calati del 19%.
Lettura «positiva» da parte del Cerm: «I dati Istat, pur non privi di evidenti
criticità», permettono «una lettura con qualche sfumatura positiva». A marzo «la
caduta del fatturato e degli ordinativi dell'industria rallenta». «Da giugno
2008 non compariva un segno positivo nella variazione congiunturale del
fatturato estero» (a marzo +0,1%) e «dopo 5 mesi di variazioni congiunturali
comprese tra il -2,7 e il -4,6%, il fatturato interno si riduce 'solo' del
-1,3%». Anche per gli ordinativi interni, era da luglio 2008 che «mancava un
variazione congiunturale positiva» (a marzo +1%). Inoltre, il -0,8% su base
mensile del fatturato è «la caduta minore, in valore assoluto, da aprile 2008».
Per quanto riguarda i dati tendenziali, tuttavia, il Cerm evidenzia che «la
tendenza resta profondamente negativa, con variazioni stabilmente a doppia
cifra». «Il quadro resta difficile - concludono gli economisti - Tuttavia, la
fase acuta della crisi sembra alle spalle. I ritmi di recupero sono per adesso
molto lenti. Il 2009 e il 2010 saranno comunque anni difficili».
20 maggio
Dov'è la vergogna
di
EZIO MAURO
IMMERSO fino al collo nello scandalo Mills,
rispetto al quale le leggi ad personam lo hanno aiutato a fuggire la
condanna ma non il disonore, impegnato a lottizzare in fretta e furia la
Rai prima delle elezioni, ieri Silvio Berlusconi ha perso la testa
insultando "Repubblica". E' successo quando Gianluca Luzi, il nostro
notista politico, gli ha chiesto durante una conferenza stampa se e come
avrebbe risposto alle dieci domande che gli abbiamo rivolto sul caso del
"ciarpame politico" sollevato dalla moglie con la denuncia dei suoi
metodi di selezione delle candidate, i suoi comportamenti da "malato"
che "frequenta minorenni".
"Vergognatevi", ha intimato il Presidente del Consiglio. Per aver colto
le contraddizioni tra le sue versioni dei fatti e quelle degli altri
protagonisti della vicenda? Per avergli chiesto di chiarirle? Per aver
posto queste domande in pubblico? Per aver rotto il conformismo italiano
che è l'altra faccia del cesarismo? O per non aver censurato la denuncia
della moglie? Spiace per il premier ma le contraddizioni del potere e le
domande che ne nascono sono lo spazio proprio del giornalismo. Che cosa
intenda il Capo del governo quando dice che "se Repubblica cambiasse
atteggiamento potremmo trovare un accordo" non è chiaro ma è
impossibile.
Non cerchiamo "accordi", ma trasparenza. E in ogni caso, non cambieremo
atteggiamento anche perché l'imbarazzo di Berlusconi e la sua ira
spingono a cercarne le ragioni, come deve fare un giornale. Il premier
dovrà rassegnarsi. Non tutto in questo Paese è "arrangiabile",
risolvibile con qualche patto oscuro. Se è capace di togliere le sue
contraddizioni dal tavolo, lo faccia davanti ai cittadini. Altrimenti,
continueremo a dire che non può farlo, e a chiedergli perché.
Per il resto il Presidente del Consiglio ripete la sua invettiva
abituale: ora rivendica una dimensione privata, dopo che anche la sua
Prima Comunione viene spacciata dai suoi giornali come volantino
elettorale. E insiste sull'odio "politico" e l'invidia "personale", come
se non fosse possibile la critica dei cittadini che non hanno bisogno di
odiarlo e non si sognano nemmeno di invidiarlo, perché gli basta
giudicarlo.
"Gli italiani stanno con me, con me", ha urlato alla fine il premier.
Intendendo che il numero dei consensi oltre al pieno diritto di
governare gli conferisce anche l'immunità da critiche, osservazioni e
domande. Non è così in nessun paese democratico, signor Presidente,
s'informi, entrando finalmente in Occidente. Ma il fatto che lei lo
pensi, per tappare la bocca ai giornali, ci fa davvero vergognare un
po'.
19 maggio
Cinzia Gubbini
Al G8 di
Torino botte agli studenti che protestano
Controlli fin dall'alba, ma alla fine un bilancio tutto a danno delle
forze dell'ordine. Sarebbero infatti 19 gli agenti - 17 poliziotti e 2
carabinieri - rimasti feriti in seguito agli scontri di stamattina
davanti a Palazzo del Valentino a Torino, sede del "G8 university
summit". Titolo molto "international" per un incontro che mette insieme
i 41 rettori delle università italiane, più circa 200 rappresentanti
degli atenei di tutto il mondo. Una due giorni da cui dovrebbero uscire
"proposte concrete" da sottoporre ai grandi della terra che si
incontreranno a luglio all'Aquila. Ma il summit dei grandi capi
dell'università per il momento ha avuto solo il risultato di
rappresentare, anche simbolicamente, il distacco completo e lacerante
tra chi comanda e chi subisce. Stamattina la sede del summit era
blindata all'inverosimile: polizia, carabinieri e guardia di finanza
schierati non soltanto a difesa del palazzo, ma anche nelle vie
limitrofe.
Vie strette a anguste, quelle del quartiere San Salvario. Strade che
ricordano Genova e quel contro-G8 represso nel sangue che ha segnato la
storia e l'immaginario del movimento italiano e mondiale. Ma i ragazzi
dell'Onda di oggi sono per la gran parte ventenni, ragazzi che del 2001
hanno solo sentito parlare e neanche tanto. Il movimento che ha
infiammato l'università ha dato prova di essere, in questi mesi, molto
diverso dalla composizione dei movimenti di otto anni fa.
Nulla è cambiato, invece, dall'altra parte. Il corredo giottesco è fatto
sempre di summit asserragliati dentro sedi inaccessibili, forze di
polizia col compito di caricare appena se ne presenti l'occasione. E
così, come da giorni annunciavano i giornali locali, anche ieri si è
creata l'occasione di scontro che è subito stata rilanciata
mediaticamente come "guerriglia urbana".
La manifestazione degli studenti, arrivati anche dall'estero, in realtà
è stata partecipata e colorata fino all'arrivo al palazzo del Valentino.
I ragazzi dell'Onda hanno ripetuto lo slogan che contraddistingue la
loro generazione: "La vostra crisi non la paghiamo", contestando la
legittimità della Conferenza dei rettori e del G8. La tensione è salita
quando il corteo ha raggiunto il quartiere San Salvario, presidiato
dalle forze di polizia. Una parte del corteo, fornita di maschere
antilacrimogeno, caschi e protezioni ha cercato di creare una specie di
"servizio d'ordine": ma la manovra non ha funzionato. E la polizia ha
iniziato le cariche, lanciando un numero piuttosto consistente di
lacrimogeni. C'è chi ne ha contati una trentina. I manifestanti hanno
risposto lanciando pietre. Erano di facile reperibilità: a corso
Guglielmo Marconi ci sono lavori in corso, con mucchi di pietre a
disposizione di chi volesse servirsene.
Le cariche, piuttosto pesanti, hanno fatto scappare la maggior parte
degli universitari. Ma come già detto le vie limitrofe al castello erano
presidiate dalla polizia, e fuggire non è stato semplice. Due i fermati.
Dalle prime informazioni si tratta di ragazzi di Milano. Il resto del
corteo è tornato all'università, dove si è svolta un'assemblea che ha
comunque giudicato positiva la giornata, vista la numerosa
partecipazione alla manifestazione che ha dimostrato la vitalità del
movimento stduentesco. Si registrano dichiarazioni di solidarietà alle
forze dell'ordine, presidente della Camera Gianfranco Fini in testa.
Silenzio assordante in zona Pd.
di Francesco Piccioni FEDERMECCANICA Gennaio-marzo -15% Industria, il peggior trimestre della storia
Il trimestre più brutto dell'economia italiana nel dopoguerra -
gennaio-marzo 2009 - è addirittura drammatico per il settore
metalmeccanico, autentico pilastro dell'export nazionale. Nonostante la
crisi, infatti, complice anche il contemporaneo crollo delle
importazioni, il settore ha mantenuto un saldo positivo negli scambi con
l'estero, pari a 6,7 miliardi di euro. Nell'analisi congiunturale di
Federmeccanica, però, l'attività manifatturiera in genere cala di un
pesantissimo 15%, mentre quello metalmeccanico precipita del 30%
rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Un salto nel vuoto
realizzatosi soprattutto negli ultimi due trimestri - anche se la
recessione va ufficialmente datata a partire da un anno fa - quando si è
accumulato prima un -11,1 e poi, nel 2009, una contrazione del 13,4.
Roba da chiudere e cambiare mestiere, se fosse possibile.
Così ovviamente non è, ma le previsioni di breve termine degli
industriali non sono affatto rosee. La caduta, infatti, non accenna a
diminuire. Al massimo, come già detto da altri istituti, tende a
rallentare la velocità. Una «planata», insomma, non ancora un «toccare
il fondo per poi ripartire». Del resto, i due terzi delle imprese del
settore mettono in conto un portafoglio ordini in diminuzione (a parte
cantieri navali e aerei, che lavorano su commesse di lungo periodo) e
licenziamenti in crescita almeno per i prossimi sei mesi. Una caduta
così veloce, spiega Angelo Megaro, responsabile Centro studi di
Federmeccanica, non potrà comunque essere recuperata in tempi brevi,
nemmeno se «la ripresa» partisse oggi (invece che, per i più ottimisti,
dal 2010).
L'occupazione nelle gradi imprese (quelle con più di 500 addetti) è
scesa per ora soltanto dell'1,6%. Il segreto sta nell'esplosione della
cassa integrazione ordinaria, cresciuta del 1.014% a marzo e addirittura
del 1.400% ad aprile. Uno scenario apocalittico, se tradotto in posti di
lavoro: il dato di marzo equivale a 144.000 metalmeccanici di troppo.
Un prospettiva che pesa sia sul prossimo - e contrastato - rinnovo
contrattuale («quantomeno intempestivo», chiosano le imprese), su cui
grava la mannaia della «riforma del modello contrattuale» siglato a
gennaio senza l'accordo della Cgil; sia sulle scelte dei governi. Gli
imprenditori chiedono «politiche, almeno su scala europea, che
incentivino i consumi», con «regole nuove che favoriscano la scomparsa
di alcuni prodotti a favore di altri» (auto ecologiche al posto di
quelle inquinanti, è l'esempio obbligato). Ma sulle politiche salariali
non riescono proprio ad andare oltre constatazioni ovvie («il salario è
un reddito per il lavoratore, ma un costo per l'impresa») o desideri per
questa via irrealizzabili («più si è in grado di redistribuire, più si
sostiene la domanda»). E' la ricetta al tempo della crisi, in fondo. Le
imprese «siano messe in grado di competere per conquistare qualche
frazione di mercato», ma per «il sostegno al reddito» ci pensi lo stato,
con gli ammortizzatori («molto è stato fatto, ci piacerebbe che si
facesse di più»). Anche perché, sennò, le macchine ecologiche, chi se le
compra?
di Maurizio Galvani DIARIO DELLA CRISI Fumo a
Parigi Profondo russo Spagna sommersa
Fumo alla borsa di Parigi, dove gli operai dello stabilimento
francese dell'industria di pneumatici tedesca Continental hanno bruciato
gomme per protestare contro la chiusura dell'azienda. Dopo i manager
presi in ostaggio e le grandi manifestazioni di massa, gli operai
francesi non rinunciano allo loro radicalità ed alcune centinaia di
lavoratori hanno alzato una densa nuvola di fumo nero davanti a palazzo
Brongniart sede della Borsa. I licenziamenti potrebbero riguardare 1.120
persone dello stabilimento Continental di Clairoix.
La Spagna dei primati - la disoccupazione a fine 2010 potrebbe
raggiungere il 20% della forza lavoro - ha una quota di economia
sommersa pari al 19,5% del Pil contro il 18,7% dell'anno scorso. La
quota iberica è al terzo posto nella Ue per presenza dell'economia
sommersa; dopo l'Italia (25% del Pil nel 2008) e del 22% della Grecia.
Il giro d'affari che «produce» l'economia sommersa è pari a 210 miliardi
di euro e occupa ben 15 milioni di lavoratori sia come primo che secondo
impiego. In Germania, la quota di economia sommersa sarà quest'anno del
14,6% del Pil mentre in Francia sarà dell'11,6% del Pil, secondo le
stime ufficiali. Spagna anche più morosa ovvero continua a crescere la
quota di crediti inevasi concessi da banche, casse di deposito e
cooperative. L'insolvenza risulta la più alta da tredici anni e ha
raggiunto il 4,17%. Il triplo rispetto a marzo del 2008 quando era pari
all'1,11%. A fine anno, secondo gli esperti, la morosità potrebbe
diventare del 9%.
Crisi corta o crisi lunga, finita o non finita. Il dilemma sembra tutto
italiana ma non per gli organismi internazionali. Il numero due dell'Fmi,
John Lipsky, ad esempio a Tokyo ha continuato a dire che «è tutt'altro
che è finita (la crisi) e ci sarebbero ancora molte incertezze». L'Fmi
cerca di parlare del mondo globale, sia dei paesi più industrializzati
che più poveri; in questo caso l'allarme di Lipsky riguarda i paesi
asiatici ai quali viene proposto: «tagliati i tassi di interesse». La
recessione quest'anno sarà del 3% con un modesto rimbalzo positivo a
fine 2010. Esclusa sia la Cina che l'India.
In India, ieri, dopo lo strepitoso successo del partito del Congresso
(inaspettata) la borsa di Bombay è balzata in una sola seduta del 17%.
Un evento che accompagna la vittoria del Bjp con 260 seggi contro i 157
raggiunto dai rivali che comunque non garantisce la maggioranza assoluta
e quindi una politica economica autonoma. Tra i «grandi balzi» si
registra l'aumento del 40% dell'azioni del gruppo Tata e dell'industria
dell'elettronica Infosys: a più 9,8%.
Lo spagnolo El Pais fa un titolo shock: «Brasile e Cina contro il
dollaro». Per raccontare che Lula - presidente del Brasile - è arrivato
a Pechino per consolidare i rapporti tra i due colossi. Lula e Hu Jintao
- che fanno entrambe parte del G20 - sono d'accordo a promuovere
relazioni commerciali che escludano il dollaro come moneta di scambio.
Sarebbe una «rivoluzione». Già Argentina, Uruguay e Colombia hanno
avviato conversazioni con Brasilia per adottare un nuovo sistema di
relazioni monetarie.
Sempre la Cina ha cominciato la costruzione della pipeline di petrolio
verso la Russia a seguito dell'accordo tra i due paesi lo scorso mese. È
quanto riferisce l'agenzia di stampa Xinhua. Il vice premier cinese Wang
Qishan ha annunciato l'inizio della costruzione oggi a Mohe nel nord est
del paese, nella provincia di Heilongjiang, da dove partirà l'oleodotto.
In base agli accordi dello scorso aprile, la Cina presterà 10 miliardi
di dollari alla russa Transneft e altri 15 miliardi a Rosneft in cambio
di 300 milioni di tonnellate di petrolio che dovranno essere trasportate
attraverso la pipeline nell'arco di 20 anni. Intanto non si calma la
recessione in Russia: la produzione industriale è scesa del 16,9% su
base tendenziale. Rispetto al mese precedente il calo è dell'8,1%.
In Arabia Saudita, patria del wahhabismo islamico ed anche paese
ricchissimo, sono ormai 200 mila i giovani diplomati e laureati che
risultano in questo momento disoccupati; a cui si devono aggiungere le
tremila donne laureate senza lavoro. Il giornale locale al-Watan scrive
che «per ora il governo fa finta di non vedere». Nè si è programmato -
come è stato fatto a Pechino - un grande ufficio di collocamento nella
fiera locale.
TAMIL di j.t.
La comunità
in Italia tra silenzi e indifferenza
«Non c'è nessuno che possa ricevervi, sono tutti via per il ponte
del 25 aprile». Così si sono sentiti rispondere i delegati della
comunità Tamil in Italia quando, il 27 aprile scorso, hanno chiesto di
essere ricevuti in Senato per parlare della catastrofe in corso in Sri
Lanka. Prima di partire alla volta di Roma da tutta Italia, ma in gran
parte dalla Sicilia, dove i Tamil residenti sono circa ottomila,
gliel'avevano assicurato: qualcuno a Palazzo Madama li avrebbe
ascoltati. «Abbiamo affittato 15 pullman in tutto, 8 solo a Palermo,
spendendo 20mila euro - racconta al manifesto Janani Thavarajasingam,
portavoce dei Tamil in Italia - una cifra racimolata a fatica con le
quote che ogni famiglia ha pagato per mandare un proprio membro. Fino
all'ultimo abbiamo rischiato di non poter partire, perchè mancavano
ancora 4mila euro e il titolare della ditta che ci ha affittato i
pullman voleva essere pagato subito. Alla fine siamo riusciti a
raggiungere Roma, ma arrivati al Senato nessuno ci voleva ricevere.
Eppure ci avevano assicurato che saremmo stati ascoltati, altrimenti non
avremmo organizzato la trasferta». Non avevano tenuto conto che al
Senato c'è la «settimana corta».
L'unico ad incontrarli, alla fine, è stato Lamberto Dini. «Ci ha
espresso solidarietà, ha condannato la carneficina in corso contro i
tamil, ma più di tanto non si è impegnato a fare». Erano già stati
ricevuti alla Farnesina, dalla Direzione generale per l'Asia, «ma si
sono limitati ad ascoltarci, senza replica alcuna». Nel coro di appelli
per la tregua umanitaria, perchè l'Italia non si è fatta sentire? E
perchè la stampa italiana nei mesi scorsi non ha parlato di quel che
stava accadendo? E' la domanda che i Tamil d'Italia si sentono fare da
amici e familiari che vivono sparsi in giro per il mondo, la maggior
parte in Francia, Gran Bretagna, Canada e Australia, dove i media
dedicano spazio alle notizie sulla crisi in corso. Certo, il numero dei
tamil presenti in Italia, 10mila circa, è esiguo in confronto agli oltre
80mila della Gran Bretagna o ai 100mila della Francia. Ma, se sommati
agli immigrati di etnia singalese, il totale degli srilankesi arriva a
65mila, secondo i dati del 2008. Eppure, nel loro paese d'adozione,
l'attenzione per quello che è accaduto nella loro isola è stata poca o
nulla.
Come se non bastasse, la settimana scorsa l'ambasciatore srilankese in
Italia ha chiesto al governo italiano di non concedere l'asilo politico
ai Tamil, perchè «contrari alla pacificazione nel paese». Da noi i Tamil
richiedenti asilo, diritto di cui godono dall'inizio della guerra civile
nell'83, sono pochi, in media 220 all'anno negli ultimi due anni,
secondo i dati dell'Unhcr. Janani Thavarajasingam, che oltre ad essere
la portavoce dei tamil, lavora come mediatrice nei campi profughi,
racconta che molti srilankesi di etnia singalese cercano di ottenere lo
status di rifugiato fornendo nomi tamil: «Spesso accade che mi preghino
in ginocchio e in lacrime di non rivelare la loro origine singalese, è
davvero penoso, ma purtroppo il mio compito è di identificarli».
12 maggio
Sul sito Criticamente è pubblicata
questa lettera di Laura, una studentessa di Colle di Roio, frazione dell'Aquila.
Chiuso il teatrino della
comparse, si solleva il velo sulla reale realtà!
Ciao a tutti.
Oggi è il 20 aprile 2009. Per molti Abruzzesi lo
sguardo è congelato all'alba del 6 aprile 2009. Io, fisso il mio sull'ennesimo
sorriso paterno e rassicurante del nostro Presidente del Consiglio, che
campeggia sul paginone centrale de Il Centro, quotidiano locale e che ancora una
volta (pure quando un minimo di decenza richiederebbe moderazione), fa sfoggio
di capacità ed efficienza facendo grandi promesse nella speranza che si
dimentichi il prima possibile (si sa gli italiani hanno memoria moooolto corta),
che fino al 5 aprile nel meraviglioso piano casa che si intendeva vararare a
imperitura soluzione della crisi economica, di norme antisismiche nemmeno
l'ombra.
Vi scrivo da Colle di Roio (AQ) uno dei paesini colpiti dal sisma del 6 aprile
2009.
Il mio paese.
Trovo molto difficile fare ordine nel turbinio di pensieri che mi gonfiano la
testa, ma ci proverò. E scrivo questa nota perchè credo che solo uno strumento
quale la rete permetta di conoscere altre verità, senza mediazioni se non
dell'autore.
Il nostro campo è abitato da circa trecento persone, distribuite in una
quarantina di tende. Tornati da una vacanza mai iniziata, assieme a Pierluigi,
abbiamo cercato di dare un contributo alle attività di gestione della tendopoli
che, nel frattempo, (era passata già una settimana dall'inaspettato evento), era
andata sviluppandosi.
Come sapete non sono un tecnico, nè ho una qualche esperienza di gestione
logistica e di personale in situazioni di emergenza e quanto vi racconto può
essere viziato da uno stato di fragilità emotiva (immagino mi si potrà
perdonare). Il fatto è, che a fronte di uno sforzo impagabile profuso da molte
delle persone presenti nel nostro campo, (volontari della protezione civile,
della croce verde/rossa, vigili del fuoco, forze di polizia etc...),
inarrestabili fino allo sfinimento, ci siamo trovati, o sarebbe meglio dire ci
siamo purtroppo imbattuti, nella struttura ufficiale della Protezione Civile
stessa e nel suo sistema organizzativo.
La splendida macchina degli aiuti, per quanto ho visto io, poggia le sue solide
e certamente antisismiche basi, sulle spalle e sulle palle dei volontari; il
resto da' l'impressione di drammatica improvvisazione. E non perchè non si
sappia lavorare o non si abbiano strumenti e mezzi, ma semplicemente ed a mio
parere, perchè si è follemente sottovalutato il problema fin dall'inizio.
Se vero che il terremoto non è prevedibile è altrettanto vero che tutte le
scosse precedenti (circa trecento più o meno violente prima dell'inaspettato
evento) dovevano rappresentare un serio monito. Perchè non è servito il fatto
che due settimane prima del sisma alcuni palazzi presenti in via XX settembre a
L'Aquila, poi miseramente sventrati, erano già stati transennati perchè le
scosse che si erano susseguite fino a quel momento (la più alta di 4° grado,
quindi poca cosa...) avevano fatto cadere parte degli intonaci e dei
cornicioni...
Una persona minimamante intelligente, a capo di una struttura così grande quale
la protezione civile, avrebbe dovuto schierare i propri uomini alle porte della
città, come un esercito, pronto a qualsiasi evenienza. Ed invece mi trovo a
dover raccontare che le prime venti tende del nostro campo se le sono dovute
montare i cittadini del paese (ancora stravolti dal sisma), con l'aiuto di una
manciata di instancabili volontari, che manca un coordinamento tra i singoli
gruppi presenti, che la segreteria del campo (che cerchiamo di far funzionare),
è rimasta attiva fino a ieri con un Pc portatile di proprietà di mia proprietà,
acquistato "sia mai dovesse servire", e con quello di un volontario; che siamo
stati dotati di stampante e telefono ma per la linea Adsl (in Italia ancora uno
strano coso...) stiamo ancora aspettando e quello che siamo riusciti a mettere
in piedi è merito dell'intelligenza di qualche giovane del posto e dei suoi
strumenti tecnici; che abbiamo dovuto chiamare chi disinfettasse e portasse via
mucchi di vestiti perchè arrivati sporchi e non utilizzabili; che fino dieci
giorni dal sisma avevamo un rubinetto per trecento persone, nessuna doccia,
circa 20 bagni chimici e nessun tipo di riscaldamento per le tende.
Vi ricordo che in Abruzzo ed a L'Aquila in particolare la primavera fatica ad
arrivare e che anche in queste notti la temperatura continua ad essere prossima
prossima allo zero. Non ci si può quindi stupire che molte persone, la maggior
parte delle quali anziane (e non tutte con la dentiera...), cocciutamente ed in
barba alle direttive che vietano di rientrare nelle case, contiunano a fare la
spola dalla tenda al bagno di casa.
Potreste obbiettare che tutto sommato e visti i risultati raggiunti nel seguire
più di quarantamila sfollati questi problemi sono inevitabili e bisogna solo
avere pazienza. Condivido il ragionamento.
Quello che mi lascia stupito, che la gente non sa e che gli organi di
informazione si guardano bene dal dire è che tutta la macchina si basa all'atto
pratico, sulla volontà ed il cuore di persone che lasciano le loro case e le
loro famiglie e che non pagate, cercano di ridare un minimo di dignità e
conforto a chi, a partire dalla propria intimità, ha perso tutto o quasi. La
protezione civile che molti immaginano (alla Bertolaso per intenderci) non
esiste nei campi, almeno non nel nostro. I volontari si alternano, perchè
obbligati ad andarsene dopo circa 7 giorni.
Cosa comporta tutto questo?
Che ogni settimana si vedono facce nuove con la necessità di ricominciare a
conoscersi ed imparare a coordinarsi, che il capo campo cambia anche lui con gli
altri e quindi può avere esperienza o meno, che spesso, ed è il nostro caso, la
gestione di alcune attività è affidata ai terremotati perchè non viene inviato
personale apposito, con inevitabili problemi, invidie acrimonie e litigate tra...poveri.
Volete un esempio cristallino della disorganizzazione?
La nostra psicologa, giunta al campo per propria cocciuta volontà, è rimasta
anche lei solo una settimana. Vi immaginate quale può essere l'aiuto ed il
sostegno che una persona addetta può dare e quale fiducia può risquotere per
permettere alle persone di aprirsi, se cambia con cadenza domenicale??? A questo
si aggiungano l'inesperienza di molte persone (spesso e per fortuna sconfitta
dalla volontà di far bene) e le tristi e umilianti dimostrazioni di miseria
umana che ci caratterizzano e che risultano ancora più indecenti ed
inaccettabili in casi di emergenza.
Qualcosa di buono però ragazzi l'ho imparato.
Ho imparato che per la richiesta di materiale devo inviare un modulo apposito e
che a firmare lo stesso non deve essere il capo campo, la cui responsabilità,
fortuna sua, è solo quella di gestire trecento vite, trecento anime, più tutti
coloro che ci aiutano dalla sera alla mattina, ma serve il visto del Sindaco,
oppure del presidente di circoscrizione oppure di un loro delegato (pubblico
ufficiale). Noi dopo aver speso due giorni per individuare chi dovesse firmare
questi benedetti moduli, sappiamo che dobbiamo prendere la macchina e quando
serve (ovviamente più volte al giorno), raggiungerlo al comune.
Un'ultima noticina.
Due giorni fa la Protezione civile si è riunita con gli esperti, ed ha ritenuto
che non vi siano motivi di preoccupazione relativamente alle dighe abruzzesi (la
terra trema ogni giorno). Ora ricordandomi che analoga sicurezza era stata
espressa all'alba di una scossa di quarto grado e pochi giorni prima che il
nostro inaspettato evento facesse trecento morti e azzerasse l'economia e la
vita di migliaia di persone...ho provveduto, poco elegantemente, ad eseguire il
noto gesto scaramantico...
Però dei regali li ho ricevuti.
Sono le lacrime di molte delle persone che hanno lavorato alla tendopoli,
trattenute a stento nel momento dei saluti; sono le parole e gli sguardi dei
vecchi del paese, che mescolano dignità e paura, coraggio e rassegnazione, senza
mai un lamento.
Un'altra cosa.
Vi prego chiunque di voi possa, prenda il treno l'aereo o la macchina e si
faccia un giro per L'Aquila e d'intorni. Le tendopoli non sono tutte come quelle
a Collemaggio. Scoprirete il livello di falsità che viene profuso a piene mani
dagli organi di comunicazione oramai supini e del livello di indecenza del ns
presidente del consiglio che prima con lacrime alla cipolla e poi con sorrisi di
plastica distribuisce garanzie e futuro a chi, vivendo in tenda e saggiando
sulla pelle la situazione sa, che sono tutte palle.
I morti sono serviti subito per mostrarsi umano e vicino alle famiglie, ma ora è
meglio dimenticarli in fretta..Via via..nessuna responsabilità, nessun dolo. I
pm sono dei malvagi.. ricostruiamo in fretta.. forza la vità e bella, vedrete,
tra un mese sarete tutti a casa... Conoscete i nomi delle famiglie che doveva
ospitare nelle sue ville?
Le virtù umane travalicano gli eventi, le sue miserie non hanno confini.
Se volete vi prego fortemente di inviare questa mail a quanti vi sono amici. La
stampa nazionale si è guardata bene dal pubblicarla.
Un saluto a tutti.
Laura
Una risata ci seppellirà
Alessandro Portelli
L’ultima volta che sono stato in metropolitana a
Milano i posti erano tutti occupati – anche se non so da chi e se con adeguato
diritto di sangue - per cui sono stato in piedi. Se non altro, tenendomi agli
appositi sostegni, non ho dato occasione a nessun padano di prendersela anche
per questo con Roma ladrona.
Almeno su questo, ho la coscienza a posto, adesso che, nella «capitale morale»
del paese, il capogruppo in consiglio comunale di un partito di governo - non il
primo che passa, insomma - se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un
congruo
numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.
La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: «Ci sono, o ci
fanno?» Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in
farsa. Se fosse così, non avrebbe senso disturbare il fantasma di Rosa Parks, la
signora afroamericana che
consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell’Alabama rifiutando di
cedere il posto a un bianco. E ancora meno ne avrebbe evocare la memoria delle
leggi razziali come hanno fatto Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo,
quella del dirigente leghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa
anche lui che non è destinata a essere messa in pratica.
Il problema però è che - come sapeva benissimo William Shakespeare - tragedia e
farsa invece sono inseparabili e si specchiano fra loro. La tragedia può scadere
in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei
leghisti, del loro leader Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare
Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul
serio, intanto non ci accorgiamo che queste buffonate stanno diventando realtà
in spazi assai più vasti e cruciali dei vagoni milanesi: è l’intera Italia che
si trasforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli
indigeni, e galera per chi ne varca gli inviolabili
confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politiche
governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli immigrati
come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di
prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell’Adriatico, e ci
cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni lascia le barche alla deriva,
rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire.
La farsa milanese si fa tragedia nei campi di concentramento dei migranti in
Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non «ci
fanno»: ci sono, e fanno finta di non esserci.
Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi
che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l’assessora trentina, che dice ai
terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui
campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è
spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce
la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che dà forma alla
pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e
la morte. E’ tutto uno scherzo, è tutta una farsa - che si porta via
con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le
politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i
salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri
ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere.
Forse «ci fanno» e non «ci sono» solo perché in questa commedia sta tutto il
loro esserci. Dicevamo «una risata vi seppellirà». Avevamo torto. La risata sta
seppellendo noi.
11 maggio
Nuovi fascismi, ma che razza
d'Europa
Adesso basta. Razzisti, xenofobi e antisemiti vanno isolati, giudicati e
condannati. Giudicati, sì giudicati. Sembrerà strano che a dirlo siamo proprio
noi che, per storia politica e culturale, garantisti lo siamo stati sempre sino
in fondo. Ma il fondo, ormai, è già stato toccato.
Tre le notizie che oggi ci hanno fatto rabbrividire. La prima purtroppo è ormai
diventata “semplice” routine. Altri 240 clandestini “trovati in mare” (trovati?)
sono stati riportati a Tripoli. A dare la lieta novella è il ministro
dell'interno Bobo Maroni che così cerca – senza tanti sforzi, del resto – di
ingraziarsi gli Stati Generali del Nord convocati oggi a Vicenza. «La linea
della fermezza in materia di immigrazione - afferma l'ex socialista - continuerà
finché gli sbarchi non cesseranno”. E come esibisse un fiore all'occhiello
dichiara: “Negli ultimi cinque giorni sono stati respinti oltre 500
clandestini». Bene, bravo. Un bacio in bocca a Silvio Berlusconi che solo oggi
aveva dichiarato: “Siamo contrari all'idea di un'Italia multietnica”.
Più inquietante e preoccupante la seconda notizia. In Austria, una famiglia
ebrea viennese si è vista rifiutare una prenotazione presso un albergo di
Serfaus - “accogliente” località turistica del Tirolo a soli 30 chilometri dal
confine italiano e anche questo la dice lunga – con la seguente motivazione:
"cattive esperienze" avute in passato con ospiti ebrei. Così dichiara senza
vergogna la proprietaria del residence "Haus Sonnenhof" che non sa che la
cosiddetta lobby ebraica sul suo residence c'ha già messo una “croce”.
E come se tutto questo non bastasse, un gruppo di neonazisti incappucciati ha
urlato "Heil Hitler" durante la cerimonia in ricordo della liberazione del campo
di concentramento di Mauthausen. Giovani neo-nazisti, vestiti di nero e
incappucciati che dopo il saluto nazista si sono dati “coraggiosamente” alla
fuga.
Adesso basta. E a Gianni Alemanno che dice di provare “ripugnanza per la
condotta disumana del fascismo nei confronti degli ebrei" chiediamo solo un
gesto simbolico. Piuttosto che parlare, signor sindaco, si tolga – per favore-
quella croce celtica dal collo.
Maddalena d'oro
di Fabrizio Gatti
Costi dei lavori lievitati. Appalti nel mirino dei Pm. Il vertice traslocato.
Ora all'isola resta un polo velistico di pregio. Ma anche un albergo di lusso.
Che nessuno vuole gestire
Doveva essere l'hotel delle notti di Obama e Sarkozy, il cinque stelle superiore
dei capi di Stato del mondo. È già una cattedrale nel deserto, con la sua
facciata bianca stretta tra un capannone della Marina militare, una strada
trafficata e il mare senza spiaggia che qui, e solo qui su tutta l'isola, a
volte puzza di fogna. Nessuno
vuole gestire il più grande dei due alberghi costruiti alla Maddalena per il G8
che non si farà. La gara indetta dalla Protezione civile è andata deserta.
Perché, almeno per pareggiare il capitale già speso, lo Stato o la Regione
Sardegna dovrebbero affittare l'albergo a un imprenditore che a sua volta
dovrebbe far pagare mille euro a notte per queste stanze con vista da motel. Una
cifra folle e completamente fuori mercato. Qualcosa non ha funzionato nel
controllo dei costi, come 'L'espresso' aveva già scoperto nel dicembre scorso.
Ma i dubbi adesso sono ufficiali. Tutte queste opere sono sotto inchiesta.
I carabinieri del Ros stanno indagando sulla catena di appalti. Un'indagine
condotta per il momento dalla Procura di Firenze. Anche il capo della Protezione
civile, Guido Bertolaso, commissario delegato per il G8 e responsabile
dell'applicazione delle procedure d'urgenza, ha avviato un'indagine interna. Un
provvedimento seguito pochi giorni fa dalla decisione del Consiglio dei ministri
di chiedere per decreto il taglio retroattivo dal primo marzo delle
maggiorazioni alle imprese per le lavorazioni su più turni, dei premi di
produzione e la riduzione del 50 per cento dei compensi per le prestazioni
professionali destinati a progettisti, esecutori e collaudatori. Maggiorazioni,
premi e compensi confermati da almeno 16 tra ordinanze e decreti voluti, firmati
o proposti dal governo e dalla Protezione civile. Un dietrofront che limita (di
poco) i danni per le casse statali, ma anche le possibili responsabilità
giudiziarie di funzionari e controllori, tuttora da identificare, che prima
avrebbero avvallato le spese e ora stanno lavorando per contenerle. Letta così
la decisione di Silvio Berlusconi di trasferire il vertice a L'Aquila, non è
solo un atto d'affetto e un doveroso impulso al risparmio. È anche una via
d'uscita necessaria. Forse bastava una formulazione più moderata dei preventivi
e dei contratti. E i soldi per l'evento sarebbe bastati.
La domanda da cui parte l'inchiesta dei carabinieri del Ros è una: nella
formulazione delle offerte, c'è stata o meno concorrenza tra imprese? Un
dubbio che hanno avuto anche i vertici della Protezione civile. Nel giugno 2008
Bertolaso chiede al professor Gian Michele Calvi come poter verificare se alla
Maddalena si stia spendendo più del necessario. Calvi, oltre che amico del capo
della Protezione civile, è tra i massimi esperti di ingegneria antisismica e
membro della Commissione grandi rischi. Pochi giorni dopo il professore, che
insegna a Pavia, viene accompagnato a visitare i cantieri. Sempre in quei giorni
un'ordinanza di Berlusconi sostituisce il soggetto attuatore degli appalti
Angelo Balducci con il suo collaboratore Fabio De Santis e istituisce una
commissione di tre esperti: «Al fine di assicurare un'adeguata attività di
verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti
attuatori in termini di congruità dei relativi atti negoziali», è scritto
nell'ordinanza. Insomma, un'indagine su interventi e contratti. In autunno viene
sostituito anche De Santis e a capo degli appalti è nominato il professor Calvi.
La questione dei costi continua a preoccupare.
Calvi avvia le verifiche delle spese, voce per voce. E a fine febbraio spedisce
tutti i progetti al Consiglio superiore dei lavori pubblici perché esprima un
parere. Presidente di questo consiglio è proprio Angelo Balducci, nel frattempo
promosso dal ministro Altero Matteoli al vertice del massimo organismo di
controllo del ministero. «È vero che il Consiglio si trova a dover valutare
provvedimenti di spesa approvati quando Balducci era soggetto attuatore», spiega
una fonte vicina alla struttura di missione della Protezione civile alla
Maddalena, «ma Balducci conosce i cantieri e gli imprenditori che hanno vinto
gli appalti. E forse è l'unico funzionario di Stato in grado di far accettare a
quegli imprenditori tagli ai loro incassi. Il rischio è sempre quello dei
ricorsi». Tutti nei cantieri della Maddalena sanno che i carabinieri stanno
indagando. L'indagine del Ros parte dall'intercettazione il 9 agosto 2008 di
una telefonata dell'architetto Marco Casamonti, 43 anni, fondatore dello studio
Archea, uno dei progettisti dell'hotel. Casamonti, arrestato e rilasciato dopo
l'interrogatorio, è sotto inchiesta in Toscana dall'autunno per i presunti
accordi sottobanco tra la Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti e alcuni politici
della giunta di Firenze. «Ci hanno chiamato per dare una mano per i progetti del
G8 all'isola della Maddalena», dice Casamonti nella telefonata intercettata,
«perché stanno facendo i lavori e sono nella cacca più nera. Perché hanno dato
incarico agli architetti di Berlusconi che non sono in grado...».
Adesso il decreto voluto dal governo per tagliare i premi alle imprese potrebbe
addirittura aggravare i conti. La retroattività al primo marzo, quando ancora si
parlava di G8 alla Maddalena, e la decisione di dimezzare i compensi ai
professionisti rischia di esporre lo Stato ai ricorsi. Alcune ditte
appaltatrici, una minoranza, stanno già studiando la questione con i propri
legali. La maggior parte degli imprenditori ha per ora deciso di concludere
comunque i lavori. In palio c'è l'Abruzzo e la possibilità di partecipare agli
appalti per la ricostruzione. Il caos di questi giorni, la manifestazione degli
abitanti, le proteste del sindaco della Maddalena, Angelo Comiti, hanno nascosto
il risultato positivo dei lavori sull'isola. Per la prima volta in Italia
un'opera pubblica viene progettata, appaltata, eseguita e consegnata in poco più
di un anno. Al posto di un arsenale militare, contaminato da amianto e
idrocarburi, ora c'è uno yachting club con porto turistico per 700 barche, aree
per conferenze, scuole di vela e un albergo di lusso progettati dall'architetto
Stefano Boeri. Un polo di attività che avrà forse più successo
dell'hotel-cattedrale ricavato nell'ex ospedale militare, quello che nessuno
vuole. Per la sua gestione, il cuore del progetto che avrebbe dovuto ospitare il
meeting, ha vinto la Mita Resort, società della presidente di Confindustria Emma
Marcegaglia. E il fatto che altre due società sarde abbiano presentato ricorso
al Tar per far annullare la gara, significa che questo complesso richiama
interesse. Con il suo indotto di posti di lavoro e ricadute economiche.Facendo
qui il G8, Berlusconi rischiava cioè di dar lustro a un'idea uscita dal
programma dell'ex governatore sardo di centrosinistra, Renato Soru.
Un'eventualità che il premier ha sempre tentato di evitare, fin da quando
appena eletto aveva proposto di trasferirlo a Napoli.
L'altra incognita sull'avvenire della Maddalena è la mancanza di infrastrutture.
Dirottate alle imprese costruttrici le principali risorse, non sono rimasti più
soldi per l'allargamento dell'aeroporto di Olbia, la realizzazione della
superstrada Olbia-Sassari e la costruzione della passeggiata a mare che avrebbe
dovuto collegare il paese della Maddalena al nuovo porto turistico. I tre
progetti, più volte confermati dal governo, sono stati via via sfilati perché i
costi già alti e le varianti in corso d'opera stavano svuotando la cassa. «A più
di due settimane dal trasferimento del G8», racconta il sindaco, Angelo Comiti,
«non ho ricevuto una sola telefonata di Bertolaso. Di nessuno, né del governo,
né della Protezione civile. Ci hanno spinti in una situazione antipatica. Perché
sembra che vogliamo fare concorrenza agli amici dell'Aquila che vivono settimane
tragiche. Non è così, andrò a L'Aquila a spiegarlo. Però il lavoro enorme che
abbiamo fatto qui non può essere ridotto a una sceneggiata di ?Scherzi a parte?.
Ti svegli una mattina e ti dicono che era tutto una finzione».
Pochi giorni fa Comiti ha potuto visitare i cantieri, ancora coperti dal segreto
di Stato e presidiati dal battaglione San Marco come se il G8 si dovesse
svolgere ancora qui. La riservatezza sui cantieri dovrebbe essere tolta il 20
maggio. Al sindaco i rappresentanti della struttura di missione, Riccardo
Micciché e Francesco Piermarini, cognato di Bertolaso, hanno garantito che i
lavori saranno completati entro il 31 maggio. Come previsto. Data confermata
dall'architetto Boeri: «Non posso dire di più perché vale sempre il segreto, ma
nonostante i tagli le imprese hanno deciso di concludere».Verranno comunque
consegnati immobili senza arredamento. La Protezione civile ha inoltre deciso di
non completare l'asfaltatura dei viali e l'arredo a verde per risparmiare altri
50 milioni da impegnare per il G8 a L'Aquila. Questo dovrebbe ridurre i costi
alla Maddalena da 377 a 327 milioni di euro. La previsione di spesa al
momento della firma dei contratti era di 308 milioni. Secondo la Protezione
civile che, va detto, ha sempre garantito trasparenza sulle cifre, c'è stato
dunque un rincaro del 22 per cento. Le imprese però avevano già ottenuto per
contratto un incremento del 30 per cento per il fatto di lavorare su un'isola,
del 15 per cento per i turni di lavoro giorno e notte e ancora del 12 come
ulteriore ?premio di accelerazione?. Cioè un aumento del 57 per cento. Il
risultato è un valore degli immobili completamente fuori mercato che
difficilmente potrà restituire alle casse pubbliche quello che tutti noi abbiamo
speso. Per l'albergo nell'ex ospedale che nessuno vuole gestire si tratta di
16.800 metri quadri. Ci sono costati 73 milioni, calcolando un aumento medio del
22 per cento sui 60 milioni previsti. Significa un costo di costruzione senza
arredamento di 4.345 euro al metro (3.571 senza l'aumento). Alla Maddalena i
costi non superano i 1.200 euro al metro. Le ultime tabelle dell'Agenzia del
territorio fermano il costo di vendita di una villa di lusso a 3.200 euro al
metro. Poiché tra suite e standard, le stanze sono 101 significa un costo medio
per ogni stanza di 722 mila euro. Cioè l'equivalente, per ogni camera, di 14
mini appartamenti da 50 mila euro da costruire a L'Aquila. Considerata una
rendita del 4 per cento, se lo Stato dovesse pretendere il pareggio da questo
investimento con l'incasso di un affitto, il povero gestore dovrebbe sperare di
incassare 28 mila euro l'anno per ogni stanza. E poiché l'estate alla Maddalena
riempie gli alberghi non più di 40 giorni, significa partire già da 722 euro a
notte. E a questo punto fallirebbe perché non avrebbe soldi per pagare il
personale, la manutenzione, le tasse. Alla fine dovrebbe alzare il prezzo.
Almeno mille, 1.200 euro a notte. Per affacciarsi su un capannone, una strada,
lo scarico. E gustarsi il panorama che Obama e Sarkozy non hanno mai visto.
Che flop la Robin Tax
di Luca Piana
Eni ha risparmiato mezzo miliardo di euro. Erg ha fatto un utile record.
Saras ha distribuito dividendi come l'anno prima. E l'imposta del ministro
Giulio Tremonti sui petrolieri si è rivelata una delusione
Corrado Passera
Tasseremo i petrolieri per dare più burro, pane e pasta alla gente povera... Era
il 3 giugno scorso quando il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, lanciava
così la Robin Hood Tax. Undici mesi più tardi, il bilancio annuale appena
approvato dall'Eni, la principale compagnia petrolifera italiana controllata dal
Tesoro, racconta però che il tentativo tremontiano si è rivelato, almeno in
parte, un bluff.
Nel 2008 le aziende italiane dell'Eni hanno contabilizzato imposte correnti sul
reddito per 1,91 miliardi di euro, mezzo miliardo in meno rispetto al 2007.
Senza la Robin Tax, dice il bilancio, ne avrebbero pagate ancora meno; ma
l'aumento relativo non può consolare Tremonti, per due diversi motivi.
Il primo è che sull'incremento del gettito fiscale previsto grazie alla Robin
Tax il ministero dell'Economia contava non poco per rimpinguare i conti
pubblici. Il secondo è un paradosso che il bilancio dell'Eni fa emergere con
chiarezza: con buona pace della "tassa etica" di Tremonti, della "punizione
inflitta dal popolo sovrano allo sceriffo di Nottingham", ovvero i petrolieri
colpevoli di aver guadagnato troppo con il boom dei prezzi del greggio, per il
2008 l'Eni pagherà all'estero tasse correnti sul reddito per 10,1 miliardi, tre
in più del 2007. A guadagnarci, con le imposte dell'Eni, saranno soprattutto i
governi stranieri, non quello italiano.
La Robin Tax ha debuttato ufficialmente con un decreto del 25 giugno scorso che,
dai petrolieri dell'ipotesi iniziale, ha aumentato le imposte sul reddito anche
alle società elettriche e alle banche, nonché per importi minori alle
assicurazioni e alle cooperative (vedi scheda nella pagina a fianco). La stretta
avrebbe dovuto far affluire nelle casse dello Stato un gettito aggiuntivo che,
dai 2,2 miliardi del 2008, era previsto salire quest'anno a un picco di 4,6
miliardi, per poi planare progressivamente ai 3,5 miliardi previsti nel 2011.
Una misura non da poco, dunque, se si considera che l'abolizione dell'Ici sulla
prima casa dei cittadini più ricchi - varata contestualmente - è costata al
fisco 2,2 miliardi in termini di minori entrate.
Se è presto per una valutazione completa della Robin Tax, la lettura dei primi
bilanci depositati dalle aziende coinvolte fornisce alcune indicazioni per
capire chi è stato davvero colpito dalla stretta tremontiana.
PETROLIERI FELICI Al di là dell'Eni, anche i magnati privati del petrolio
sembrano aver assorbito il colpo senza traumi. Lo scorso anno, quando la Robin
Tax era uscita da poco, la Saras della famiglia Moratti aveva calcolato che la
rivalutazione obbligatoria delle scorte - tassata con un'aliquota sostitutiva
del 16 per cento - avrebbe comportato un esborso di ben 50 milioni. Il
successivo crollo del greggio, evidentemente non previsto da Tremonti, ha però
ridotto il costo di questa voce, scesa a soli 5 milioni: poco o nulla, per un
gruppo da 8,6 miliardi di ricavi. E se, complessivamente, la Saras ha
contabilizzato imposte correnti per 147 milioni (43 in più rispetto al 2007), la
mini-stretta non ha impedito la distribuzione ai Moratti di un dividendo di 100
milioni, gli stessi dell'anno scorso.
Ancora più curioso il caso dei Garrone, proprietari della Erg, un gruppo da 11,5
miliardi di ricavi. Nel bilancio la società calcola in una cinquantina di
milioni l'impatto sulle imposte correnti causato dalla Robin Tax. Un importo che
pare sopportabile, se si considera che quest'anno la Erg ha incassato una maxi
plusvalenza di 892 milioni per la cessione alla russa Lukoil del 49 per cento
degli impianti di Priolo, in Sicilia. Alcuni dettagli di quest'operazione
stridono non poco con la retorica su Robin Hood: non solo la plusvalenza ha
determinato un mega abbattimento dell'imponibile fiscale alla luce della
cosiddetta 'Partecipation exemption', norma voluta da Tremonti nel 2003, ma la
Erg - per minimizzare l'impatto delle imposte - si è affidata allo studio di
commercialisti fondato dal ministro. Risultato: il gruppo ha chiuso l'anno con
un utile netto di 646 milioni, quattro volte quello del 2007.
IL CONTO FINISCE IN BOLLETTA Francesco Tundo, professore di diritto
tributario a Bologna e titolare di uno studio di consulenza fiscale a Milano,
ritiene che anche quest'anno gli effetti della Robin Tax sui conti dei
petrolieri saranno "da verificare". Una possibile sorpresa riguarda la vendita
delle scorte, rivalutate a prezzi 2008 rispetto ai bassissimi costi storici: una
modifica che, se il greggio si manterrà su livelli vicini ai minimi, potrebbe
tradursi in minori imposte sui margini di vendita. Tundo ritiene invece che il
colpo maggiore verrà accusato dalle società di distribuzione energetica. Se l'Enel
nel 2008 ha versato 290 milioni di imposte in più per effetto della Robin, per
il tributarista "gli effetti più pesanti in termini relativi si riverseranno
sulle ex municipalizzate".
Qualche accenno si può trarre già dai bilanci 2008: la milanese A2A ha visto le
imposte correnti balzare da 97 a 261 milioni, la romana Acea da 115 a 155
milioni. "Gli effetti sono due: il primo riguarda il fatto che queste aziende
potranno vedersi costrette a trasferire i maggiori oneri sulle bollette dei
cittadini. D'altra parte, se si accontenteranno di margini inferiori, verseranno
minori dividendi agli enti locali azionisti", osserva Tundo. E qui nasce il vero
problema: mentre la Robin Tax ha evitato di colpire monopoli come le televisioni
e le autostrade, rischia invece di penalizzare aziende che contribuiscono non
poco a sostenere le finanze delle città, già private dell'Ici. "Non bisogna
dimenticare, però, che sono proprio i comuni a fornire una serie di servizi
pubblici essenziali, dagli asili all'assistenza agli anziani", dice Tundo.
LA BANCA È SALVA Banche e assicurazioni sono l'altro settore nel mirino
della Robin Tax. Anche in questo caso, però, gli effetti della manovra appaiono
controversi. Se i tecnici di Tremonti si aspettavano un gettito aggiuntivo dalle
Generali di Trieste, resteranno delusi. La compagnia nel 2008 ha contabilizzato
in Italia imposte correnti per 90 milioni, a fronte dei 358 del 2007.
Evidentemente le maggiori tasse da pagare sulle riserve non hanno compensato la
frenata dei margini causata dalla crisi.
Più articolato il discorso sulle banche, per le quali è stata allargata la base
del reddito imponibile, riducendo la possibilità di dedurre gli interessi pagati
sul denaro preso in prestito e i fondi accantonati a garanzia dei crediti. Dopo
la Robin Tax, tuttavia, Tremonti ha dovuto far fronte a un nuovo imprevisto, la
tempesta d'autunno sulle banche. E nel decreto anticrisi di novembre, in cambio
di un'aliquota leggermente inasprita, ha reso più rapidamente deducibili una
serie di ammortamenti. I bilanci di Intesa Sanpaolo e Unicredit, i due maggiori
istituti italiani, rendono bene l'idea degli effetti. Le imposte correnti sono
aumentate di 866 milioni per il gruppo guidato da Corrado Passera e di 1,04
miliardi per quello di Alessandro Profumo. Allo stesso tempo, però, grazie alla
norma anti-crisi Intesa ha potuto mettere a bilancio futuri benefici fiscali per
2,1 miliardi, Unicredit per 2,4. Alla fine, così, sono tutti contenti. Le banche
hanno ricevuto un sostegno essenziale per non far sprofondare l'utile, mentre
Tremonti può subito mettere in cassa un po' di quattrini. Per il futuro, poi, si
vedrà.
7 maggio
IL RETROSCENA. Il contributo statale effettivo per ogni famiglia non sarà di 150
mila euro, ma di un terzo Fondi "virtuali" e stanziamenti basati su previsioni
di incassi crescenti delle lotterie
I trucchi del "decreto
abracadabra": ricostruzione diluita in 23 anni
di MASSIMO GIANNINI
Impegni
solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente
del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro
di veramente solido c'è poco e niente.
Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il "Decreto Abracadabra". Le
cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile,
Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la
ricostruzione dell'Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A
leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8
miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi
sarebbero disponibili quest'anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel
2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove
arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una
volta, ha rivendicato il merito di "non aver messo le mani nelle tasche degli
italiani". Il ministro dell'Economia si è fregiato di aver reperito le risorse
"senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma
spostando i fondi da una voce all'altra del bilancio".
Il "Decreto Abracadabra" non aiuta a capire. Il capitolo "Disposizioni di
carattere fiscale e di copertura finanziaria" dice ancora meno. Una prima,
inquietante cosa certa (come recita l'articolo 12, intitolato "Norme di
carattere fiscale in materia di giochi") è che la ricostruzione in Abruzzo sarà
davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60
giorni dal varo del decreto, dall'indizione di "nuove lotterie ad estrazione
istantanea", "ulteriori modalità di gioco del Lotto", nuove forme di "scommesse
a distanza a quota fissa". E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un
"gioco" che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: "La
previsione di una crescita del volume di entrate per l'anno in corso identica
(500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi - si
legge nella relazione tecnica al decreto - potrebbe risultare in qualche modo
problematica".
Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 14, intitolato
"Ulteriori disposizioni finanziarie") è che altre risorse, tra i 2 e i 4
miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree
sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San
Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si
capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è
affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell'Istituto per la
promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per "garantire
l'acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici
ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer") al
trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e
prestiti.
A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito,
audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo
dice enfaticamente il comma 4 dell'articolo 14) potranno essere reperiti grazie
alle "maggiori entrate derivanti dalla lotta all'evasione fiscale, anche
internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi". Insomma, entrate
scritte sull'acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.
Ma non è solo l'erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel "Pacchetto
Ricostruzione". A parte gli interventi d'emergenza, ci sono altri due fronti
aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l'edificazione
delle case provvisorie ("a durevole utilizzazione", secondo la stravagante
formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila
famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle
tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera,
di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano
spendibili quest'anno, 300 l'anno prossimo.
Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a "Porta a
Porta" di due giorni fa, fa pensare che l'impegno di una "casetta" a tutti gli
sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso.
Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale
dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.
Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case
distrutte. Il governo ha annunciato "un contributo pubblico fino a 150 mila euro
(80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le
opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica".
Basterà presentare le fatture relative all'opera da realizzare, e a tutto il
resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i
rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei
150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede
tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo,
ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo
statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi
sotto forma di credito d'imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare
in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila
saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia
che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi
pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i
terremoti dell'Umbria e del Friuli, i terremotati d'Abruzzo non avranno nessuna
nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede
tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come "limite massimo"
dell'erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l'impegno a finanziare la
copertura al 100% del valore dell'appartamento da riedificare.
Nel "Decreto Abracadabra", per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si
squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non
solo i "soliti comunisti-sfascisti" dell'opposizione come Pierluigi Bersani (che
accusa l'esecutivo di trattare gli aquilani come "terremotati di serie B"), ma
anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di
Confindustria come Emma Marcegaglia, che l'altro ieri a L'Aquila ha ripetuto
"qui servono soldi veri". C'è un obbligo morale, di verità e di responsabilità,
al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a
tutti gli italiani che giudicano. L'epicentro di una tragedia umana non può
essere solo il palcoscenico di una commedia politica.
AL San Paolo come alla Diaz,
lo Stato si assolve
Intervista all’avvocato Mirko Mazzali,
difensore dei ragazzi picchiati dalle forze dell’ordine all’ospedale San Paolo
la notte del 16 marzo 2003
La
notte del 16 marzo 2003, Davide Cesare, detto 'Dax', un ragazzo del centro
sociale O.R.So., e due suoi compagni vennero accoltellati da due neofascisti nei
pressi di via Brioschi, a Milano. L'arrivo in ambulanza al pronto soccorso
dell'ospedale San Paolo fu inutile per Dax, che morì in seguito alle ferite
riportate.
Amici e compagni di Dax e degli altri due ragazzi feriti accorsero in ospedale
per chiedere notizie e ricevere, con disperazione, l'annuncio della morte del
ragazzo. Dopo poco, macchine di polizia e carabinieri presenti per "mantenere
l'ordine pubblico" bloccarono l'ingresso al pronto soccorso e cominciavano
cariche e pestaggi contro i presenti. Testimonianze del personale
medico-sanitario in servizio quella notte riferirono come le forze di polizia si
fossero spinte negli inseguimenti fino nei corridoi interni e nelle sale visita
del pronto soccorso, invadendo anche il dipartimento Emergenza e Accettazione e
che la brutalità degli scontri era evidente dal numero di feriti e dalla
quantità di sangue presente sul pavimento del pronto soccorso. I ragazzi
subirono gravi lesioni: nasi, zigomi, braccia, mani, denti rotti, teste aperte.
Il chirurgo di turno quella notte indicò come causa delle cariche la volontà
delle forze dell'ordine di impedire agli amici del ragazzo morto di lasciare i
locali.
In seguito a questi fatti iniziò un procedimento penale davanti alla quarta
sezione del tribunale di Milano. Dopo il grado d'appello, il processo "San
Paolo" si conclude giovedì 7 maggio a Roma con il giudizio di Cassazione.
Abbiamo intervistato l'avvocato Mirko Mazzali, già avvocato di parte civile nel
processo per l'omicidio di Dax, che assiste in Cassazione i due compagni di Dax,
condannati in primo grado e in appello.
Avvocato, ci parli di questo processo. Quali sono state le fasi processuali
più rilevanti e le condanne in primo grado e in appello? Per i fatti del 16
marzo 2003 all'ospedale San Paolo in primo grado erano stati imputati quattro
compagni di Davide Cesare e tre appartenenti delle forze dell'ordine per lesioni
e abuso d'ufficio.
La sentenza di primo grado aveva portato alla condanna di due dei compagni di
Davide e di un carabiniere ripreso da una telecamera amatoriale mentre
manganella una persona a terra, e al proscioglimento per prescrizione di un
altro carabiniere in possesso di armi improprie, cioè di una mazza da baseball.
In appello la condanna è stata confermata per i compagni di Davide, ma non per
il carabiniere condannato in primo grado.
Quali sono state le motivazioni dell'assoluzione in appello del carabiniere
condannato in primo grado? Hanno sostenuto che un carabiniere non poteva sapere cosa faceva l'altro
mentre il ragazzo era a terra.
Ritiene che ci siano state delle anomalie o irregolarità nello svolgimento
del processo? Dal punto di vista formale non ci sono state anomalie: il
procedimento si è svolto in modo formalmente regolare. La particolarità in
processi come questo non è nello svolgimento del procedimento, ma nella fase di
valutazione delle prove. E' in questa fase, nella quale i magistrati possono
esercitare una certa discrezionalità di valutazione, che emerge come vengano
adottati due pesi e due misure. Prendo l'esempio del nostro caso: per il solo
fatto di essere stati presenti sul luogo degli scontri, due compagni di Davide
sono stati condannati per concorso morale. E' stato ritenuto che la loro
presenza abbia influito a livello psicologico nell'eccitare l'atmosfera durante
gli scontri. Dall'altra parte esiste un video amatoriale, che è stato acquisito
come prova e quindi valutato, che riprende un poliziotto mentre tiene fermo un
ragazzo che viene manganellato. In questo caso non è stato giudicato esistente
né un concorso morale, né un concorso materiale, anche se appare evidente
l'aiuto materiale apportato da un poliziotto nel bloccare il ragazzo a terra. Al
contrario è stato ritenuto che quell'atto servisse "a vincere una resistenza"
della persona visibilmente inerme.
Quindi il fatto che alcuni imputati fossero appartenenti alle forze di
polizia ha modificato le dinamiche processuali? Quali problemi comporta
l'accertamento di reati di pubblici ufficiali? A partire dagli anni Settanta
è molto più difficile riuscire a provare la commissione di un reato da parte
delle forze dell'ordine, direi quasi impossibile. Oltre al diverso criterio
usato nella valutazione delle prove, di cui dicevo, c'è anche la difficoltà
nell'individuazione dei soggetti responsabili tra le forze di polizia e nel
provare i fatti. Le dinamiche processuali di questo procedimento sono le stesse
che si sono presentate anche per i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto: in
quel caso sono dovuti passare mesi prima che si riuscisse a identificare un
poliziotto anche se riconoscibile perché portava una coda di cavallo. Questo
processo, come gli altri con membri delle forze di polizia tra gli imputati, ha
presentato le stesse difficoltà in fase probatoria.
Quale è stata l'utilità delle testimonianze del personale ospedaliero
nell'accertamento dei fatti? Il personale ospedaliero è stato di enorme
importanza per ricostruire i fatti e gli accadimenti in modo veritiero, anche se
poi è stata riformata la sentenza di primo grado che aveva fatto una migliore
valutazione dei fatti descritti. Nella sentenza di primo grado erano state usate
parole anche piuttosto severe descrivendo un attacco delle forze dell'ordine
inefficace, eccessivamente duro e ingiustificato fino a descriverlo
"intimidatorio e ritorsivo" anche se poi il giudizio è mutato in secondo grado.
La ricostruzione dei fatti del personale ospedaliero è stata del tutto svalutata
a favore di quella fatta direttamente dalle forze di polizia implicate nei
pestaggi stessi.
Quali sono state le prove determinanti a carico dei condannati?La prova
fondamentale per la condanna del compagno di Dax manganellato è stata la
testimonianza del poliziotto responsabile del pestaggio stesso. In un primo
momento il compagno di Dax non era stato riconosciuto come autore materiale di
alcun reato o aggressione, ma invece come vittima del pestaggio ripreso dal
video amatoriale. Successivamente alla sua denuncia dei poliziotti ripresi
mentre lo manganellavano è stato denunciato e riconosciuto dagli stessi
poliziotti da lui accusati. Anche se assurdo, questa testimonianza è stata
valutata come attendibile.
Chi dirigeva questa operazione di polizia? E' stato possibile ricostruire se
c'è stato un ordine preciso e premeditato su come procedere o se è "scappata di
mano" la situazione? Non si è mai potuto ricostruire quale fosse la catena
di comando e se chi doveva gestire l'operazione volesse questi risultati a scopo
di ritorsione o meno. Certamente però si deve notare che la situazione si è di
molto tranquillizzata e normalizzata con l'arrivo della Digos.
Qual è il suo giudizio sulla copertura mediatica di questi fatti? Al
principio il video dei pestaggi fece scalpore. Dopo qualche tempo l'attenzione è
calata perché la questione non "faceva più notizia".
L'allora questore di Milano, Vincenzo Boncoraglio, aveva diffuso ai giornali la
sua versione per la quale i ragazzi corsi in ospedale per farsi curare o per
avere informazioni sulle condizioni degli altri volessero sottrarre la salma di
Dax (sic!). Questa assurda versione è stata però smentita in dibattimento dal
personale medico in servizio.
Cosa spera dalla sentenza di Cassazione di domani e con quali motivi ha
impugnato la sentenza d'appello? Non nutro molte speranze sulla sentenza di
Cassazione anche alla luce di come è stato condotto il processo fin'ora. Oltre
ad altri argomenti tecnici, il principale motivo d'impugnazione è la mancanza,
la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione proprio per
quelle incongruenze nella motivazione della sentenza circa le valutazioni
effettuate dai giudici.
Chiara Avesani
6 maggio
La crisi travolge i "Workers"
di Dubai
Sono più di mille al giorno i lavoratori
immigrati negli Emirati che perdono il lavoro
scritto da Elisabetta Norzi
Oltre millecinquecento visti cancellati ogni giorno. E' il ritmo con cui, a
Dubai, i lavoratori stranieri vengono licenziati. E se a rimane sere senza
lavoro, finora, erano stati soprattutto i professionisti più pagati - ingegneri,
architetti, manager occidentali -, adesso la crisi sta travolgendo i workers.
Così vengono chiamati in città tutti gli immigrati indiani, pakistani, afgani,
bangladesi, filippini che svolgono i lavori meno qualificati e che hanno uno
stipendio massimo di 200 euro al mese. I numeri, finalmente, sono stati
parzialmente confermati anche dal governo dell'emirato, che ha fatto di tutto
per nascondere le difficoltà di Dubai: il ministero del Lavoro ha parlato di più
di 400mila permessi di soggiorno annullati dallo scorso ottobre ad oggi. Subito
dopo, però, è arrivata puntuale la smentita: ''la popolazione non sta diminuendo
a causa della crisi - ha sottolineato il ministro del lavoro Saqr Ghobash -;
molti stranieri in questo periodo sono semplicemente stati mandati a casa per
una vacanza, solo il tempo di fare ripartire a pieni ritmi l'economia: a fronte
dei permessi cancellati, ci sono oltre 600mila nuovi visti rilasciati''. Un
dato, quest'ultimo, non confermato da nessuno dei report delle banche né dalle
ricerche delle agenzie di consulenza, che parlano invece di una diminuzione
della popolazione del 17 percento, su un totale di circa due milioni di
abitanti.
Ma non sono indispensabili i numeri per capire che la crisi ha travolto Dubai:
ai bordi delle strade i cantieri sono fermi, le gru abbandonate, il traffico è
scomparso e i supermercati, in tutti i quartieri della città, si sono svuotati.
I prezzi degli alloggi, poi, soprattutto nelle zone abitate dagli occidentali
come Springs o Jbr, sono crollati: una villetta bifamiliare con due stanze da
letto, da oltre 3mila mila euro al mese è scesa a duemila. L'emiro di Abu Dhabi
è intervenuto per garantire il completamento delle infrastrutture cominciate,
come la metropolitana che dovrebbe essere inaugurata il prossimo settembre e la
rete stradale che in città non è ancora finita. Gli altri nuovi progetti,
invece, per il momento sono fermi: interi quartieri, già disegnati e alcuni
anche per metà costruiti, rischiano di rimanere scheletri di cemento.
Il paradosso è che i migranti arrivati a Dubai per sfuggire dalla povertà dei
propri paesi d'origine, ora fanno fatica anche a tornare a casa. ''La situazione
è la stessa per molti miei amici, operai nei cantieri edili di Dubai - racconta
Melanie, originaria delle Filippine che lavora per un'impresa di pulizie come
domestica per 160 euro al mese-: non hanno i soldi per tornare nei loro paesi
perché le aziende non hanno pagato gli stipendi degli ultimi mesi''. E tutele,
da parte dello stato o delle imprese, non ne esistono. Il consolato indiano e
quello filippino hanno dichiarato di essere sommersi dalle richieste di aiuto di
lavoratori che non hanno i soldi per il biglietto aereo di ritorno nelle loro
città. Al momento sono le ambasciate a farsene carico: hanno messo a
disposizione alcuni appartamenti e posti letto per chi è rimasto senza casa,
coprono le spese di vitto e alloggio, e organizzano charter verso Manila, Delhi,
Mumbai o Calcutta. ''Anche nel mio campo, quello delle pulizie - prosegue
Melanie -, cominciano ad arrivare segnali di crisi: la mia società lavora solo
per gli ‘expat', gli occidentali, non per i locali che pagano male e maltrattano
le ragazze filippine. Moltissimi occidentali stanno però andando via da Dubai e
abbiamo sempre meno clienti. Speriamo che la città non si svuoti del tutto,
altrimenti anche io sarò costretta a tornare a casa. Il mio stipendio è basso,
ma riesco a mandare comunque un po' di soldi a casa, per mio figlio che è
rimasto nelle Filippine con i nonni. E là il lavoro proprio non si trova''.
L'oro di riserva
La Cina sta accumulando il più prezioso dei
metalli. Perché vuole smarcarsi dalla dipendenza dal dollaro, un'arma a doppio
taglio che ha contribuito lei stessa a creare
scritto daAlessandro Ursic Mille
e cinquantaquattro tonnellate di oro possono essere un sogno per i comuni
mortali, oppure ordinaria amministrazione per le riserve di uno Stato come gli
Usa, che ne possiedono una quantità otto volte superiore; persino l'Italia ne ha
di più. Per la Cina, però, sono improvvisamente tante. Nei giorni scorsi Pechino
ha annunciato di aver portato a tale ammontare le sue riserve auree, quasi
raddoppiandole negli ultimi anni. Confermando di voler gradualmente smarcarsi
dalla dipendenza dall'economia americana, che lei stessa ha contribuito a creare
finanziando per anni l'indebitamento di Washington.
Acquistando in particolare metallo prezioso prodotto in patria, la Cina ha così
messo da parte oro come una formichina. La quantità attualmente nei suoi
forzieri rimane trascurabile: rappresenta l'1,6 percento delle sue enormi
riserve in valuta straniera, che ammontano a 2.000 miliardi di dollari di cui
circa due terzi proprio in biglietti verdi, grazie all'acquisto massiccio di Bot
americani. Ma, messo insieme a dichiarazioni e altri fatti degli ultimi mesi, il
quasi raddoppio delle riserve auree del gigante asiatico contribuisce a rendere
evidente la volontà politica di raggiungere una serie di obiettivi a lungo
termine: accrescere l'autonomia della Cina sulla scena economica globale,
stimolare la domanda interna e ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni,
fare dello yuan una valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale. Il
problema è che Pechino ha le mani legate, perché nel perseguire questi scopi
rischia di veder svalutare il suo investimento multimiliardario in dollari.
Per anni, la Cina ha accumulato dollari mantenendo basso - secondo Washington
troppo basso - il valore dello yuan, e favorendo così la crescita delle sue
esportazioni. I risparmi dei cinesi finanziavano i consumi oltre le proprie
possibilità degli americani, dando vita allo squilibrio reso evidente
dall'attuale crisi. Negli ultimi tre anni, da quando Pechino ha abbandonato il
cambio fisso tra la sua moneta e il biglietto verde, lo yuan si è leggermente
rivalutato. E se prima erano gli Usa a fare pressioni sulla Cina, ora è Pechino
a mostrarsi baldanzosa: a marzo il direttore della Banca centrale cinese ha
buttato lì l'idea che il dollaro non debba più essere la valuta mondiale di
riferimento, e successivamente il premier Wen Jiabao ha auspicato una maggiore
supervisione internazionale delle scelte economiche degli Stati Uniti. Proprio
perché da esse dipende anche il benessere della Cina.
Tali preoccupazioni, alimentate dal fervore nazionalistico che accompagna
l'ascesa del gigante asiatico, in Cina sono sentite non solo dagli economisti:
nell'ultimo anno, un libro complottistico dal titolo "Currency Wars" (Guerre
valutarie) ha venduto oltre un milione di copie. La tesi principale è che
l'Occidente trama per frenare lo sviluppo cinese; da questo punto di vista, gli
Usa avrebbero interesse a svalutare il dollaro non solo per rilanciare la
propria economia travolta dalla crisi, ma anche per far perdere valore alle
riserve di Pechino.
In realtà, gli Stati Uniti e il mondo hanno un tremendo bisogno della Cina, come
si è visto anche dai sempre più frequenti auspici di vedere i cittadini cinesi
aumentare i propri consumi, per rimpiazzare quelli degli americani. Sono
movimenti tettonici che prenderanno decenni, ma è vero che Pechino sembra avere
intenzione di percorrere questa strada: i suoi piani di stimolo all'economia
premono proprio su questo tasto, sul progressivo potenziamento della domanda
interna, e sulla diversificazione della sua politica monetaria. Far calare
bruscamente le sue riserve in dollari sarebbe controproducente: se ne mettesse
sul mercato una quantità consistente, il biglietto verde diventerebbe carta
straccia, le esportazioni cinesi crollerebbero e le riserve cinesi in dollari
brucerebbero gran parte del loro valore. Ma a lungo termine, l'obiettivo è
comunque di farle lentamente scendere. E cominciare ad accumulare oro
contribuisce allo scopo.
Sri Lanka, guerra senza
tregua
La diplomazia non ferma i bombardamenti
governativi su ribelli e civili tamil
La missione diplomatica in Sri Lanka dei ministri
degli Esteri britannico e francese, David Miliband e Bernard Kouchner, non è
riuscita a convincere il presidente Mahinda Rajapakse a concedere una tregua
umanitaria alle Tigri tamil per consentire l'evacuazione dei 50 mila civili
ancora intrappolati nella zona di conflitto.
Il presidente: occidentali ipocriti e ingenui. "Non ci sarà nessun
cessate-il-fuoco", ha dichiarato Rajapakse dopo la partenza dei due diplomatici.
"Gli occidentali cercano di fare pressione su di noi usando l'argomento dei
civili: ma perché non vanno a vedere cosa hanno fatto e stanno facendo loro in
Iraq e Afghanistan? Se io ho detto che non stiamo usando armi pesanti e
bombardamenti per non mettere a rischio i civili, significa che è così. Ma
questi inviati stranieri sono pronti a credere alla propaganda di
un'organizzazione terroristica".
Ma le immagini e le notizie che giungono dalla zona dei combattimenti dimostrano
che le forze armate di Colombo - che domenica avevano annunciato che non
avrebbero più usato ‘armi pesanti' - stanno continuando a bombardare dal cielo,
dal mare e dalla terra i cinque chilometri di spiaggia a nord di Mullaitivu
rimasti in mano ai guerriglieri dell'Ltte.
I bombardamenti non si fermano. Un video diffuso dalle Tigri tamil mostra
i caccia governativi che lunedì 27 aprile sganciavano bombe sulla cosiddetta
‘Safe Zone'. Alle 6 di pomeriggio, sempre secondo le Tigri tamil, sono iniziati
i bombardamenti di artiglieria, proseguiti senza sosta tutta la notte, fino alle
11 del mattino seguente: in diciassette ore almeno 2.600 razzi, 2 mila
proiettili di mortaio e mille cannonate, sparate anche dalle navi della marina
militare, sono piovute sulle tendopoli tra le palme, uccidendo 272 civili e
ferendone altre centinaia. Impossibile confermare queste notizie, vista
l'assenza in loco di giornalisti e osservatori indipendenti. Anche se le
immagini delle esplosioni sulla spiaggia confermano il bombardamento sugli
sfollati.
Ieri mattina, mercoledì, i guerriglieri avrebbero raccolto altri 160 cadaveri di
civili. E nel pomeriggio, attorno alle 16, i bombardamenti, da terra e dal mare,
sarebbero ricominciati, uccidendo altri 150 civili e colpendo anche l'unico
ospedale da campo rimasto: il bilancio fornito ieri sera dall'Ltte parla di
almeno nove pazienti uccisi e quindici feriti. Uccisi
6.432 civili, 150 mila profughi maltrattati. Le Nazioni Unite, non le Tigri
tamil, hanno contato 6.432 civili tamil uccisi tra il 20 gennaio e il 20 aprile,
ovvero più di settanta ogni giorno. Ora che la densità di sfollati è aumentata
(50 mila ammassati in otto chilometri quadrati), le cifre fornite
quotidianamente dall'Ltte potrebbero anche essere verosimili.
Non se la passano meglio i 150 mila civili tamil scappati nelle ultime settimane
dalla zona di conflitto e finiti nei ventiquattro campi d’accoglienza allestiti
e gestiti dall’esercito, dove, secondo il sito filo-ribelle TamilNet, i profughi
vengono trattati “come i prigionieri dei campi di concentramento nazisti”: “Le
condizioni igieniche – denuncia il sito – sono disumane, il cibo viene lanciato
ai profughi come ai cani, e la gente è costretta a correre. Nel campo di Menik,
a Vavuniya, due bambini sono morti schiacciati nella calca. Sessanta profughi
sono già morti per malattie. E almeno trecento giovani sono stati forzosamente
arruolati nell’esercito”. Precedentemente erano già stati denunciati
maltrattamenti, torture e sparizioni. Nesso può uscire dai campi, salvo gli
ultrasessantenni che hanno parenti in zona.
Scuola modello small
di Roberta Carlini Scattano i tagli del ministro Gelmini: 42 mila insegnanti in meno. Così
saranno ridotte le lezioni di lingue e i pomeriggi a scuola. Ecco come sei
istituti si preparano all'austerity
Da un anno all'altro ci saranno 42 mila insegnanti in meno assieme a 8 miliardi
di tagli in quattro anni. Un crescendo: 456 milioni nel 2009, 1.650 l'anno
prossimo, 2.538 nel 2011, 3.188 nel 2012. Fino a poche settimane fa, erano solo
numeri scritti su documenti ufficiali. Adesso, si stanno abbattendo
concretamente sulla vita delle scuole italiane, man mano che ciascuna di esse
viene a sapere quanti insegnanti in meno avrà l'anno prossimo. E ne trae le
conseguenze: domande di tempo pieno non accolte, aumento del numero degli alunni
per classe, riduzione dei rientri pomeridiani e dei tempi prolungati. Ne sanno
già qualcosa gli utenti delle scuole di ogni ordine e grado, con relativi
genitori nel panico. Alle elementari i risparmi sono affidati all'abolizione del
modulo e al tetto al tempo pieno (garantito, in teoria, solo dove già c'era).
Le scuole medie sono quelle che subiscono i tagli più forti: meno 15.500 prof,
mentre gli studenti saranno oltre 7 mila in più. Alle superiori, come antipasto
della riforma che arriverà l'anno prossimo, per adesso si amputano 11.350 posti.
Parole magiche per ottenere i tagli sono: abolizione delle compresenze, riordino
delle cattedre. Che vuol dire, meno ore di lezione con più studenti e con un
solo docente per volta. E per le medie, Cenerentola della scuola, meno lingue
straniere e meno lettere. Ma per capire come sarà la scuola che riapre a
settembre, conviene partire dal basso: dalle classi e dagli orari, che in questi
giorni in tutt'Italia stanno prendendo forma.
Napoli - Adelaide Ristori
Quelli dell'ufficio provinciale gliel'avevano detto: "Non lo chiedete il tempo
pieno, perché al Sud non lo danno". Eppure i modelli mandati dal ministero,
freschi di stampa, prevedevano sulla carta la libertà di scelta: "Scusate, ma se
sul modulo c'è scritto, perché io devo dire alle famiglie di non scegliere il
tempo pieno?". E così alla scuola Adelaide Ristori , circolo Napoli 34, 800
utenti dalle materne alle medie, hanno spedito i moduli e incrociato le dita.
Qualche giorno fa, la doccia fredda: niente tempo pieno a Forcella, e cinque
maestre in meno. "Una bomba. Un disastro. Tutto da rifare". Luisa Perasole,
vicepreside della scuola, ha strappato tutte le simulazioni d'orario fatte, e ha
ricominciato daccapo a riempire fogli e schemini, per far tornare i conti e
riaprire a settembre la stessa scuola con meno insegnanti. Il problema non è
solo dei 37 bambini le cui famiglie avevano barrato sull'ottimistico modulo la
casella '40 ore': non le avranno, è certo, ma di cosa dovranno accontentarsi?
24, 27 o 30 ore a settimana, per stare sempre al ventaglio di offerte
ministeriali? "Sarà difficile garantire anche il tempo prolungato al pomeriggio.
E la mensa, nostro orgoglio da anni", dice Perasole.
Scuola di frontiera, tra la centrale via Duomo e le zone più popolari di
Forcella e Mercato, la Ristori, circolo Napoli 34, ha lottato per conquistare
quello che si chiamava 'tempo prolungato'. E che rischia anch'esso l'estinzione,
per il combinato disposto di due novità: l'abolizione delle ore di compresenza
degli insegnanti nella stessa classe, e, per medie e superiori, il riordino
delle cattedre (tutte a 18 ore, tutte d'insegnamento frontale). "Prima, anche
senza avere il tempo pieno i bambini potevano restare in mensa, e poi fare
attività nel pomeriggio. Con cinque maestre in meno, salta tutto il modello che
abbiamo costruito in anni di lavoro".
Lavoro didattico, e sul territorio: "Il pomeriggio lo usavamo per fare attività
di recupero personalizzate, ad esempio mettendo insieme bambini dello stesso
livello per rafforzare la matematica o l'italiano. Poi c'erano i laboratori, per
elementari e medie: informatica, latino, multimediale, facevamo anche un tg.
C'erano corsi di computer o teatro anche per le famiglie: lavoriamo in zone
molto problematiche, e avere la scuola aperta al pomeriggio, per tutti, è
importante".
Utopie, di fronte alla formula che il ministero ha usato per calcolare
l'organico: 'Numero di classi per 27 diviso 22'. Dove 22 sono le ore di
insegnamento previste da contratto per ogni maestra e 27 è l'orario settimanale
di riferimento delle elementari. Piccolo dettaglio: nelle domande d'iscrizione,
a Forcella come in tutt'Italia, le 27 ore non le ha chieste quasi nessuno (il 7
per cento del totale), ancora meno hanno chiesto le 24 ore (il 3), mentre tutti
gli altri hanno chiesto le 30 e le 40 ore. In pratica, il 90 per cento delle
famiglie ha chiesto un orario superiore a quello compatibile con i tagli. Il ministro Gelmini Palermo
- Oberdan
Nello stesso dilemma si dibatte Giovanni Litrico, direzione didattica Oberdan,
quartiere Oreto-Guadagna di Palermo: da settembre ha due insegnanti in meno per
lo stesso numero di bambini. In prima elementare, "tutte le famiglie hanno
chiesto le 30 ore articolate su sei giorni, sabato compreso. Qui la settimana
corta non esiste, e il tempo pieno non si è sviluppato perché i comuni non hanno
dato le strutture". Ma adesso tocca lavorare di fantasia e forbici per salvare
il sabato. "Forse per quest'anno ci lasciano le compresenze di inglese e
religione: cercherò di usare quelle ore per coprire quelle che mancano". In
sostanza, succederà che quando entra l'insegnante di religione o il maestro
specialista di inglese, la maestra titolare esce, e va a tappare i buchi in
qualche altra classe. Un escamotage disperato ma comune a tante scuole d'Italia.
Per i bambini che non seguono la religione cattolica, il risultato è nella
pratica violazione di Costituzione e Concordato: non avranno l'insegnamento
alternativo, ma saranno piazzati momentaneamente in altre classi. Certo è che
l'insegnante specialista di cattolicesimo resterà. Mentre quello di inglese va a
estinguersi, sostituito dall'insegnante 'specializzato': cioè uno con 100-150
ore di formazione ad hoc, da quest'anno obbligatorie per tutti. Così l'inglese
lo fa la maestra prevalente, e si risparmia. "Forse pensano che insegnare
inglese in prima elementare sia più facile, invece è proprio quella l'età
decisiva per cominciare bene la seconda lingua".
Roma - Di Liegro Maltrattato alle elementari, l'inglese si presenta
apparentemente potenziato'alle medie: dove si può chiedere, invece della seconda
lingua straniera, di fare cinque ore di inglese a settimana. Il perché in una
tabella del decreto sugli organici: riduzione posti della 'seconda lingua
comunitaria', meno 5.616. Ma alla scuola media Di Liegro, nel quartiere
Tiburtino a Roma, la domanda per 'l'inglese potenziato' non l'ha fatta nessuno.
"Tutta l'Europa studia due lingue, non si vede perché noi dobbiamo restare
fuori", dice la preside, Simonetta Caravita. Ma è meglio farne solo una bene,
che due male, è il ragionamento di buon senso. "Certo, però per migliorare la
lingua bisogna migliorare il metodo, fare gruppi di livello omogeneo, attività
integrative, non basta allungare le ore di insegnamento frontale", dice Caravita.
Nella sua scuola l'anno scorso c'era il tempo prolungato con potenziamento delle
lingue straniere, anche con il conseguimento delle certificazioni tipo 'ket' e 'delf'.
Quest'anno invece l'insegnamento delle lingue finirà per essere dimezzato.
Verona - Veronetta Porto San Pancrazio "Proprio ieri il papà di un bambino che
deve venire a scuola da noi mi ha chiesto: l'anno prossimo quanti pomeriggi
avremo a scuola? Due, o tre? Non ho potuto rispondere, e questo è devastante".
Ernesto Passante, dirigente dell'istituto comprensivo di Veronetta-Porto San
Pancrazio, a Verona, aspetta i dati dell'organico senza grandi speranze. Ha tre
scuole materne, tre elementari e due medie: 750 alunni. La sua scuola va spesso
nelle cronache per l'alta percentuale di stranieri: "Altro che mozione Coda, qui
le classi di soli stranieri, che poi sono quasi tutti nati in Italia, ce le
abbiamo già". Ma hanno anche tante altre cose: supporto per l'inserimento, corsi
per potenziare le eccellenze, far prendere ai ragazzi (italiani) i diplomi di
lingua straniera che negli istituti privati si pagano fior di quattrini. E
adesso? "Adesso salta tutto. Per tutte queste attività noi usavamo quella parte
di organico che era superiore allo stretto necessario". Con le nuove regole
resta a malapena lo stretto necessario. "Gli insegnanti bravi saranno quelli che
riescono a tenersi tutta la classe in silenzio". Ma anche così, il cerchio non
si quadra: "Le 24 ore, quelle del modello del maestro unico, le hanno chieste in
quattro. Gli altri vogliono o il tempo pieno o i rientri al pomeriggio. Penso
che saremo costretti a ridurre i rientri. Il tempo pieno forse riusciamo a
mantenerlo".
Roma - Walt Disney I ragazzini si avviano verso la mensa sotto un ritratto di
Walt schizzato a carboncino sul muro, mentre la direttrice fa la lista degli
esclusi, che ancora non sanno di essere tali. "In una sede ci hanno dato solo
una classe a tempo pieno su due: 19 domande bocciate. Qui, nella sede
principale, ne restano fuori otto", spiega Eva Pasqualini, riepilogando i numeri
della sua scuola, la Walt Disney del Nuovo Salario: una classe in più, due
insegnanti in meno. Risultato: aumento dei bambini per classe con 27 per le
elementari e 28 per le medie. Non solo: "Di fatto è saltato il tetto al numero
di alunni in presenza di disabili, anche se ancora si aspetta il regolamento
ufficiale". Le cose non cambieranno solo per le prime: "Le compresenze si
eliminano anche per le classi già avviate con i vecchi moduli. Dunque credo che
dovremo ridurre l'orario, anticipando l'uscita del venerdì". Quanto all'arrivo
della maestra prevalente e la sepoltura del modulo, la Pasqualini invita ad
andarci cauti: "Certo, avremo più vincoli di prima, ma non credo che rinunceremo
ad avere un lavoro collegiale degli insegnanti". Per tradurre: ci sarà una
qualche nuova versione del 'modulo', con maestre specializzate per gruppi di
materie. "In fondo l'autonomia ce l'abbiamo ancora", dice Pasqualini, che non
accetta un orario patchwork, fatto da una maestra prevalente, per 22 ore, più
tanti pezzetti di altre maestre: il modello Gelmini, in altre parole, che molte
scuole stanno di fatto by-passando.
Lecce - Corigliano d'Otranto "Anche noi cercheremo di mantenere il più possibile
la specializzazione delle maestre per ambiti di competenza, non possiamo tornare
all'insegnante tuttologo", dice dal Salento Luigi Martano, dirigente di una
scuola materna ed elementare. Che come tutti gli altri ha le sue decimazioni: 15
insegnanti invece di 19. Ma ha anche un grattacapo in più: il pignoramento.
Equitalia gli ha appena intimato di pagare la tassa sulla spazzatura per gli
anni scorsi: 9 mila euro, che nelle casse non ci sono. Perché i finanziamenti
sono stati tagliati, e dall'anno prossimo "Internet e fotocopie li dovremo far
pagare dalle famiglie". Equitalia minaccia le vie legali. "Non so, qui ci sono
lavagne e scrivanie: vogliono prendere queste?".