24 marzo

Aids: Francia e Germania contro il Papa

La Chiesa conferma le parole di Benedetto XVI sull'Aids

I due paesi europei hanno criticato il discorso di Benedetto XVI in Africa dove ha detto che l'Aids "non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi".

Dopo questa dichiarazione sia la Francia sia la Germania hanno detto che queste frasi "mettono in pericolo le politiche di sanità pubblica". Secondo quanto riferisce un comunicato stampa cogiunto delle ministre tedesche della Salute, Ulla Schmidt, e della Cooperazione economica e dello sviluppo, Heidemarie Wieczorek-Zeul, "una moderna cooperazione allo sviluppo deve dare ai poveri l'accesso ai mezzi di pianificazione familiare e tra questi rientra in particolare anche l'impiego dei preservativi. tutto il resto sarebbe irresponsabile".

Inoltre, il Vaticano ha confermato la posizione della Chiesa dopo le critiche e aggiunge che le parole del Papa sono state, secondo loro, mal riportate: "la Chiesa concentra il suo impegno non ritenendo che puntare essenzialmente sulla più ampia diffusione di preservativi sia in en realtà la via migliore", secondo si legge in una nota della Santa Sede.

 

Corea, Pyongyang espelle cinque Ong

Non è ancora chiaro se il governo intenda rifiutare anche gli aiuti del World Food Programme. Il governo di Pyongyang ha deciso di espellere cinque Ong statunitensi che si occupano di distribuire derrate alimentari e aiuti umanitari nel Paese.

La notizia arriva direttamente dal dipartimento di Stato di Washington e dalle cinque organizzazioni non governative, alle quali è stato dato tempo fino alla fine del mese per lasciare la Corea del Nord.
Joy Portella, portavoce di Mercy Corps, una delle organizzazioni toccate dal provvedimento, ha dichiarato di aver ricevuto la notizia dell'espulsione senza alcuna motivazione.
Le altre Ong statunitensi che dovranno lasciare la Corea sono World Vision, Global Resource Services, Samaritan's Purse and Christian Friends of Korea.
Non è ancora chiaro se Pyongyang intenda rifiutare anche gli aiuti umanitari del World Food Programme, che costituiscono la maggioranza degli aiuti. Secondo quando calcolato dall'agenzia umanitaria delle Nazioni Unite, nella Corea del Nord, quasi nove milioni di abitanti, un terzo circa della popolazione, necessita di aiuti alimentari.

 

Stati Uniti, aumentano le denunce per violenza sessuale nell'esercito

2923 i casi riportati ma si stima siano solo il 20 percento delle violenze

Secondo quanto riportato in uno studio del Pentagono, le denunce per violenza sessuale, che coinvolgono i soldati dell'esercito statunitense, sono aumentate nell'ultimo anno dell'8 percento.

Nel conteggio sono comprese sia violenze contro i civili che quelle avvenute all'interno dell'esercito. Dei 2923 casi aperti per stupro durate il 2008, 163 sono avvenuti in Iraq e in Afghanistan, con un incremento di un quasi un quarto rispetto all'anno precedente.
La dottoressa Kaye Whitley, a capo del Sexual Assault and Prevention Office del Pentagono si è però affrettata a dichiarare che il maggior numero di cause legali non significa necessariamente un aumento della violenza, quanto piuttosto una maggiore propensione alla denuncia.
Resta però il fatto che, secondo le stime fornite dal Pentagono stesso, i casi riportati alle autorità inquirenti costituirebbero solo un quinto di quelli commessi.
Inoltre dei 2763 casi denunciati nel 2007, solo 832 sono arrivati ad una conclusione giudiziaria.

 

Notti di rivolta «ordinaria» nelle banlieues

Una banda è entrata in un liceo professionale a Gagny, la scorsa settimana, per un regolamento di conti tra quartieri, armata di barre di ferro. Nella notte di sabato scorso, dei poliziotti sono stati attratti in una trappola e presi di mira con armi da fuoco ai Mureaux. Alcuni sono rimasti leggermente feriti. Sempre tra sabato e domenica, il commissariato di Montgeron è stato preso a rivoltellate, con un calibro 12. Nella stessa notte delle auto sono state bruciate in pieno centro di Parigi, nel Marais. I servizi segreti non credono però che questa serie di episodi sia un segnale che annuncia una nuova esplosione delle banlieues, come era successo nell'autunno del 2005. La situazione, nei fatti, è sempre la stessa nelle periferie difficili.
Ogni week end conta le sue macchine bruciate. La tensione è continua e un episodio qualsiasi potrebbe trasformarsi nella miccia che fa ripartire l'incendio. Gli interventi politici sono stati molto limitati dal 2005 e il «piano per le periferie» messo a punto dalla sottosegretaria Fadela Amara si è sgonfiato man mano che veniva messo a punto, per mancanza di finanziamenti e di reale volontà del governo di incidere sulla situazione. Il tasso di disoccupazione dei giovani che abitano i quartieri difficili resta estremamente più alto di quello dei loro coetanei più fortunati. Ma, secondo il direttore dipartimentale della pubblica sicurezza della zona dei Mureaux, questo episodio non è «legato alla crisi». Piuttosto, è una reazione a dei recenti arresti negli ambienti della droga, anche se da giorni ai Mureaux la tensione era cresciuta, in seguito alla morte di un mediatore municipale, che si è ucciso in macchina per sfuggire alla polizia che cercava di arrestarlo per un fatto criminale.
Con Sarkozy, la banlieue è stata militarizzata. La ministra degli interni, Michèle Alliot-Marie ha annunciato che presto ci saranno dei droni, degli aerei senza pilota, a sorvegliare cosa succede nei quartieri difficili, dove la polizia ha paura di entrare. La violenza aumenta e si fanno più frequenti gli scontri con le forze dell'ordine dove viene fatto ricorso ad armi da fuoco. Era già successo nel 2005 a Montfermeil, la cittadina dove era partita la rivolta delle banlieues, a Villiers-le-Bel nel novembre del 2007, durante l'esplosione che aveva fatto seguito alla morte di due ragazzini in un incidente con un'auto della polizia, a Etampes nel marzo 2007 e a Aulnay-sous-bois nel novembre dello stesso anno. Spesso con lo stesso scenario: una macchina viene incendiata, qualcuno chiama la polizia, che cade nella trappola e gli agenti sono presi di mira da gruppi di giovani molto mobili. E' successo anche a Pointe-à-Pitre in Guadalupa, durante lo sciopero a febbraio, poi in Martinica e alla Réunion all'inizio di marzo. Si tratta di episodi isolati. Ma i sindacati di polizia denunciano «una crescita delle violenza organizzata ed armata» nelle zone difficili, dove la rivolta sociale spontanea è spesso sfruttata da bande criminali.

 

«Europa no grazie», doppio autogol del ministro Ronchi

Vuoi un'Europa fortezza o un'Europa giardino? Quanta sicurezza è troppa sicurezza? Domande che sono il cuore della campagna lanciata ieri dal Parlamento europeo per incoraggiare il voto di giugno. Sotto la domanda sulla sicurezza tre cartelli stradali triangolari, quelli indicanti pericolo, sovrastati da una telecamera, un'impronta digitale e un poliziotto. La campagna si dirige a 15 paesi a bassa affluenza, tra cui l'Italia, anche se l'Italia è stata l'unica a non volerla. Il rifiuto l'ha annunciato il ministro Ronchi, che ha bollato l'idea europea come «inadeguata» e ha rilanciato con un'altra proposta nazionale. Un rigetto che colpisce, ma che viene preso con sportività ed ironia dal diretto interessato, il Parlamento. «Ringrazio il governo italiano - ha detto ieri Alejo Vidal Quadras, vicepresidente popolare spagnolo dell'eurocamera - per il contributo involontario che ha dato alla nostra iniziativa». Insomma, un doppio autogol di Ronchi.

 

Precari a terra, manager strapagati

Non passano gli emendamenti sul raddoppio dell'una tantum per gli atipici e sul tetto agli stipendi di banchieri e dirigenti richiesto dalla Lega. Per i finti collaboratori la misura dovrebbe rientrare. I manager invece possono stare tranquilli

Salta il potenziamento degli ammortizzatori sociali per i precari e salta anche il tetto alle retribuzioni dei manager. Le due misure, presentate dal governo come due emendamenti al decreto legge sugli incentivi al settore dell'auto e elettrodomestici, non hanno superato le maglie di «ammissibilità» (per estraneità di materia) e sono state rigettate insieme alla metà circa degli emendamenti presentati (400). Ma se sui precari ieri sera veniva data quasi per certa la reintroduzione del provvedimento, per il tetto agli stipendi dei manager (deciso da Prodi, poi congelato da Berlusconi) pare trattarsi di un nuovo - definivo probabilmente - affossamento.
«Gli emendamenti del governo sui precari verranno ripescati», assicurava in serata il relatore del decreto legge alla commissione finanze della camera, dopo le aperture del presidente della camera Gianfranco Fini. La misura d'altro canto è stata ampiamente pubblicizzata dal ministro Sacconi, e non comporta un particolare esborso per le casse statali, trattandosi di circa 100 milioni di euro. Si tratta del raddoppio - dal 10 al 20 per cento della retribuzione percepita - dell'indennità una tantum per i parasubordinati (ossia i collaboratori fasulli) che saranno licenziati: 1600 euro medi, per una platea di 80-90 mila persone (il 10 per cento circa dei parasubordinati conosciuti), secondo i conti della Cgil, che ha criticato la misura definendola un «raddoppio dell'elemosina». Oltre a questo, il pacchetto del governo prevedeva una semplificazione del procedimento di accesso agli ammortizzatori sociali (oggi servono dai 120 ai 140 giorni per gli strumenti ordinari). «Talvolta si può rimanere vittima del troppo decisionismo, ma se quel poco che si è fatto salta vorrei che il governo accogliesse le proposte da noi fatte», commenta il segretario Cgil, Epifani. Per i precari la Cgil chiede un ampliamento della platea degli interessati (dai 90 mila che sono a circa 180 mila) e un raddoppio dell'assegno una tantum, dal 20 al 40 per cento della retribuzione dell'anno precedente. Il segretario della Cisl Bonanni ha chiesto al governo di «trovare un rimedio immediato», e così hanno fatto molti esponenti del Pd. Difficile pensare che il governo non accolga le richieste, trattandosi di una misura a basso costo ma sicuramente popolare in tempi di crisi come questi.
Decisamente più impopolare invece, tanto è vero che ieri in pochissimi ne hanno parlato e nessuno ne ha prefigurato un reinserimento, il tetto agli stipendi di manager e banchieri. L'emendamento era stato presentato dalla Lega e prevede che il trattamento economico di dirigenti di banche e imprese che, in seguito alla crisi beneficeranno di aiuti pubblici, non possa superare il limite di 350 mila euro all'anno. Un altro emendamento, ugualmente respinto, prevede similmente il limite massimo del trattamento previsto per i parlamentari, per qualunque soggetto in rapporto di lavoro con amministrazioni statali, o con enti pubblici di ricerca. Non la rivoluzione, insomma. Tanto più che un tetto agli stipendi dei manager pubblici (pari alla retribuzione del primo presidente della corte di cassazione, ossia 289 mila euro) era stato previsto e introdotto dal governo Prodi, per essere poi congelato seduta stante da Berlusconi.
«Mentre si licenziano i precari della pubblica amministrazione, il governo riesce a eliminare il tetto delle retribuzioni: un fatto gravissimo anche perchè sarebbe bastato non fare nulla e applicare la norma esistente», commenta a caldo il segretario della funzione pubblica Cgil Carlo Podda. Ma sempre in tema di precari e di pubblica amministrazione, l'iperattivo ministro Brunetta sembra avere compiuto il miracolo: dalle cifre diffuse ieri sui primi risultati del monitoraggio lanciato nel settore, risultano appena 1125 persone con i requisiti per la stabilizzazione. «Un vero miracolo», replicano dalla Cgil: «Brunetta è riuscito a fare sparire i precari».

 

Piaggio lacerata sull'integrativo: Cgil contro Cisl e Uil, si va al referendum

Come sul modello contrattuale, accese assemblee sulle diverse posizioni. Ma qui il nodo del contendere sono la turnistica e i salari

Dodici assemblee in quattro giorni alla Piaggio di Pontedera, da lunedì scorso e fino a domani, di fronte a circa duemila operai e un migliaio di impiegati. Con da una parte la Fiom Cgil, compatta, che spiega il perché del suo «no» all'ipotesi di accordo integrativo. Una bozza di intesa firmata invece dalle altre sigle sindacali metalmeccaniche, che a loro volta si battono per il «sì» al referendum fra i lavoratori, fissato all'inizio della prossima settimana. Clima caldo, insomma, nella più grande fabbrica del centro Italia. Riscaldato ulteriormente dalla decisione dell'azienda di convocare mini assemblee degli impiegati, proprio mentre si svolgono quelle organizzate da Rsu e sindacati. «Un chiaro comportamento antisindacale - osserva Maurizio Landini della Fiom nazionale - nel solco di quanto il management Piaggio ha già fatto nel corso delle trattative per l'integrativo, per dividere i lavoratori». Il giudizio di Landini è anche quello del segretario generale Gianni Rinaldini, che annuncia: «Se alla Piaggio l'azienda dovesse persistere nelle sue iniziative, la Fiom darà corso alle conseguenti azioni legali a tutela dei diritti dei lavoratori. Perché ci troviamo di fronte a una evidente operazione volta a esercitare una pressione inaccettabile sullo svolgimento democratico del voto».
Secondo la Fiom, l'accordo per l'integrativo pone condizioni ancora peggiori dell'offerta fatta da Piaggio nell'ottobre scorso. Un'offerta all'epoca rifiutata dalla Rsu e da tutte le organizzazioni sindacali. Ma Landini sul punto puntualizza: «Per noi non è in discussione quanto ottenuto, unitariamente, nel corso delle trattative fino all'ottobre scorso. In altre parole su ambiente di lavoro, sicurezza, relazioni sindacali, e sull'organizzazione della produzione che comprende sia l'inquadramento dei lavoratori che l'occupazione con l'entrata definitiva dei contrattisti a termine, l'ipotesi di accordo è ok». Quello che alla Fiom non va giù sono le parti dell'integrativo che riguardano gli orari di lavoro e i salari. Più in dettaglio, sul primo punto Landini osserva: «Sulla turnistica, l'azienda intende applicare un modello di orario su 17 turni e non più su 15, con il sabato lavorativo. Il tutto dimezzando la percentuale della 'banca delle ore', che fino ad oggi prevedeva l'esenzione fino al 12% degli operai su ogni linea, mentre nella nuova bozza di accordo la percentuale si riduce al 6%».
In quanto agli stipendi, la Fiom sul punto è chiara: «Nell'ipotesi di integrativo in discussione ci sono meno soldi a disposizione dei lavoratori di quanto la stessa azienda aveva proposto in ottobre, al momento della rottura, unitaria, delle trattative. In pratica la bozza di accordo prevede per il 2008 un aumento di soli 51 euro lordi. Mentre per quest'anno e per i due successivi, in teoria, gli aumenti dovrebbero andare da 400 euro a 650 fino a mille euro nel 2011. Ma sono tutte cifre legate in pratica alle variabili sul premio di risultato. Insomma non solo sono pochi soldi in assoluto, ma sono anche legati a indicatori di produzione fissati dall'azienda».
Di questo si sta discutendo in Piaggio nelle assemblee. Durante le quali la Fiom fa anche due conti: «Dal sito ufficiale Piaggio - chiude Landini - vediamo che i bilanci consolidati segnalano guadagni netti per 170 milioni di euro negli ultimi tre anni. Poi che Roberto Colaninno e i due più importanti dirigenti Piaggio nel 2008 hanno guadagnato, in tre, 2.5 milioni. Infine che le stock option per i manager Piaggio sono costate all'azienda circa 7 milioni di euro».

 

17 marzo

Ronchi: "Mentre l'Europa investe nel sole l'Italia vede solo il nucleare"

di Antonella Loi

19 marzo 2009 - Agli ultimi posti in Europa per produzione di energia da fonti rinnovabili. Mentre la Germania vola e altri Stati come l'Inghilterra o l'Olanda fanno a gara per raggiungerla, l'Italia, sempre ai blocchi di partenza, ignora le continue spinte comunitarie. "Il nostro Paese soffre di un forte ritardo culturale rispetto alla media europea, quel ritardo che accomuna tutti i Paesi dell’area mediterranea", ci spiega Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile ed ex ministro dell'Ambiente. L'incapacità dell'Italia di guardare ai paesi nordici in termini di sviluppo energetico è storia e la pagina più recente riguarda proprio le fonti alternative. "E poi in Italia c'è il problema della polemica sempre aperta contro l’ambientalismo ideologico, una gabbia dalla quale non si esce".

E i numeri ci dicono che il gap con i paesi del Nord Europa è davvero ampio.

"Per fare una valutazione basta prendere in considerazione il periodo 2000-2007. In questo lasso di tempo l'Ue dei 15 ha aumentato la produzione di energia elettrica attraverso le rinnovabili in media di un +26,4%. Il primo Paese è la Germania che ha incrementato la sua produzione del 119%. Segue l'Olanda (+161%), la Gran Bretagna +109,7% e ancora la Spagna (+64,7%). L'Italia in questo periodo ha fatto registrare il -3,7%”.

Un quadretto per nulla edificante.

“Niente di buono in effetti, anche se bisogna ammettere che, avendo piovuto molto nel 2008, la produzione di energia idroelettrica è cresciuta facendo segnare un +7% rispetto al 2007. Ma è chiaro che da noi non c'è il forte sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili che vediamo negli altri Paesi”.

E allora l'Italia su quali fonti rinnovabili dovrebbe investire?

“Secondo me su tutte. Abbiamo appena detto dell’energia idroelettrica, guardando soprattutto ai piccoli impianti. Ma anche l’eolico che ha visto negli ultimi anni un grande sviluppo in Europa e poi il solare che rappresenta un importante settore di sviluppo che guarda al futuro. Mentre in tutta Europa si investe, l’Italia sfrutta pochissimo il solare: solo 0,04 kwh prodotti nel 2007. Poi anche le biomasse, la geotermia e la cattura del CO2 offrono delle opportunità interessanti”.

Con la legge 27 febbraio del 2009 il governo ha cancellato l'obiettivo del 25% di energie pulite entro il 2012. Lei ha duramente criticato questa decisione.

"Certo, perché il governo ha messo un obiettivo al 2020 del 17% e per di più sui consumi finali senza specificare quale sia la quota di produzione di energia elettrica, comprendendo anche calore e biocarburanti. Quindi di fatto è stato cancellato l'obiettivo previsto dalla legge 244/2007. Una norma che puntava a coinvolgere le Regioni a incrementare rapidamente (entro 4 anni) nei rispettivi territori la localizzazione di impianti per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Ed oggi non sappiamo ancora quale sia l'impegno che il governo vorrà prendere per promuovere la produzione energetica attraverso le fonti pulite".

Una pagina ancora da scrivere.

"Esatto. Attendiamo chiarimenti attraverso nuove norme che stabiliscano la ripartizione tra le energie. E comunque sarà un orizzonte non più fissato per legge a breve termine, ma al 2020. Per sapere quale sarà il nuovo obiettivo al 2012 bisogna attendere le norme. Ma si tratterà, è evidente, di un obiettivo modesto”.

Per tenersi in linea con l'Europa e con gli impegni internazionali, cosa dovrebbe fare secondo lei l'Italia?

“Scelte più coraggiose. Lo possiamo dire sempre in termini percentuali: dovremmo raggiungere una produzione di energia pulita pari al 18 per cento e, in termini di elettricità, almeno il 33%. Ma parliamoci chiaro: qui sono state rinviate anche le norme già vigenti sull'efficienza energetica dei fabbricati. E’ un segnale molto indicativo”.

Il governo ha però optato per la produzione di energia nucleare.

“Sì, e per fortuna è una scelta ancora aperta: non c’è ancora la legge, non c’è il sito, non c’è il progetto di finanziamento e serve un immobilizzo ingente di capitali a lunga scadenza. Tanto più che si è optato per la tecnologia francese che è superata dalle centrali di quarta generazione. E queste saranno pronte solo tra 10-15 anni. L’Italia sta investendo in una tecnologia vecchia che non dà grande resa in termini di sicurezza (valutata sulla base delle probabilità di incidente per contenuto di pericolosità). Io vedo tante chiacchiere e poca sostanza, mettiamola così”.

Una scelta sbagliata dunque?

“Sbagliata e incostituzionale. Perché il Titolo V della Costituzione, all’articolo 117, stabilisce che la materia dell’energia è una materia concorrente, sulla quale decidono anche le regioni. Ma il Governo per aggirare gli ostacoli è intenzionato a dichiarare il nucleare di “interesse nazionale”. Quindi la questione potrebbe arrivare fino alla Corte Costituzionale. Ancora tutto aperto”.

Il timore di molti è che gli ingenti investimenti che il nucleare richiede, alla fine arrivino dalle casse pubbliche e non da quelle di investitori privati.

“Secondo le norme Ue questo non si può fare perché gli Stati sono autorizzati a finanziare, al fine di incentivarle, solo le energie rinnovabili. Il nucleare non lo è e quindi o lo finanziano i privati o non lo finanzia nessuno. Sempre che, ovviamente, le leggi non riescano a far cambiare le leggi”.

 

17 marzo

Usa, la pena di morte uccisa dalla crisi

Schiacciati da bilanci in rosso, diversi Stati contemplano l'abolizione della pena capitale: costa più dell'ergastolo
Alessandro Ursic

 Dove non sono arrivati i principi morali, forse ce la farà il soldo. Di fronte alla crisi economica, e appesantiti da bilanci sempre più in rosso, diversi Stati negli Usa stanno considerando proposte di legge per abolire la pena di morte, seguendo un semplice ragionamento: contrariamente a quanto pensino molti, costa più dell'ergastolo.

La scorsa settimana, nel New Mexico il Congresso ha approvato il testo finale della legge che lo farebbe diventare il 15esimo Stato americano senza esecuzioni: manca solo la firma del governatore democratico Bill Richardson, in passato favorevole alla pena di morte ma ora - l'ha ammesso lui - non più così sicuro delle sue convinzioni. Altri nove Stati ne stanno comunque discutendo. In alcuni  casi, come nel Colorado e nel Kansas, le proposte citano esplicitamente il risparmio per le casse statali, in caso di abolizione. Il New Jersey, che a fine 2007 è stato l'ultimo Stato a disfarsi della pena capitale, lo fece anche per ragioni economiche.

Ma perché costerebbe meno tenere in cella una persona a vita, invece di portarla nelle mani nel boia? Innanzitutto per i costi giudiziari dell'annosa sequenza di sentenze, appelli e controappelli: i procedimenti richiedono un numero extra di avvocati, specializzati in questi casi e quindi dalle parcelle più onerose. La raccolta delle prove è un'altra voce che alza il prezzo, perché un test del Dna costa più di una ordinaria analisi del sangue. Infine, anche la detenzione nel braccio della morte è più costosa di quella in una semplice prigione: i condannati vengono rinchiusi in celle individuali, in sezioni a parte dei centri di detenzione, con un maggior numero di guardie pro-capite. Se si aggiunge il fatto che dalla sentenza all'esecuzione passano anche 15-20 anni, il conto è presto fatto. Una commissione californiana l'anno scorso ha calcolato in 90mila dollari il costo aggiuntivo per ogni condannato a morte -  e nello Stato al momento ci sono 667 detenuti in attesa di esecuzione. Secondo alcuni esperti, in sostanza la pena capitale costa dieci volte tanto un ergastolo.

"E' la prima volta che il costo rappresenta la questione prevalente nella discussione sulla pena di morte", conferma Richard Dieter, direttore del gruppo abolizionista Death Penalty Information Center. Negli anni Novanta, i primi semi del dubbio nel dibattito americano sul tema erano legati più alla possibilità - evidenziata da decine di scarcerazioni successive all'esame del Dna - di giustiziare degli innocenti, per quanto non esista ancora nessuna prova che ciò sia avvenuto. Negli ultimi tre anni, nuovi "ostacoli" alla pena di morte sono giunti da studi sul dolore provato dai condannati sottoposti a iniezione letale, il metodo usato in tutti gli Stati Usa tranne uno. In un caso, in Florida, un detenuto impiegò 34 minuti a morire. Per nove mesi le esecuzioni si sono di fatto fermate, in attesa di una sentenza della Corte Suprema (che la scorsa primavera ha poi sbloccato la moratoria, sostenendo che l'iniezione letale non costituisce "pena crudele e inusuale").

Qualsiasi ragione si voglia trovare, è un fatto che la tendenza negli Usa è quella di un declino delle condanne e delle esecuzioni: le prime sono passate dalle 284 del 1999 alle 111 dell'anno scorso, le seconde da 98 a 37. Dopo George W. Bush, che da governatore del Texas mise la sua firma su 152 condanne a morte, il nuovo presidente Barack Obama appare più tiepido sul tema: ha dichiarato di essere favorevole alle esecuzioni solo in casi estremi. Come molti politici negli Usa, Obama ha però in sostanza evitato la questione; forse anche perché conscio che il 60 percento degli americani rimane a favore della pena di morte, e specie nel sud più religioso e conservatore il consenso è ancora più alto. Ma anche se fosse un abolizionista convinto, Obama non avrebbe neanche l'autorità per scavalcare i vari Stati.

 

Afghanistan, condanna senza appello

Confermati 20 anni allo studente di giornalismo che scaricò da internet materiale 'blasfemo'. I legali e il fratello, giornalista, intervistato da PeaceReporter: è lo specchio di un sistema giudiziario in bancarotta morale
La Corte Suprema afgana ha confermato la condanna a 20 anni di prigione per Parwiz Kambakhsh, studente di giornalismo accusato di blasfemia. La decisione del massimo tribunale afgano è stata presa in segreto il 12 febbraio scorso, e la famiglia l'ha appresa solo ieri. Il caso aveva suscitato una vasta campagna di indignazione da parte della comunità internazionale, spingendo molte organizzazioni per i diritti umani e federazioni giornalistiche da tutto il mondo a fare pressione affinchè il governo Karzai tornasse indietro.

Parwiz, 24 anni, era stato arrestato nel 2007 e dapprima condannato a morte perchè accusato di aver scritto e distribuito un articolo sul ruolo delle donne nell'Islam. L'accusato ha sempre sostenuto di aver scaricato l'articolo da internet. I suoi familiari e i suoi legali hanno definito illegale una procedura dove a Parwiz è stato negato un giusto processo e la possibilità di difendersi.

 

Haiti, discriminazione infinita
I cittadini haitiani vittime delle politiche migratorie statunitensi
La storia gli haitiani la sanno bene. Costoro che appartengono alla popolazione più povera, meno accettata e più oltraggiata dell'emisfero, negli Stati Uniti e nel loro Paese. E sanno che il meccanismo è sempre lo stesso: qualcuno deve pagare.

Recentemente, i funzionari dell'Immigration and Customs Enforcement (ICE) hanno evidenziato l'ingiustizia annunciando oltre 30.000 espulsioni, che riporteranno migliaia di haitiani al paese d'origine. In una Haiti che già vacilla sotto il peso della povertà, della repressione, della disperazione, della devastazione portata dagli uragani della scorsa estate, e dall'occupazione da parte dei caschi blu paramilitari delle Nazioni Unite, stanziati illegalmente nel paese dal 2004 - per la prima volta nella storia - per supportare e imporre un colpo di Stato contro un Presidente democraticamente eletto, per ordine di Washington. Il 9 dicembre 2008, l'ICE ha ripreso le espulsioni dopo uno pausa iniziata a settembre a seguito degli uragani estivi che si sono abbattuti su Haiti, e che hanno lasciato 800.000 persone senza cibo, acqua e altri beni di prima necessità, e 70.000 persone circa senza casa. La portavoce dell'ICE Nicole Navas ha annunciato: "Era in programma la ripresa dei voli per il rimpatrio degli espulsi, non appena la situazione nel paese fosse stabile e sicura. Abbiamo ritenuto fosse appropriato farlo ora considerate le attuali condizioni sul posto... Le persone rimpatriate hanno ricevuto ordine definitivo di rimpatrio nonchè i documenti di viaggio necessari". Questo nonostante schiere di avvocati e persone coinvolte sostengano che le condizioni ad Haiti siano peggiorate, non certo migliorate. Anche osservatori internazionali o imparziali hanno verificato la condizione reale del Paese. La BBC ha definito la situazione di Haiti "impressionante" e il Miami Herald ha dichiarato che vi è stato il "disastro umanitario peggiore dell'ultimo secolo in Haiti", che ha lasciato dietro di sé:

In dicembre, Randy McGorty, Direttore dei Catholic Legal Services per l'Arcidiocesi di Miami ha dichiarato: "Dopo aver trattato per otto anni con questa Amministrazione sulle questioni haitiane, mi vedo costretto a concludere che la politica adottata nei confronti di Haiti è razzista. È scandalosa. Gente che ha perso tutto, non possiede il minimo, sta morendo di fame. Un tale impietoso disprezzo per la vita umana è inspiegabile. Molti haitiani espulsi non hanno una comunità a cui fare ritorno. È scoraggiante il fatto che l'Amministrazione Bush possa anche solo considerare l'idea di rimandare le persone in questa nazione così incredibilmente fragile.... La crisi umanitaria di Haiti continua e peggiora". Cheryl Little, Direttore esecutivo del (South) Florida Immigrant Advocacy Center (FIAC), ha affermato: "Stiamo facendo il possibile per convincere i funzionari governativi a cambiare idea su questa questione. Si tratta di un atto immorale e disumano".
Il 26 gennaio, il FIAC ha sollecitato il nuovo Segretario del Dipartimento di Sicurezza Nazionale (DHS) Janet Napolitano, a "fermare immediatamente queste agghiaccianti espulsioni e pensare seriamente di concedere lo status di protezione temporanea (TPS) agli haitiani già presenti negli Stati Uniti". Nel corso del 2008, sono state rimandate verso miseria e desolazione 1.000 persone, poi, dopo quasi tre mesi di sospensione, sono ripresi i viaggi del dolore, con una visibile accelerazione dopo l'insediamento di Obama.
Secondo il FIAC, a subire la situazione sono uomini come Louiness Petit-Frere, espulso il 23 gennaio scorso: "Negli Stati Uniti da 10 anni, fedina penale pulita, lascia la moglie cittadina statunitense, la madre e quattro tra fratelli e sorelle, tutti con status legale... Uno dei suoi fratelli, il Sergente della Marina US Nikenson Peirreloui, ha prestato servizio, ed è stato ferito, in Iraq". Nel 2008, Obama ha condotto una intensa campagna elettorale per ottenere il voto haitiano nella Florida del Sud. Oggi, tradisce la fiducia abbandonando milioni di famiglie povere al proprio destino, offrendo un aiuto ridicolo alle situazioni di emergenza, se paragonato, per esempio, ai sussidi (miliardari) concessi a Wall Street e ai ricchi.

Dopo che il Congresso istituì il TPS nel 1990, Washington concesse protezione a 260.000 salvadoregni, 82.000 honduregni e 5.000 nicaraguensi, per poi estendere la concessione di permessi il 1 ottobre 2008. Ciò autorizza il Procuratore generale a concedere lo status di immigrazione temporanea a residenti privi di documenti ma impossibilitati a tornare in patria a causa di conflitti armati, disastri ambientali o altre "condizioni eccezionali e temporanee". Oltre a El Salvador, Nicaragua e Honduras, tra i paesi beneficiati in passato si annoverano Kuwait, Libano, Bosnia-Herzegovina, Guinea-Bissau, Rwanda, Burundi, Liberia, Montserrat, Sierra Leone, Somalia, Sudan e Angola. Sei nazioni godono ancora del TPS.
Ma gli haitiani non hanno mai ottenuto il TPS, sebbene la concessione sia una delle forme di aiuto più semplici ed economiche, e consentirebbe al governo della capitale Port-au-Prince di concentrarsi sulla ricostruzione del paese mentre gli haitiani in America contribuiscono inviando le rimesse alle proprie famiglie d'origine.
Nel 2006, gli haitiani negli Usa hanno inviato 1,65 miliardi di dollari, la percentuale di reddito più elevata di qualsiasi gruppo nazionale straniero del mondo.
Nel 1997, l'Amministrazione Clinton concesse agli haitiani una sorta di visto temporaneo della durata di un anno, accordato a persone con lavoro e fedina penale pulita. Attualmente, circa 20.000 haitiani possiedono i requisiti necessari per ottenere il TPS. Tra l'altro, rispetto ad altri paesi che benificiano di permessi, il numero di haitiani è di gran lunga inferiore. Ciononostante, le espulsioni continuano e 30.299 persone hanno un "ordine finale di trasferimento", il che significa che un giudice per l'immigrazione ne ha disposto l'espulsione. Circa 600 sono in stato di fermo, altri 243 sono monitorati elettronicamente e tutti e 30.000 saranno allontanati da un'Amministrazione insensibile verso i poveri tanto quanto le precedenti, integraliste, che governavano sotto la presidenza di George W. Bush. Pare che l'America sia il paese dove tutto cambia, rimanendo però le cose sempre le stesse... persino se a governare è il primo Presidente nero.

Stephen Lendman

 

Il prezzo dell’integrazione
Obiectiv, il periodico italo-romeno a vocazione sociale
«In questo momento il nostro compito è tenere alto il morale dei cittadini rumeni, fa male quando ti si dice che sei stupratore per natura», esordisce così Magdalena Lupu, caporedattore di Obiectiv, periodico italo-romeno che ha la sua sede nel cuore del quartiere etnico di Torino, tra Barriera di Milano e Porta Palazzo. Attivo da ormai due anni svolge il compito di connettere la comunità romena e quella italiana. Un compito tanto più importante oggi che, in seguito a episodi di violenza che hanno avuto come protagonisti cittadini romeni, si è diffuso un clima di caccia alle streghe alimentato dai media e oggetto di strumentalizzazioni da parte della politica. Recentemente il senatore Stiffoni della Lega Nord ha dichiarato: «L'etnia romena, se rappresentata da questi personaggi specializzati in stupri, non è degna di restare in una Europa unita».

Eppure i dati del ministero dell'interno, benché non contestualizzati e dunque di ardua valutazione, dicono che le violenze compiute da romeni sono in numero minore rispetto ad altre etnie, per non parlare degli stupri compiuti da italiani che restano il settanta percento del totale. A Torino si sono verificati episodi di violenza ai danni di rumeni, non da ultimo l'incendio di un negozio di alimentari in via Monterosa avvenuto a fine febbraio, considerato dalla polizia come crimine "a sfondo razziale". E poi ronde, scritte xenofobe. «Ma noi non ci sentiamo minacciati, abbiamo sempre espresso la nostra opinione, non è una questione di coraggio. Noi vogliamo informare, è il nostro lavoro -spiega Magdalena Lupu- noi vogliamo essere l'altra faccia della medaglia, lo abbiamo detto fin dal primo momento. Se un italiano intende conoscere l'opinione di un romeno al di là di quanto si dice sui giornali o sente in televisione lo può fare con noi. Allo stesso modo se un romeno vuole difendere se stesso e la sua comunità da accuse generalizzate può avere diritto di replica sul nostro giornale». Le istituzioni locali però sono sorde al lavoro di Obiectiv, non tanto quelle italiane, che si sono spese in favore dell'integrazione specialmente dopo l'ingresso della Romania nell'Europa unita, ma quelle romene. Il Consolato generale della Romania si è insediato a Torino nel 2007 e molte speranze venivano riposte nella sua presenza: «Ma il consolato è solo burocrazia» ed è mancata quella connessione, quella posizione comune che avrebbe potuto dare voce alle istanze della comunità.

Quello di Obiectiv è un giornalismo a vocazione sociale e per questo esce in doppia lingua, lo spiega bene il Direttore Giovanni D'Amelio: «Questo giornale è nato per essere un ponte tra le due culture, ci rivolgiamo ai romeni per far conoscere quei fatti che riguardano direttamente la comunità, e a quegli italiani che sono interessati a conoscere la comunità romena, che a Torino e provincia conta più di centomila persone. La linea tenuta dagli altri media -prosegue D'Amelio- è quella di dare addosso allo straniero strumentalizzando la minoranza che compie crimini. Non si presenta mai l'aspetto positivo delle comunità. Ciò testimonia come non ci sia da parte del mondo dell'informazione una sensibilità spiccata verso lo straniero. Si tende a parlarne solo per i fatti di cronaca enfatizzando molto che è straniero e non si evidenzia che in Italia oggi i migranti reggono in buona parte la creazione della ricchezza». Ma a Obiectiv non piacciono le lodi eccessive: «Facciamo solo il nostro dovere -ripete Magdalena Lupu- e possiamo contare solo sulle nostre forze. Non riceviamo denaro da nessuno, ci autofinanziamo e poi, naturalmente, c'è la pubblicità. Questo è garanzia della nostra obiettività e del nostro desiderio d'essere d'aiuto trasversalmente rispetto agli interessi particolaristici». Essere d'aiuto alla comunità romena e alla società tutta, informare e connettere la realtà di chi vive qui con quella di chi ci è arrivato da poco, anche in nome della comune cittadinanza europea, far conoscere la cultura di un paese al di là degli stereotipi negativi. Obiectiv esce in oltre mille edicole a Torino e provincia al costo di soli cinquanta centesimi: è questo il prezzo dell'integrazione.


                                    Matteo Zola

Spagna, arresti su commissione
Il ministero degli Interni di Madrid stabilisce 'quote' di immigrati marocchini da arrestare

Lo scorso febbraio è emerso che gli agenti della Polizia nazionale di Madrid stavano applicando da alcuni mesi nuove disposizioni in merito al numero degli arresti da eseguire ai danni di immigrati irregolari.

Secondo un documento interno proveniente da un commissariato della capitale visionato in primo luogo da EuropaPress, sarebbe stato imposto un tetto minimo settimanale di arresti per ogni singolo distretto e inoltre sarebbe stata esplicitata la convenienza dell'arresto di immigrati di nazionalità marocchina, per via delle esigue spese di rimpatrio via terra verso il vicino Marocco. Il contenuto del documento era stato risultato di una riunione avvenuta lo scorso 12 novembre e era stato trasmesso al commissariato di Villa de Vallecas, che nel caso specifico avrebbe dovuto presentare 35 arresti a settimana e, nel caso in cui quel numero non fosse stato raggiunto, gli agenti avrebbero potuto eseguire l'operazione al di fuori della loro giurisdizione. Lo scorso 16 febbraio Atime, associazione sindacale che si occupa dei diritti dei lavoratori immigrati marocchini residenti in Spagna, ha emesso un comunicato stampa nel quale venivano denunciati numerosi episodi di operazioni poliziesche sommarie nei confronti della comunità marocchina, in particolar modo nelle città di Madrid e Valencia, e richiedeva una chiarificazione in merito al Ministro degli Interni Alfredo Pérez Rubalcaba.

Lo stesso giorno il ministro spagnolo rispose ammettendo di aver disposto delle indicazioni numeriche dirette a garantire la diminuzione del tasso di delinquenza, negando quindi ogni ombra di illegalità e discriminazione alle operazioni suggerite alla Polizia Nazionale e senza fare alcun riferimento al caso specifico degli immigrati marocchini. A fronte del presunto malinteso creato dal corpo di polizia, la Confederación Nacional de Policía ha espresso il suo disappunto rispetto alle parole del ministro additando alla politica del governo quanto accaduto a Madrid; ha commentato infatti l'ansia dell'attuale legislatura di manipolare a suo favore i dati in materia di sicurezza e immigrazione regolare, sulle quale il premier Zapatero avrebbe investito enormemente nelle due campagne elettorali senza però riuscire a raggiungere i risultati sperati.

Anche le sigle sindacali della polizia spagnola, Sup, Cep, Ufp e Spp, sono intervenute nel dibattito reclamando una dichiarazione di responsabilità da parte del ministero che ha diffuso queste precise disposizioni e dichiarando la totale subordinazione dei commissariati a quanto stabilito dall'alto. L'intervento dell'ambasciatore marocchino Omar Azziman giunge con profondo rammarico ai vertici del gruppo per le Politiche del Mediterraneo del ministero degli Esteri. A oggi, infatti, il Marocco è uno dei paesi stranieri con il quale la Spagna sta intessendo solidi rapporti di cooperazione economica e politica e risulta alquanto incongruente questo scivolone in materia di politica interna. Nel frattempo continuano le polemiche tra governo e polizia, e oggi giunge un nuovo comunicato da parte dei sindacati delle forze dell'ordine i quali segnalano che le disposizioni 'quantitative' sugli arresti indiscriminati ai sin papeles furono effettivamente diffuse a tutti i commissariati del Paese e che non si trattò di una soggettiva interpretazione di quanto comunicato dal ministero.

Sara Chiodaroli

 

12 marzo

 

Medici senza frontiere presenta l'annuale rapporto sulla presenza in tv e stampa
di situazioni gravi del Sud del mondo. L'attenzione scende di anno in anno

 

Msf mette nel mirino i media italiani
"Crisi umanitarie sempre più ignorate"

di CARLO CIAVONI

Msf mette nel mirino i media italiani "Crisi umanitarie sempre più ignorate"

Un'operatrice di Msf in Darfur

ROMA - Un mese di colera nello Zimbawe, con la fuga di centinaia di migliaia di persone verso il Sud Africa, sottoposte a violenze e aggressioni di ogni sorta, in tutto il 2008 ha prodotto 12 notizie nei telegiornali nazionali di Rai e Mediaset. Ma all'estate di Briatore e della Gregoraci - solo alla loro estate - sono state invece dedicate 33 notizie. E così per l'Etiopia: le violenze del conflitto tra i ribelli e le forze governative, aggiunte alla siccità che ha reso impossibili le condizioni di vita della gente che sopravvive nella regione somala dell'Etiopia, è stata raccontata in 6 notizie durante il 2008. Un anno di Carla Bruni ha invece richiesto un racconto seriale di 208 puntate.

Sono solo due esempi tratti dal quinto Rapporto sulle Crisi dimenticate che Medici Senza Frontiere (Msf) ha presentato stamattina nella sede della stampa estera, per voce di Kostas Moschochoritis, direttore di Msf Italia. Per il quinto anno consecutivo, dunque, la Ong - fondata nel 1971 a Parigi da un gruppo di medici e giornalisti e che opera con progetti in 60 paesi - prova così a fare le pulci al giornalismo italiano, contando i minuti e le righe dedicate alle persone che nel mondo sopravvivono in contesti indecenti, condannati alla guerra, alla fame, alla sete, alle malattie più perfine e devastanti, costretti alla povertà cronica, all'assenza di libertà e dignità.

Come nel passato, l'analisi è stata curata dall'Osservatorio di Pavia, che ha catalogato i notiziari, secondo macro-aree tematiche e argomenti trattati. La metodologia usata ha "scomposto" i telegiornali in unità di analisi omogenee per contenuto informativo (notizia comprensiva di eventuale lancio). Per ogni unità di analisi viene rilevata una breve sintesi dei contenuti e la categoria tematica di riferimento. Convenzionalmente, la sintesi della notizia riguarda il suo focus principale e non tutti gli argomenti o le derive argomentative contenute in essa. Il corpo dell'analisi è costituito dai notiziari trasmessi nelle fasce del day time e del prime time dai due principali network della televisione italiana generalista, Rai e Mediaset. I notiziari presi in esame sono quelli delle edizioni di metà giornata (13, 13.30, 14,20) e della serata del Tg1, Tg2, Tg3, Canale 5, Tg4 e Studio Aperto.

Adotta una crisi. Quest'anno c'è un'iniziativa in più: la campagna "Adotta una Crisi Dimenticata", per chiedere a quotidiani e periodici, programmi radiofonici e televisivi o testate online di impegnarsi a parlare di una o più crisi dimenticate nel corso di quest'anno. Ci sono già diverse adesioni da parte di importanti testate giornalistiche, oltre al patrocinio della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI). Sarà Kostas Moschochoritis, direttore di Msf Italia ad illustrare le dieci crisi umanitarie identificate dalla Ong fondata a Parigi nel 1971 da un gruppo di medici e giornalisti, e che oggi si vanta di essere la più grande organizzazione umanitaria indipendente di soccorso medico, che opera in 60 paesi e con 19 sedi.

Forse c'è una legge, non scritta, che giustifica chi per difendersi prende le distanze dalle tragedie che opprimono quasi tre quarti degli abitanti della Terra. Un diritto in parte sancito dal buon senso, il quale suggerisce di non farsi coinvolgere ogni giorno da
chi è costretto a contare i bambini che ogni minuto, da qualche parte nel mondo, muoiono di dissenteria, o di fame, o malnutrizione, malaria, aids. Da quei numeri, entro certi limiti, è dunque lecito non farsi travolgere, se non altro per evitare l'assuefazione. C'è però anche un obbligo etico che dovrebbe indurre le persone di questo lato ricco della Terra a non dimenticare del tutto cosa sta succedendo, ad esempio, in Somalia, o in Myanmar, in Iraq, in Pakistan, nello Zimbawe o nel Congo. Luoghi dove l'occhio dell'informazione occidentale non arriva quasi mai, se non in occasione di catastrofi naturali, oppure "emergenze umanitarie" provocate dai frequenti sussulti di guerra, se non addirittura per meri interessi commerciali, sanciti da visite ufficiale di qualche sottosegretario.

Africa e Asia. Le situazioni più gravi e ignorate nel 2008 secondo MSF sono la crisi sanitaria nello Zimbabwe; la catastrofe umanitaria in Somalia; la situazione sanitaria in Myanmar; i civili nella morsa della guerra nel Congo Orientale (RDC); la malnutrizione infantile in Sierra Leone, nel Corno d'Africa, in Bangladesh; la situazione critica nella regione somala dell'Etiopia; i civili uccisi o in fuga nel Pakistan nordoccidentale; la violenza e la sofferenza in Sudan; i civili iracheni bisognosi di assistenza; la coinfezione HIV-TBC. Nel suo complesso, l'analisi delle principali edizioni (diurna e serale) dei telegiornali RAI e Mediaset confermano la tendenza riscontrata negli ultimi anni: un calo costante delle notizie sulle crisi umanitarie, che sono passate dal 10% del totale delle notizie nel 2006, all'8% nel 2007 fino al 6% (4901 notizie su un totale di 81.360) nel 2008.

Di queste, solo 6 sono quelle dedicate all'Etiopia, dove la popolazione della regione somala, intrappolata negli scontri tra gruppi ribelli e forze governative, continua a essere esclusa dai servizi essenziali e dagli aiuti umanitari, e nessuna alla coinfezione HIV-TBC, nonostante la TBC sia una delle principali cause di morte per le persone affette da HIV/AIDS e circa un terzo dei 33 milioni di persone con HIV/AIDS nel mondo è affetto da TBC in forma latente. Per altri contesti, dove sono in corso da anni gravi crisi umanitarie, l'attenzione dei media si concentra esclusivamente su un breve lasso temporale in coincidenza con quello che viene identificato l'apice della crisi. È il caso del Myanmar, di cui i nostri TG si occupano solamente in occasione del ciclone Nargis, che rappresenta solo l'ennesimo colpo inferto a una popolazione quasi dimenticata dal resto del mondo, dove l'HIV/AIDS continua a uccidere decine di migliaia di persone ogni anno, la malaria continua a restare la principale causa di morte e ogni anno vengono diagnosticati 80mila nuovi casi di tubercolosi.

Ed è il caso della provincia del Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, dove anche nel 2008 sono proseguiti i combattimenti tra l'esercito governativo e diversi gruppi armati, che sono degenerati in una vera e propria guerra a partire da agosto, che ha provocato la fuga di centinaia di migliaia di persone. I nostri Tg ne hanno parlato quasi esclusivamente in occasione dell'assedio della città di Goma a ottobre e novembre. Nel caso di crisi umanitarie, cui i Tg hanno dedicato uno spazio notevole, come l'Iraq o il Pakistan, va tuttavia notato come le notizie relative alla drammatica situazione umanitaria della popolazione civile irachena o di quella del Pakistan nord-occidentale, rappresentano una netta minoranza.

L'Iraq e la politica. Vengono invece privilegiate, nel caso dell'Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, le notizie sul dibattito politico in Italia o negli Usa; nel caso del Pakistan, le elezioni e la cronaca degli attentati. Infine, anche per il 2008 viene confermata la tendenza, da parte dei nostri media, di parlare di contesti di crisi soprattutto laddove riconducibili a eventi e/o personaggi italiani o comunque occidentali. Emblematici in questo senso sono la crisi in Somalia, a cui i Tg hanno dedicato 93 notizie (su 178 totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la malnutrizione infantile, di cui si parla principalmente in occasione di vertici della Fao o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento principalmente per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti testimonial famosi e per notizie circa l'inchiesta da parte della Corte Penale Internazionale per il presidente del Sudan.
 
Torna l'incubo amianto
 

Intervista a Walter Cerfeda, dirigente della Ces, la confederazione europea dei sindacati

Il 2015 sarà l'annus horribilis dell'amianto. Lo dice un esperto come il procuratore di Torino Raffaele Guariniello,che ha condotto le più importanti inchieste sulla fibra killer. Manca poco, ormai e le previsioni scientifiche dicono che la mortalità degli operai e di quanti hanno assorbito nel loro organismo l'asbesto, altro nome dell'amianto bianco, toccherà il picco statistico.

Il caso italiano, per non parlare del disastro francese e in altri Paesi dell'Unione, non sembra smuovere le lobby della chimica europea, soprattutto quella tedesca, che ha costruito un asse potente insieme alla Polonia, Bulgaria e Gran Bretagna. E così arriviamo alla decision della Commissione europea. Ci avvisa l'agenzia Redattore sociale, che riportiamo nelle nostre pagine. "Senza troppo clamore, il 25 febbraio scorso la Commissione europea ha fatto approvare agli Stati membri la sua proposta di deroghe per la fabbricazione e l'uso di alcuni componenti industriali contenenti fibre d'amianto crisotilo, senza fissare alcuna data limite. Secondo la Confederazione europea dei sindacati (Ces), questa decisione è frutto del formidabile lavoro di pressione della lobby dell'amianto, guidata a livello mondiale dall'industria canadese, secondo paese al mondo produttore di amianto dopo la Russia, e rappresentata in Europa soprattutto dalla Dow Chemical e da Solvay".

Walter Cerfeda è uno dei dirigenti della Ces. Deluso, quasi mortificato per una decisione che non tiene conto della pericolosità ormai accertata,dolorosamente, di quella fibra, promette un impegno particolare del sinbdacato europeo a dar battaglia in vista di un voto dell'europalramento. Ma la situazione non è facile, compici le elezioni e il rinnoco dell'assemblea di Strasburgo.

"La Commissione europea ha bisgono del parere del Parlamento, entro sei mesi. Il problema è che il parlamento è in scadenza e noi stiamo costruendo una strategia per arrivare a un voto negativo, perlomeno a un parere che si opponga a questa decisione".

Con quali possibilità?
Certo, il tema dell'amianto è un argomento sensibile in campagna elettorale. Potremmo trovare un forte consenso nel denunciare e combattere la decisione della Commissione europea. Ma resta tutto da capire come i metterà all'interno del gruppo socialista (Pse), dove la lobby dei tedeschi è particolarmente agguerrita.

Ma cosa dicono i vostri colleghi del sindacato tedesco?
Abbiamo registrato una vera e propria unione fra governo, industriali e addirittura il sindacato dei chimici. Anzi, c'è stato il paradosso che i colleghi tedeschi si opponevano e rigettavano pubblicamente le linee di azione della Confederazione sindacale europea, esponendosi ancora più energicamente a favore di quanto facessero gli stessi politici o industriali tedeschi. Una posizione ambigua e non comprensibile.

Eppure è scientificamente provata la pericolosità della fibra minerale
Siamo d'accordo, noi. Evidentemente la lobby dell'industria chimica, l'asse che si è formato fra Germania, Polonia, Bulgaria e Gran Bretagna, vede come intoccabili i profitti di quel segmento della produzione industriale.
L'Italia, dalle notizie che ho, ha dato battaglia, insieme a Francia e Olanda. Gli spagnoli si sono dimostrati più ambigui.

Qual è la strategia adesso?
Cercare il voto contrario dell'Europalramento. Se si voterà contro, la Commissione dovrà ritirare questa decisione. Se invece ci sarà solo un parere contrario, la Commissione recepirà gli emendamenti senza l'obbligo di ritirare quel testo

 

5 marzo

Il neoproibizionismo

di Gigi Riva
Mangiare cornetti di notte a Roma. Vendere kebab nel centro di Lucca. Baciarsi in auto a Eboli. Sedersi su una panchina a Vicenza. In Italia dilagano i 'non si può'. E i divieti diventano la risposta alla richiesta di sicurezza
 
L'inseguimento degli italiani è arrivato fin dentro la camera da letto per bolla vergata dal sindaco leghista di Verona Flavio Tosi: "Sono vietati i rumori molesti in casa", se si abita in un condominio. Salvi i proprietari di ville isolate che possono sfogarsi come credono. Sfonda l'uscio la nuova frontiera della lotta alla prostituzione e strappa un commento ironico a Carla Corso, leader storica delle meretrici: "Diventeremo un Paese di delatori dell'alcova". Non lo siamo già, tra medici che sono invitati a denunciare gli immigrati irregolari e occhiute ronde che scalfiscono l'idea dell'esclusiva allo Stato sull'uso legittimo della forza? Semmai aumentano le occasioni di finire fuorilegge in un'Italia dove, per una perversione lessicale, il neoperbenismo diventa sinonimo di neoproibizionismo. Ci si potrebbe consolare vantando un sentire comunitario se alla stazione ferroviaria di Warrington Bank Quay, in Inghilterra, sono stati proibiti i baci. Si potrebbe anche rivendicare una convinta adesione atlantista se negli Stati Uniti è diventato quasi un reato essere grassi. L'occhio pubblico sul corpo privato, e noi siamo reduci dalla vicenda di Eluana Englaro oltre che in piena, furibonda contesa sul testamento biologico. In sedicesimo, rispetto a quel tema cruciale, siamo anche reduci dal divieto nella Bologna di Sergio Cofferati di farsi un piercing "su parti anatomiche le cui funzionalità potrebbero essere compromesse" o dal divieto di plastiche al seno per le minorenni annunciato dal governo. Non è ancora un diktat, ma una raccomandazione quella del ministro Ignazio La Russa che ricorda ai militari il "dovere di tenersi in forma". E fa spedire a tutti, anche ai pensionandi da ufficio, un corposo (proprio il caso di dirlo) opuscolo di 74 pagine in cui vengono segnalati esercizi utili, cibi, calorie e tempo necessario per smaltirle. Una volta letto e messo in pratica, i soldati sarebbero pronti per quella che è stata denominata 'guerra del kebab', ossia l'offensiva dello storico comune di Lucca contro i "locali di etnie diverse". Il che definisce una categoria mentre a Voghera, terra della famosa casalinga di Alberto Arbasino, bere e mangiare panini all'aperto è comunque all'indice, anche se si tratta di lombardissimo pane e salame: che tempi, signora mia. Nella corrente dell'ortodossia culinaria si inserisce il recente provvedimento della giunta Alemanno che a Roma sbarra le porte di "tutti i laboratori artigiani della capitale" dopo l'una di notte. E arrivederci al mattino per gelati, cornetti caldi, pizza e pane fresco di forno: con cari saluti a tanta consolidata iconografia cinematografica su vizi e piccoli piaceri degli italiani.

Che si stesse esagerando ce lo aveva segnalato, alcuni mesi fa, anche l''Independent' con un articolo di denuncia per l'eccesso di regole e regolette e la sarcastica conclusione per la quale stiamo "vietando tutte le cose divertenti". Lungi dal rifletterci siamo andati oltre. Dallo Stato centrale fino ai sindaci, cui il ministro Roberto Maroni ha esteso i poteri decisionali con l'intento di metterli nelle condizioni di affrontare meglio i problemi di ordine pubblico, è un proliferare di grida e codicilli che ora fanno sorridere ora gettano nello sconforto. Una deriva creativa quanto imbarazzante che deve aver allarmato persino gli alti vertici del Viminale se nella tabella riassuntiva dei 'divieti/ordini' (vedi qui) accanto alle voci più serie hanno inserito una postilla per avvertire: "La ricerca ha evidenziato alcune ordinanze recanti una molteplicità di divieti/ordini dal contenuto più vario (asportare pizze, gettare indumenti in piscina, abbattere i cinghiali) non riconducibili alle macrocategorie considerate e, pertanto, non quantificabili".

Lo Stato-babysitter si infila sotto le lenzuola, entra nelle camere d'ospedale, controlla il tubo digerente, prende la misura del girovita, controlla l'abbigliamento (la Gelmini e il grembiule a scuola) e non ci molla nemmeno quando usciamo a prendere una boccata d'aria. Costella il nostro cammino coi segnali tondi e barrati di rosso-divieto fino all'iperbole della provincia di Trento dove "è assolutamente vietato danneggiare o rubare cartelli che recano messaggi di divieto". Pena una multa fino a 428 euro. Non sia mai che qualcuno invochi l'attenuante del 'non sapevo'. Non è scusata l'ignoranza della legge anche se ormai bisognerebbe circolare per la Penisola con accanto un manuale o procurando di portarsi appresso un azzeccagarbugli. Se mi trovo a Novara come faccio a sapere che non posso sostare con altre due persone nei giardini o nei parchi pubblici (fino a 500 euro mi costa l'imprudenza)? E guai, se non ho 70 anni, se mi siedo su una panchina di Vicenza. A Napoli (e a Bolzano, qui si fa l'unità d'Italia o si muore) non posso fumare nei parchi pubblici, dunque all'aperto, per la versione partenopea del salutismo alla californiana. Spazi comuni, benché ossigenati e passi. Se non fosse che lo Stato Onnipotente, preso lo slancio, si catapulta anche nell'automobile. Alla commissione Lavori pubblici del Senato è in discussione un disegno di legge che, se verrà approvato, vieterà il fumo per chi sta alla guida (da 148 a 594 euro di multa). Dentro l'abitacolo si è già spinto il sindaco di Eboli (Salerno) per vietare "effusioni amorose", baci compresi, sul territorio comunale (fino a 500 euro).

 

 

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